M`ammalia la settimana dei

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M`ammalia la settimana dei
RIASSUNTI
DEGLI INTERVENTI
Mesomammiferi in Valle d’Aosta
Lolita Bizzarri
Museo Regionale di Scienze Naturali – Aosta
[email protected]
A differenza dei Macromammiferi, investiti da interesse venatorio e/o conservazionistico, i Mesomammiferi
(in Italia le specie di taglia compresa tra quelle della donnola e di volpe – tasso - istrice) ad eccezione di lepri
e marmotta, “soffrono” di una disattenzione da parte del mondo della ricerca in Italia, sia di base che
applicata. Tale quadro generale rispecchia perfettamente la situazione valdostana, dove sono stati condotti
studi su diversi taxa di Mammiferi (chirotteri, marmotta, lepri, ungulati e lupo), ma nessuno che abbia avuto
come target i Mesomammiferi. Da dicembre 2009 è stato avviato un programma di ricerca scientifica su
presenza, distribuzione e abbondanza di tale gruppo in quattro ZPS della Regione Autonoma Valle d'Aosta. I
metodi applicati sono quelli della ricerca, raccolta e analisi di indici di presenza (IP) diretti e indiretti lungo
percorsi-campione o transetti e il trappolamento fotografico. Il campionamento è stato effettuato da maggio
ad ottobre 2010. Sono stati individuati e indagati 23 transetti per un totale di 431 chilometri percorsi su oltre
30.000 metri di dislivello positivo. Complessivamente sono stati raccolti 944 IP di cui 221 attribuiti a
marmotta (IKA 0,591), 21 a scoiattolo (IKA 0,056), 30 a lepre (0,080), 98 a Martes (0,262), 42 a Mustela
(0,112), 1 a ermellino (avvistamento; IKA 0,003), 7 a tasso (IKA 0,019), 481 a volpe (IKA 1,286), 1 a gatto
domestico (avvistamento; IKA 0,003), 1 a Felis (IKA 0,003). I restanti saranno sottoposti ad analisi genetica
per l'attribuzione tassonomica; anche quelli relativi a Martes e Mustela saranno indagati geneticamente per
tentare di arrivare alla diagnosi specifica. Le trappole fotografiche (12) sono state attive, in una delle quattro
aree-campione, per 1308 notti-trappola collezionando un totale di 1003 eventi di cattura. L'uomo è risultata la
specie più fotografata (152 eventi; IC 0,115), seguito dalla mucca (92; IC 0,070). La specie selvatica più
campionata è la volpe (68 eventi; IC 0,052) seguita da marmotta (31; IC 0,024) e tasso (11; 0,008). La faina
è stata “catturata” in tre sequenze (IC 0,002), lo scoiattolo in una (IC 0,001). Gli altri scatti hanno registrato
specie non target quali: capriolo, cervo, cinghiale, cavallo, cane.
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I Chirotteri in Umbria
(1,2)
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Cristiano Spilinga
, Bernardino Ragni
1
Studio Naturalistico Associato Hyla
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Dipartimento di Biologia Cellulare e Ambientale, Università degli Studi di Perugia
[email protected]
Tra il 2006 e il 2010, nell’ambito della Carta delle Vocazioni Faunistiche regionali, è stato condotto un
progetto di ricerca sulla presenza, distribuzione e su aspetti dell’ecologia dei Chirotteri presenti in Umbria.
2
La regione Umbria è estesa 8456 km ed è caratterizzata per il 41,5% da boschi e foreste, per il 46% da
colture erbacee e legnose, per il resto da praterie, corpi idrici, insediamenti e vie di comunicazione.
La prima fase del progetto si è articolata nella raccolta e valutazione della scarsa letteratura scientifica,
tecnica e “grigia” disponibile.
Parallelamente sono state individuate e visitate le principali collezioni zoologiche nazionali,
regionali, locali, pubbliche e private.
La seconda fase è consistita nella ricerca di campo ad hoc e nell’instaurazione di una rete di contatti con
zoologi professionisti, naturalisti e speleologi, attivi sul territorio regionale.
Tutte le informazione ottenute da questi ultimi sono state prese in considerazione solo se basate su
materiale oggettivamente diagnosticabile ed il dato è stato utilizzato solo dopo la sua validazione.
Cartograficamente si è fatto riferimento alle 111 celle di 10 km x 10 km del reticolo Gauss-Boaga (Carta
Tecnica Regionale) delle quali si sono considerate le 84 celle la cui superficie è occupata per almeno il 50%
da territorio umbro.
Sono state, in effetti, complessivamente coperte con rilevamento bioacustico 92 celle regionali; 8 delle quali
oggetto di studio chirotterologico con l’applicazione dello stesso metodo, ma in attuazione di altri programmi
di ricerca.
La ricerca è stata condotta applicando varie tecniche di rilevamento, tra cui: monitoraggio bioacustico
mediante bat-detector in espansione temporale con possibilità di campionamento diretto degli ultrasuoni;
cattura di individui tramite retini immanicati e mist-net; ispezione di cavità naturali e artificiali durante il
periodo dell’ibernazione e della riproduzione. Tutti i siti di rilevamento sono stati crono e georeferenziati e
caratterizzati da parametri ecologici quali-quantitativi.
L’indagine ha permesso di rilevare la presenza di 24 specie: Rhinolophus euryale, Rhinolophus
ferrumequinum, Rhinolophus hipposideros, Myotis bechsteinii, Myotis blythii, Myotis capaccinii, Myotis
daubentonii, Myotis emarginatus, Myotis myotis, Myotis mystacinus, Myotis nattereri, Pipistrellus kuhlii,
Pipistrellus nathusii, Pipistrellus pipistrellus, Pipistrellus pygmaeus, Nyctalus leisleri, Nyctalus noctula,
Hypsugo savii, Eptesicus serotinus, Barbastella barbastellus, Plecotus auritus, Plecotus austriacus,
Miniopterus schreibersii e Tadarida teniotis.
La chirotterofauna umbra raccoglie circa il 70% delle specie di Chirotteri segnalate per la penisola Italiana.
Lo studio ha gettato solide basi conoscitive per la definizione di linee-guida volte alla conservazione delle
specie e all’uso sostenibile degli habitat. Con particolare riferimento: alle cavità carsiche, sempre più oggetto
di progetti di “valorizzazione” spesso poco compatibili con le esigenze di conservazione del taxon; ai boschi,
spesso oggetto di sfruttamento senza alcun criterio naturalistico e ai crinali montano-collinari sempre più
interessati da progetti di sfruttamento dell’energia eolica.
