Quentin Tarantino Più che un film l`ultimo lavoro

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Quentin Tarantino Più che un film l`ultimo lavoro
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Quentin Tarantino
“GRINDHOUSE”: L’ESTASI DEL CINEFILO MILITANTE
Più che un film l’ultimo lavoro del regista statunitense è un’esperienza di perdizione
nel fanatismo per il cinema trash degli anni ’70. Tra donne-feticcio sensuali e
tostissime e macchine ‘a prova di morte’, tra uno stuntman maniaco assassino e
stuntwomen gagliarde vendicatrici, una pellicola piena di scene ‘cult’ che vogliono
essere altrettante emulazioni-omaggi agli z-movies e ai telefilm Usa del passato. Ogni
immagine è una citazione e ci ricorda che tutto accade nell’universo parallelo della
finzione al quadrato.
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di Alessandra Lo Russo
Quando negli anni ’60 François Truffaut e i suoi colleghi dei Cahiers du Cinéma inventarono la
cosiddetta “politica degli autori” lo fecero per salvaguardare i registi dai loro ipotetici “flop” o “film
meno riusciti”: un cineasta, secondo Truffaut, poteva compiere un errore e bisognava perdonarlo,
consacrando quel capolavoro monco come un’opera importante.
Per Tarantino Grindhouse è stato un flop, perché al botteghino ha incassato solo 25 milioni di
dollari per un costo di 55, ma dal punto di vista qualitativo è l’ennesima scommessa che lo ha spinto
oltre i confini conosciuti e se molti critici e spettatori sono usciti increduli dai cinema, è perché non
credevano che si potesse andare oltre la genialità di Kill Bill: la rabbia di fronte al genio è una
possibile reazione di un pubblico mediocre.
L’errore di questo tipo di spettatore è quello di ritenere che Grindhouse sia un film dai discorsi
ridicoli con donne che si muovono e si atteggiano in modo poco credibile, come se fossero
consapevoli della finzione cui stanno partecipando. Invece la complessità del nuovo film di
Tarantino sta nel rivelarci in ogni inquadratura un senso in più, una strizzata d’occhio al suo
background e alle sue ossessioni, perciò non conoscendo tutto di lui non lo si può capire. Bisogna
essere spettatori eletti e se non lo si è, bisogna appassionarsi per diventarlo. La versione che
abbiamo visto nei nostri cinema non è quella originale, che conteneva i due mediometraggi, l’uno di
Tarantino, Deathproof e l’altro del suo pupillo, Robert Rodriguez, Planet Terror. È solo il primo
episodio allungato di mezz’ora, diventato lungometraggio per essere sbarcato a Cannes. È un’altra
prova del suo essere fuori delle regole, perché il maestro Tarantino, ha superato il discepolo
Rodriguez: non sappiamo se riusciremo a vedere Planet Horror nelle sale.
Grindhouse non è soltanto un film, è un’esperienza di perdizione nel fanatismo, nella cifra in cui
esso rappresenta un tentativo riuscitissimo di emulazione del cinema trash degli anni ’70.
Puntare sulla storia da raccontare, è diverso dal voler focalizzare l’esperienza filmica sul modo di
manifestare la fabula (che qui coincide con l’intreccio). La cinefilia militante di Tarantino si
sublima in una serie di emulazioni-omaggi degli z-movies del passato, nella ripresa dei leit-motiv
dei suoi precedenti film, nella straripante e odiosa prolissità dei suoi personaggi.
