Giovani e lingua nell`Italia contemporanea A seguito dell`incontro

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Giovani e lingua nell`Italia contemporanea A seguito dell`incontro
Education et Sociétés Plurilingues n°14-juin 2003
Giovani e lingua nell'Italia contemporanea
Sabina CANOBBIO
Faisant suite à la rencontre qui a eu lieu à Paris le 12 octobre 2002 dans le cadre des
"Samedis du CMIEBP au cours de laquelle Yannick Lefranc et l'auteur de cet article ont
débattu du thème “Langages des jeunes et langue de l’école en France et en Italie",
certains points soulevés à cette occasion seront développés ici, notamment en
approfondissant des aspects apparus au cours du débat, qui semblent confirmer encore
une fois la diversité et la particularité de la situation linguistique de l'Italie par rapport à
celle, par exemple, de la France.
Following the meeting of October 12th 2002 of the "Samedi du CMIEBP" in Paris,
during which Yannick Lefranc and this article's author discussed "Young people's
speech in the face of the school languages in France and in Italy", certain points that
were raised will be developed here, for they seem to confirm once again both the
diversity and the specificity of the linguistic situation in Italy, compared to the one
existing in e.g. France.
A seguito dell'incontro che ha visto a Parigi il 12 ottobre 2002, nell'ambito
dei "Samedi du CMIEBP", Yannick Lefranc e chi scrive conversare su
“Langages des jeunes et langue de l’école en France et en Italie" non è
forse inutile fissare qui alcuni dei punti dibattuti in quella sede, ritornando
in particolare su quegli aspetti là emersi che sembrano confermare, ancora
una volta, la diversità della situazione linguistica italiana rispetto a quella,
ad esempio, francese.
Diversità che è frutto, lo sappiamo bene, di una storia linguistica i cui tempi
e le cui vicende hanno dato luogo a un quadro sociolinguistico che continua
a mostrare caratteristiche peculiari. Per gli italiani, cittadini di uno stato
unitario solo dal 1861, la conquista della lingua nazionale - prima accanto
ai dialetti locali e poi sempre più in sostituzione di essi in ogni situazione
comunicativa - è storia recente. Non solo infatti tale conquista ha iniziato a
diventare più concreta realtà solo a partire dal secondo dopoguerra ma è
inoltre avvenuta in proporzioni, secondo dinamiche e con ritmi
estremamente diversi nelle diverse aree del paese. Tuttora, in effetti, la
lingua italiana e le sue varietà si articolano secondo modalità non
omogenee nel repertorio di tutti gli italiani ma, inoltre e soprattutto, le
osservazioni più recenti ci dicono che i dialetti, dati nell'esaltazione
“italofila” degli anni 60 e 70 in stato addirittura preagonico, non sono morti
affatto, in nessuna area regionale. In alcune di esse, addirittura, essi
sopravvivono in buona salute con una situazione di reale bilinguismo per i
parlanti e quasi ovunque si sono comunque annidati in sacche di resistenza,
dopo aver cambiato magari funzioni, passando da quella pienamente
comunicativa ad altre, identitarie, espressive, affettive, o decisamente
ludiche, come è ad esempio nel caso del loro uso da parte delle giovani
S.Canobbio, Giovani e lingua nell'Italia contemporanea
generazioni. Inoltre negli anni, con l'incrementarsi del numero degli
italofoni, si è fatta sempre più evidente quella particolare forma di
sopravvivenza (sia pur “trasfigurata”) dei dialetti come ben riconoscibile
sostrato delle diverse forme regionali di italiano, quelle, non
dimentichiamolo, effettivamente utilizzate nella vita quotidiana dalla
maggior parte di noi italiani e che per quelli meno scolarizzati sono
addirittura l'unico italiano posseduto e praticato.
In definitiva la comunità italiana, pur alle prese come i suoi vicini europei
con i molteplici e incalzanti aspetti culturali della globalizzazione, sta in
realtà ancora riassestando il suo repertorio linguistico e confrontandosi con
dinamiche complesse in cui hanno un ruolo importante, tra l'altro, le
conseguenze non ancora completamente riassorbite delle migrazioni interne
che l'hanno interessata in tempi e in modi diversi (quelle dal Sud e dal
Nord-Est verso il Nord-Ovest, quelle dalle campagne alle città, quelle dalla
montagna alla pianura) e che hanno ridisegnato, insieme alla fisionomia
delle famiglie, i costumi culturali, i repertori linguistici, le identità. Inoltre,
rispetto a quanto è avvenuto e avviene ad esempio in Francia, in Italia
stanno appena iniziando a proporsi anche sul piano culturale (e quindi
linguistico) le problematiche connesse con le nuove immigrazioni dai
diversi "Sud" del mondo, che pure nell'ultimo decennio sono divenute più
massicce ma che tuttora hanno portato nelle scuole italiane - o comunque a
integrarsi nella società - solo una prima generazione di giovani che hanno
avuto una lingua materna e un imprinting culturale diversi da quelli propri
dell'area italiana o europeo-occidentale.