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Le bat box al Lago Trasimeno
Silvia Carletti
(1,2)
(1,2)
(1)
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, Cristiano Spilinga
, Elisa Chiodini , Bernardino Ragni
1
Studio Naturalistico Associato Hyla
2
Dipartimento di Biologia Cellulare e Ambientale, Università degli Studi di Perugia
[email protected]
Nel 2009 è stata avviata una sperimentazione nel comprensorio del Lago Trasimeno, bacino naturale di tipo
laminare localizzato nel settore nord-occidentale dell’Umbria, con un perimetro di 53 Km, volta all’incremento
di rifugi potenzialmente utilizzabili dai Chirotteri. Contemporaneamente si è svolto, nell’area di studio, un
programma divulgativo di corrette informazioni sulla biologia ed eco-etologia del taxon, allo scopo di
sensibilizzare l'opinione pubblica alla tutela dei pipistrelli, in particolare e, più in generale, alle tematiche
ambientali.
Tra maggio ed ottobre 2009 sono state installate 177 bat box, realizzate in multistrato di betulla dello
spessore di 15 mm ricoperto con due strati protettivi idrorepellenti cerosi di origine naturale, così posizionate:
85 su alberi, 88 su pareti esterne di edifici e 4 su pali in metallo.
Successivamente è stato effettuato, a distanza minima di un mese dal montaggio di ogni bat box, un
controllo sullo stato di conservazione dei rifugi e sulla eventuale presenza di escrementi a terra,
contemporaneamente all'ispezione diurna di ogni bat box, al fine di valutare l'effettiva colonizzazione da
parte dei Chirotteri.
In particolare sono state monitorate 170 bat box nel 2009 e 150 nel 2010.
Al 31 ottobre 2009 il 7,34% dei rifugi installati è stato colonizzato da un minimo di 1 ad un massimo di 6
esemplari, mentre nell’ottobre 2010 il 10% delle bat box risultavano colonizzate con un minimo di 1 ed un
massimo di 25 animali.
Le bat box colonizzate nei due anni presentano la seguente esposizione: 4 Nord, 4 Est, 2 Sud/Est, 1 Sud, 1
Sud/Ovest, 1 Ovest e 9 Nord/Ovest con un’altezza massima dal suolo pari a 7 m, minima di 2,95 m e media
di 3,97±1,35 (ds); dal piano di calpestio la massima è 7 m, la minima 2,95 m con un valore medio di
3,97±1,35 (ds).
La rapida colonizzazione delle bat box installate nell'area del Trasimeno è presumibilmente riconducibile ad
una carenza di rifugi nella suddetta zona, sfruttata da almeno 10 specie di Chirotteri per l'attività di caccia
anche in relazione alla presenza di abbondanti concentrazioni di specie preda quali i Ditteri Chironomidi.
La ricerca è ancora in corso e nei prossimi anni continueranno le ispezioni, al fine di valutare la percentuale
di colonizzazione nel tempo, e verranno condotti studi di tipo eco-etologico con approfondimenti sulla nicchia
trofica attraverso la raccolta degli escrementi al di sotto delle bat box colonizzate.
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Il lupo in Umbria
Umberto Sergiacomi, Giuliano Di Muro, Giuseppina Lombardi, Roberta Mazzei
Osservatorio Faunistico Regione Umbria
[email protected]
L'OFR nasce con l'obiettivo di fare ricerca scientifica sui taxa di fauna selvatica in Umbria, avendo come
principale preoccupazione la raccolta e l'acquisizione di dati su quelle emergenze faunistiche che appaiono
critiche, per gli effetti rilevati negli equilibri degli habitat regionali o che sono scarsamente conosciute, per la
mancanza di documentazione e dati aggiornati.
Nel caso del lupo (Canis lupus, Linnaeus 1758), la struttura regionale, nata in seno all'ufficio caccia dell'Ente,
ha deciso tra il 2004 e il 2005, di strutturare un piano di monitoraggio mirato ad aggiornare lo status delle
conoscenze generali su biologia, ecologia ed etologia della specie, sperimentando diverse tecniche in
sinergia tra loro.
Le metodologie usate sono tre: indagine genetica, Wolf-howling, uso di foto-trappole digitali, e costituiscono i
tre progetti di ricerca portati avanti dagli zoologi dell'Osservatorio in collaborazione con l'ISPRA, l'Università
degli Studi di Perugia e con una rete di professionisti che operano da anni sul territorio regionale. I risultati
del monitoraggio sono di rilevante importanza: conoscenza del numero di individui e delle relazioni tra gruppi
parentali, individuazione di siti di marcatura e riproduzione, individuazione di branchi e loro composizione,
per citare solo alcuni degli obiettivi che verranno chiariti portando avanti i progetti.
Gli obiettivi del Wolf-howling erano quelli della definizione di presenza/assenza della specie, numero minimo
unità riproduttive e localizzazione rendez-vous attraverso l'emissione di ululati registrati percorrendo tragitti
codificati. La tecnica è stata applicata in modo standardizzato per un periodo di 4 anni (dal 2005 al 2008),
indagando 7 aree di studio su 23 precedentemente individuate come vocate per questo tipo di attività. In sei
delle aree indagate sono state ottenute risposte e in due casi è stato individuato il gruppo in riproduzione.
Il progetto genetica parte nel 2006 si prevede possa continuare fino al 2012. Il progetto, prevede l’analisi del
DNA estratto da campioni biologici (feci, pelo e tessuti) di lupo. Ad oggi sono stati raccolti 611 campioni di
feci di cui analizzati 520 e genotipizzati come lupo appenninico ben 195. Tra questi gli individui riconosciuti
sono 73 distinti in: 70 lupi campionati solo in Umbria, 1 lupo proveniente dalla provincia di Forlì e 2 femmine
ibride. Rispetto ai 73 genotipi individuati sono presenti 27 femmine e 46 maschi. Molti sono i lupi campionati
una sola volta e nel corso di un solo anno, ma in alcuni casi, come per la F12 è stato possibile seguire
l'animale per cinque anni consecutivi. L'analisi genetica è stata condotta anche su alcuni campioni di tessuto,
che ha consentito determinare il genotipo degli esemplari trovati morti e identificati come lupo.
La tecnica del foto-trappolamento è la più recente tra le tre applicate e consiste nel posizionare foto-camere
digitali ad infrarossi, adatte quindi anche per la ripresa notturna, dotate di sensori che le fanno scattare
automaticamente, lungo sentieri e passaggi con lo scopo di fotografare il transito dei selvatici presenti in
zona. In sintesi i risultati dell'applicazione di questa tecnica relativamente alla specie in esame sono molto
promettenti. In tutte le aree indagate è stato rilevato il Lupo. Sono stati filmati branchi, coppie e lupi singoli.
La tecnica è interessante perché consente di rilevare dati sul numero di individui presenti, struttura del
branco e comportamento degli individui in situazioni di assoluta libertà.
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Martora e faina in Umbria e nel PN Gran Sasso e Monti della Laga
Francesca Vercillo, Daniele Paoloni, Bernardino Ragni
Dipartimento di Biologia Cellulare e Ambientale, Università degli Studi di Perugia
[email protected]
Martora e faina, unici rappresentati del genere Martes in Italia, sono due specie morfologicamente molto
simili, ma con uno status ben diverso sia a livello nazionale che regionale: la prima è rara e presenta una
distribuzione discontinua, mentre la seconda è abbondante e uniformemente distribuita.