Parto proprio da quest’ultimo punto: i discorsi delle ragazze di Grindhouse sono assolutamente
inutili, superficiali perché quelle donne parlano la lingua di Vincent Vega-John Travolta, che
sciorinava discorsi sul presunto intento sessuale di un massaggio ai piedi in Pulp fiction. In
Grindhouse, invece, il feticcio massimo è presente, ma in una diversa forma. I piedi non sono nei
discorsi, bensì nelle inquadrature (in primo o primissimo piano) perché fanno capolino dal
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finestrino della macchina e all’occorrenza saltano per aria con gamba incorporata. Insomma,
diventano protagonisti, fin dalla prima scena in cui la splendida Sidney Poitier (figlia dell’omonimo
padre) apre la prima scena, fumando erba o crack da una pipa proprio come faceva dieci anni prima
in Jackie Brown la stupenda Bridget Fonda (figlia e nipote di altri più noti Fonda) distesa sul divano
e con i piedi in bella vista. C’è qualcosa che non quadra, o quadra così tanto da essere geniale: una
proporzione perfetta tra personaggi, parti del corpo e azioni quasi sublime.
Veniamo alla sostanza, perché di donna-feticcio si parla, donna-oggetto talmente fiera di esserlo da
adescare (o farsi adescare) dallo stuntman Mike, un maniaco omicida con una macchina a prova di
morte (da cui il titolo in lingua originale, Deathproof) e questo potrebbe infastidire le femministe
militanti. Invece no, perché a ben guardare le donne-feticcio della prima parte del film
(giustamente) uccise da stuntman Mike, vengono riscattate nella seconda parte da altre donnefeticcio, delle stuntwomen folli e violentissime, che gliene danno di santa ragione fino alla
comparsa del “the end”.
Qualunque cosa accadrà avrà un senso, soprattutto stabilendo con lo spettatore una serie di
corrispondenze stereotipate. Perfino quando squilla il telefonino di una delle ragazze nella seconda
parte, riconosceremo in quella suoneria il fischio morriconiano “killbillniano”, oppure noteremo che
i poliziotti nella scena ambientata in ospedale sono due personaggi già visti in Kill Bill . Dei due, il
padre chiamerà il figlio usando lo stesso appellativo utilizzato nel precedente film, “figlio numero
uno”: è una macchietta, una ricorrenza, uno stereotipo.
Tarantino mescola le carte della sua vita con quelle dei film dei registi da cui ha ricevuto
l’ispirazione, i vari Fernando Di Leo, Lucio Fulci, Lamberto Bava. Lo attestiamo tornando sempre
alla prima scena: Sidney Poitier è distesa sul divano nella stessa posizione di Brigitte Bardot appesa
in fotografia a grandezza naturale appena sopra la sua testa, per ricordarci che non stiamo vedendo
la vita reale, ma un universo parallelo della finzione filmica. Due binari si incrociano: la
rimasticatura dell’opera personale e quella altrui, mentre la vita reale è solo un’illusione, un modo
del racconto.
Le scene cult della prima parte sono quando Sidney scandisce il tempo della musica roteando la
testa e i lunghissimi capelli per un interminabile minuto in cui la telecamera fissa riprende solo quel
gesto e quando Butterfly fa la lap dance intorno a Kurt Russell-Mike con movenze quasi sgraziate,
ballando poco e male, fuori tempo, inquadrata frontalmente, regalandoci un’immagine sgradevole
con tanto di pancetta (o pancina? Ritorna un feticcio che era discorso in Pulp fiction) e cellulite. Al
momento di massima eccitazione, però, Tarantino taglia la scena volutamente, lasciandoci solo il
rumore dello smacco e l’immagine mozzata tipici dei film censurati con Edvige Fenech o Barbara
Bouchet.
Perché fare tutto questo? Perché quando si ama qualcosa, lo si vuole diventare e lui, inglobando se
stesso nell’oggetto idolatrato ha rimpastato un genere, ‘cultizzandolo’ ancora di più e facendoci
godere della visione da voyeur incalliti. Purtroppo, per entrare nella visione di Tarantino, bisogna
conoscere e aver visto almeno qualcuno di quei film che con tanta arguzia cita sopra le righe e
soprattutto essere al corrente della grammatica cinematografica, senza dimenticare la possibilità di
buttare a mare le sue regole.
