Testimonianza di Franco Sbordoni

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Testimonianza di Franco Sbordoni
TESTIMONIANZA DI FRANCO SBORDONI
Dalla “Premessa” in “Zzanchéte in agrudolce” di Franco Sbordoni 1999, pag 7.
“Non deve sembrare strano che io, concepito ad Ancona, ma nato a Todi, perché quasi settantotto
anni fa si doveva nascere nella casa della nonna materna, mi senta profondamente ed
orgogliosamente anconetano. Infatti, tranne gli oltre tre anni passati in guerra imbarcato come
guardia-marina, io sono costantemente vissuto ad Ancona, mi sono felicemente sposato con
un’Anconitana, ho qui esercitato, ritengo con soddisfacente successo, la professione di ingegnere,
guadagnandomi, cosa non sempre facile, la stima dei colleghi, dei clienti e di tantissimi amici, con
me sempre affettuosi dalla gioventù all’ormai avanzata vecchiaia.
L’amore per questa città è perciò doveroso, ma è stato coltivato sin da ragazzo quando, abitando ai
margini del rione San Pietro, in un palazzo popolare per impiegati comunali circondato da un
enorme giardino su più ripiani, ho vissuto una fanciullezza festosa, io figlio unico, assieme a
tantissimi ragazzi coinquilini diventati, con il passare degli anni, fraterni amici. Poi queste amicizie
si sono allargate e consolidate anche con tanti altri amici e compagni di scuola di ciascuno di noi,
che regolarmente frequentavano il grande ed accogliente giardino.
Inoltre in questa caso al Largo Belvedere o al Baluardo, come normalmente la zona era chiamata,
ho conosciuto, frequentato ed apprezzato un cultore del vernacolo anconitano che abitava al primo
piano, cioè Palermo Giangiacomi, nonché i tanti ragazzi sampietroli con i quali normalmente
parlavo, come naturalmente facevano loro, l’anconitano. […]”
La casa di Largo Belvedere
Da Franco Sbordoni, Un uomo fortunato racconta i suoi settantacinque anni di vita, “La casa di
Largo Belvedere”, 1997, pp. 8-12.
Non esagero dicendo che l’appartamento, acquistato da mia madre nel palazzo degli impiegati
comunali, ultimato e da noi subito abitato nel 1929, ha avuto un’importanza fondamentale nella mia
vita. Ha infatti contribuito a formare il mio carattere sia per le tante frequentazioni succedutesi negli
anni sia per le occasionali o determinanti circostanze e fatti accaduti. Come ho già accennato, per
quei tempi il fabbricato aveva caratteristiche architettoniche quasi signorili anziché popolari, pur
essendo composto da ventisette appartamenti di media grandezza distribuiti su due scale, più
cantine al piano seminterrato. Il tutto però circondato da grandi cortili anteriore e posteriore, più un
enorme giardino con alberi ed aiuole su tre ripiani, ogni ripiano lungo come tutta l’area e profondo
almeno dieci metri, due terrazze panoramiche, una più piccola e l’altra molto grande attrezzata con
panchine, tavoli e sedie, ed infine un
campo di bocce costruito sin dai primi anni. Bambini, ragazzi, coppie giovani e meno giovani si
sono presto amalgamati raggiungendo una sincera e veramente fraterna amicizia.
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Questo grande fabbricato fu progettato dall’ing. Gino Costanzi, geometra comunale diventato
ingegnere per il suo talento, avendo progettato una lunga serie di importanti edifici. Pioniere
dell’aviazione nella prima guerra mondiale, era persona amabilissima, spiritosissima con grande
senso dell’amicizia e della gioia di vivere. Affiancato da una, per lui, giovane moglie di uguali
sentimenti ed amabilità da me chiamata “zia Quinta”, avevano messo al mondo tre figli maschi, due
a cavallo della mia età, Fausto e Brunello ed uno più piccolo, Massimo. Da come descrivo la
famiglia Costanzi, che abitava al piano sottostante il nostro, si evince che per me e per i miei
genitori è stata quella del cuore. Ma simili sentimenti affettivi li nutrivamo anche per tutte le altre
famiglie, per cui si può subito capire il salto di qualità della mia vita: dopo anni di quasi solitudine,
mi sono ritrovato a vivere in una specie di simbiosi con decine di ragazzini, ragazzine, tutti
carissimi amici, e di molti compagni di scuola di ciascuno di noi che, nel grande giardino,
trovavano uno sfogo alla naturale esuberanza giovanile e che, con il passare degli anni, diventati
uomini, hanno rafforzato, soprattutto fra coetanei, l’amicizia iniziata con la fanciullezza.