Il gruppo di lavoro studia queste due specie dal 2000 e sono molte le metodiche di ricerca utilizzate in questi
anni: raccolta degli individui in carne e loro analisi morfologica; trappolamento meccanico; metodo
naturalistico, trappolamento fotografico e infine l’analisi genetica, metodica costantemente presente per una
corretta attribuzione della specie.
I dati raccolti sulla martora in Umbria oltre a confermare la sua presenza in provincia di Terni, ipotizzano una
progressiva espansione della specie verso il territorio perugino: dal 2005 ad oggi sono diversi gli indici di
presenza raccolti nell’area compresa tra Città della Pieve – Sant’Arcangelo – Montepetriolo, oltre al
ritrovamento di individui in carne a Solfagnano e nel folignate.
Le ricerche condotte nel territorio ternano, in cui la martora è ben insediata, hanno permesso di ottenere
informazioni importanti sulle differenze ecologiche tra le due specie: il confronto della dieta e della scelta
dello habitat mostra una situazione di maggiore “selettività” da parte della martora, sia nell’utilizzo delle
categorie trofiche che vegetazionali, mentre la faina risulta “generalista” e quindi più adattabile.
Si delinea così una situazione di potenziale competizione tre le due specie che, insieme alle notevoli
difficoltà presenti nella loro distinzione morfologica, suggeriscono misure conservazionistiche per la martora
estremamente accurate e supportate sempre da studi scientifici ad hoc.
Con questi presupposti nel 2008 è iniziata una ricerca nell’area del PN del Gran Sasso e Monti della Laga
volta a delineare la presenza e la distribuzione dei piccoli Carnivori nell’area protetta.
La martora, che in passato risultava presente nell’area dell’attuale Parco, dalla sua istituzione non è stata più
oggettivamente ritrovata.
Con il metodo naturalistico sono stati percorsi 61 transetti per complessivi 383,16 km e sono stati raccolti
200 escrementi attribuibili al genere Martes. L'analisi genetica effettuata su 183 campioni fecali, ha
consentito l’identificazione di 6 escrementi di martora, 60 di faina e 35 di volpe.
Sovrapponendo i way-point con la carta di uso del suolo del Parco, si osserva che entrambe le specie del
genere Martes sono legate all'ampia categoria “Cedui matricinati”. Entrando nel dettaglio si osserva che tutti
gli indici di presenza di Martes martes ricadono all’interno della faggeta, pertanto i dati raccolti denotano una
forte connessione tra la presenza della martora e gli ambienti forestali.
Visti i risultati ottenuti, l’attività di ricerca nel Parco sta tutt’ora proseguendo: con il trappolamento meccanico
si cercherà di catturare e dotare di radiocollare con tecnologia GPS gli individui del genere Martes.
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Il gatto selvatico nella RN Integrale Sasso Fratino
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Marco Lucchesi , Giancarlo Tedaldi , Alessandro Bottacci , Bernardino Ragni
1
Biologo Coll. scientifico Ufficio Territoriale per la Biodiversità di Pratovecchio
2
Museo Civico di Ecologia di Meldola
3
Vice Questore aggiunto CFS UTB di Pratovecchio (AR)
4
Dipartimento di Biologia Cellulare e Ambientale, Università degli Studi di Perugia
[email protected]
Il gatto selvatico del Vecchio Mondo (Felis silvestris Schreber, 1777) è presente nella penisola italiana con la
sottospecie nominale F. s. silvestris (gatto selvatico europeo). Dal 1868 al 2001, reperti oggettivi
scientificamente diagnosticabili, provavano che l’areale italiano peninsulare del gatto selvatico europeo si
estendeva a sud della linea immaginaria che unisce Piombino ad Ancona (Ragni, 2006). Nell’ottobre 2002
un maschio adulto, morfologicamente e geneticamente attribuito alla sottospecie, fu abbattuto illegalmente
60 km a Nord di detto margine “storico” (Ragni, 2006).
Già a partire dal 1999, segnalazioni sulla presenza del felide si ebbero in molti siti di avvistamento interni alle
Riserve Naturali Statali di Camaldoli e Badia Prataglia e alla Riserva Naturale Integrale di Sasso Fratino,
gestite dall’UTB di Pratovecchio – CFS ed incluse nel Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte
Falterona e Campigna. I recenti rilievi, ottenuti con l’attuazione del Progetto Pilota agosto – settembre 2009
(Lucchesi & Tedaldi, in prep.), indicano la presenza di un nucleo del felide nella Riserva Naturale Integrale di
Sasso Fratino, mostrando una situazione del tutto nuova ed interessante, almeno per quanto riguarda il
territorio compreso nelle Riserve Naturali Biogenetiche Casentinesi.
Al fine di verificare l’ipotesi di espansione dell’areale peninsulare del gatto selvatico, è stato ritenuto
necessario l’avvio di un programma di monitoraggio (Progetto di ricerca “Il gatto selvatico e la martora nelle
Riserve Naturali Casentinesi: status e conservazione”) che consenta di descriverne lo status ed,
eventualmente, proporre ipotesi di consistenza nell’area interessata dalle Riserve Naturali Biogenetiche
Casentinesi. Obiettivo auspicato è inoltre quello della raccolta di informazioni oggettive: foto, rilevamento e
raccolta di indici di presenza (feci, orme e piste, cadaveri), oltre a materiale utilizzabile per l’analisi genetica
(hair-trapping). Attualmente, il metodo meno impattante e più gestibile dal punto di vista operativo, che
consente di verificare la presenza in una determinata area del gatto selvatico è la “cattura” mediante l’utilizzo
di trappole fotografiche (Anile et al., 2009; Tedaldi, in stampa). Tale metodo, infatti, permette di fotografare
gli individui eventualmente presenti, quindi consente il riconoscimento specifico sulla base del pattern
disegno-colore del mantello. Se il fototrappolaggio è effettuato su un arco di tempo sufficientemente lungo
può fornire stime di abbondanza per aree limitate, grazie alla possibilità di effettuare riconoscimenti
individuali, di sesso, di età dei soggetti “catturati” (Anile et al., 2009).
Si presentano in questa sede le risultanze ottenute tramite foto-trappolaggio, per il periodo agosto-settembre
’09 (Progetto Pilota) ed agosto-settembre ’10 (Progetto di ricerca) per il territorio della Riserva Naturale
Integrale di Sasso Fratino, posta nel cuore delle Foreste Casentinesi “storiche” e del Parco Nazionale.
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Il gatto selvatico nel PR Monte Etna
Stefano Anile, Bernardino Ragni
Dipartimento di Biologia Cellulare e Ambientale, Università degli Studi di Perugia
[email protected]
La Sicilia è caratterizzata dalla presenza di una delle più importanti popolazioni insulari di gatto selvatico
europeo, ma i dati disponibili in letteratura sono pochi e relativi agli anni ’80.
