Senza Soste n° 108 (ottobre)
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Senza Soste n° 108 (ottobre)
Periodico livornese indipendente - anno X, n. 108 - Ottobre 2015 OFFERTA LIBERA Poste italiane S.p.A. Spedizione in Abb. Post. 70% Regime libero aut. cns/cbpa/centro1 Validità dal 05/04/2007 www.senzasoste.it Profughi: non pietà ma economia NIQUE LA POLICE T rattare i profughi come le quote latte, sui criteri di assegnazione dei rifugiati, con tanto di multe, è qualcosa di persino peggio dell’assimilazione di un fuggiasco ad una mucca. È trattare un essere umano come qualcosa da smaltire, prima come emergenza poi come qualcosa “in quota” ed infine come presenza biodegradabile in una qualche nazione del continente. Gli stati non esistono per questo e tantomeno per far delirare i Salvini e gli Orban. Però al momento è quello che accade, delirio compreso. Per non parlare dei media, che trattano i profughi come i partecipanti ad un reality ispirato a Giochi senza frontiere. Ecco così che fioriscono le interviste mentre i profughi partono in gommone dalla Turchia, mentre arrivano a Lesbo, mentre partecipano all’assalto al treno in Macedonia e, dopo un’infinita corsa a ostacoli, cercano di sfuggire al gioco (politico) di Orban in Ungheria. Alla fine interviste a quelli che ce l’hanno fatta: riprese e selfie alla porta del Brandeburgo, qualcuno con Cristiano Ronaldo e qualche altro, più sobriamente, in qualche avamposto dell’accoglienza in Slovenia. Ma il punto più grave non è l’assenza di pietà. È che l’occidente è preso dalla divisione tra impietositi e cinici, tra amanti dei cerotti e delle bende e presunti pragmatici che, con le frontiere chiuse, penserebbero di aver risolto questioni più grandi di loro. Il punto più grave è che vi è una completa assenza di un’economia dei profughi. Che rimangono sempre eccedenti: permessi temporanei, in scadenza, con la separazione tra “profughi” e “migranti economici”. Introducendo così distinzioni sempre più sottili, nei dispositivi giuridici, per espellere, allontanare, separare. Ma le distinzioni sottili non fermano la valanga a monte: le migrazioni causate da un quarto di secolo di disastri liberisti di ogni genere. Il vero scandalo è che non si possa generare economia, ricchezza, permettendo a queste persone un deciso cambiamento nella loro condizione, contribuendo alla ricchezza del continente. Ed è lo scandalo del capitalismo che, per creare il mercato, deve creare scarsità. Non può esserci abbondanza per queste persone. Devono vivere nella scarsità o crearne per gli altri. Così le Le Pen, gli Orban e i Salvini, politicamente parlando, ingrassano. Questo è il problema, economico prima ancora che umanitario, il resto è (tragico) contorno. Un mondo a parte Livorno è un mondo a parte. Una dimensione che alimenta progetti gonfiati, programmi improbabili, prospettive incredibili e dibattiti surreali. Ma che viene puntualmente demolita quando il mondo esterno finisce per fare capolino: Darsena Europa, Asa, Aamps e ospedale sono solo alcuni esempi. A World Apart, un mondo a parte, è un film biografico sulla storia di Ruth First - sociologa, giornalista, comunista bianca oppositrice del regime sudafricano dell’apartheid - uccisa da un pacco bomba mentre era in esilio in Mozambico nel 1982. Il mondo a parte, come da film, era quello dell’apartheid, di un paese odioso e fascista che non voleva liberarsi dai pregiudizi razziali. Il nostro mondo a parte, invece, è quello di Livorno, la cui discriminazione non è però legata a sesso, razza o colore. A Livorno, nella politica locale, quello che si discrimina è il mondo esterno. Una dimensione di chiacchiere che tiene in piedi i protagonisti che l’alimentano e che si gonfia ed esplode proprio come la più classica delle bolle. La Darsena Europa. Si tratta di un’opera, una volta costruita con equilibrio e senso dell’innovazione, di cui il territorio ha bisogno. Nel mondo a parte, già dall’autunno dello scorso anno, la Darsena si concretizzava con una pioggia di milioni provenienti da Regione, Governo, Banca Europea degli Investimenti. Seguivano articoli di giornale in forma di coro laudatorio verso il Presidente della Regione (eh già, la campagna elettorale…) su visite a Bruxel- les che strappavano 200 milioni e cifre che si componevano velocemente. Addirittura, a gennaio, si sono dati per certi i fondi del piano Juncker quando ancora né l’Italia né la Germania vi avevano ancora aderito. E poi cosa dire del costo dell’opera? A gennaio, nei passaggi istituzionali pubblici si dibatte su una prima parte dell’opera attorno ai 650 milioni come dimensione ottimale per un porto come quello di Livorno a fronte di 1,37 miliardi previsti dal Prp votato. Lo stesso assessore regionale ai trasporti, Ceccarelli, parla di un’opera da 608 milioni che genererà circa 5000 posti di lavoro. Cita, in materia l’Irpet, ma basta ricordare che il rigassificatore (oltre 800 milioni di investimenti) ha generato una trentina di posti di lavoro per tecnici specializzati. Ma si sa quante persone lavorano al porto di Rotterdam la cui superficie, secondo alcune stime, è di gran lunga superiore a quella dei porti italiani messi assieme? Nel 2008 erano stimati in 1207. Quale è la vera cifra chiesta nella presentazione del progetto a Bruxelles? Testimoni oculari giurano che si è parlato di 1,4 miliardi, altro che 650 milioni. Siccome i testimoni possono essere considerati di parte, citiamo sia il Fatto Quotidiano che Greenreport (che è molto più vicino al centrosinistra rispetto al giornale di Travaglio) che parlano di 800 milioni per la prima parte dell’opera. Qui sia il Fatto che Luca Alterini di Greenreport citano le stesse cifre e la stessa tempistica dei lavori. Ma insomma, quanti milioni? Quanti posti di lavoro? E come? La differenza tra mondo a parte e mondo esterno, come vediamo, sulla Darsena Europa viene mantenuta con passione e rigore: al momento in cui progetto e realtà devono avvicinarsi, danzano cifre di ogni tipo. Comprese quelle di un numero di posti di lavoro, tra indotto e diretti, senza dimenticare la questione dei fondali. Succede infatti che il Consiglio Comunale abbia votato un Prp con un progetto a meno 17 metri e poi dopo qualche mese Rossi vada a Bruxelles a dichiarare: “Si fa come dico io o nulla. I fondali devono essere 20 metri”. Posizione smentita subito dai terminalisti che hanno subito dichiarato che tra i 16 e i 18 metri bastano e avanzano visto il ruolo del nostro scalo nella geografia europea dei porti. Anzi, è notizia di questi giorni che mentre Rossi fa il Faraone a Bruxelles, alcune compagnie di navigazione si sono recate in Autorità Portuale per chiedere informazioni e dettagli circa il dragaggio dell’attuale porto. Le loro navi non riescono ad entrare a Livorno oppure ci entrano “alleggerendo” in parte il carico nel vicino porto di La Spezia, con conseguenti aggravi di costi e perdita di traffici per il nostro scalo. E nessuno dice che più che sui fondali i veri investimenti vanno fatti su gru e mezzi in banchina. Asa Spa. E cosa dire di Asa? L’operazione di fusione con Gaia (la società tutta pubblica che serve la Versilia e il nord della Toscana) è stata commentata, in diverso modo, dal presidente Del Nista e dal sindaco di Livorno. Per non parlare del Pd livornese che, essendo l’attivissimo sindaco di Camaiore renziano per l’acqua pubblica, si è sentito fuori gioco. Sono venute fuori ipotesi di ogni genere, tra public company con azionariato popolare e equilibri quasi mistici tra pubblico e privato giusto per accontentare tutti. Ecco poi, dopo il mondo a parte livornese che vive di ipotesi e di polemiche, che fa di nuovo capolino il mondo esterno. Il governo Renzi, tramite la stampa, fa uscire le anticipazioni delle norme sull’acqua che dovrebbero essere contenute nella legge di stabilità. Il combinato Sblocca Italia - politiche delle Regioni - legge di stabilità precedente prevede: a) gestione... (continua a pagina 4) 2 internazionale anno X, n. 108 MEDIO ORIENTE - Report dalla carovana che ha portato aiuti alla città distrutta dall’Isis FRANCO MARINO I l nome non lascia dubbi: “Carovana 15 settembre per Kobane”. È con questo nome che una novantina di attivisti, quasi tutti italiani tra cui otto livornesi, sono partiti alla volta del Kurdistan turco al confine con la Siria per portare aiuti alla città di Kobane: soldi raccolti dall’associazione Mezzaluna Rossa Kurdistan Italia onlus per ricostruire una scuola che sarà intitolata ad Antonio Gramsci, medicinali e alcuni software per macchinari sanitari. Una missione andata a buon fine, non senza difficoltà dovute all’ostilità del governo e dell’esercito turco. Perché oltre alla ricostruzione di Kobane in una data storica, il 15 settembre, in cui Isis iniziò l’attacco alla città del Kurdistan siriano (ora Rojava), la carovana aveva come missione anche quella di far sentire la propria presenza in un momento di ripresa del conflitto turco-curdo e di denunciare la sistematica violazione di ogni diritto da parte dello stato turco nei confronti del popolo curdo. Kobane e il Rojava Il 15 settembre del 2014 Daesh (Isis) attaccava la città curda di Kobane nel nord della