Il fabbricato è stato costruito al margine del quartiere più popolare di Ancona, il Rione San Pietro,
ed anzi, nei primi tempi, era inglobato nel quartiere. Perciò questo edificio, di fatto popolare, era
chiamato dai vicini, grandi e piccoli, “il palazzo dei signori”, che poi nessuno che vi abitava era,
perché tutti i proprietari appartenevano al ceto impiegatizio. Certamente però in quei tempi il tenore
di vita dei sampietroli era veramente basso e tale da giustificare l’epiteto di “signori” a noi
riservato.
Uno dei due appartamenti al piano rialzato della mia stessa scala era di proprietà di Palermo
Giangiacomi, anconetano verace, garibaldino in Grecia, facchino, poeta dialettale, scrittore, storico,
bibliotecario comunale, autodidatta di buona cultura, anziano uomo spiritoso, simpatico ed
amabilissimo. Naturalmente parlava normalmente in dialetto, così come facevano grandi e ragazzi
sampietroli o meglio gli abitanti della Via Scosciacavalli, la più autentica del quartiere San Pietro,
con il quale il fabbricato confina lungo una sua ala. Debbo dire che io, nato a Todi da genitori
todini, ho appreso l’anconitano da Giangiacomi e da tanti ragazzi del quartiere, alcuni vere e proprie
lenze, con i quali a volte familiarizzavo, a volte ingaggiavo furiose sassaiole assieme agli altri amici
del palazzo, ed a volte a vere e proprie liti per una ricorrente presa in giro alla quale ero sottoposto a
causa di uno strumento, il violoncello, che mia madre, su suggerimento della solita cugina, avrebbe
preteso che imparassi a suonare, in verità con così scarso profitto che io non conosco una sola nota
musicale. Però due volte la settimana dovevo andare a lezione all’Istituto Musicale Pergolesi, allora
in Via Fanti, portando con me nei vicoli il voluminoso strumento oggetto dei lazzi dei Sampietroli e
da loro chiamato “el violò”.
Che tutti noi condomini fossimo come una grande famiglia lo attestano atteggiamente collettivi,
fatti accaduti ed iniziative ricorrenti annualmente.
Ad esempio, nel 1930 un grande terremoto colpì Ancona. Il palazzo non subì danni, ma la paura,
specie per chi abitava al sesto o al quinto piano, fu grande. La solidarietà, già considerevole in un
solo anno di condominio, fece sì che molte famiglie abitanti nei piani alti dormissero, per alcuni
giorni, accampate ai piani inferiori. Le madri, durante il giorno e per molto tempo, sostavano nelle
cucine poste nel retro del fabbricato e prospicienti sul cortile posteriore e sul grande giardino, cioè
in quei luoghi nei quali si svolgevano i giochi dei ragazzi. Ebbene, l’amalgama era tale che le
madri, ognuna delle madri, intervenivano a sedare con rimproveri, indifferentemente rivolti contro
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ciascuno di noi, se scattava la scintilla anche di un piccolo screzio o inizio di baruffe. Insomma ogni
madre si comportava quasi sempre come la madre di tutti.
Ricordo con piacevole due rumori compositi che giornalmente si ripetevano: il primo la mattina e
l’altro durante tutta la giornata. I diversi contemporanei suoni delle tante battilardo che in ogni casa
annunciavano la preparazione dei pasti quotidiani e di tanti nostri nomi urlati dai balconi del cortile
posteriore delle tante madri, per interrompere il gioco dei figli richiamati allo studio o ad alcuni
piccoli servizi domestici, come un acquisto nel negozio di alimentari Quintabà in Via
Scosciacavalli.
Nei pomeriggi dei mesi estivi molte signore lavoravano di cucito o di ricamo conversando in una
delle due terrazze panoramiche. Annualmente proprio in quella più grande e sempre nei mesi estivi,
venivano allestite lunghissime tavolate e conviviali cene collettive di tutte le famiglie.