Nel 2006 è cominciato un progetto di ricerca nel versante Sud-Ovest del Parco Regionale dell’Etna
utilizzando principalmente il camera trapping, tecnica non invasiva applicata con successo su altre specie di
felidi.
Inizialmente si è proceduto con un esperimento pilota, durante il quale le trappole fotografiche sono state
dislocate in maniera opportunistica (luoghi dove è stata accertata la presenza del felino tramite depositi
fecali e orme su neve) utilizzando per un primo periodo un’esca olfattiva. In totale sono state ottenute 24 foto
da 12 delle 18 stazioni monitorate: 14 durante il primo periodo e 10 durante il secondo. Per determinare il
numero di individui fotografati le foto mostranti lo stesso fianco dell’animale (n=14) sono state confrontate fra
loro e sulla base dei criteri morfologici sono stati identificati 9 individui (6 nel primo periodo e 3 nel secondo)
su di un’area di circa 660 ha. Il tasso di trappolamento fotografico è stato di 1 foto/37 notti-trappola durante il
primo periodo e di 1 foto/ 31 notti-trappola durante il secondo.
Successivamente a partire dal 2007 si è proceduto con un protocollo (elaborato sulla base dei dati
preliminari raccolti nel 2006) volto alla stima della densità di popolazione dei gatti selvatici tramite le analisi
di cattura-ricattura: d’ora in poi le fototrappole sono state dislocate ad una distanza l’una dall’altra di circa 1
km in modo da poter coprire uniformemente l’area di studio e per un periodo di 60 giorni (2 possibilità di
cattura). Durante questo esperimento è stato possibile documentare per la prima volta la riproduzione in
natura di una femmina di gatto selvatico, fotografata insieme al proprio cucciolo. In totale sono state ottenute
27 foto da 7 delle 11 trappole, riuscendo ad identificare 9 individui diversi: il tasso di trappolamento
fotografico è stato di 1 foto/ 25 notti- trappola.
Nel 2008 le fototrappole sono state dislocate in coppia per ogni stazione (n=12) in modo da poter fotografare
entrambi i fianchi degli animali, e quindi massimizzare il numero di foto utili per l’identificazione dei diversi
individui. In totale sono stati registrati 6 eventi di cattura da 4 stazioni, riuscendo ad identificare 3 individui: il
tasso di trappolamento fotografico è stato di 1 foto/122 notti-trappola.
A partire dal 2009 sono state utilizzate trappole fotografiche digitali ed è stato possibile incrementare il
numero di stazioni monitorate (n=18), rimanendo invariato il numero di giorni di monitoraggio per ciascuna
stazione (n=60). Durante questo esperimento è stato possibile documentare la riproduzione in natura di una
femmina di gatto selvatico fotografata insieme a 4 cuccioli. In totale sono stati registrati 32 eventi di cattura
da 12 stazioni, riuscendo ad identificare 10 diversi individui: il tasso di trappolamento fotografico è stato di 1
foto/ 33 notti-trappola.
Nel 2010 il protocollo di monitoraggio è rimasto invariato rispetto al 2009 (stesso numero di stazioni),
abbinando contemporaneamente il campionamento sistematico tramite transetti settimanali dei depositi
fecali di gatto selvatico con lo scopo di ottenere una stima indipendente della densità di popolazione tramite
l’estrazione di DNA. In totale sono stati registrati 66 eventi da 16 stazioni.
Recenti studi hanno dimostrato che esiste una relazione tra la densità di una specie e il tasso di
trappolamento fotografico della stessa e i dati da noi raccolti durante gli anni di campionamento mediante
camera trapping sostengono questa relazione.
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Il camoscio appenninico nel PN Monti Sibillini
Simone Alemanno
Gruppo Operativo Camoscio Sibillini
[email protected]
Come la Rupicapra pyrenaica ornata, il “camoscio più bello del mondo”, sia giunto sui Monti Sibillini è storia
antichissima, che risale ad altri periodi geologici, quando dalla catena himalayana centro-asiatica i primi
Rupicaprini iniziano ad irradiarsi anche verso ovest, giungendo in Europa a partire almeno dal Pleistocene
inferiore. I mutamenti climatici dovuti alla glaciazione del Riss prima e la competizione con il congenerico
alpino (Rupicapra rupicapra - arrivato in Italia nel corso della glaciazione del Würm) poi, spingono
l’appenninico a rifugiarsi nei massicci montuosi europei posti a sud del continente: Monti Cantabrici, Pirenei
(in Spagna e Francia) e Appennino; in ognuno di essi, considerata l’avvenuta frammentazione di areale
specifico, incominciano a prendere vita le sottospecie che giungono fino ai giorni nostri. In Italia, il camoscio
appenninico abitava allora i massicci della catena peninsulare centro-settentrionale fino al Pollino e, per
quanto concerne i Sibillini, le testimonianze oggettive che rendono certa la sua presenza per questo gruppo
montuoso risalgono a circa 12.000 anni fa (reperti sub-fossili scoperti nei pressi del Lago di Pilato intorno al
1980). In tempi storici la popolazione di camoscio appenninico subisce fortissime pressioni, dirette ed
indirette, dovute principalmente allo sfruttamento del territorio, alla competizione con il bestiame domestico e
alla caccia, le quali, agli inizi del secolo scorso, hanno condotto la specie sulla soglia dell’estinzione. Nel
1915 l’unica “popolazione relitta” era costituita solamente da una trentina di esemplari, sopravvissuti
nell’allora Riserva di Caccia del Re d’Italia che dal 1922 sarebbe divenuta Parco d’Abruzzo (oggi PN
d’Abruzzo, Lazio e Molise), ultimo baluardo nella conservazione del prezioso endemismo. Nonostante il
crollo demografico coincidente con la 2° Guerra Mon diale, l’istituzione dell’area protetta è risultata
determinante per l’accrescimento numerico della popolazione e intorno agli anni ’70 dello scorso secolo
infatti si potevano contare al suo interno alcune centinaia di individui.
Negli anni a seguire la sensibilità delle organizzazioni internazionali per la conservazione della natura (in
particolare della IUCN) aumentano il livello di attenzione nei confronti di R. p. ornata. Le azioni che ne
conseguono permettono al camoscio appenninico di ottenere un altissimo grado di tutela legislativo tanto da
essere inserito, fra l’altro, nell’Appendice I della Convention on International Trade in Endangered Species
(unica specie in Italia), negli Allegati II e IV della Direttiva Habitat e nell’elenco delle specie a rischio di
estinzione della IUCN Red List fino al 1996. Nel campo tecnico-applicativo il “Gruppo Camoscio Italia”, a
partire dal 1976, fornisce i suoi primi contributi e attraverso due dei suoi maggiori esponenti, Sandro LOVARI
e Franco PERCO, formula le prime ipotesi sulla creazione di ulteriori nuclei a supporto di quello dell’Alta
Marsica. Queste pionieristiche idee si concretizzano dapprima agli albori degli anni ’90 dello scorso secolo,
quando sui massicci della Majella e del Gran Sasso vengono liberati i fondatori di due nuove colonie, nonché
successivamente con la redazione del “Piano d’Azione Nazionale per il Camoscio appenninico” (Ministero
dell’Ambiente ed ex I.N.F.S., 2001), il quale fissa gli obiettivi principali di salvaguardia: raggiungere una
consistenza complessiva non inferiore alle 1.000 unità suddivise in cinque diverse popolazioni, accrescere la
variabilità genetica della specie, individuare, monitorare e gestire per quanto possibile i potenziali fattori di
disturbo.