Siria a pochi chilometri dal confine della Turchia. Nel gennaio 2015 Isis veniva respinta e sconfitta, per la prima volta dopo mesi in cui avanzava dall’Iraq alla Siria orientale senza trovare nessun ostacolo. Questa volta invece, grazie all’organizzazione e al coraggio delle milizie curde Ypg e Ypj (la milizia composta da sole donne) e nonostante l’atteggiamento della Turchia che impediva ad altri guerriglieri curdi di unirsi alla resistenza, Isis fermava la sua avanzata. È stata in questa occasione che l’Europa ha scoperto l’esistenza dell’importante fronte curdo e dell’esperienza del confederalismo democratico sperimentato nei cantoni del Rojava, la regione curda nel nord della Siria. Si tratta di un tentativo di organizzazione politica e sociale in cui viene posta al centro la democrazia, il superamento di uno stato nazione e la coesistenza di diverse etnie e religioni. Il 15 settembre, ad un anno dall’attacco di Isis, la carovana avrebbe dovuto entrare a Kobane per consegnare direttamente gli aiuti ma il governo turco ha negato sia il passaggio di una delegazione sia la possibilità di manifestare alla frontiera. In caso contrario avrebbe chiuso le frontiere e penalizzato tutti coloro che per lavoro o per solidarietà la devono varcare ogni giorno. I profughi Suruc era il quartier generale della carovana. Città rurale a pochi chilometri dal confine siriano, è balzata improvvisamente alle cronache per due eventi: il primo è l’attentato con 33 morti del 19 luglio scorso mentre si svolgeva un incontro di giovani socialisti turchi giunti in città per contribu- Ricostruire Kobane! medio conclusasi con l’acuirsi della crisi negli ultimi 3 anni. Il presidente Erdogan, dopo 13 anni di potere, cercava la consacrazione alle elezioni del giugno scorso con l’ennesimo governo a maggioranza assoluta del suo partito La protesta della carovana per il mancato ingresso a Kobane Akp e con l’obiettivo del ire alla ricostruzione di Kobane, ad struita. Non abbiamo più nulla. Ma superamento del 60% per poter conopera di un kamikaze legato al va- se la Turchia continua ad ostacolare vocare un referendum e cambiare il riegato mondo che si ispira ad Isis. la ricostruzione e l’Europa continua sistema politico del paese. Il suo diIl secondo invece è la presenza di ad alimentare guerre il problema segno però non è andato in porto e campi profughi che sono arrivati ad non si risolverà mai. Noi non vo- non ha raggiunto nemmeno la magospitare oltre 100.000 persone in gliamo venire a casa vostra. Dateci gioranza assoluta per due principali fuga dalla Siria. Il primo giorno la la possibilità di tornare nella no- motivi: la perdita di voti a destra a carovana ha visitato tre campi pro- stra”. Ha poi aggiunto con orgoglio causa della “normalizzazione” delfughi gestiti direttamente dalle au- come gli unici aiuti che ricevono la questione curda che invece intetorità locali curde. All’ingresso tanti sono da parte dei curdi emigrati in ressa molto ai nazionalisti turchi e bambini festosi ad attendere la dele- Francia e Germania e da parte delle l’exploit di Hdp, il partito della sinigazione che ha poi stra curda incontrato gli abiche ha supeBambini sulle barricate antiesercito nel quartiere Sur a Diyarbakir tanti del campo. Nei rato lo sbarcampi, che potevano ramento del ospitare anche fino a 10% e ha riscosso molto 10.000 persone, balsuccesso anzava subito agli ocche nelle chi che molti spazi grandi città predisposti per tendove ha conde o container erano vogliato tanti vuoti. Infatti la magvoti di giovagior parte dei profuni e della sinighi erano andati via: stra turca in chi aveva la casa in crescita con il piedi era tornato a protagoniKobane dopo che le smo di lotte e milizie curde la avevano riconquistata. Altri, in partico- autorità locali curde, mentre la Tur- movimenti come quello di Gezi lare chi aveva soldi per il viaggio e chia di loro se ne frega. La Turchia Park. Ora la Turchia si sta avviciun titolo o una professionalità spen- gestisce invece, sempre nella zona di nando alle elezioni anticipate di nodibile in Europa, si sono diretti ver- Suruc, un campo profughi che ospi- vembre e Erdogan ha bisogno di so l’Ungheria. Chi è rimasto in que- ta 30.000 persone, quasi tutte arabe. acuire la questione curda per recusti piazzaloni pieni di terra e polve- Nonostante la richiesta della caro- perare i voti nazionalisti. La protere a dormire in tendoni sotto il sole vana di poterlo visitare, le autorità sta curda è tornata a salire anche cocente di un clima predesertico turche hanno negato ogni possibili- dopo il terribile massacro del kamità. Dalle testimonianze di persone kaze a Suruc dove fin dall’inizio le che lo hanno visto emerge che si autorità turche sono state accusate tratta di un campo militarizzato a di connivenza e di alimentare una cui è difficile accedere e con possibi- “strategia della tensione”. Molte lità di spostamento limitato per chi città del Kurdistan turco hanno poi dichiarato la propria autonomia ci viene ospitato. causando una violenta reazione da Il conflitto turco-curdo Proprio in queste ultime settimane parte dell’esercito che ha assediato si è riacceso in modo pesante il con- alcune città causando decine di flitto turco-curdo che sembrava av- morti civili. viato verso una “normalizzazione” Diyarbakir e Cizre quando nel 2013 Ocalan dalla pri- È in questo contesto che la carovagione dove sconta una sentenza na ha chiesto ai compagni curdi di sono coloro che non hanno più una all’ergastolo aveva inviato, nel gior- poter raggiungere le città di Diyarcasa a Kobane ma nemmeno soldi no della festa del Newroz, un docu- bakir (Amed per i curdi) e Cizre soto competenze per rischiare il viag- mento in cui annunciava il cessate il toposte a violenti attacchi da parte gio in Europa. Un anziano del pri- fuoco e il ritiro dei guerriglieri del dell’esercito, per poter testimoniare mo campo profughi visitato è stato Pkk (Partito dei Lavoratori Curdi, e filmare cosa stesse succedendo. chiaro: “La mia famiglia è compo- di ispirazione marxista) oltre i confi- Dopo qualche tentennamento dosta da 5 bambini piccoli, quattro ni. Nel frattempo però il quadro po- vuto agli evidenti pericoli, la caroadulti e due anziani. Noi vorremmo litico è cambiato. Una sostanziosa vana si è divisa in due gruppi che tornare a casa nostra ma la nostra parte della società turca si è risve- mercoledì 16 settembre si sono dicasa è distrutta. Siamo qui ad aspet- gliata dopo anni di politiche liberi- retti verso le due città. La delegaziotare che Kobane possa essere rico- ste e la sbornia da crescita del ceto ne di Cizre, dopo essere stata ferma- Il governo turco ha impedito ad una delegazione della carovana di entrare a Kobane per portare gli aiuti ta due volte dall’esercito turco, è riuscita ad arrivare in città accolta da oltre 300 compagni curdi di Hdp, per poi partire in un corteo con le madri dei ragazzi uccisi in questi giorni. La seconda delegazione invece ha raggiunto Diyarbakir dove durante la giornata ha incontrato parlamentari curdi, dirigenti dei partiti Hdp e Dbp e il gruppo femminista Kja (Congresso delle Donne Libere). Nonostante l’alto profilo istituzionale di queste persone, tutte hanno raccontato di aver fatto anni di prigione e di temere di essere riarrestate ora che il conflitto si è riacceso e dopo che molte città curde hanno dichiarato l’autogoverno. La sera invece la delegazione ha raggiunto il quartiere di Sur, zona popolare e calda della città e teatro di violenti scontri nei giorni scorsi. Mercoledì 16 settembre sera era il primo giorno in cui non era imposto il coprifuoco e la carovana è stata accompagnata dagli abitanti del quartiere a vedere i vicoli dove si trova la testimonianza diretta dei violenti scontri: barricate distrutte, teli anticecchino agli angoli delle strade, muri pieni di buchi da razzi esplosi e colpi di mortaio, edifici dati alle fiamme. La carovana ha poi co- Il conflitto turcocurdo è riesploso nella dimensione che fa comodo a Erdogan in vista delle elezioni anticipate nosciuto il comitato di autodifesa del quartiere. Una giornata intensa e con la possibilità di ascoltare e vedere in prima persona le condizioni di guerra e repressione in cui sono costrette a vivere milioni di persone nel Kurdistan turco. Come ha detto una delegata del comitato di autodifesa di Sur: “Noi non vogliamo uccidere nessuno e abbiamo un’etica anche quando impugnamo le armi. Noi vogliamo vivere in pace e come ci ha insegnato il presidente Ocalan. Noi non attacchiamo nessuno ma se qualcuno ci tocca siamo pronti a reagire”. Per concludere un’ultima, ma non per importanza, questione: una volta tornati a casa molte persone ci hanno chiesto “come sono i curdi?”