Senza Soste n° 108 (ottobre)

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Senza Soste n° 108 (ottobre)
Periodico livornese indipendente - anno X, n. 108 - Ottobre 2015
OFFERTA LIBERA
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Profughi: non pietà
ma economia
NIQUE LA POLICE
T
rattare i profughi come le
quote latte, sui criteri di assegnazione dei rifugiati, con tanto
di multe, è qualcosa di persino
peggio dell’assimilazione di un
fuggiasco ad una mucca. È trattare un essere umano come qualcosa da smaltire, prima come
emergenza poi come qualcosa “in
quota” ed infine come presenza
biodegradabile in una qualche nazione del continente. Gli stati non
esistono per questo e tantomeno
per far delirare i Salvini e gli Orban. Però al momento è quello
che accade, delirio compreso.
Per non parlare dei media, che
trattano i profughi come i partecipanti ad un reality ispirato a
Giochi senza frontiere. Ecco così che
fioriscono le interviste mentre i
profughi partono in gommone
dalla Turchia, mentre arrivano
a Lesbo, mentre partecipano
all’assalto al treno in Macedonia
e, dopo un’infinita corsa a ostacoli, cercano di sfuggire al gioco
(politico) di Orban in Ungheria.
Alla fine interviste a quelli che ce
l’hanno fatta: riprese e selfie alla
porta del Brandeburgo, qualcuno
con Cristiano Ronaldo e qualche
altro, più sobriamente, in qualche
avamposto dell’accoglienza in
Slovenia.
Ma il punto più grave non è l’assenza di pietà. È che l’occidente è
preso dalla divisione tra impietositi e cinici, tra amanti dei cerotti e
delle bende e presunti pragmatici
che, con le frontiere chiuse, penserebbero di aver risolto questioni
più grandi di loro. Il punto più grave è che vi è una completa assenza
di un’economia dei profughi. Che
rimangono sempre eccedenti: permessi temporanei, in scadenza,
con la separazione tra “profughi”
e “migranti economici”. Introducendo così distinzioni sempre
più sottili, nei dispositivi giuridici,
per espellere, allontanare, separare. Ma le distinzioni sottili non
fermano la valanga a monte: le
migrazioni causate da un quarto di secolo di disastri liberisti di
ogni genere. Il vero scandalo è che
non si possa generare economia,
ricchezza, permettendo a queste
persone un deciso cambiamento
nella loro condizione, contribuendo alla ricchezza del continente.
Ed è lo scandalo del capitalismo
che, per creare il mercato, deve
creare scarsità. Non può esserci
abbondanza per queste persone.
Devono vivere nella scarsità o crearne per gli altri. Così le Le Pen,
gli Orban e i Salvini, politicamente parlando, ingrassano. Questo
è il problema, economico prima
ancora che umanitario, il resto è
(tragico) contorno.
Un mondo
a parte
Livorno è un mondo a parte. Una dimensione che alimenta progetti gonfiati, programmi improbabili, prospettive incredibili e dibattiti surreali. Ma
che viene puntualmente demolita quando il mondo esterno finisce per fare
capolino: Darsena Europa, Asa, Aamps e ospedale sono solo alcuni esempi.
A
World Apart, un mondo a parte, è un film biografico sulla
storia di Ruth First - sociologa,
giornalista, comunista bianca oppositrice del regime sudafricano
dell’apartheid - uccisa da un pacco bomba mentre era in esilio in
Mozambico nel 1982. Il mondo
a parte, come da film, era quello
dell’apartheid, di un paese odioso
e fascista che non voleva liberarsi
dai pregiudizi razziali. Il nostro
mondo a parte, invece, è quello di
Livorno, la cui discriminazione
non è però legata a sesso, razza o
colore. A Livorno, nella politica
locale, quello che si discrimina è
il mondo esterno. Una dimensione di chiacchiere che tiene in piedi
i protagonisti che l’alimentano e
che si gonfia ed esplode proprio
come la più classica delle bolle.
La Darsena Europa. Si tratta di
un’opera, una volta costruita con
equilibrio e senso dell’innovazione, di cui il territorio ha bisogno.