Il gioco delle bocce era frequentatissimo a partire dalle prime belle giornate primaverili fino alle
ultime autunnali. Di giorno dai ragazzi e di sera dagli uomini ed anche da qualche donna. Anche
questo ha contribuito ad amalgamare la compagine condominiale tra sfottò e risate. Quando giocava
il vecchio Giangiacomi noi ragazzi eravamo addetti a raccogliere da terra le sue bocce: - Racoje ‘n
po’ ninì, se no me se sbrega le mutande -, ma naturalmente era per lui solo faticoso chinarsi. Un
ricordo significativo della bonomia, dell’umorismo e della conoscenza umana di Palermo
Giangiacomi è il seguente. Al piano superiore, ed in corrispondenza della sua stanza da letto,
dormivano Fausto e Brunello Costanzi. Un giorno Giangiacomi disse a Fausto: - Ninì, quando te e
tu fratèlo ande’ a lèto, vede’ de levàve le scarpe inzieme. Perché quando che dormo me svejo al
primo bòto e sto in penziero p’el segondo; me sto per indurmi’ e ‘rriva el segondo; dopo un po’
arcumincia la zinfonia con tu’ fratèlo. Metève d’acordo, ve leve’ le scarpe inzieme, un bel bòto
grosso e nun se ne parla più! -. Cioè, sapendo che tanto i ragazzi non l’avrebbero fatto, non ha detto
loro di appoggiare le scarpe a terra, ma di lanciarle in arie tutte e quattro contemporaneamente.
Un’altra volta, nelle prime ore di un pomeriggio estivo ed in una cantina sottostante alla sua camera
da letto, costruivamo un carriolo in legno abbastanza grande da andarci in due, costituito da una
lunga tavola, due assali dei quali uno posteriore fisso, ed uno anteriore girevole mediante perno
centrale, sui quali erano montati quattro cuscinetti a sfera . Naturalmente il rumore che facevamo
era assordante, perché usavamo martelli, seghe, raspe, facevamo prove dei cuscinetti a sfera,
discussioni e schiamazzi vari. Giangiacomi scese in cantina e disse: - Se el cariolo el cominciavi a
fa’ più tardi, avevi paura che non ve ‘uguravo de rotolàvve giò pe’ la discesa? -.
Potrei raccontare chissà quanti altri fatti accaduti, però mi interessa ricordare almeno i nomi dei
tanti cari coetanei che solo la guerra ha diviso e per alcuni purtroppo per sempre. Naturalmente
nominerò i compagni di gioco, perché dei più piccoli non ricordo i nomi. I fratelli Costanzi: Fausto,
anche oggi mio grandissimo amico; Brunello, altrettanto grandissimo amico, morto giovanissimo
per una banale operazione di appendicite, e Massimo, il più piccolo; Mario Amati, che si impiegò in
Comune; i fratelli Sargentoni: Silvana, mia grandissima amica sposata con Gioacchino Matticari,
oggi Prefetto in pensione; Augusto, avvocato ad Ancona ed altre due sorelle più piccole delle quali
mi sfugge il nome; Lamberto Zandri, a lungo compagno di scuola, avvocato trasferitosi da molti
anni a Milano; Tullio Olivieri, veterinario in qualche paese dell’entroterra marchigiano; i fratelli
Leone; i fratelli Bartelloni (Franco studiosissimo); i fratelli Regni, Giancarlo geometra in Provincia;
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i fratello Pietroni, Claudio architetto; Eugenio, Renato e altri più piccoli dei quali non ricordo il
nome.
Due carissime e belle ragazze tra loro cugine, Mimma Pietroni e Gabriella Tacchini, durante la
guerra purtroppo morirono colpite entrambe da un mitragliamento, e lasciarono un vuoto in tutti
noi.
C’erano poi gli abituali frequentatori del grande giardino: i fratelli Gasperoni: Sergio, morto in un
incidente sull’Autostrada del Sole, e Fausto, geometra a Pennabilli; Enzo Gemini, poi geometra in
Comune, che abitava in una delle due case costruite davanti al nostro palazzo dopo la demolizione
delle catapecchie prima esistenti; Roberto Picchietti, che giocando con me a “Torrette” mi procurò
la frattura del gomito sinistro (la prima di una lunga serie); Sergio Onori, Sergio Mariani, Enzo
Cristiani, divenuto poi mio intimo amico; Lilli De Angelis, altrettanto mio intimo amico, persone
che ho poi sempre frequentato, e tante altre, maschi e femmine, delle quali invece ho perduto il
ricordo della fisionomia e del nome.