. Per rispondere basta dire che la carovana ogni giorno ha incontrato esponenti di partito, parlamentari e rappresentanti istituzionali e ogni volta ce li hanno presentati come “copresidente”, “cosegretario” o “covicesindaco”. Perché in Kurdistan per ogni carica istituzionale o politica ci deve essere obbligatoriamente un maschio ed una femmina. Hanno da insegnare molto a molti, non solo in medio oriente. Foto: Rojava Calling Ottobre 2015 3 interni POLITICA - L’annunciata svolta nella governance della portualità presenta molti lati oscuri Porti italiani. Verso quale riforma? TERRY MCDERMOTT L a vicenda della riforma dei porti italiani è una storia stile prima repubblica. Si parla di una riforma arrivata quasi ad essere approvata per decreto lo scorso anno. Per poi essere stata respinta nel binario, di parcheggio, della commissione dei saggi. Nel frattempo è saltato il ministro dei trasporti, assieme al direttore generale del ministero, giusto negli scontri tra bande. Legate alla riforma, agli equilibri di maggioranza, ai rapporti di forza nazionali e continentali. Dopo che Lupi è saltato, avendo dato più volte per “imminente” la riforma, è toccato a Del Rio. Il quale, dopo aver ristretto la capacità di spesa del ministero, e tentato di bloccare le procedure di moltiplicazione della spesa ma anche degli investimenti, si è buttato, anche lui, sulla riforma. E, con l’arrivo dell’autunno, arriva anche l’annuncio: “sulla riforma della portualità siamo finalmente arrivati, il decreto di riordino della governance di funzionamento dei porti è pronto, lo farò vedere presto al Consiglio dei Ministri. Il 2016 dovrebbe essere l’anno in cui tutte le cose saranno messe in ordine”. Sono parole del Ministro per le Infrastrutture Graziano Delrio che, nella seconda metà di settembre, ha riunito la stampa a La Spezia per inaugurare un cantiere e annunciare la novella. C’è un però: la definizione del regolamento CIRO BILARDI I l 22 settembre scorso il Ministro della Salute Beatrice Lorenzin ha illustrato i dettagli del cosiddetto “Decreto appropriatezza”, ovvero una lista di 208 prestazioni specialistiche e diagnostiche che potranno essere gratuite solo a determinate condizioni. Ad esempio gli esami del colesterolo o dei trigliceridi potranno essere ripetuti prima di cinque anni solo per pazienti ultraquarantenni o con particolari fattori di rischio; l’odontoiatria verrà riservata ai minori di 14 anni e ai soggetti vulnerabili. Per i medici che non rispetteranno la normativa sono previste sanzioni patrimoniali. Le associazioni di tutela sono contrarie, e i sindacati dei medici sono sul piede di guerra: protestano per la pesante ingerenza governativa sull’autonomia dei professionisti e soprattutto per le sanzioni. Gino Strada ha commentato: “Chi decide se un esame è inutile, la Lorenzin?”. In effetti Beatrice Lorenzin è un personaggio straordinario: nel suo curriculum ha un diploma di maturità classica e un’esperienza politica come responsabile dei giovani di Forza Italia, che l’ha delle concessioni, vitale per il funzionamento dei porti e delle economie locali. Quanto, appunto, al regolamento sulle concessioni, il ministro ha osservato che “non è mai stato fatto per venticinque anni”. Osservazioni che, in politichese, indicano che ci sono ancora conflitti, in sede ministeriale, e che diversi rapporti tra poteri vanno appianati. E infatti Del Rio aggiunge: “Lo abbiamo preparato, è già pronto nella sua interezza, finalmente avremo un regolamento nazionale sulle concessioni, così non ci saranno più discrezionalità. Proroghe? Il regolamento stabilirà le condizioni in cui saranno legittime”. E così tra una riforma della portualità che, anche stavolta, vuol passare per decreto e un regolamento delle concessioni, e un sistema di proroghe, ancora da definire, il governo entra nell’autunno. Un sistema da prima repubblica, decreti e ministri che saltano, con uno schema da seconda: si procede su punti essenziali per decreto, il Parlamento è un optional, e si riducono modalità e capacità di spesa secondo i desideri di Bruxelles (eh già..). Per cui, come abbiamo visto, porti come Livorno devono andare a caccia di project-financing in Europa con modalità tutte da definire e incerte fortune nel modo con i quali, questi project financing, impatteranno su Livorno. Lo stesso Del Rio, quando parla di “concentrarsi sulle priorità” nel finanziamento delle infrastrutture, dice chiaramente, anche atti del ministero alla mano, che la tendenza al finanziamento pubblico dei porti è in calo. E che le procedure, tra l’altro, sono meno celeri grazie anche al sac- cheggio dei governi Berlusconi (vedi legge Lunardi). Ma quale è il profilo reale di questa riforma dei porti? Fino all’inizio di quest’anno sembrava tutto pronto. Ma la dimissioni di Lupi avevano mandato in ghiaccio un progetto che, nonostante l’esibizione della tempistica cara al renzismo, alla fine non era chiaro nemmeno per gli stessi promotori: privatizzare le Autorità Portuali? Portare il numero delle Authority da 24 a 16 con relativi accorpamenti? Creare un’unica Agenzia Nazionale? Scontri, confusioni, colpi bassi, pressioni categoriali, guerre tra bande nel settore avevano reso le risposte a queste domande sempre più vaghe. Liberisti ma divisi e confusi, insomma. Oggi, secondo le indicazioni fatte filtrare dal Ministro alle Infrastrutture e ai Trasporti Graziano Delrio, che ha ripreso l’iniziativa, la riforma dovrebbe prevedere una riduzione da 24 a 14 delle autorità portuali sotto la direzione di un’agenzia generale unica per i porti e la logistica. In più si parla di una consistente riduzione del numero SANITÀ - Il governo continua a smantellare il servizio pubblico Assalto a Fort Apache portata in Parlamento nel 2008. Nel 2013 è passata al Nuovo Centrodestra ed è stata premiata con la carica di Ministro della Salute nel governo Letta. Riconfermata da Renzi, l’anno scorso potevamo liberarcene ma - ahinoi - alle elezioni europee è stata trombata. La figura del ministro fa capire chiaramente quanto conti la sanità nella politica italiana di oggi, ma tutto sommato è un aspetto marginale, e il poco spazio che abbiamo è meglio dedicarlo alla questione dell’appropriatezza delle prestazioni, che è molto interessante e delicata. Attualmente le dimensioni della spesa per esami e prestazioni inutili è uno dei principali fattori di instabilità finanziaria del sistema pubblico. Quali sono le cause? La prima è che il medico di famiglia, che non è un dipendente del servizio pubblico ma un convenzionato, ha tutto l’interesse a “largheggiare” nelle prescrizioni. Si dimostra scrupoloso nei riguardi del paziente, si mette le spalle al coperto rispetto alle responsabilità per un’eventuale diagnosi sbagliata (la cosiddetta “medicina difensiva”) e magari accetta pure qualche omaggio dagli “informatori” delle case farmaceutiche. Queste ormai da anni hanno scoperto che è molto più redditizio vendere farmaci per malattie inventate piuttosto che cercare rimedi per quelle vere, e investono molto di più nel marketing che nella ricerca. Il risultato è che nei paesi poveri (che non possono pagare) mancano anche i farmaci essenziali, mentre al nord c’è un problema di overdose di farmaci ed esami inutili. I media sparano notizie su false emergenze (Aviaria, Sars...) e fanno passare un concetto distorto di prevenzione: fare gli esami più svariati per controllarsi di continuo. Così nei paesi ricchi il paziente, reso ipocondriaco dai media, sceglie il medico in base alla quantità di esami e farmaci che “segna”. Al medico sta bene così, e questa sarebbe la dignità professionale che si vuole difendere... Quindi il problema dell’appropriatezza, se lo si affrontasse tenendo conto di questo contesto, sarebbe una bella sfida e una battaglia politica di primo livello. Ovviamente invece i decreti della Lorenzin e di chi l’ha fatta ministro tendono solo a spostare una quota di mercato dalla sanità pubblica a quella privata. Lo scrivevamo già qualche mese fa su queste pagine: chi ha un bisogno sanitario (vero o indotto) e non trova soluzione nella dei membri dei comitati di gestione che passeranno da 340 a 70. Questo e poco più: perché tutta la questione dei rapporti di forza tra agenzia generale e autorità portuali, oggetto di scontro serio tra diversi soggetti del settore e pezzi di ministero, deve essere ancora definita. Un po’ per rimanere fuori dalle polemiche sui media, quelle che ti fanno cambiare politica anche se non vuoi, un po’ per definire gli scontri interni alla categoria. Come andrà a finire? Sicuro è che sarà più difficile, specie con una Ue che lavora per un mercato unico Si procede su punti essenziali per decreto, il Parlamento è un optional, e si riducono modalità e capacità di spesa secondo i desideri di Bruxelles dei capitali per le infrastrutture, finanziare pubblicamente le opere. E che i territori pagheranno pegno per questo. Sicuro che ci sono meno fondi italiani, vista anche la restrizione delle opere strategiche e correlate. Il resto, lo vedremo quando sarà chiaro chi uscirà vincitore dal ring del ministero. sanità pubblica, se ha disponibilità economica si rivolge al privato, altrimenti ci rinuncia. Nel primo caso alla lunga gli converrà stipulare un’assicurazione sanitaria, ma a quel punto non sarà più disposto a pagare le tasse per finanziare un servizio che non gli serve. Il servizio pubblico avrà sempre meno risorse e dei poveri si occuperanno le suore come nell’800. La soluzione sarebbe invece quella di rafforzare in modo molto significativo la prevenzione vera, quella che punta a ridurre drasticamente i fattori di rischio (ambientali, comportamentali