In questo contesto, comunque complesso, la considerazione del costume
comunicativo delle giovani generazioni e dei loro rapporti con il repertorio
linguistico nazionale assume evidentemente particolare importanza e non
solo per il valore diagnostico e prognostico che i comportamenti giovanili
hanno sempre e comunque rispetto alle direzioni che sta prendendo il
complesso della società.
Occorre, innanzitutto, ritarare sempre il concetto di "giovani". Di volta in
volta, di che giovani parliamo? Anche solo riferendoci alla prospettiva che
in questa sede ci interessa più da vicino e cioè quello dei rapporti con la
lingua, se, ad esempio, un quattordicenne non è certo un soggetto parlante
assimilabile a un diciottenne o a un venticinquenne, che pure sono anch'essi
anagraficamente giovani, infiniti sono poi gli altri parametri (culturali,
ambientali, ideologici) che li rendono diversi e a definire la soglia tra età
giovanile e età adulta il solo dato anagrafico è sempre più riduttivo e
magari fuorviante. Ma quel che è peggio è che la fascia definibile come
“giovanile” dal punto di vista del costume (anche comunicativo) si sta
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S.Canobbio, Giovani e lingua nell'Italia contemporanea
(almeno in Italia) allargando visibilmente. In effetti il problema non è tanto
fino a quando si è giovani ma fino a quando ci si comporta da giovani (e si
parla da giovani). Ciòٍ fa si che il problema di un uso linguistico giovanile
(in particolare dei suoi rapporti e della sua compatibilità con la lingua
standard) non coinvolga, come stiamo verificando sempre più spesso in
Italia, solo la scuola, frequentata da adolescenti e da post-adolescenti, ma si
estenda alle Università e si allarghi poi ulteriormente a interessare un
ambito più vasto che comprende parte del mondo del lavoro e della società.
Tendendo conto di questa precisazione, proprio la generazione di quelli che
possiamo definire oggi “giovani” non solo è stata in Italia compiutamente
(cioè in una buona parte del paese e in larghi strati della società) la prima a
non aver ricevuto il dialetto per trasmissione diretta, in famiglia, ma essa è
stata la prima generazione anche in tanti altri sensi, (socio)linguisticamente
rilevanti. La prima, ad esempio, a fruire di una scolarizzazione più
generalizzata e più avanzata, come la prima a essere più mobile per motivi
che non fossero quelli della tradizionale emigrazione da lavoro, ma legati
allo studio o allo svago. In definitiva la prima ad avere l'opportunità di
molteplici contatti con l’esterno, con lingue e con linguaggi altri, anche
perché la prima a essere massicciamente investita, anzi “modellata”,
dall’impatto con i media e con le, prima inedite, forme di comunicazione
imposte dalle nuove tecnologie (E-mail, chat lines, messaggi SMS); una
diversa e più avanzata frontiera della comunicazione, questa, cui proprio i
giovani hanno, come prevedibile, aderito entusiasticamente e
massicciamente.
Ma ragionando ancora su questi giovani potremmo dire, con una battuta,
che la loro generazione è stata in Italia la prima a potersi realmente
permettere il lusso (da paese con un benessere consolidato) della gioventù,
certo la prima a potersi permettere il lusso (da paese con una lingua
nazionale consolidata) di un “linguaggio giovanile”, inteso non solo come
uso giovanile della lingua (meno obbediente alle regole di uno standard che
è nel caso dell'italiano sin troppo rigido; più agile, più semplice, più
funzionale anche all'oralità) ma anche come sua vera e propria varietà
paragergale (Cortelazzo, 1994).
Tutto questo ha avuto indubbiamente delle ricadute positive sulle generali
possibilità comunicative di questi giovani parlanti il cui non allineamento
alle regole della norma ha iniziato da alcuni anni ad attirare da un lato la
curiosità dei media, che ne hanno fatto un frequente ingrediente di pezzi "di
costume", d'altro lato l’attenzione dei linguisti (1), d'altro lato ancora gli
strali dei puristi, difensori strenui di quelle regole violate. Ma soprattutto i
giovani hanno incominciato a preoccupare sempre di più con la loro
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S.Canobbio, Giovani e lingua nell'Italia contemporanea
“lingua selvaggia” - secondo l'efficace definizione dello storico della lingua
italiana Gianluigi Beccaria (in AA.VV. 1985) - le agenzie istituzionalmente
deputate alla formazione, cioè la scuola nei suoi vari ordini e gradi e
l’Università, le quali sembrano nel frattempo aver progressivamente perso,
come del resto la famiglia, buona parte del loro ruolo e della loro capacità
di orientamento e di controllo dei comportamenti giovanili.