E’ inutile dire che i tanti amici partecipavano ai giochi nei cortili e nel grande giardino. Ma quali
erano i giochi che attiravano tanti bambini e ragazzetti? Certo erano giochi che farebbero sorridere
con malcelata sufficienza i giovani d’oggi. Interminabili partite di pallone tra la polvere e l’asfalto
dei cortili, cioè in campi molto approssimativi rispetto a quelli nei quali giocano oggi i ragazzi nei
quartieri; piste in miniatura fatte di cemento o solo di terra, nelle quali con palline di vetro o di cotto
venivano emulate le gesta dei corridori in bicicletta Binda e Guerra antagonisti del tempo, od assi
automobilistici della “Mille Miglia”, Varzi, Villoresi, Ascari, Taruffi; oppure interminabili sfide col
“pirello” specie di piccola trottola conica in legno, terminante con un perno d’acciaio, che veniva
fatta girare tramite la “sparagina”, una specie di spago o cimosa di stoffa; innumerevoli discese
dalla nostra casa alla Caserma Villarey con i carrioli da noi costruiti nella maniera che ho già sopra
descritto. Naturalmente non mancavano interminabili sassaiole di noi “signori” contro i Sampietroli
o i Cappuccinari (crocerossine per le teste rotte le ragazze), molto spesso alleati contro gli uni o gli
altri, perché tra Sampietroli e Cappuccinari non correva buon sangue. Infine tanti altri semplici
giochi allora in voga: “torrette”, saltare sopra un altro ragazzo chinato; “antinè”, specie di
nascondino, ed altri giochi semplici, senza contare i giochi solitari, che per me erano poi di assoluta
fantasia, perché, ad esempio, banali penne da inserire nel cammello per scrivere (le biro non erano
state ancora inventate) si potevano trasformare in automezzi o reparti schierati in battaglia o
qualsiasi altra fantasticheria. Passatempi improponibili ai ragazzi di oggi, sempre pronti a
denunciare questa società che non riserva loro sufficienti spazi per esprimersi, pur avendo a
disposizione giochi elettronici, videocassette, motorini, palestre attrezzate, nuoto in grandi piscine
ed ahimè, frutto del benessere o in uguale misura della povertà, spinelli e peggiori esperienze. Ma
non credo che i giovani di oggi possano sorridere dell’ingenuità (era poi tanta?) dei giovani di allora
che appartenevano proprio a quella generazione che ha inventato, perfezionato, divulgato,
commercializzato televisori, calcolatori, motorini, kart, videoregistratori, hi-fi e quanto altro
divenuto oggi di uso comune tra i ragazzi.
Oltre all’annuale cena estiva di tutti i condomini del palazzo, grandi e piccoli, un avvenimento
annuale importante era la “Festa della Venuta”, che ricordava e ricorda la traslazione della Santa
Casa dalla Palestina a Loreto. Accendevamo grandi fuochi andando a rimediare legna in tutta la
città e facendo anche, con infantile incoscienza, veri e propri furti.
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Come quella volta che, regalando un paio di fiaschi di vino ad un certo Tomboli’, guardiano
notturno alcolizzato che dormiva in un cantiere edile di una casa in costruzione, asportammo una
grande quantità di legame di armatura della Ditta Romeo Gioacchini, zio del mio futuro suocero,
che costruiva una palazzina in un’area prima occupata dalle catapecchie del quartiere. Ai fuochi si
accompagnavano i botti, che proseguivano fino a capodanno e che si facevano schiacciando, con la
percussione di un ciottolo sotto il tacco di una scarpa, una miscela di clorato di potassio e zolfo
polverizzati o con bulloni e dadi lanciati contro un muro e nei quali veniva cautamente avvitata la
suddetta miscela.
Una festa, che ricordo con grande gioia, è il saluto ad ogni nuovo anno che, in una atmosfera
caotica, giocosa e coinvolgente grandi e piccoli, avveniva sempre a casa dei Costanzi, per natura
anfitrioni meravigliosi, allegrissimi ed estroversi, festa alla quale non sono mai mancato, salvo gli
anni della guerra e che è ripresa anche nel dopoguerra tanto che vi partecipò anche Ornella, allora
mia fidanzata. Anzi devo dire che, sulla scorta dei capodanni a casa Costanzi, ho in seguito nella
mia casa delle Torrette baldorie simili.