Ed è in questo ambito, grazie anche al contributo finanziario apportato dal LIFE del 2002 “Conservazione di
Rupicapra pyrenaica ornata nell’Appennino centrale” e al supporto logistico del Corpo Forestale dello Stato,
che nel settembre 2008 hanno preso avvio le prime immissioni nel PN dei Monti Sibillini, mediante il rilascio
di 5 femmine e 3 maschi catturati in natura presso la località Costa Camosciara, nel PN d’Abruzzo, Lazio e
Molise. Le liberazioni proseguono negli anni successivi e, con un bilancio positivo rispetto a nuovi
nati/perdite naturali, il numero di camosci presenti oggi nei Monti Sibillini è pari a 19 unità, di cui 5 piccoli nati
nel 2010. Tutti gli animali, al momento del rilascio, sono stati muniti di radio collare satellitare e/o VHF, per
poter essere seguiti giornalmente nei loro spostamenti; in due anni di monitoraggio sistematico sono state
raccolte dall’Università di Siena (prof. Sandro LOVARI: responsabile scientifico del progetto) circa 15.000
localizzazioni, al fine di impostare una oculata e corretta gestione faunistica all’interno dell’area protetta.
Fortunatamente, oggi il camoscio appenninico non rischia più l’imminente scomparsa: le tre popolazioni
abruzzesi (del Parco d’Abruzzo, della Majella e del Gran Sasso Monti della Laga) che da sole mantengono
una consistenza complessiva superiore ai 1.000 individui e l’alta vocazionalità ambientale dei Sibillini fanno
ben sperare per il futuro. Persistono però fattori sfavorevoli rilevanti, quali la bassa variabilità genetica,
l’attuale ancora considerevole concentrazione geografica delle popolazioni e l’impatto delle attività
antropiche. E’ auspicio comune che il nuovo LIFE+ “Coornata”, approvato nei mesi scorsi e che prevede, fra
le altre azioni, il completamento della immissione sui Sibillini, possa attenuare nonché superare tali
impedimenti.
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Rete Ecologica Regionale dell’Umbria: le specie ombrello
Bernardino Ragni, Andrea Mandrici
Dipartimento di Biologia Cellulare e Ambientale, Università degli Studi di Perugia
[email protected]
Il Piano Urbanistico Territoriale dell’Umbria (DGR n. 6311) affermava, nel 1998, che “I macromammiferi
terrestri, rappresentano il gruppo più adatto a funzionare da ‘indicatore’ dello stato del paesaggio geografico
umbro con particolare riferimento alla frammentazione e alla discontinuità degli ecosistemi.” (pp. 305-306). Il
massimo strumento di pianificazione regionale, inoltre, proseguiva: ”Tra i taxa selvatici di macromammiferi
che sottendono la vegetazione spontanea legnosa, si conoscono, in Umbria, i seguenti ordini: Roditori,
Lagomorfi, Carnivori, Artiodattili” (p. 306).
Tra le specie di macromammiferi selvatici compresi nella teriofauna umbra (Ragni, 2002) l’individuazione di
quelle che possono funzionare da “indicatori” nel senso anzidetto, e quindi che coprano come un “ombrello”
le esigenze ecologiche di un vasto set di vertebrati autoctoni regionali, viene effettuata tramite la
considerazione dei seguenti criteri di scelta: diversità tassonomica (ordini); locomozione; livello trofico;
comportamento alimentare; taglia; organizzazione sociale; strategia riproduttiva; ambiente di vita (habitat);
vagilità; spazio vitale; status biogeografico regionale; status conservazionistico regionale; status culturale
regionale; status economico regionale; status della conoscenza regionale. Tramite l’adozione del “miglior
parere dell’esperto” il gruppo di lavoro per le specie ombrello ha applicato gli anzidetti criteri di scelta alla
teriofauna regionale, ponendosi come scopo la selezione del minor numero di specie possibile, capaci di
costituire il più esteso ombrello possibile, per le quali fossero disponibili quantità di dati ecologici sufficienti
ad una descrizione statistica degli habitat regionali. Lo screening sviluppato sui macromammiferi umbri ha
condotto alla definizione di 6 specie-ombrello, 3 consumatori primari (lepre bruna, istrice e capriolo) e 3
consumatori secondari (gatto selvatico europeo, lupo appenninico, tasso); capaci di coprire tutti gli ordini
sistematici anzidetti: Carnivori (Felis silvestris silvestris, Canis lupus lupus, Meles meles), Roditori (Hystrix
cristata), Lagomorfi (Lepus europaeus) e Artiodattili (Capreolus capreolus).
Le specie-ombrello “abitano” il paesaggio geografico regionale e, contemporaneamente, ne “indicano” le
condizioni. Il PUT dell’Umbria definisce le componenti del paesaggio geografico regionale (p. 304); le
specie-ombrello interagiscono con tali ecosistemi-paesaggi: formazioni di vegetazione legnosa spontanea,
formazioni di vegetazione erbacea spontanea, formazioni di vegetazione coltivata, formazioni rocciose, corpi
idrici lotici e lentici, (rappresentanti i fattori ecologici rifugio-trofici dell’habitat); continuo edificato (sensu
strenuo), corpi idrici lotici e lentici, formazioni rocciose, formazioni di vegetazione coltivata (rappresentanti i
fattori di frammentazione dell’habitat, le soglie e le barriere ecologiche) in una parola: la rete ecologica
regionale dell’Umbria.
Una rete ecologica è formata da due componenti, una formale e reale, l’altra funzionale e ipotetica; per
esempio: un bosco nel quale è presente l’istrice ed è attraversato da una strada, rappresentano le 3
componenti reali e formali del paesaggio ecologico locale ma, se quel bosco possa funzionare da
“frammento chiave” per un numero sufficiente di istrici che possa funzionare da “ popolazione minima vitale”
della specie, sulla cui capacità di spostarsi la strada possa funzionare da “barriera” è del tutto ipotetico e su
ciò, onestamente, non sapremo mai come stiano veramente le cose.
Compito dei ricercatori, quindi, è quello di definire il più precisamente ed oggettivamente possibile la parte
reale e formale della rete ecologica, facendo in modo che la struttura individuata sia massimamente
rappresentativa del fenomeno regionale; relativamente alla parte funzionale della rete i ricercatori devono
costruire fondamenta solide alle ipotesi, le quali devono essere le più prudenti e parsimoniose possibile:
ipotesi azzardate hanno vita breve e alta probabilità di non essere vere.