etc.), l’educazione alla salute e la medicina di prossimità, riaprendo consultori in tutti i quartieri e potenziando la presenza di personale sanitario sul territorio. In questo modo la spesa per la diagnostica e per i farmaci si ridurrebbe ai minimi termini, ma anche i profitti di Big Pharma e di qualche altro... L’obiettivo dei nuovi decreti non è l’“appropriatezza” ma spostare una quota di mercato dalla sanità pubblica a quella privata 4 Livorno anno X, n. 108 ACQUA PUBBLICA - Torna alla ribalta il dibattito sulla gestione del Servizio Idrico a Livorno N elle settimane scorse abbiamo assistito a dichiarazioni su una futuribile alleanza Gaia/Asa da parte del Presidente Asa, del sindaco di Capannori (proprietario del 10% di Gaia) e del sindaco di Livorno (proprietario del 36,5% di Asa). Ci sono diversi modi di intendere tali dichiarazioni. C’è intanto da tenere presente che la Toscana è orientata verso l’unificazione sia degli Ato sia del gestore e che l’ipotesi di accorpare territori come Livorno e Massa/ Carrara/Camaiore potrebbe significare rafforzarsi per poter poi reggere l’urto dell’unificazione. Ma al tempo stesso potrebbe voler dire avviare una privatizzazione anche di Gaia che al momento è a totale capitale pubblico e spianare la strada per la vera privatizzazione a favore di Acea (o Iren) a livello regionale. Né Del Nista, né i sindaci, hanno presentato un vero progetto di fusione, al momento solo dichiarazioni. Renzi vuole i privati. Questo improvviso botta e risposta avviene in un momento in cui a livello nazionale il governo Renzi si appresta a varare la nuova legge di stabilità che immetterà un tetto al numero delle partecipate gestite dagli enti locali e che introdurrà un limite alla quota pubblica nel loro capitale sociale, servizio idrico compreso con ulteriore spinta verso altre privatizzazioni. I referendum del 2011 avrebbero dovuto fermare tutto questo, invece la politi- (segue da pagina 1) ... centralizzata delle Ato (Sblocca Italia); b) tentativo di costituzione di una singola Ato regionale per il solo scopo di essere appetibile per grandi investimenti (con alto costo per il cittadino come già avvenuto ovunque in Europa); c) incentivo alle privatizzazioni (legge di stabilità precedente) tanto che chi privatizza può spendere i fondi ricavati fuori dal patto di stabilità (quello che strangola i comuni). Ma non basta: mentre il mondo a parte dibatte, nel mondo esterno emergono ipotesi sulla stampa nazionale che metterebbero in discussione sia l’esistenza di Asa pubblica ma anche del grande malato delle partecipate livornesi: Aamps. Non a caso, dalle colonne del Sole 24 Ore, il solito soldatino neoliberista Fassino ha benedetto l’operazione, finora mantenuta tra le ipotesi in pole position per diventare norma. Per approfondire su Asa rimandiamo all’articolo qui sopra. Governo privatizza tutto. Già, ma cosa ha benedetto Asa, Gaia o... Acea? ca nazionale continua in quella direzione, sia che si parli di centrodestra sia che si parli di centrosinistra. Anche a Livorno, nel 2011 capoluogo di provincia con la più alta affluenza alle urne d’Italia, rispetto alla ripubblicizzazione di Asa niente si è fatto, anzi. La gestione dell’azienda è andata totalmente dalla parte opposta a quella richiesta dagli elettori. Asa tra privati e finanza. In questi 4 anni Asa ha continuato ad avere capitale privato ed in più ha assunto spiccati connotati finanziari ed ha esternalizzato l’esternalizzabile ed anche di più. Nei bilanci 2013 e 2014 questa fervida attività finanziaria è evidenziata più volte. Nel 2013 Asa vende una società di sua proprietà (Asa Trade) ed immette tutto il controvalore dell’operazione in un fondo a garanzia di un project financing stipulato 5 anni prima. Lo stesso project financing di cui si può leggere nella nota integrativa dell’ultimo bilancio “Relativamente ai contratti derivati a copertura del rischio di tasso derivante dal contratto di finanziamento …”. MPS Capital Service € 9,2 milioni, UNICREDIT Corp Banking € 9,2 milioni, Banco Popolare € 3,8 milioni, Centrobanca € 5,7 milioni – Decorrenza 31.07.10 Scadenza 31.12.25. Con un Fair Value che sembra positivo. Non si sa cosa c’entra tutto questo con la gestione del servizio idrico e come mai i 78 milioni di euro di project financing non hanno fatto da volano agli investimenti, così come dichiarava Del Nista all’epoca del piano di bancabilità. Così come si fa fatica a capire perché Asa, che è concessionaria del servizio idrico, detiene ancora tra le proprie partecipazioni il 5,08% di Olt Offshore che quest’anno ha chiuso il proprio bilancio con € 62,8 milioni di perdita dimezzando in pratica il proprio capitale sociale, ma Asa ha comunque incrementato la propria partecipazione azionaria passando in bilancio da €4 milioni a €7,2 grazie all’impairment test (il procedimento di verifica delle perdite di valore delle attività iscritte in bilancio) effettuato nel 2014. La politica nazionale non ha dato seguito alla volontà degli elettori e Livorno non è immune da questo. Le dichiarazioni del sindaco. I pochi dati di bilancio elencati indicano inconfondibilmente che la finanza è entrata in Asa e negli ultimi anni si è evoluta. È anche con questo che dovrà confrontarsi chi deciderà sul futuro di questa azienda. Più volte il sindaco Nogarin si è espresso a favore di una ripubblicizzazione, ma gli 11 milio- Un mondo a parte Fassino come presidente Anci? Il fatto che il governo è pronto a fissare un limite, per le amministrazioni comunali, per il numero di partecipate possedute da un comune. Uno per il tipo ed anche il limite di quote che può possedere una amministrazione comunale. Tra legge di stabilità 2015 e 2016, politiche delle regioni, norme dello sblocca Italia allora cosa sta succedendo per l’acqua? Ce lo dice lo stesso Sole 24 ore che, in un articolo cerimoniale ha già delineato la strategia (denunciata anche da Marco Bersani di Attac sul Manifesto): quattro giganti dell’acqua privata già pronti (A2A, Iren, Hera e Acea), leva finanziaria pronta (Cassa Depositi e Prestiti, attraverso il fondo strategico italiano che così finanzia la privatizzazione dei beni pubblici), quadro normativo, con la nuova legge di stabilità, già pronto. Stupisce solo che dai territori non si alzino voci e strategie di resistenza. Altro che mondo a parte, visto anche che la riforma dei porti rischia di far dirigere lo scalo livornese, di fatto, a Roma. Asa e Aamps, e con loro la politica locale pubblica di acqua e rifiuti, potrebbero anche loro essere governate grazie alle decisioni di Roma. Dove la legge del profitto ad ogni costo non conosce sosta. Ospedale. L’entusiasmo con cui il sindaco Nogarin ha salutato l’annullamento dell’accordo di programma con la Regione per la costruzione del nuovo ospedale è comprensibile. Probabilmente è proprio sul nuovo ospedale che il Pd ha perso il Comune di Livorno e la questione ormai ha assunto una valenza simbolica che va oltre gli aspetti sanitari. Ma il semplice affossamento dell’operazione Montenero non può bastare: Nogarin non ha ancora trovato i soldi per la ristrutturazione di Viale Alfieri (e non ha nemmeno aperto un percorso partecipativo per scegliere il progetto più adeguato). Tirato per la giacca un po’ da tutti, mostra grande ottimismo, con il risultato di apparire stralunato. Nel frattempo, in un quadro nazionale di assalto al fortino della sanità pubblica, la legge di riforma voluta dal reuccio di Bientina, Enrico Rossi, sta rendendo ingestibile l’intero sistema regionale. La riduzione dei posti letto è già arrivata ben oltre la soglia della spending review, gli organici sono già all’osso ma si prevedono 2000 esuberi e il taglio dei servizi procede con gli stivali delle sette leghe. Del territorio e della prevenzione non se ne parla neanche più. I dirigenti sembrano aver rinunciato perfino a capirci qualcosa e il clima che si respira è da “io speriamo che me la cavo”. Se la caveranno, come sempre, i peggiori. Chi può se ne va e ai cittadini non resta che sperare nel referendum. Insomma, a Livorno il dibattito è fervente perché la rottura e la guerra tra amministrazione comunale e regionale continua, così come continuano gli annun- ni di euro di capitale sociale detenuto dal socio privato, ad esempio, male si sposano con tali dichiarazioni. Così come anche le banche che sono entrate nella gestione diretta dell’azienda tramite il project financing, probabilmente non sarebbero proprio d’accordo. Di certo sapere che a Livorno è cambiata la volontà politica rispetto alla gestione dell’acqua, è un inizio. Un inizio che però deve essere seguito da fatti concreti e non da dichiarazioni vuote. Fatti che potrebbero essere un cambio di rotta radicale nella gestione dell’azienda e l’apertura di un tavolo dove Amministrazione Pubblica, Forum Nazionale dei Movimenti per l’Acqua Pubblica ed ogni al- Si parla di fusioni e pubblicizzazione ma Asa è in mano a banche e finanza, serve invertire la tendenza tra realtà interessata possano confrontarsi seriamente con l’obbiettivo comune di rendere Asa più efficace, più pubblica, più dei cittadini e senza l’obbligo di fluttuare all’interno dei mercati finanziari per poter