Nel mondo a parte, già dall’autunno dello scorso anno, la Darsena
si concretizzava con una pioggia
di milioni provenienti da Regione, Governo, Banca Europea degli
Investimenti. Seguivano articoli
di giornale in forma di coro laudatorio verso il Presidente della
Regione (eh già, la campagna
elettorale…) su visite a Bruxel-
les che strappavano 200 milioni
e cifre che si componevano velocemente. Addirittura, a gennaio,
si sono dati per certi i fondi del
piano Juncker quando ancora né
l’Italia né la Germania vi avevano
ancora aderito. E poi cosa dire del
costo dell’opera? A gennaio, nei
passaggi istituzionali pubblici si
dibatte su una prima parte dell’opera attorno ai 650 milioni come
dimensione ottimale per un porto
come quello di Livorno a fronte di
1,37 miliardi previsti dal Prp votato. Lo stesso assessore regionale ai
trasporti, Ceccarelli, parla di un’opera da 608 milioni che genererà
circa 5000 posti di lavoro. Cita, in
materia l’Irpet, ma basta ricordare che il rigassificatore (oltre 800
milioni di investimenti) ha generato una trentina di posti di lavoro
per tecnici specializzati. Ma si sa
quante persone lavorano al porto
di Rotterdam la cui superficie, secondo alcune stime, è di gran lunga
superiore a quella dei porti italiani
messi assieme? Nel 2008 erano
stimati in 1207. Quale è la vera cifra chiesta nella presentazione del
progetto a Bruxelles? Testimoni
oculari giurano che si è parlato di
1,4 miliardi, altro che 650 milioni.
Siccome i testimoni possono essere
considerati di parte, citiamo sia il
Fatto Quotidiano che Greenreport
(che è molto più vicino al centrosinistra rispetto al giornale di Travaglio) che parlano di 800 milioni
per la prima parte dell’opera. Qui
sia il Fatto che Luca Alterini di
Greenreport citano le stesse cifre e
la stessa tempistica dei lavori. Ma
insomma, quanti milioni? Quanti
posti di lavoro? E come? La differenza tra mondo a parte e mondo
esterno, come vediamo, sulla Darsena Europa viene mantenuta con
passione e rigore: al momento in
cui progetto e realtà devono avvicinarsi, danzano cifre di ogni tipo.
Comprese quelle di un numero di
posti di lavoro, tra indotto e diretti,
senza dimenticare la questione dei
fondali. Succede infatti che il Consiglio Comunale abbia votato un
Prp con un progetto a meno 17 metri e poi dopo qualche mese Rossi
vada a Bruxelles a dichiarare: “Si
fa come dico io o nulla. I fondali
devono essere 20 metri”. Posizione
smentita subito dai terminalisti che
hanno subito dichiarato che tra i
16 e i 18 metri bastano e avanzano
visto il ruolo del nostro scalo nella
geografia europea dei porti. Anzi,
è notizia di questi giorni che mentre Rossi fa il Faraone a Bruxelles,
alcune compagnie di navigazione
si sono recate in Autorità Portuale
per chiedere informazioni e dettagli circa il dragaggio dell’attuale
porto. Le loro navi non riescono
ad entrare a Livorno oppure ci entrano “alleggerendo” in parte il carico nel vicino porto di La Spezia,
con conseguenti aggravi di costi e
perdita di traffici per il nostro scalo. E nessuno dice che più che sui
fondali i veri investimenti vanno
fatti su gru e mezzi in banchina.
Asa Spa. E cosa dire di Asa? L’operazione di fusione con Gaia (la
società tutta pubblica che serve la
Versilia e il nord della Toscana)
è stata commentata, in diverso
modo, dal presidente Del Nista e
dal sindaco di Livorno. Per non
parlare del Pd livornese che, essendo l’attivissimo sindaco di Camaiore renziano per l’acqua pubblica, si è sentito fuori gioco. Sono
venute fuori ipotesi di ogni genere,
tra public company con azionariato popolare e equilibri quasi mistici tra pubblico e privato giusto per
accontentare tutti. Ecco poi, dopo
il mondo a parte livornese che vive
di ipotesi e di polemiche, che fa di
nuovo capolino il mondo esterno.
Il governo Renzi, tramite la stampa, fa uscire le anticipazioni delle
norme sull’acqua che dovrebbero
essere contenute nella legge di stabilità. Il combinato Sblocca Italia
- politiche delle Regioni - legge di
stabilità precedente prevede: a)
gestione... (continua a pagina 4)
2
internazionale
anno X, n. 108
MEDIO ORIENTE - Report dalla carovana che ha portato aiuti alla città distrutta dall’Isis
FRANCO MARINO
I
l nome non lascia dubbi: “Carovana 15 settembre per Kobane”. È con questo nome che una
novantina di attivisti, quasi tutti
italiani tra cui otto livornesi, sono
partiti alla volta del Kurdistan
turco al confine con la Siria per
portare aiuti alla città di Kobane:
soldi raccolti dall’associazione
Mezzaluna Rossa Kurdistan Italia onlus per ricostruire una scuola che sarà intitolata ad Antonio
Gramsci, medicinali e alcuni software per macchinari sanitari.