Tale è la filosofia del gruppo di lavoro, che ha cercato di definire, il meglio possibile, gli habitat dei 6 taxa
anzidetti (lupo, tasso e gatto selvatico europeo, istrice, lepre e capriolo) considerati specie-ombrello, cioè
ecologicamente rappresentative della gran parte dei vertebrati terrestri non volatori presenti in Umbria; ha
distribuito questi habitat nello spazio regionale, evidenziando le situazioni di continuità e di discontinuità
“intrinseche”, cioè dovute alla loro effettiva presenza/assenza; evidenziando anche le situazioni “estrinseche”
di continuità/discontinuità degli habitat, cioè dovute alla presenza di manufatti antropici che ne “spezzano”
l’interezza. La RERU dei ricercatori, quindi, evidenzia: connettività e corridoi, barriere e frammentazione,
fornendo uno strumento all’Amministratore per procedere, se vuole, a conservare ed incrementare i primi,
rimuovere o ridurre i secondi.
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Il cinghiale nel PN Monti Sibillini
Enrico Cordiner
(1)
(1)
(1)
(2)
, Nicola Felicetti , Sara Marini , Bernardino Ragni
1
Laboratorio di Ecologia Applicata
2
Dipartimento di Biologia Cellulare e Ambientale, Università degli Studi di Perugia
[email protected]
Il cinghiale nel territorio dei Monti Sibillini, era certamente presente in periodi storici e ancor prima, preistorici.
A partire dal periodo Neolitico, l’uomo, operando profonde trasformazioni ambientali legate all’allevamento
ed all’agricoltura, causò una forte diminuzione delle popolazioni di Ungulati, tra cui anche cinghiale, fino a
provocarne, più recentemente, la sua completa scomparsa avvenuta in un momento non accertato, ma
certamente prima della fine del XVII secolo. Fu intorno al 1970, in seguito alle reintroduzioni effettuate
principalmente a scopo venatorio, che il cinghiale “riappare”, per poi diffondersi rapidamente, nel territorio
dei Sibillini. Come è noto, l’esplosione demografica della specie, avvenuta simultaneamente in quasi tutta
l’Europa, è stata talmente repentina da rendere la specie critica in diversi contesti ambientali e nelle aree
protette. Anche nei Monti Sibillini, in seguito all’istituzione del Parco Nazionale, nel 1994, sono emerse
problematiche legate alla specie, non solo sotto il profilo ecologico, ma anche sociale, economico e politico,
per cui tra le prime azioni volte alla conservazione del territorio vi furono quelle riguardanti la gestione del
cinghiale. In collaborazione con l’Università di Perugia, il Parco ha promosso dapprima un Piano
Quinquennale di gestione (1998–2003) e successivamente due Piani Triennali (2005–2007 e 2008–2010),
l’ultimo attualmente in corso.
Le prime ricerche scientifiche effettuate hanno riguardato la definizione delle caratteristiche biometriche della
specie che hanno dimostrato che gli individui presenti nel Parco appartengono alla sottospecie europea (Sus
scrofa scrofa), pur evidenziandone, a confronto con altre popolazioni italiane, alcune differenze ponderali e
lineari. A partire dal 1998, tramite una ampia rete di transetti percorsi stagionalmente (oltre 200 Km) e
condotti con il metodo naturalistico, sono state studiate la scelta dell’habitat e la percentuale di territorio
danneggiato dalle attività di scavo. Da allora, con la collaborazione del CFS, vengono anche tenuti sotto
controllo i danni provocati alle colture nel Parco, che, riguardano principalmente lenticchia di Castelluccio,
castagneti e foraggi. Sono costantemente studiate ed osservate la distribuzione della specie che tende ad
occupare tutto il territorio vocato offerto, la dinamica e la struttura di popolazione, i parametri riproduttivi. A
partire dal 2002 vengono anche monitorate la produzione di frutti forestali in grado di influire sulla
riproduzione e il grado di copertura nevosa presente durante la stagione invernale. Infine sono state
indagate le relazioni ecologiche con tre specie target: lupo, capriolo e coturnice.
Il principale metodo di controllo utilizzato nel Parco è il prelievo selettivo effettuato con armi da fuoco a
canna rigata ed ottica di puntamento. A tale scopo sono stati abilitati 155 operatori di selezione, volontari,
che, con l’ausilio ed il controllo del CFS, collaborano ai piani di prelievo. Un secondo strumento di cattura è
rappresentato dai recinti e dalle trappole, gestiti direttamente dagli agricoltori. Ogni anno vengono abbattuti
(o, in misura minore, prelevati) circa 500 cinghiali a seconda degli obiettivi previsti nei piani di prelievo a
fronte di una popolazione stimata di circa 2000 individui (tra il 2002 ed il 2010 la popolazione è risultata
relativamente stabile con un max di 2785 individui nel 2003 ed un min di 1481 nel 2009).
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I Cervidi in provincia di Perugia
Luca Convito
Servizio gestione faunistica e protezione ambientale - Provincia di Perugia
[email protected]
La pressione antropica e le trasformazioni ambientali sempre maggiori, a cavallo fra il XVIII e XIX secolo
hanno provocato la scomparsa dal territorio regionale delle originali popolazioni di grandi Ungulati: cervo e
capriolo.
A seguito del primo Piano Faunistico Regionale (1983) che proponeva la ricostituzione del patrimonio
faunistico autoctono, una serie di azioni antropiche (immissioni in Centri di Ambientamento e Diffusione ed
Aziende Faunistico Venatorie) e la ricolonizzazione spontanea dalle regioni limitrofe (soprattutto Toscana e
Marche) hanno portato dalla metà degli anni ’90 al silenzioso ritorno del capriolo in buona parte del territorio
provinciale secondo un gradiente principale da nord-sud e quindi est-ovest lungo la dorsale umbromarchigiana.
Attualmente costituisce una delle specie di maggior interesse venatorio attorno a cui si muove una pluralità
di soggetti (dai semplici selecontrollori ai capi distretto, ai recuperatori, ai referenti degli ATC ed altri ancora):
si è infatti passati da un unico distretto “sperimentale” istituito per la stagione venatoria 2000/01 e 22 capi da
prelevare ai 45 distretti di quella 2010/11 con 1.790 capi assegnati.
Il daino a seguito di fughe da allevamenti e per migrazione spontanea dal confine settentrionale con la
Toscana è arrivato a costituire alcuni nuclei distribuiti nel territorio provinciale: attualmente ne è autorizzato il
prelievo in 10 distretti in cui è presente insieme al capriolo. In quanto specie alloctona la Provincia ha
ottenuto dall’INFS la possibilità del controllo anche negli ambiti quali Aziende Faunistico Venatorie e Aziende
Agri-turistico Venatorie in cui la specie non è oggetto di concessione.