sperare di sopravvivere. Andrea Gualtieri - Attivista Movimenti Acqua Pubblica ci dei 5 Stelle (vedi Aamps o Asa), che pur riconoscendogli il beneficio della complessità finanziaria e dell’eredità ricevuta, fanno fatica a diventare atti concreti e costruttivi. Poi ci sono gli interventi dei nuovi scagnozzi del Pd renziano, sempre strumentali e dissociati rispetto a quello che fa il loro governo. Infine il sindaco di Collesalvetti, che per i media locali è già il sindaco di Livorno aspettando il 2019 e che dalla collina si occupa anche di porto. Tutto questo mentre a livello nazionale si procede a colpi di decreto per privatizzare, centralizzare e tagliare. Ma nel mondo a parte di Livorno si assiste a dibattiti che vengono fuori con anni di ritardo e senza una strategia volta quantomeno a resistere all’attacco che Ue e governo nazionale portano ogni giorno al territorio, ai cittadini e ai servizi essenziali. Nel mondo a parte si parla di tutto, ma ci sfilano la sovranità sotto gli occhi senza colpo ferire. Senza Soste redazione 5 Livorno Ottobre 2015 CULTURA - Viaggio negli spazi andati irrimediabilmente perduti a Livorno La città dei cinema e dei teatri JERRY MANDERS P rima i bombardamenti aerei degli “amici” inglesi e americani durante la Seconda Guerra Mondiale. Poi le demolizioni dagli anni ‘60 ai nostri giorni per fare spazio a banche, supermercati, parcheggi. Senza tenere minimamente conto della storica funzione sociale e culturale svolta per lungo tempo verso i livornesi, né della validità di queste strutture da un punto di vista architettonico. Rapida carrellata dei principali spazi andati irrimediabilmente perduti che fecero di Livorno la città italiana con la più alta densità pro-capite di cinema e teatri. Cinematografo Artistico Primo cinema in pianta stabile a Livorno. Inaugurato il 3 giugno 1905, ubicato in via Grande e oggi trasformato in parcheggio, è ricordato perché ospitò la prima proiezione di un film a soggetto in Italia, “La presa di Roma” (il 17 settembre 1905). Nel 1907 mutò nome in Lux et Umbra e si presentava con un decoro bizantino, soffitto con stucchi d’oro, velluto rosso e illuminato con una miriade di lampadine elettriche. Infine prese il nome di “Cinema Moderno” nel secondo dopoguerra e fu chiuso il 12 gennaio 1984 quando entrarono in vigore normative che imponevano importanti e costosi interventi strutturali volti a scongiurare il pericolo di incendi. Il suo foyer è stato riqualificato e al momento è un negozio di abiti da sposa. Cinema Teatro Centrale Ubicato in piazza dei Carabinieri (oggi via dei Carabinieri), fu inaugurato il 9 dicembre 1911 e proponeva sia spettacoli teatrali che proiezioni cinematografiche. Nel novembre del 1912 uscì con 5.000 copie la rivista cinematografica “Il Centrale” nella quale si riportavano i sunti dei film e i programmi dei vari cinematografi di Livorno che facevano parte del “trust del chiodo” di quel momento, costituito da Lanciotto Lazzeri e Cesare Gragnani, così chiamato perché il loro accordo era pubblicizzato con la distribuzione di un gingillo formato da 2 chiodi incatenati. Rimase aperto fino agli anni ’60 quando, successivamente ad un delitto che si consumò all’interno dell’impianto (l’omicidio del custode Marzi, un evento che scosse a lungo la città), fu abbattuto per lasciare il posto alla Banca d’America e d’Italia (sostituita poi dalla Deutsche Bank). Cinema Odeon Inizialmente pensato per essere anche un teatro, con i suoi 2.500 posti ridotti a 800 dopo la restaurazione avvenuta nel 1998 è stato uno dei più grandi cinema in Italia. Costruito nel 1952 per volere della famiglia Gragnani, il progetto fu affidato a Virgilio Marchi. L’Odeon fu poi ceduto a Fortunato Marinari ed infine alla famiglia Lippi che lo ha gestito fino alla sua chiusura. L’ingresso aveva una forma semicircolare dal quale si accedeva al foyer. Da qui si raggiungeva il corridoio che precedeva la sala, con la sua pianta trapezoidale, passando da tre grandi porte. Ottimo era l’impianto acustico; belle e funzionali erano le scelte tecniche di tipo “futuristico” adottate dal Marchi. Il cinema è stato chiuso nel marzo del 2005 ed è stato soppiantato da un parcheggio per auto. Del cinema è rimasta solo la facciata d’ingresso. Salone Margherita Inaugurato il 17 maggio 1913 e ubicato in via Michon, fu costruito su progetto dell’ingegnere Carlo Frullani ed era di proprietà dei Signori Bolaffi, Borghetti, Romoli e Ferlazzo. Poteva ospitare 800 persone e fu il principale concorrente del Centrale al punto che dal 13 luglio 1913 si dotò anch’esso di una rivista cinematografica, “Il Programma”, con la quale si descrivevano le trame dei film e si pubblicavano tista Innocenzo Gragnani, si trovava in via dei Fulgidi. Presentava facciate eleganti e un portico costituito da tre archi sostenuti da pilastri e bozze e sormontato da altri pilastri scannellati di ordine ionico che sostenevano il frontespizio della facciata. Altri pilastri ornavano le parti laterali di tutto il fabbricato. Aveva 5 ordini e 130 palchetti, ognuno dei quali aveva uno stanzino di ritirata per offrire la massima comodità dei circa 1.000 spettatori. Spiccava per eleganza e comodità, per le bellissime scale, per l’atrio e il foyer con le cariatidi di Giovanni Duprè. La sala aveva una forma semicircolare intorno alla quale si trovavano bassorilievi e dorature. Il palcoscenico era vasto e proporzionato. Molto bello era anche il lampadario calato dal soffitto già acceso e ritirato a fine rappresentazione. Inaugurato con il Mosè in Egitto di Gioachino Rossini, condivise lo stesso triste destino del San Marco, con un lento declino e la distruzione avvenuta a seguito della Seconda Guerra Mondiale. Teatro Avvalorati Voluto dall’imprenditore Gaetano Bicchierai, fu edificato nel 1782 col nome di “Teatro degli Armeni” nel quartiere “della Venezia”, dove un tempo si trovava un magazzino detto “delle mummie”. Il suo nome era dovuto alla vicinanza alla Chiesa degli Armeni. Nel 1790 questo teatro prese il nome di “Teatro degli Avvalorati” (nome dell’accademia che ne assunse la gestione). L’esterno assunse l’aspetto definitivo nel 1867 quando fu costruita la nuova facciata rivolta verso il palazzo Comunale, costituita da tre piani e tre ingressi con finestre alternate da grandi Nella foto grande il Teatro degli Avvalorati. Sorgeva dove adesso c’è l’omonima via colonne ioniche. Oriche costeggia il fosso, parallela a scali delle Pietre. ginariamente dispoA sinistra il Politeama. Si trovava sugli scali Saffi, accanto alla “fabbrica del ghiaccio” e a due passi dal Mercato delle Vettovaglie. neva di 126 palchetti Qui sopra il Cinema Centrale. Si trovava nell’allora piazza dei Carabinieri (in seguisu cinque ordini con to via) nei pressi del più ampio e famoso teatro Rossini che si affacciava sulla una pianta a ferro stessa piazza. di cavallo, con una platea larga 15 metri e lunga 18 metri. Fu restaurato Costruito sugli Scali Saffi, vicino aprile 1806. Aveva 136 palchi sistepiù volte nel corso degli anni al Mercato Centrale, fu progettato mati in 5 ordini ed era uno dei più anche ad opera di artisti quali da Cesare Sacuto e realizzato con grandi ed armonici teatri d’Italia. Antonio Niccolini e Giusepuna intelaiatura di ferro e con un L’ingresso principale del teatro era pe Maria Terreni; in seguito, e pavimento amovibile per poter ac- sull’attuale via San Marco e si prefino allo scoppio della Seconda cogliere spettacoli di ogni genere: sentava con la loggia a tre archi con Guerra Mondiale, divenne una prosa, lirica, circensi. Questo gra- vestibolo frontale. Conobbe la sua sala cinematografica chiamata zie al tetto apribile che permetteva decadenza nei primi anni del ‘900 “Supercinema” dove si proietl’areazione durante i mesi estivi. e durante la seconda guerra montavano film in prima visione. Aveva una capienza di 3.000 posti diale fu usato come magazzino. Distrutto durante i bombardaorganizzati in 42 palchi disposti su Nel 1921 ospitò il primo congresso menti aerei, fu definitivamente 3 ordini. La platea era organizza- del Partito Comunista Italiano. Il demolito per far posto ad un ta in 7 file, dietro vi erano poste le Teatro San Marco fu abbattuto dal viale che tuttora prende il nome gradinate, illuminate da due grandi terribile bombardamento del 7 giudel cinema e congiunge il Pacandelabri. In alto 9 leggerissime gno 1944. lazzo Comunale a piazza della lumières collocate su un cornicio- Teatro Gragnani (o Rossini) Repubblica. ne che supportava 600 fiaccole che Chiamato così in onore del progetle programmazioni. Faceva concorrenza al trust Gragnani-Lazzeri. Ha resistito ai bombardamenti e per molti anni ha continuato l’attività proiettando film a luci rosse fino al 2012, anno in cui il cinema è stato definitivamente chiuso. In luogo del cinema, oggi potrebbe essere realizzato un supermercato. Teatro Politeama Finanziato dall’avvocato Vincenzo Mostardi Fioretti, il Politeama fu inaugurato il 24 giugno 1878. venivano accese grazie ad una “locomotiva” che correva nel perimetro del cornicione. Fu demolito nel 1968. Teatro San Marco Fu progettato dall’architetto Gargani che poi ne divenne unico proprietario dopo il fallimento