Una missione andata a buon
fine, non senza difficoltà dovute
all’ostilità del governo e dell’esercito turco. Perché oltre alla ricostruzione di Kobane in una data
storica, il 15 settembre, in cui Isis
iniziò l’attacco alla città del Kurdistan siriano (ora Rojava), la carovana aveva come missione anche quella di far sentire la propria
presenza in un momento di ripresa del conflitto turco-curdo e di
denunciare la sistematica violazione di ogni diritto da parte dello stato turco nei confronti del
popolo curdo.
Kobane e il Rojava Il 15 settembre del 2014 Daesh
(Isis) attaccava la città curda di
Kobane nel nord della Siria a pochi chilometri dal confine della
Turchia. Nel gennaio 2015 Isis
veniva respinta e sconfitta, per la
prima volta dopo mesi in cui
avanzava dall’Iraq alla Siria
orientale senza trovare nessun
ostacolo. Questa volta invece,
grazie all’organizzazione e al coraggio delle milizie curde Ypg e
Ypj (la milizia composta da sole
donne) e nonostante l’atteggiamento della Turchia che impediva ad altri guerriglieri curdi di
unirsi alla resistenza, Isis fermava la sua avanzata. È stata in questa occasione che l’Europa ha
scoperto l’esistenza dell’importante fronte curdo e dell’esperienza del confederalismo democratico sperimentato nei cantoni del
Rojava, la regione curda nel nord
della Siria. Si tratta di un tentativo di organizzazione politica e
sociale in cui viene posta al centro la democrazia, il superamento di uno stato nazione e la coesistenza di diverse etnie e religioni.
Il 15 settembre, ad un anno
dall’attacco di Isis, la carovana
avrebbe dovuto entrare a Kobane
per consegnare direttamente gli
aiuti ma il governo turco ha negato sia il passaggio di una delegazione sia la possibilità di manifestare alla frontiera. In caso contrario avrebbe chiuso le frontiere
e penalizzato tutti coloro che per
lavoro o per solidarietà la devono
varcare ogni giorno. I profughi Suruc era il quartier generale della carovana. Città rurale a pochi
chilometri dal confine siriano, è
balzata improvvisamente alle
cronache per due eventi: il primo
è l’attentato con 33 morti del 19
luglio scorso mentre si svolgeva
un incontro di giovani socialisti
turchi giunti in città per contribu-
Ricostruire Kobane!
medio conclusasi con
l’acuirsi della
crisi negli ultimi 3 anni. Il
presidente
Erdogan,
dopo 13 anni
di potere, cercava la consacrazione alle
elezioni del
giugno scorso
con l’ennesimo governo a
maggioranza
assoluta del
suo partito
La protesta della carovana per il mancato ingresso a Kobane
Akp e con l’obiettivo del
ire alla ricostruzione di Kobane, ad struita. Non abbiamo più nulla. Ma superamento del 60% per poter conopera di un kamikaze legato al va- se la Turchia continua ad ostacolare vocare un referendum e cambiare il
riegato mondo che si ispira ad Isis. la ricostruzione e l’Europa continua sistema politico del paese. Il suo diIl secondo invece è la presenza di ad alimentare guerre il problema segno però non è andato in porto e
campi profughi che sono arrivati ad non si risolverà mai. Noi non vo- non ha raggiunto nemmeno la magospitare oltre 100.000 persone in gliamo venire a casa vostra. Dateci gioranza assoluta per due principali
fuga dalla Siria. Il primo giorno la la possibilità di tornare nella no- motivi: la perdita di voti a destra a
carovana ha visitato tre campi pro- stra”. Ha poi aggiunto con orgoglio causa della “normalizzazione” delfughi gestiti direttamente dalle au- come gli unici aiuti che ricevono la questione curda che invece intetorità locali curde. All’ingresso tanti sono da parte dei curdi emigrati in ressa molto ai nazionalisti turchi e
bambini festosi ad attendere la dele- Francia e Germania e da parte delle l’exploit di Hdp, il partito della sinigazione che ha poi
stra
curda
incontrato gli abiche ha supeBambini sulle barricate antiesercito nel quartiere Sur a Diyarbakir
tanti del campo. Nei
rato lo sbarcampi, che potevano
ramento del
ospitare anche fino a
10% e ha riscosso molto
10.000 persone, balsuccesso anzava subito agli ocche