Come sottolineava giustamente Emanuele Banfi in un suo scritto di alcuni anni or sono sull'italiano dei
giovani (Banfi 1994), da un lato si sono fatti più forti i vincoli e i modelli di aggregazione locali,
polarizzati su specifici luoghi di incontro e di socializzazione (quel locale, quella piazza, quel muretto);
essi costituiscono un microspazio che stimola e produce la parte più precisamente gergale e innovante ma
effimera del linguaggio giovanile, quella più legata al gruppo e più connotata dal localismo, fino
all'impiego frequente e per lo più ludico del dialetto. Non va perٍ dimenticato che, in alcune aree del
paese, la sua presenza attiva nel repertorio dei giovani accanto e in alternanza all'italiano è ancora
massiccia (molto interessante in tal senso, e per una regione significativa come la Sicilia, Alfonzetti
2001). Dall'altro (majuscule) lato sui giovani influiscono sempre di più agenzie di modellizzazione del
gusto e dell'immaginario regolate dalle leggi massmediologiche e commerciali, tanto che colpisce,
ascoltando questi parlanti (anche al di là, si badi, delle diversità nel livello di istruzione, nelle condizioni
sociali, nelle aree di provenienza), notare fino a che punto il loro linguaggio sia specchio dei loro
passatempi e dei loro consumi. Del resto dobbiamo sempre ricordare che, quando parliamo di linguaggi
giovanili, ci riferiamo a un fenomeno complesso che non è fatto solo di una componente verbale, ma di
gestualità, di atteggiamenti e di un universo segnico oggettuale all'interno del quale sono importantissimi
ad esempio i capi di vestiario o le acconciature dei capelli.
In ogni caso questo macrospazio, in parte virtuale ma, ripeto, dotato di un
potere modellante fortissimo, porta nel costume linguistico giovanile altro
rispetto a quanto abbiamo sopra notato a proposito del microspazio locale:
molte parole straniere (più o meno adattate all'italiano), i modi e i ritmi
della musica e dei linguaggi visivi, gli slogan della pubblicità (che
sembrano sempre più frequentemente sostituire con il loro sapere quello dei
proverbi), i marchi commerciali (che si sostituiscono ai nomi comuni: non
più pantaloni ma Levis, non più scarpe ma Reebok, non più maglietta ma
Lacoste, e così via), le scorciatoie dei nuovi linguaggi cosiddetti High tech
che passano attraverso le macchine e che sono condizionati dall'esigenza
della velocità (abbreviazioni, acronimi, emoticons, ecc.). Ma non
dimentichiamo che da questo macrospazio e in particolare dai media
ritornano ai giovani anche le rappresentazioni (spesso caricaturali e
stereotipate) del loro essere e del loro parlare "giovane", pronte ad essere
riassorbite e riutilizzate con un ben noto effetto moltiplicatore.
Tuttavia, se si puòٍ ipotizzare una qualche forma di koiné giovanile che
lega, con un collante peraltro molto di superficie, segmenti giovanili
appartenenti a strati culturali, socioambientali, regionali diversissimi,
proprio la molteplicità delle infinite variabili deve indurci a essere cauti e a
non generalizzare. Va da sé che quanto ho detto sopra definendo un "lusso"
il linguaggio giovanile, vale solo per una parte, sempre troppo esigua,
dell'arcipelago-giovani nel nostro paese. Quella che puòٍ per intenderci,
effettivamente scegliere di volta in volta quale strumento comunicativo e
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S.Canobbio, Giovani e lingua nell'Italia contemporanea
quale varietà di lingua utilizzare. Quella per la quale il linguaggio giovanile
è, all'interno del repertorio, una varietà in più, spendibile solo in
determinate situazioni comunicative e in questo senso in genere ben
dominata; palestra in cui si gioca con qualcosa, la lingua standard, di cui si
conoscono comunque le principali regole di funzionamento. Basta uno
sguardo alle ormai numerose raccolte di "giovanilese" per riconoscervi le
tracce di operazioni tutto sommato raffinate sia sul piano del significato
(iperboli, metafore, metonimie, ecc.) sia del significante (deformazioni
della catena fonica, suffissazioni, dislocazioni, ecc.), messe in atto per
piegare una lingua come quella italiana, irrimediabilmente segnata dalla
sua letterarietà, a un uso più espressivo e più libero, per affermare la
propria individualità rispetto agli altri giovani o rispetto agli adulti o ancora
per sancire l'appartenenza a un gruppo; insomma per segnalare identità,
territori, umori.