della Società Dutremoul di cui era socio. Venduto all’Accademia dei Floridi nel settembre 1805, viene intitolato al figlio della regina d’Etruria Carlo Lodovico e inaugurato il 27 6 per non dimenticare anno X, n. 108 7 OTTOBRE 1985 - Trent’anni fa la crisi di Sigonella Quando l’Italia disse no a Reagan NELLO GRADIRÀ O re 13 del 7 ottobre 1985: sulla nave italiana da crociera Achille Lauro un membro dell’equipaggio scopre quattro uomini intenti a trafficare con armi da fuoco. Si tratta di un commando del Fronte per la Liberazione della Palestina che prepara un’azione di guerriglia nel porto israeliano di Ashdod. Dopo una sparatoria il commando s’impossessa della nave e prende in ostaggio i 201 passeggeri e i 344 membri dell’equipaggio. Per la loro liberazione chiede il rilascio di 50 palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Il giorno successivo viene ucciso il cittadino statunitense di origine ebraica Leon Klinghofer, un anziano paraplegico che risulterà l’unica vittima della vicenda. Le trattative, infatti, con la mediazione dell’Italia, dell’Egitto, dei leader dell’Olp Arafat e del Flp Abu Abbas, si concludono con la liberazione di tutti gli ostaggi in cambio di un salvacondotto per i quattro dirottatori. Il 10 ottobre questi salgono insieme ai mediatori dell’Olp su un aereo dell’Egyptair, che però viene intercettato da quattro caccia Usa. Dopo molte peripezie l’aereo viene autorizzato dal premier Bettino Craxi ad atterrare nella base NELLO GRADIRÀ L ’11 settembre è una data fatidica… Quel giorno, nel 1980, alle sedi torinesi di CgilCisl-Uil arrivano le raccomandate che annunciano 14.496 licenziamenti alla Fiat. Gli scioperi spontanei, i picchetti, le assemblee, che sono già in corso fin dalla riapertura delle fabbriche all’inizio del mese, si estendono a tutti gli stabilimenti. L’azienda cercava lo scontro frontale fin dall’anno precedente, quando aveva annunciato il licenziamento di 61 operai falsamente accusati di complicità con il terrorismo. E a maggio Umberto Agnelli aveva lasciato la carica di amministratore delegato a Cesare Romiti, l’”uomo forte” che avrebbe dovuto gestire lo scontro frontale con la classe operaia. Sono finiti i “trent’anni gloriosi” della crescita economica iniziati nel dopoguerra. Nel 1973 e nel 1979 le due grandi crisi petrolifere avevano segnato la fine del “compromesso fordista” e della grande fabbrica. Ma invece di spiegare la natura della crisi, Pci e sindacato avevano chiamato i lavoratori all’”austerità” in cambio di una nebulosa prospettiva di governo del paese. E il Pci, dopo la grande avanzata Nato di Sigonella, in Sicilia, dove arriva poco dopo mezzanotte. Craxi dà ordine alle forze armate di prendere in consegna l’aereo, e intorno al Boeing si schierano l’Aeronautica militare e i Carabinieri. Poco dopo però vengono circondati da 50 uomini della Delta Force Usa atterrati senza autorizzazione, che pretendono la consegna dei dirottatori e di Abu Abbas, considerato il mandante dell’azione. Arrivano altri Carabinieri che li circondano a loro volta e la tensione sale alle stelle. Reagan infuriato telefona ai più autorevoli esponenti del governo italiano ma Craxi non cede: il delitto è avvenuto su una nave italiana, i dirottatori si trovano sul territorio italiano e verranno giudicati in Italia. Inoltre non esistono prove certe del coinvolgimento di Abu Abbas. Alle 5.30 i militari nordamericani si ritirano. I dirottatori vengono arrestati e l’aereo con i mediatori si dirige a Ciampino. Viene di nuovo seguito da aerei Usa che cercano di dirottarlo per catturare Abu Abbas, ma vengono dissuasi dai caccia italiani. Alle 23.10 il Boeing arriva a Roma, ma un altro aereo Usa, atterrato dopo aver dichiarato una falsa emergenza, si mette di traverso sulla pista. L’ammiraglio Martini, capo del Sismi, gli intima di sgombrare entro cinque minuti, dopo di che verrà rimosso con un bulldozer. Gli statunitensi se ne vanno e i mediatori dell’Olp voleranno a Belgrado. Il Ministro della Difesa repubblicano Spadolini, esponente della fazione più filo-americana e filo-israeliana della maggioranza, chiede le dimissioni di Craxi, ma il governo riceve l’appoggio del Partito Comunista e della Dc di Andreotti e Cossiga. Abu Abbas, rifugiatosi in Iraq, verrà condannato in contumacia dai giudici di Genova per il dirottamento, sulla base - si legge su Wikipedia - “di documentazione statunitense e israeliana”. Catturato dai nordamericani durante la guerra nel Golfo nel marzo 2003, morirà un anno dopo in un carcere presso Baghdad per un “attacco cardiaco”. L’incidente di Sigonella non pregiudicò i buoni rapporti tra Italia e Usa: secondo Cossiga, nel 1986 Craxi per farsi perdonare concesse all’alleato l’utilizzo della base per i bombardamenti sulla Libia, salvo poi avvertire Gheddafi dell’imminente attacco. L’episodio avvenne in un periodo di passaggio tra la cosiddetta prima Secondo i soliti “complottisti”, Mani Pulite è stata la vendetta statunitense contro Craxi per lo smacco subito OTTOBRE 1980 - I 35 giorni della Fiat e la “marcia dei 40mila” La fine dell’operaio massa Ritratto di Marx a Mirafiori del 1975-’76, aveva subito nel 1979 la prima sconfitta elettorale dopo trent’anni. Dopo l’11 settembre 1980 alla Fiat la mobilitazione cresce, e due settimane dopo c’è lo sciopero generale nazionale dei metalmeccanici. Al corteo di Torino ci sono 100mila persone, e il giorno dopo il segretario del Pci Berlinguer ai cancelli di Mirafiori garantirà l’appoggio del suo par- tito in cambio dell’occupazione della fabbrica. In realtà il Pci e la Cgil hanno già deciso che la classe operaia dovrà capitolare. Basta leggere alcuni stralci di un’intervista rilasciata due anni prima da Luciano Lama, segretario della Cgil, a Repubblica per rendersene conto: “Sì, si tratta proprio di questo, il sindacato propone ai lavoratori una politica di sacrifici. Sacrifici non marginali, ma sostanziali”. Lama contrapponeva occupati e disoccupati (“se vogliamo esser coerenti con l’obiettivo di far diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli operai occupati deve passare in seconda linea”) e apriva le porte ai licenziamenti (“c’è un certo numero di aziende che ha un carico di dipendenti eccessivo. Non si tratta di cifre terribili, ma neppure esigue. Siamo nell’ordine di parecchie decine di migliaia di lavoratori”). Sabato 27 settembre cade il governo Cossiga. La direzione della Fiat, “per senso di responsabilità” rinvia i licenziamenti ipotizzando il ricorso alla cassa integrazione. Si tratta di una repubblica e la seconda. Nei decenni del regime democristiano la politica estera italiana, dettata soprattutto da Giulio Andreotti, tendeva a mantenere buoni rapporti con il mondo arabo. Dopo Tangentopoli, con il disfacimento dei tre grandi partiti di massa, prevarrà invece una visione ferocemente atlantista e filosionista. Secondo i soliti “complottisti”, Mani Pulite sarebbe stata la vendetta statunitense contro Craxi per lo smacco subito a Sigonella, e negli ambienti della destra fascistoide quell’episodio viene esaltato come l’ultimo (o l’unico) esempio di dignità nazionale di fronte agli Usa dal dopoguerra ad oggi. I “manettari”, tra i quali il divetto Marco Travaglio, hanno invece accusato il malvagio Craxi di complicità con il terrorismo, laddove per Travaglio “terroristi” sarebbero l’Olp, Arafat e i palestinesi in generale. A dimostrazione di come oggi in Italia né stampa né politica mainstream riescano ad uscire dal recinto della sudditanza “atlantica”. manovra per sfiancare i lavoratori e dividerli. Il 30 settembre la Fiat comunica che verranno messi a zero ore più di 22mila lavoratori. L’assemblea dei delegati decide di proseguire la lotta e si continua con il blocco totale dei cancelli. Ma il 14 ottobre ci sarà un episodio che condizionerà l’esito della mobilitazione: i capi e i quadri intermedi della Fiat, supportati dall’azienda, si danno appuntamento al Teatro Una sconfitta decisiva che chiuse un ciclo decennale di lotte operaie Nuovo e fanno partire un corteo che attraversa la città. Si dirigono verso corso Marconi e sfilano sotto la sede della Fiat per dimostrare la propria fedeltà al padrone. Oltre ai capetti, che alla Fiat non sono più di 15mila, scendono in piazza i bottegai e la destra. Passerà alla storia come la marcia dei 40mila, anche se i telegiornali della sera parlano di 20mila. Neanche La Stampa, il giornale della Fiat, avrà il coraggio di riportare questa cifra, fermandosi a 30mila. Parte una grande campagna mediatica sulla “storica giornata”, punto di svolta nelle relazioni sindacali, e “sarà Repubblica di Scalfari - scrive Claudio Vainieri - il giornale che più di ogni altro santificherà la marcia dei 40.000”. Per i sindacati è un’opportunità da non perdere per gettare la spugna: anziché organizzare una contromanifestazione per contarsi, il giorno dopo firmano l’accordo con cui si mandano in cassa integrazione 22.000 lavoratori e si decide la riapertura della fabbrica. Gli operai non ci stanno, le assemblee respingono l’accordo. Ma i burocrati sindacali annunciano che è stato “approvato a larga maggioranza”. La direttiva di Fassino, all’epoca responsabile Pci per il settore