nelle
chi che molti spazi
grandi città
predisposti per tendove ha conde o container erano
vogliato tanti
vuoti. Infatti la magvoti di giovagior parte dei profuni e della sinighi erano andati via:
stra turca in
chi aveva la casa in
crescita con il
piedi era tornato a
protagoniKobane dopo che le
smo di lotte e
milizie curde la avevano riconquistata. Altri, in partico- autorità locali curde, mentre la Tur- movimenti come quello di Gezi
lare chi aveva soldi per il viaggio e chia di loro se ne frega. La Turchia Park. Ora la Turchia si sta avviciun titolo o una professionalità spen- gestisce invece, sempre nella zona di nando alle elezioni anticipate di nodibile in Europa, si sono diretti ver- Suruc, un campo profughi che ospi- vembre e Erdogan ha bisogno di
so l’Ungheria. Chi è rimasto in que- ta 30.000 persone, quasi tutte arabe. acuire la questione curda per recusti piazzaloni pieni di terra e polve- Nonostante la richiesta della caro- perare i voti nazionalisti. La protere a dormire in tendoni sotto il sole vana di poterlo visitare, le autorità sta curda è tornata a salire anche
cocente di un clima predesertico turche hanno negato ogni possibili- dopo il terribile massacro del kamità. Dalle testimonianze di persone kaze a Suruc dove fin dall’inizio le
che lo hanno visto emerge che si autorità turche sono state accusate
tratta di un campo militarizzato a di connivenza e di alimentare una
cui è difficile accedere e con possibi- “strategia della tensione”. Molte
lità di spostamento limitato per chi città del Kurdistan turco hanno poi
dichiarato la propria autonomia
ci viene ospitato. causando una violenta reazione da
Il conflitto turco-curdo Proprio in queste ultime settimane parte dell’esercito che ha assediato
si è riacceso in modo pesante il con- alcune città causando decine di
flitto turco-curdo che sembrava av- morti civili. viato verso una “normalizzazione” Diyarbakir e Cizre quando nel 2013 Ocalan dalla pri- È in questo contesto che la carovagione dove sconta una sentenza na ha chiesto ai compagni curdi di
sono coloro che non hanno più una all’ergastolo aveva inviato, nel gior- poter raggiungere le città di Diyarcasa a Kobane ma nemmeno soldi no della festa del Newroz, un docu- bakir (Amed per i curdi) e Cizre soto competenze per rischiare il viag- mento in cui annunciava il cessate il toposte a violenti attacchi da parte
gio in Europa. Un anziano del pri- fuoco e il ritiro dei guerriglieri del dell’esercito, per poter testimoniare
mo campo profughi visitato è stato Pkk (Partito dei Lavoratori Curdi, e filmare cosa stesse succedendo.
chiaro: “La mia famiglia è compo- di ispirazione marxista) oltre i confi- Dopo qualche tentennamento dosta da 5 bambini piccoli, quattro ni. Nel frattempo però il quadro po- vuto agli evidenti pericoli, la caroadulti e due anziani. Noi vorremmo litico è cambiato. Una sostanziosa vana si è divisa in due gruppi che
tornare a casa nostra ma la nostra parte della società turca si è risve- mercoledì 16 settembre si sono dicasa è distrutta. Siamo qui ad aspet- gliata dopo anni di politiche liberi- retti verso le due città. La delegaziotare che Kobane possa essere rico- ste e la sbornia da crescita del ceto ne di Cizre, dopo essere stata ferma-
Il governo turco ha
impedito ad una
delegazione della
carovana di entrare a
Kobane per portare
gli aiuti
ta due volte dall’esercito turco, è
riuscita ad arrivare in città accolta
da oltre 300 compagni curdi di
Hdp, per poi partire in un corteo
con le madri dei ragazzi uccisi in
questi giorni. La seconda delegazione invece ha raggiunto Diyarbakir dove durante la giornata ha
incontrato parlamentari curdi,
dirigenti dei partiti Hdp e Dbp e il
gruppo femminista Kja (Congresso delle Donne Libere). Nonostante l’alto profilo istituzionale di queste persone, tutte hanno
raccontato di aver fatto anni di
prigione e di temere di essere riarrestate ora che il conflitto si è riacceso e dopo che molte città curde
hanno dichiarato l’autogoverno.