Ma è fin troppo evidente che, per altri segmenti del mondo giovanile,
caratterizzati da una minore scolarità o da situazioni di emarginazione e
disagio sociale, quella del "giovanilese" rischia di essere solo una delle
facce di un substandard italiano posseduto e spendibile come unica varietà
di lingua, destinata a rimanere l'unica alternativa a un uso dialettale tuttora
pressoché esclusivo. Per questi altri giovani (deprivati, non
sufficientemente istruiti) l'uso di una varietà marcata magari anche
generazionalmente ma soprattutto diatopicamente e socialmente,
rappresenta dunque non certo un lusso, ma solo il segnale di una perdurante
sconfitta. Di questa situazione si acquista consapevolezza, ad esempio,
scorrendo gli ormai non pochi corpora di testi, sia scritti sia orali, prodotti
da ricerche su diversi segmenti del mondo giovanile, ma anche ascoltando i
giovani parlare in determinati contesti spontanei o semispontanei, che
mostrano come quel "benessere linguistico" cui si alludeva sopra sia in
realtà in Italia tutt'altro che consolidato (come del resto tutt'altro che
consolidato è l'equilibrio sociale in rapporto al benessere economico) e che
il lavoro da fare per la scuola e per le altre istituzioni, rispetto a una
formazione linguistica di base realmente comune a tutti, sia ancora lungo.
Tuttavia, al di là della presa d'atto della situazione anche nei suoi aspetti
più estremi, vi sono delle altre considerazioni da fare che riguardano una
più larga fascia di giovani, non solo quelli caratterizzati da un'italofonia più
chiaramente compromessa. In particolare si osserva con crescente allarme
che la lingua usata dai giovani (anche se a onor del vero non solo da essi…)
è non solo genericamente più "scorretta", ma sempre più povera e sciatta e
questo sia nelle realizzazioni orali, sia in quelle scritte, sia sul piano
lessicale, sia su quello morfosintattico, sia su quello della costruzione
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S.Canobbio, Giovani e lingua nell'Italia contemporanea
testuale. Limitandoci solo al lessico, anche se ogni anno le pubblicità delle
nuove edizioni dei vocabolari della lingua italiana annunciano
trionfalmente l'ingresso di nuovi lemmi (350 parole in più certificate, ad
esempio dall'edizione 2003 dallo Zingarelli), questo dato entra in
drammatica contraddizione con altri dati, ad esempio con quelli di una
recente ricerca che avverte che, se nel 1975 un ragazzo scolarizzato
conosceva in Italia circa 1500 parole, oggi ne conosce in media solo 650.
Questo dato di fatto è un campanello di allarme molto serio che avverte di
una tendenza che sembra consolidarsi anche nelle zone di benessere
culturale rappresentate dalle fasce giovanili più istruite. Esso puòٍٍ intaccare
sulla distanza il patrimonio linguistico nazionale ben più che l'introduzione
di (anche numerosi) elementi forestieri, o le altre diverse forme di
trasformazione da contatto con codici altri, oppure le normali evoluzioni
proprie del percorso di una lingua viva, o perfino le multiformi operazioni
di scardinamento della norma proprie dei linguaggi giovanili. Quello che
deve impensierire è il diffondersi di una lingua appiattita, senza
modulazioni, fatta di poche parole, sempre le stesse (la cui polisemia, e
polivalenza, viene estesa al di là di ogni ragionevolezza) e di pochissimi
schemi strutturali; una lingua che appare immiserita sia dalla penuria di
apporti da un solido retroterra speculativo (cfr. le amare considerazioni di
Lodoli sopracitate) sia dallo stimolo benefico di un impiego curioso e
vivace che ne indaghi tutte le potenzialità.
Negli ultimi tempi si sono letti spesso preoccupati richiami in tal senso
anche sulla stampa non specializzata. Particolare risonanza ha avuto quello
dello scrittore, che è anche insegnante, Marco Lodoli, che in una sua dura
riflessione pubblicata con grande rilievo dal quotidiano La Repubblica del
5 ottobre 2002 con l'esplicito titolo: "Il silenzio dei miei studenti che non
sanno più ragionare" metteva in chiaro rapporto problemi cognitivi e
comportamentali con l'uso della lingua.