fabbriche, è di “far passare l’accordo a tutti i costi”. Poi parleranno di una vittoria della classe operaia… L’anno successivo i dipendenti Fiat sono 27.300 in meno, nel 1985 36.000 in meno. E per tutti gli anni ’80 si conterà un numero impressionante di suicidi (circa 200) tra gli operai licenziati. Ottobre 2015 7 stile libero LETTURE - “Per il bene che ti voglio”: il secondo romanzo del livornese d’adozione Michele Cecchini Q uello tra Livorno ed il libro è un rapporto ormai da tempo consolidato. Per la tradizione editoriale e libraria, ma anche per la prolifica produzione saggistica e letteraria. Michele Cecchini è uno scrittore di origine lucchese che da tempo vive a Livorno. Tra gli animatori a Lucca dell’esperienza dello spazio autogestito Il Mattaccio, dove si occupava delle attività culturali, co-fondatore del Cineforum Ezechiele 25,17 (realtà tuttora molto attiva), Michele nel 2010 pubblica il suo primo romanzo “Dall’aprile a Shantih”, con il quale ha aperto a Praga una rassegna dedicata agli esordienti italiani. Insieme a Ettore Borzacchini ha ideato, scritto e condotto il programma radiofonico “Aperte Virgolette”. Dopo la scomparsa del Borzacchini, Michele ha ripreso a metà della stagione successiva con un nuovo format radiofonico, “Saccadé”, in cui via via ospita suoi amici, tra i quali Bobo Rondelli, Pilade Cantini, Marco Malvaldi, Antonio Bardi, Daniele Caluri, Michele Crestacci e molti altri. Lo scorso 15 aprile è uscito il suo secondo romanzo, “Per il bene che ti voglio”, che ha avuto un’ottima accoglienza: il giro di presentazioni sta attraversando tutta l’Italia e il romanzo è stato ‘Libro del giorno’ a “Fahrenheit”, la trasmissione in onda su RadioTre. Lo abbiamo incontrato sui gradoni della Curva Nord dello stadio Armando Picchi e ne abbiamo approfittato per parlare del suo libro. Partiamo da Livorno. Perché? Quello a Livorno è stato, per così dire, un passaggio per me necessario ma non dettato dalle circostanze. A volte, semplicemente, capita di riconoscere i luoghi con cui si percepiscono affinità. E per quello che riguarda la mia piccola esperienza, posso confermare che Livorno è una città accogliente: mi ha aperto spazi e mi ha offerto opportunità. Con il tempo, poi ho provveduto al trasferimento professionale (adesso è docente di materie letterarie in un istituto superiore in città, ndr). Non escludo di spostarmi ancora, in futuro. Magari all’estero, chissà. Spostarsi fa bene, aiuta a crescere e a vedere le cose da una prospettiva sempre nuova. Questo romanzo, come il primo, è edito dalla casa editrice Erasmo. Anche questa è una scelta che ha a che fare con Livorno. Ho avuto la fortuna, tramite un amico comune, di conoscere Franco Ferrucci, editore e libraio, cui sottoposi il manoscritto del mio primo romanzo. A lui piacque e decise di pubblicarlo. Era il febbraio del 2010. Fu un gesto coraggioso, perché si trattava di un testo decisamente sperimentale. La scomparsa di Franco ha costituito per la città Liberi di emigrare una perdita gravissima, perché era un punto di riferimento, un animatore abilissimo nel coinvolgere e nell’aggregare. Devo molto al suo supporto e al suo incoraggiamento. Con il mio secondo romanzo volevo contribuire alla salvaguardia e alla crescita di un progettochiave per la città, quale appunto la casa editrice, con cui collabo- “Posso confermare che Livorno è una città accogliente: mi ha aperto spazi e mi ha offerto opportunità” ro anche per altri progetti. “Per il bene che ti voglio” racconta di un emigrante che negli anni ‘30 si trasferisce negli Stati Uniti. Come è nata l’idea? Mio nonno Umberto nel 1923 sbarcò a Ellis Island e fu uno di quelli che finì ‘a pala e piccone’. Nel corso del tempo, il ramo da parte di mio padre si è spostato quasi per intero a San Francisco. Dalle nostre parti è cosa abituale: pare ci siano più lucchesi a San Francisco che a Lucca. Ogni tanto venivano a trovarci questi parenti, i classici “ameri’ani di Lucca”: persone che a me bambino pare- vano piovute da un altro pianeta, vestite in modo improbabile e che parlavano una lingua tutta loro. Scrivere di queste persone è stato un po’ riattraversare un pezzo della mia storia familiare. Il protagonista del tuo libro però è un emigrante anomalo: si trasferisce negli Stati Uniti per tentare la fortuna nel circuito dei teatri Off-Broadway... Sì, si tratta di un’emigrazione non dettata da esigenze economiche ma artistiche. Ci tenevo a rifuggire dal cliché del povero emigrante con la valigia di cartone, su cui già tanto è stato detto e scritto. Tutto sommato, il protagonista del mio libro rivendica il diritto e la libertà di spostarsi, a prescindere dal tipo di esigenza. Alcune porzioni del romanzo sono scritte in una lingua particolare, che definisci “italiese”. Coloro che partivano per l’America, inevitabilmente si contaminavano con un altro mondo, per cui non gli era più possibile mantenere l’identità di partenza. Allo stesso tempo, non erano ancora pronti per una piena integrazione nel luogo di arrivo. I primi emigranti dunque rimangono in una sorta di limbo, finiscono per essere “non più” e allo stesso tempo “non ancora”. Nel mio personaggio questo ibridismo è evidente fin dal nome: Antonio Bevilacqua in America decide di essere Tony Drinkwater. Ecco, in questa “terra di mezzo” abitata da chi non è più italiano e non ancora americano, rientra anche la lingua: anche qui gli emigranti si ritrovano “a metà”, perché parlano appunto ‘italiese’, un goffo miscuglio di italiano e inglese che qualcuno ha definito “lingua della sopravvivenza”. Per farti qualche esempio, non dicevano “lavoro”, ma “giobbo” (da job), non “strada” ma “stritta” (street), “sciumecca” invece di “calzolaio” (da shoes maker) e così via. In calce al romanzo ho messo un piccolo vocabolario ‘italieseitaliano’: in qualche modo la mia vuole essere anche un’operazione di salvaguardia di questo piccolo patrimonio, che ritengo molto poetico proprio perché racconta il disperato tentativo di integrarsi, di diventare a tutti i costi qualcos’altro quando ancora non se ne hanno i requisiti. Credo che qui stia uno dei perni attorno a cui ruota il romanzo: la ricostruzione storica era per me un pretesto per parlare di uomini a metà, di terre di mezzo, di metamorfosi in corso e trasformazioni di carattere esistenziale. Tutte cose che ritengo attualissime. A proposito di attualità: credi che la buona accoglienza ricevuta dal tuo romanzo sia dovuta anche al fatto che racconti l’emigrazione? Non c’è stata presentazione dove non sia stato avvicinato da qualcuno che aveva il desiderio di raccontarmi vicissitudini familiari che avevano a che fare con l’emigrazione. Vicende spesso assai dolorose. Purtroppo ho la sensazione che con questo fenomeno, che ha riguardato milioni di italiani, ancora non si siano fatti per bene i conti. I manuali di storia, per dire, dedicano all’emigrazione nel migliore dei casi un paragrafo. Comprendere e conoscere quanto accaduto, viceversa, aiuterebbe non poco nella valutazione dei fenomeni attuali, anche per cogliere certe evidenti simmetrie. La parte americana del libro si svolge anche a San Francisco, che tu delinei come una città molto mediterranea. Sì, nel testo la rappresentazione della città ha decisamente a che fare con Livorno. Qui non si tratta solo della innegabile parentela che storicamente c’è con l’America, ma anche e soprattutto per le analogie proprio con San Francisco: entrambe “Il protagonista del mio libro rivendica il diritto e la libertà di spostarsi, a prescindere dal tipo di esigenza” hanno di fronte a sé un’isola che ospita un carcere, e poi il porto, l’accoglienza, la vocazione all’espressione artistica, ma anche la funicolare e il Cable Car, il ponce e l’irish coffee, i presidi militari. Ecco, la parentela si ritrova a mio giudizio soprattutto nella tenacia con cui San Francisco e Livorno difendono la propria libertà e i propri spazi di autonomia, anche nel sopperire a emergenze sociali, come quelle abitative e culturali. Un’ultima cosa: al momento hai qualche altro progetto in cantiere? No, per ora no. La scrittura di un libro è una cosa molto gratificante ma anche molto faticosa. Le pagine sono il frutto di continui rifacimenti, di un lavoro anche doloroso, emotivamente sfiancante. Qualche idea già ce l’ho ma per il momento mi dedico alle presentazioni. In ottobre sarò a Bologna, a Mantova, ad Arezzo e altrove. Senza Soste redazione Info: www.michelececchini.it Pagina Otto anno X, n. 108 - Ottobre 2015 TITO SOMMARTINO A lla faccia dei petrodollari, dei fondi d’investimento e dei magnati dell’estremo Oriente, il 2015 è stato l’anno dalle piccole squadre, a cominciare da quelle che si sono affacciate per la prima volta nei massimi campionati europei nazionali: Frosinone e Carpi in Italia, Ingolstadt in Germania, Bournemouth in Inghilterra, Tondela in Portogallo. Il Gazélec Poco, però, è frutto del caso: l’Ingolstadt ha dietro di sé il Gruppo Wolkswagen, il Carpi un’azienda di abbigliamento che fattura 60 milioni annui e il Bournemouth, come tutte le squadre inglesi di Premier e First Division, si è fatta forte dell’equa spartizione dei diritti tv (che quest’anno ammontano a