Per il cervo esistono probabilmente due soli piccoli nuclei in libertà legati alla fuga di individui da recinti di
allevamento (Oasi di Rogni e Parco del Monte Subasio) e non vi sono distretti in cui ne è autorizzato il
prelievo.
Il Regolamento Regionale 23/99 ha fissato le modalità per lo svolgimento della caccia di selezione
(correttamente intesa come prelievo programmato sostenibile per cui i piani di prelievo sono assegnati a
seguito di conteggio tramite osservazioni da punti fissi in aree aperte condotti fra marzo ed aprile) a cui negli
anni hanno fatto seguito specifici regolamenti degli ATC, sempre più dettagliati man mano che cresceva il
numero delle persone “attratte” da questa particolare forma di prelievo e la superficie di territorio ad essa
dedicata.
Oggi si contano 833 iscritti alla gestione dei 45 distretti istituiti (cosidetti “cacciatori di selezione” formati
attraverso appositi corsi su capriolo e daino organizzati dalla Provincia) che coprono circa il 30% del
territorio provinciale.
Dal 2008 l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Umbria e delle Marche (sezione di Perugia) ha effettuato
una serie di indagini sierologiche, batteriologiche ed istologiche su campioni raccolti con la collaborazione
volontaria dei selecontrollori ed attualmente si sta valutando la possibilità di un protocollo ufficiale con la
Provincia che permetta di raccogliere un numero più adeguato di campioni migliorando al contempo la
logistica dell’operazione.
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La lepre nel PR Gola della Rossa e Frasassi
Nicola Felicetti, Enrico Cordiner, Sara Marini
Laboratorio di Ecologia Applicata
[email protected]
Il monitoraggio della lepre europea (Lepus europaeus) nel Parco Regionale della Gola della Rossa e di
Frasassi ha avuto inizio nel maggio 2006 con una fase preliminare ricognitiva ed un primo monitoraggio
post-riproduttivo al quale sono seguiti due anni di rilevamento in periodo pre-riproduttivo (nel 2007 e nel
2008); nel corso del 2010 è stato nuovamente effettuato il monitoraggio della specie in periodo preriproduttivo.
Il primo step che si è si affrontato è stato quello della definizione di un’area idonea alla presenza della lepre
nel Parco Naturale Regionale della Gola della Rossa e di Frasassi, utilizzando le carte tematiche redatte per
la definizione del Piano del Parco, ed accorpando le seguenti categorie: coltivi, praterie, frutteti, vigneti,
arbusteti, sulla base di quanto noto per la specie in ambienti appenninici. L’area risultante, che possiamo
definire area di idoneità per la lepre, si estende per 1857 ha e risulta estremamente frammentata.
Il metodo scelto ed applicato per il conteggio delle lepri è quello del censimento notturno su percorsi
campione effettuato a bordo di automezzo scoperto con l’ausilio di fari. Tale metodo tuttavia presenta alcune
difficoltà se applicato in aree collinari e montane, alle quali si è tentato di ovviare con un meticoloso calcolo
delle superfici indagate, escludendo le parti effettivamente non visibili.
Nel mese di novembre 2006, è stato effettuato un primo rilevamento sperimentale nell’area di studio; a
partire dal 2007 il monitoraggio è stato effettuato in modo standardizzato, prevedendo 3 ripetizioni della rete
dei transetti di rilevamento (nei mesi di marzo/aprile) ed il calcolo delle medie degli individui osservati.
Durante tale fase di monitoraggio, ogni anno (2007, 2008 e 2010) è stata dunque percorsa una rete di 34,9
chilometri di transetti, corrispondenti a 329,1 ha di superficie indagata.
La presenza della lepre è stata accertata in diverse località del Parco: praterie sommitali e prato-pascolo di
Monte Valmontagnana, di Poggio S. Romualdo e del complesso Monte Murano-Monte Sassone-Monte
Predicatore; in varie porzioni di prateria e piccole radure tra Castelletta e Poggio S. Romualdo; prateria sul
valico tra Monte Valmontagnana e Monte Civitella; seminativi presso Tribbio, Rocchetta, Vallemontagnana e
S. Bartolo a monte di Serra S. Quirico.
Le densità rilevate in periodo pre-riproduttivo hanno evidenziato una maggiore consistenza nelle
praterie/prato-pascolo (23,5 lepri/100 ha nel 2007; 24,3 lepri/100 ha nel 2008; 21,7 lepri/100 ha nel 2010)
rispetto ai seminativi (2,7 lepri/100 ha nel 2007; 3,7 lepri/100 ha nel 2008; 21,7 lepri/100 ha nel 2010) e al
bosco rado di conifere con sottobosco erbaceo (0,9 lepri/100 ha nel 2007; 5,6 lepri/100 ha nel 2008; 3,7
lepri/100 ha nel 2010). In particolare è nelle praterie di Monte Valmontagnana (43,7 lepri/100 ha nel 2007;
59,8 lepri/100 ha nel 2008; 59,8 lepri/100 ha nel 2010) e Monte Murano (46,9 lepri/100 ha nel 2007; 46,9
lepri/100 ha nel 2008; 26,5 lepri/100 ha nel 2010) che si riscontrano le più alte densità.
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Il silvilago in provincia di Perugia
Michele Croce
Servizio Gestione Faunistica e Protezione ambientale - Provincia di Perugia
[email protected]
Il silvilago (Silvilagus floridanus) è un Lagomorfo originario del continente americano introdotto per la prima
volta in Umbria all’inizio degli anni ’70 ed ormai naturalizzato. La specie ha ampliato il proprio areale
provinciale, tanto da costituire una delle prede più “sfruttate” a livello locale dal mondo venatorio.
L’indagine condotta ha permesso di valutare la distribuzione di Silvilagus floridanus sul territorio della
provincia di Perugia attraverso interviste e monitoraggi all’interno di ambiti di gestione venatoria. Sulla base
delle informazioni finora raccolte è stato possibile riscontrare un’espansione dell’areale che ha portato la
specie a colonizzare, partendo dalla località di iniziale introduzione, un’ampia fascia di territorio tra Perugia e
il Lago Trasimeno. Dal 2005, con parere positivo dell’ISPRA, la Provincia ha autorizzato il controllo delle
popolazioni di silvilago all’interno di Zone di Ripopolamento e Cattura (ZRC) e Aziende Faunistico Venatorie
(AFV) tramite abbattimento con sparo e catture, mentre il calendario venatorio regionale stabilisce i tempi del
prelievo senza limiti di carniere nel resto del territorio a caccia programmata.
Nell’ambito degli interventi di controllo effettuati nella primavera del 2007, sono stati indagati 360 individui
abbattuti all’interno della AFV Monte Petriolo raccogliendo i primi dati biometrici, ponderali e riproduttivi della
popolazione umbra.