Molti anni dopo, in pratica adesso, per ricordare quegli anni felici, ho scritto la poesia in vernacolo
che segue:
EL PALAZO D’I CUMUNALI
Quant’ani era, me so’ dimandato,
ch’io non venivo più su’ al Baluardo?
Imbè’, ‘na muchia!! Infàti so’ invechiato!
Sarìa poduto già rivà’ al traguardo.
Ho fato un giro intorno a qu’l palazo,
‘nt’el curtile, i giardi’, i terazamenti,
‘ndo’ giugàvo e curévo da ragazo.
Che digo!?! Da set’ani a più de venti.
De bòto a lì i ricordi s’è muchiati
Come in t’un albo de futugrafie,
e j ani, urmai luntani, è ariturnati
in te la mente e le memorie mie.
Sbiaditi, è aricumparsi tuti quanti,
che stava in qu’l palazo, e, nun so come,
ho rivisto le face, ma, de tanti,
nun so’ riuscito a ricurdàme el nome!
Mi padre c’era, Pèpe tanto amato,
Agèo, Gino Costanzi l’ingignere,
Sargentoni, Cinèli l’avocato,
Giangiacomi Palermo, el cavagliere.
E le madri? Per prima mama mia,
la tanto amata mama mia Sestina!!
Uldése e Quinta ch’io chiamavo zia!!
Fenimo, a dìle tute, dumatina!
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E ho ricurdato qu’la cufusiό’
De nomi che le madri, in t’el curtile,
stridéa, ora de pranzo, dai balcό’.
Ma ‘sti fjoli quanti era? cento? mile?
Penzà’ che solo una pudéa stride!
Bastava che chiamava el fjòlu (o fjòla)
e rispundeva tuti! Ve fa ride?
No’ èrimi ‘na bèla famigliòla!!
Indό’ c’èrane fjòli grandicèli,
cioè niantri, e tanti pecenìni.
ό! guasi tuti ce pareva bèli!!
(Lamberto, al massimo, era tra i carini!!)
Fra i grandi eco Silvana Sargentoni,
Giancarlo, Giorgio, Fausto, Mario Amati,
Eugègno, Tuglio, Claudio Pietroni.
Brunèlo e Mima presto cià lasciati!!
Scapàva, qualche volta, un parolό’,
cagnare, scherzi bruti, scherzi bèli,
pudea vola’ magari u’ scupolό’!
Quel che sucede, ‘nzoma, tra fratèli!!
E i gioghi che facémi no’ da fjòli?
‘L pirèlo c’emi co’ la sparagina,
le matunàte contro i sampietròli,
cui cariòli ‘rivàmi in via Farina,
le piste indo’ curéva le paline,
niantri che giugàmi col palό’,
ragaze che giugàva a le mamìne,
e la Venuta, i chiòpi, el fugarό’!!
‘Sti chiòpi che finiva ai Capodano
Pasati dai Costanzi in alegria,
indo’ faceva tuti un gran bacàno
e solo al giorno no’ s’andava via!!
E’ aricumparso po’ ‘l giogo de bòce,
le cene estive fate al belvedere,
le serve: Claudia con qu’l par de poce,
Maria, qu’ l’altra, con qu’l gran sedere!!
Palàzo e qu’ ‘l giardi’, fate le scale,
è aricumpàrso quelo in gioventù.
Ma pro, purtropo, ‘n’era proprio uguale!
Perché cui ani non ritorna più!!
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Infine, per concludere e sottolineare l’affetto che intercorreva tra noi ragazzi del palazzo, voglio
raccontare un episodio accadutomi molti anni dopo aver lasciato la casa di Largo Belvedere e già da
diversi anni sposato. Ero con mia moglie al Festival dei Due Mondi di Spoleto e lungo una stradina
vidi una giovanissima famiglia composta da una bella madre, un padre e due bei bambini. Ad un
tratto la giovane madre si staccò dal gruppo, mi buttò le braccia al collo e mi baciò. Io rimasi
perplesso, ma, non perdendo come il solito il buon umore, dissi: - Giornata buona, questa! Chi t’ha
mandato? -. Al che lei, ridendo del mio stupore, mi disse che era Paola Leone, molto più giovane di
me e perciò da me non riconosciuta, che da bambina aveva abitato nel palazzo dei comunali e che
mi ricordava benissimo, anche se appesantito dagli anni. Ecco, questo era l’affetto e l’amicizia che
regnavano nel nostro magnifico condominio.
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