Se non si riesce, insomma, a condividere l'indignazione per la "lingua
selvaggia" dei giovani quando essa è creazione, gioco, sperimentazione,
fantasia, impertinenza, sfida, si prova sempre più di frequente desolazione
nell'ascoltare, o nel leggere, la nostra lingua affogare nella banalità. Certo,
puٍ non indignare la violenza di una "brutta parola" - di quelle per cui alla
mia generazione, con un accanimento censorio sin troppo spiccato, veniva
ancora lavata la bocca con il sapone, ma che ora, grazie anche allo
sdoganamento operato dai media (2), hanno libera circolazione in ogni
ambiente sociale e in ogni situazione comunicativa.
Tuttavia deve impensierire il sentirla nei discorsi dei giovani ripetute
ossessivamente mille volte a sostituire magari altre mille possibili, e magari
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S.Canobbio, Giovani e lingua nell'Italia contemporanea
più "brutte", parole, che non si fa la fatica e non si ha l'estro di cercare
nell'uso o nel vocabolario. Perché l'uso della lingua deve insomma
ragionevolmente preoccupare non quando è selvaggio (il che puòٍ essere, in
alcune stagioni della vita di un parlante o di una lingua, sinonimo di "vivo")
ma quando è pigro.
Non è questa la sede, e non ho io le competenze, per dire cosa possa fare, e
cosa stia tentando di fare, in Italia la scuola per combattere questa tendenza
che sembra in un certo senso far apparire male minore i tradizionali "errori"
di lingua con cui sono abituati a combattere gli insegnanti e che
probabilmente sono assai più facili da correggere. Certo è che con essa ci si
trova a fare i conti ormai in qualche misura anche ai livelli superiori
dell'istruzione e cioè nelle Università.- e perfino nelle facoltà umanistiche
dove un uso sapiente delle parole dovrebbe rappresentare un ovvio
plusvalore - dove la stessa lingua imprecisa, opaca, inefficace, caratterizza
non di rado le risposte degli studenti agli esami o la scrittura delle loro tesi
di laurea (per uno spaccato sull'uso della lingua da parte di studenti
universitari cfr. Lavinio-Sobrero (a cura di) 1991).
La mia impressione è comunque che si debba lavorare con i giovani
soprattutto nella promozione della loro consapevolezza di parlanti nei
confronti non di una lingua italiana vista come inviolabile blocco
monolitico (come fin troppo spesso si è fatto) ma al complesso delle
infinite varietà, sia della lingua sia dei dialetti sia delle lingue altre, che
concorrono potenzialmente alla composizione del repertorio, a cui ciascuno
puòٍ al tempo stesso contribuire e attingere.
Certo gli argomenti che si hanno per far questo sembrano essere armi
sempre più spuntate contro l'efficacia di altri linguaggi che si stanno
imponendo presso i giovani. Come convinceremo (se non sembra questa
una notazione troppo frivola per chiudere questa breve riflessione) quei
ragazzi che vediamo con il cellulare sempre in mano - "la nuova imponente
leva hi-tech di giovani dal pollice frenetico e ipertrofico che mitragliano
amici e nemici con raffiche di messaggini quotidiani" come la definiva la
giornalista Laura Laurenzi (supplemento del quotidiano La repubblica del
22 gennaio 2003, p.9) - dell'importanza delle parole se alla lingua già
monca dei loro "messaggini" scritti sul monitor del cellulare si (corriger)
sta ormai rapidamente sostituendo un codice di soli squilli che sembra
soddisfare le loro esigenze comunicative più impellenti, dal dire "Ti amo"
al chiedere "Dove ci vediamo?".
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S.Canobbio, Giovani e lingua nell'Italia contemporanea
Note
(1) La bibliografia degli studi sui linguaggi giovanili si è fatta anche in Italia ormai
densa e abbastanza capillare rispetto alle diverse aree regionali, anche se ha iniziato a
prodursi in anni più tardi (e anche questo va messo in rapporto con la peculiare vicenda
storico linguistica nazionale) rispetto ad altri paesi. Non è dunque possibile in questa
sede darne ragione dettagliatamente, ci si limita a rimandare qui in calce ad alcuni titoli
che hanno meglio saputo descrivere e spiegare nei suoi caratteri più generali un
fenomeno che trova perٍ forse il suo aspetto più caratteristico proprio nella molteplicità
delle sue facce, sia sotto il profilo diastratico sia sotto quello diatopico.
(2) Ironizza Umberto Eco in un'intervista citata da La Repubblica del 21 gennaio 2003:
"Io pronunciavo le parole che oggi sento in TV solo in piccole orge goliardiche in stato
di ubriachezza”.
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