Tra marzo e dicembre 2007 sono state condotte, in collaborazione con L’Istituto Zooprofilattico Sperimentale
dell’Umbria e delle Marche (Sezione di Perugia), alcune indagini sanitarie su un campione di 245 animali, i
cui sieri sono stati saggiati per evidenziare la presenza di anticorpi nei confronti di European Brown Hare
Syndrome (EBHS), Rabbit Haemorrhagic Disease (RHD), Leptospirosis, Brucellosis, Tularaemia e
Toxoplasmosis.
Nonostante il silvilago sia considerato non suscettibile ai virus di EBHS e RDH è risultato che alcuni individui
potrebbero aver contratto il virus dell’EBHS sviluppando una buona immunità anche in assenza di malattia
conclamata.
Non si può quindi escludere che il silvilago possa infettarsi con il calicivirus responsabile dell’EBHS e giocare
un ruolo nella epidemiologia di tale malattia contagiosa e potenzialmente letale per l’autoctona lepre
comune.
Il prelievo venatorio, pur esercitando una notevole pressione sulla specie, non è tale da determinarne
l’eradicazione in territorio a caccia programmata, soprattutto a causa della frammentazione dello stesso per
la presenza di ambiti preclusi alla caccia (ZRC, Oasi di protezione, zone industriali, artigianali, residenziali e
sportive) in cui incolti, siepi e giardini forniscono adeguati siti di rifugio e riproduzione.
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Lo scoiattolo grigio americano in Umbria
(1)
(1)
(2)
Daniele Paoloni , Francesca Vercillo , Umberto Sergiacomi , Bernardino Ragni
1
Dipartimento di Biologia Cellulare e Ambientale, Università degli Studi di Perugia
2
Osservatorio Faunistico della Regione Umbria
[email protected]
(1)
Lo scoiattolo grigio Sciurus carolinensis Gmelin, 1788 è una specie nord-americana che è considerata una
minaccia per la biodiversità in Europa, in quanto può determinare la scomparsa dello scoiattolo rosso
Sciurus vulgaris Linnaeus, 1758 qualora le due specie si trovino in sintopia. La specie alloctona è stata
introdotta in Gran Bretagna ed in Italia nella metà del '900. Nella penisola si conoscono popolazioni
naturalizzate in Piemonte, in Lombardia, in Liguria e in Umbria.
A partire dal Marzo 2010 il Dipartimento di Biologia Cellulare ed Ambientale, Università degli Studi di
Perugia, ha avviato, con il contributo della Regione Umbria, Osservatorio Faunistico Regionale, la
collaborazione della Provincia di Perugia, il sostegno tecnico-scientifico dell’ISPRA, il Progetto di ricerca
“Indagine sulla presenza di una popolazione di scoiattolo grigio nel territorio comunale di Perugia”, finalizzato
a: individuazione delle aree di presenza dello scoiattolo grigio nel Perugino, sperimentazione e taratura del
trappolamento in vivo, definizione di misure gestionali per la conservazione dell'autoctono scoiattolo rosso.
Il lavoro fin qui svolto ha permesso di raccogliere 76 indici di presenza (IP) relativi alla specie alloctona che
consentono di affermare che Sciurus carolinensis è certamente presente nell’area ad ovest della città di
Perugia, in maniera consistente ed evidente nelle zone di San Marco, Monte Pulito, Ferro di Cavallo e
Fontana, dove è probabile che il processo di sostituzione della specie autoctona sia in fase avanzata, senza
poter escludere l’ipotesi che sia, ormai, completato. Nell’area nord del pSIC “Monte Malbe” si ipotizza che la
colonizzazione da parte dello scoiattolo grigio sia ancora in fase iniziale e la sua presenza, per questo
motivo, è ancora “poco” visibile. Data la continuità ecologica con le aree sopraddette e le caratteristiche
ecologiche, ampiamente idonee per la specie alloctona, è verosimile che lo scoiattolo rosso sia destinato a
soccombere nei confronti del più “prestante” scoiattolo grigio anche tra i fitti boschi del pSIC.
Le segnalazioni di scoiattolo grigio in ambito strettamente urbano (zona Elce), sono una dimostrazione che
l’area di presenza effettiva possa essere molto più ampia di quella inizialmente ipotizzata.
Confrontando lo sforzo di ricerca con i dati ottenuti, il metodo naturalistico è risultato essere il più efficiente
per le caratteristiche dell’area di studio considerata, con 19 IP per 24 ore di lavoro, contro i 16 IP per 74 ore
per la cattura e determinazione dei peli.
Dal lavoro svolto e dai dati sulle densità proprie della specie, reperiti in letteratura, si può approssimare una
2
stima della popolazione di scoiattolo grigio compresa tra 600-1000 individui, distribuiti su almeno 12 km .
L'estrema mosaicizzazione dell'area di studio umbra, la presenza del Parco faunistico-didattico “Città della
Domenica” che potrebbe rappresentare un serbatoio continuo di individui e un'ampia superficie boscata a
latifoglie (leccete e querco-carpineti con presenza di castagno), che è circa un terzo dell'area in questione,
fanno si, che la distribuzione della specie sia marcatamente aggregata e che la relativa densità sia molto
diversa tra le varie patch.
Contemporaneamente all'incremento quali-quantitativo dello sforzo di monitoraggio al fine di definire
dettagliatamente il perimetro dell'areale specifico, sarebbe auspicabile avviare un'azione di controllo
numerico dello scoiattolo grigio, così da salvaguardare la sopravvivenza dello scoiattolo rosso.
Sciurus carolinensis, così come la maggior parte dei roditori è caratterizzato da una strategia R-selezionata,
che gli consente in breve tempo di colonizzare gli ambienti in cui si trova a vivere e raggiungere,
successivamente, un'elevata densità di popolazione: dopo una fase di saturazione dell'area, ha inizio la fase
di espansione. Da questa considerazione si può supporre che la densità di popolazione di scoiattolo grigio,
all’interno della “Città della Domenica”, sia sufficientemente alta da aver raggiunto il livello di saturazione, in
seguito al quale sta avvenendo un processo di colonizzazione delle aree circostanti il Parco. Inoltre,
l'abbondante disponibilità di risorse trofiche (sia naturali, come le ghiande abbondantemente presenti, che
non, come i mangimi e le granaglie con cui vengono foraggiati gli animali stabulati nelle gabbie e nei recinti)
hanno garantito allo scoiattolo grigio un ulteriore vantaggio nell'insediamento e una conseguente ampia
possibilità di infeudamento nell'area. L'assenza di un adeguato sistema di recinzione ha permesso poi alla
specie di fuoriuscire dal parco e stabilirsi nelle aree circostanti, in modo particolare tra via Col di Tenda e
Strada dei Cappuccinelli in loc. San Marco. L’espansione potrebbe essere stata avvantaggiata, oltre che da
una buona disponibilità di fonti alimentari, anche dalla scarsità di predatori selvatici. La specie, sembra
essersi ben adattata anche in un'area ad elevata densità abitativa, quale risulta essere il quartiere di Ferro di
Cavallo.
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