quasi 90 milioni). Quel “poco”, a prima vista, sembra riguardare un’altra neopromossa, il Gazélec Football Club Ajaccio. Nato nel 1960 dalla fusione tra Gazélec Ajaccio e Football Club Ajaccio, il Gfca ha in tutto e per tutto l’aspetto di un club semiprofessionistico piovuto dal cielo nel calcio dei grandissimi: un budget ridicolo per i canoni della Ligue 1 (quasi 5 mln di cui 4 provenienti dai diritti tv), uno stadio da neanche 3.000 posti portato in fretta e furia a 5.000, un organigramma che conta appena due persone assunte e un manipolo di volontari, e dove anche presidente e direttore sportivo si rimboccano le maniche per guidare il trattore e rizzollare il manto erboso o dipingere gli spogliatoi. Insomma, si giocherà anche al Vélodrome o al Parco dei Principi ma lo spirito è sempre quello da dopolavoro di Edf e Gdf, i colossi di gas ed elettricità dai quali è nato il club (Gazélec è la contrazione di Gaz ed Electricité). Eppure è dietro queste presunte debolezze che si nasconde la grandezza di questo piccolo grande club. C’è due senza tre Stavolta nessuno ha vanificato il risultato ottenuto sul campo. Per ben due volte nella propria storia, infatti, il Gazélec non ha potuto dare seguito alla promozione dal campionato National alla Ligue 2. Nel 1965 fu proprio il club a scegliere di mantenere lo statuto di dilettante e girò il titolo al Bastia, che affronterà il prossimo 21 novembre al Furiani (1). Proprio la famosa tragedia che colpì lo stadio bastiaccio fu all’origine di alcuni dissapori tra il Bastia e il Gfca. Accadde che a causa della lunga indisponibilità del Furiani, al centro di lunghe perizie dopo quanto accaduto, il presidente del club ajaccino offrì gratuitamente il proprio stadio al Bastia. Per tutta risposta, i sostenitori turchini si resero protagonisti di vandalismi in città e di incidenti contro i tifosi del Gazélec. Un comportamento che portò l’allora presidente del Gfca, Michel Appietto, a usare parole durissime e “avvertire” il Bastia che se non fosse stato ristabilito un rapporto di collaborazione, da lì in avanti squadra, club e La famiglia dei miracoli CALCIO - Sotto il cielo di Ajaccio si è consumato il più grande miracolo della storia calcistica corsa dopo la finale Uefa del Bastia nel 1978. Andiamo alla scoperta del Gazélec, un piccolo club caratterizzato dalla passione genuina dei propri tifosi e dalla storica vicinanza ai nazionalisti e ai comunisti corsi. tifosi turchini sarebbero stati accolti come “non desiderati” ad Ajaccio. Nel 1999 il Gazélec conquista la promozione sul campo e stavolta in L2 ci andrebbe eccome. Ma la Lega calcio francese si oppone: un assurdo articolo del regolamento vieta a una città con meno di 100.000 abitanti di poter avere due società professionistiche nella stessa divisione. I gaziers lottano con tutte le proprie armi contro questa decisione ma gli avversari sono tanti. Uno su tutti l’Sc Bastia. La Lega mantiene la sua decisione e l’appello al Consiglio di Stato viene rigettato. La fusione scampata Per poco i due club cittadini non si fondevano. Era il 1972 e l’Ac Ajaccio, all’epoca il club più famoso e importante, si rivolse al Gazélec per cercare di mantenere la squadra nella massima serie e far fronte ai problemi finanziari che ne pregiudicavano l’iscrizione. I due club raggiunsero un accordo di massima ma poi i dirigenti del Gfca ci ripensarono. La motivazione? Tutta sociale e politica. Così recita il comunicato ufficiale dell’epoca: “[…] Dopo averci pensato a lungo abbiamo deciso di privilegiare i valori del calcio dilettantistico e rifiutare la proposta del sindaco di Ajaccio di avvicinarci all’Aca, che ha un’estrazione borghese e bonapartista. Inoltre l’Aca ha un nome inglese (Athletic Club Ajaccio, ndr) la cui creazione è legata all’attività turistica della città. Il Gazélec vuole essere invece il rappresentante dei reali valori dell’identità corsa”. Aiacciu cita nostra Sembrerà strano ma in Francia l’unica città in grado di annoverare due squadre professionistiche oltre Parigi è la piccola Ajaccio. Fuori dall’isola molti pensavano che ad Ajaccio ci fosse solo l’Athletic Club, più comunemente chiamato Aca, che rispetto al Gazélec può vantare 13 campionati di Ligue 1. Invece se all’Aca va la supremazia cittadina in termini di palmarès, al Gfca va quello di squadra più popolare e amata della città. I due derby giocatisi lo scorso anno in Ligue 2 sono finiti in parità: agli “Orsi” è andato il primo in casa del Gfca e Les Gaziers si sono rifatti con gli interessi andando a vincere in trasferta per 3-0. Stadio Ha senso parlare di casa e trasferta perché le due squadre di Ajaccio hanno due stadi diversi e per giunta di proprietà (un caso più unico che raro in Francia visto che al momento solo l’Auxerre ha uno stadio privato). Se l’Aca gioca nel freddo François Coty, il Gazélec ha la propria casa al ben più piccolo e caldo “Mezzavia”, appena comprato a prezzo di favore dalla Caisse centrale d’activités sociales de l’énergie (Ccas), un organismo che tra le altre cose gestisce le assicurazioni, le attività sociali e le vacanze proprio dei lavoratori di Edf e Gdf, gli stessi che nel 1960 a tempo di record tirarono su lo stadio lavorando giorno e notte da volontari. Anche in quell’occasione nessuno restò con le mani in mano, come sottolineò il presidente e fondatore del Gfca, il sindacalista comunista Ange Casanova (a cui verrà poi intitolato lo stadio): “Anche i nostri giocatori, con il loro allenatore, hanno eretto recinzioni, costruito e dipinto gli spogliatoi, piantato e mantenuto il prato. Questa è la nostra casa, il nostro lavoro. Quella di una vera famiglia”. Il legame calcio-nazionalismo Un concetto, quello di “famiglia”, la cui accezione è abbastanza estesa nell’isola. Qua la famiglia non è solo quella regolata da rapporti di parentela ma anche da affinità politiche, sociali, culturali, economiche e spesso poco lecite. L’anziano proprietario del club, il 77enne Fanfan Tagliaglioli, nel “suo” sta- dio ha messo lo striscione “Sempre cù noi” in omaggio ai suoi amici Jean-Claude Colonna (all’epoca vicepresidente del club) e AngeMarie Michelosi, parenti del “padrino” della Corsica del Sud JeanJérôme Colonna, uccisi nel 2008 e nel 2009 a colpi di pistola. In sede, invece, fanno bella mostra di sé le foto di alcuni dei molti politici indipendentisti uccisi negli ultimi 25 anni a conferma di quanto i legami tra grande banditismo, indipendentismo e calcio, nell’isola, sono sempre stati strettissimi. Il primo ministro francese, Manuels Valls ha perfino fatto intendere che i club calcistici corsi vengono usati per riciclare il denaro sporco della malavita locale e dei bracci armati del movimento nazionalista. Comunque, così come lo era il fondatore Casanova, è un po’ tutto il Gazélec ad essere storicamente vicino ai comunisti e ai nazionalisti. Particolarmente evidente, negli anni ’90, la vicinanza ad A Cuncolta (il braccio politico del Flnc Canal Historique (2)) sia del Gfca che del Bastia. Lo stesso Jean-François Filippi, presidente del Bastia al momento della tragedia di Furiani del 5 maggio 1992, fu assassinato due anni e mezzo più tardi prima che andasse a deporre al processo. Con lui il club è stato letteralmente infiltrato dal Flnc Canal historique di Charles Pieri (che aveva il palco vip allo stadio, accompagnava la squadra in trasferta ed è stato comprovato che si è occupato in prima persona del trasferimento dell’allora giovanissimo Mickaël Essien a Lione. Ma l’episodio più grave è forse la scomparsa del terzino Pierre Bianconi, colpevole soltanto di essere un simpatizzante troppo fervente del Movimento per l’Autodeterminazione (Mpa), il clan nazionalista avverso. Mpa che invece sembra avere le mani sull’Aca. Nel 2012, in pieno centro ad Ajaccio, l’omicidio di Jacques Nacer, ex se- gretario e membro del Consiglio dell’Aca, vicinissimo all’allora presidente del club Alain Orsoni, figura storica del Fronte di Liberazione Nazionale Corso (Flnc), fondatore nel 1990 proprio del Mpa e fratello di Guy, assassinato anch’egli. Orsoni prese il club dopo 13 anni di latitanza in America Latina e solo un mese dopo il suo rientro scampò a un tentativo di omicidio dopo la partita interna contro l’Evian. Il tifo organizzato In una piccola comunità come quella dei Gaziers, il tifo organizzato non poteva che ricalcarne l’identita culturale e politica. Al Mezzavia si leggono e si ascoltano solo striscioni e cori in lingua corsa. I due gruppi organizzati si chiamano Compañero e Sezzione Guardia Storica. Sono pochi ma calorosi e comunque più belli e caldi dei cugini dell’Aca. Chi si aspettava un esodo dalla città di Napoleone al Parc des Princes per la recente storica sfida col Paris Saint Germain, però, è rimasto deluso: solo alcune decine di tifosi hanno seguito la squadra nella capitale preferendo le tv dei bistrot del centro storico. Note (1) Il 5 maggio 1992, in occasione della semifinale di Coppa di Francia, una tribuna provvisoria costruita velocemente allo stadio Furiani di Bastia crolla causando la morte di 18 persone e 2.357 feriti. (2) L’Flnc Canal Historique era un movimento nazionalista corso armato nato nel 1990 da una scissione del Flnc.