A metà film lo schermo diventa in bianco e nero: è il momento di congiunzione tra il delitto e la
vendetta. È un momento mistico, di riflessione, dove l’equilibrio vacilla, ma dopo il mondo tornerà
a colori perché venga compiuta la revenge. Fino ad allora l’ambientazione è stata scura, d’ora in poi
sarà luminosa, avverrà tutto all’aperto.
La vendetta è l’altro topos di Tarantino, ma qui è diversa dalle altre, perché a vendicarsi non è la
persona che ha subito il torto maggiore, ma una sorta di trio di vendicatrici pronte a riscattare un
delitto di donne di una dimensione parallela. In Kill Bill, invece, tutto si incentrava sulla vendetta
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intesa nel senso del codice d’onore dei samurai, quello che spingeva la protagonista Beatrix-Uma
Thurman, pregna di rabbia per le violenze che le erano state inflitte a sfidare assassini di ogni tipo.
L’universo preferito da Tarantino è quello femminile: in Grindhouse le donne sono violente,
drogate o alcolizzate, ma tutte gagliarde, più aggressive di un camionista arrabbiato. Queste
signorine hanno una sorella maggiore, che dieci anni prima, riusciva a far tentennare la durezza del
regista, facendogli realizzare l’unico suo film che parli d’amore e di questioni legate alla sensibilità,
Jackie Brown. L’omonima protagonista, l’attrice Pam Grier, “riesumata” da Tarantino che l’aveva
seguita e amata in un telefilm che la rese mito negli anni ’70, (in cui interpretava una donna
poliziotto molto tosta) è vicina a queste donne, solo un po’ più stagionata. Le scene in cui le ragazze
scherzano in macchina (quelle della prima e della seconda parte) ricordano le scene di quel telefilm
e soprattutto Tracie Thoms, al volante, sembra la Pam Grier del periodo d’oro. Quelle stesse scene
ricordano quelle di Le iene, dove i discorsi avevano le stesse ricorrenze (si parlava perfino di Pam
Grier), ma i personaggi erano uomini criminali e un poliziotto infiltrato.
Passiamo agli uomini degni di nota in Grindhouse: Quentin Tarantino si ritaglia un cameo
interessante, è il barista della prima parte, l’amico delle donne e offre shot alcolici alle signorine
procaci. Scherza e mesce, è l’uomo buono della situazione. L’altro è l’antagonista, Kurt RussellMike: con lui Tarantino ha realizzato la stessa operazione di dodici anni fa con John Travolta. L’ha
scelto dopo che molti registi lo avevano destinato ad una serie di ruoli secondari o non adeguati e lo
ha portato nell’universo dei miti. Non che Russell fosse stato un attore qualunque nel passato: già
John Carpenter lo aveva designato per ruoli indimenticabili, ma ultimamente era passato in secondo
piano.
La sua follia è inizialmente mascherata da una strana calma, poi, esplodendo in una rivelazione di
delirio, si manifesta nella corsa mortale per distruggere le donne feticcio. Nella seconda parte
invece, trova il suo punto di sfogo nell’inseguimento con le stuntwomen, che gli danno filo da
torcere. La donna da cui si resta più colpiti è Zoe Bell, già controfigura di Uma Thurman in Kill
Bill: imitando un film che qualche scena prima ha celebrato in un altro discorso futile, decide di
attaccarsi al cofano della macchina e farsi trasportare ad alta velocità. Il film in questione è Punto
zero di Richard Sarafian, del 1971: un road movie dal quale Tarantino imita anche l’auto utilizzata
per la corsa, la Dodge Challenger 1970, “presa in prestito” ad un coltivatore lasciando come pegno
una delle ragazze…
Quest’ultima scena prima del pestaggio è bellissima, talmente adrenalinica che lo spettatore non è
più un voyeur, ma diventa una delle ragazze, passando da davanti a dentro lo schermo. Venendo
incluso nella storia, prova la stessa fame cinematografica di quando alla fine di Kill Bill siamo
diventati tutti Beatrix, la sete di vendetta ci ha asciugato la gola e ci brucia la pelle il brivido
dell’azione.