La sera invece la delegazione ha
raggiunto il quartiere di Sur, zona
popolare e calda della città e teatro di violenti scontri nei giorni
scorsi. Mercoledì 16 settembre
sera era il primo giorno in cui non
era imposto il coprifuoco e la carovana è stata accompagnata dagli abitanti del quartiere a vedere i
vicoli dove si trova la testimonianza diretta dei violenti scontri:
barricate distrutte, teli anticecchino agli angoli delle strade, muri
pieni di buchi da razzi esplosi e
colpi di mortaio, edifici dati alle
fiamme. La carovana ha poi co-
Il conflitto turcocurdo è riesploso
nella dimensione
che fa comodo a
Erdogan in vista
delle elezioni
anticipate
nosciuto il comitato di autodifesa
del quartiere. Una giornata intensa e con la possibilità di ascoltare
e vedere in prima persona le condizioni di guerra e repressione in
cui sono costrette a vivere milioni
di persone nel Kurdistan turco.
Come ha detto una delegata del
comitato di autodifesa di Sur:
“Noi non vogliamo uccidere nessuno e abbiamo un’etica anche
quando impugnamo le armi. Noi
vogliamo vivere in pace e come ci
ha insegnato il presidente Ocalan. Noi non attacchiamo nessuno ma se qualcuno ci tocca siamo
pronti a reagire”. Per concludere un’ultima, ma
non per importanza, questione:
una volta tornati a casa molte
persone ci hanno chiesto “come
sono i curdi?”. Per rispondere basta dire che la carovana ogni giorno ha incontrato esponenti di
partito, parlamentari e rappresentanti istituzionali e ogni volta ce li
hanno presentati come “copresidente”, “cosegretario” o “covicesindaco”. Perché in Kurdistan
per ogni carica istituzionale o politica ci deve essere obbligatoriamente un maschio ed una femmina. Hanno da insegnare molto a
molti, non solo in medio oriente.
Foto: Rojava Calling
Ottobre 2015
3
interni
POLITICA - L’annunciata svolta nella governance della portualità presenta molti lati oscuri
Porti italiani. Verso quale riforma?
TERRY MCDERMOTT
L
a vicenda della riforma dei
porti italiani è una storia
stile prima repubblica. Si parla di una riforma arrivata quasi
ad essere approvata per decreto
lo scorso anno. Per poi essere
stata respinta nel binario, di parcheggio, della commissione dei
saggi. Nel frattempo è saltato il
ministro dei trasporti, assieme al
direttore generale del ministero,
giusto negli scontri tra bande.
Legate alla riforma, agli equilibri di maggioranza, ai rapporti
di forza nazionali e continentali.
Dopo che Lupi è saltato, avendo
dato più volte per “imminente”
la riforma, è toccato a Del Rio.
Il quale, dopo aver ristretto la
capacità di spesa del ministero,
e tentato di bloccare le procedure di moltiplicazione della spesa
ma anche degli investimenti, si
è buttato, anche lui, sulla riforma. E, con l’arrivo dell’autunno,
arriva anche l’annuncio: “sulla
riforma della portualità siamo
finalmente arrivati, il decreto di
riordino della governance di funzionamento dei porti è pronto,
lo farò vedere presto al Consiglio
dei Ministri. Il 2016 dovrebbe
essere l’anno in cui tutte le cose
saranno messe in ordine”. Sono
parole del Ministro per le Infrastrutture Graziano Delrio che,
nella seconda metà di settembre,
ha riunito la stampa a La Spezia
per inaugurare un cantiere e annunciare la novella. C’è un però:
la definizione del regolamento
CIRO BILARDI
I
l 22 settembre scorso il Ministro
della Salute Beatrice Lorenzin
ha illustrato i dettagli del cosiddetto “Decreto appropriatezza”,
ovvero una lista di 208 prestazioni
specialistiche e diagnostiche che
potranno essere gratuite solo a determinate condizioni. Ad esempio
gli esami del colesterolo o dei trigliceridi potranno essere ripetuti prima di cinque anni solo per pazienti
ultraquarantenni o con particolari
fattori di rischio; l’odontoiatria verrà riservata ai minori di 14 anni e
ai soggetti vulnerabili. Per i medici
che non rispetteranno la normativa
sono previste sanzioni patrimoniali.
Le associazioni di tutela sono contrarie, e i sindacati dei medici sono
sul piede di guerra: protestano per
la pesante ingerenza governativa
sull’autonomia dei professionisti e
soprattutto per le sanzioni. Gino
Strada ha commentato: “Chi decide se un esame è inutile, la Lorenzin?”. In effetti Beatrice Lorenzin
è un personaggio straordinario:
nel suo curriculum ha un diploma
di maturità classica e un’esperienza politica come responsabile dei
giovani di Forza Italia, che l’ha
delle concessioni, vitale per il funzionamento dei porti e delle economie locali. Quanto, appunto,
al regolamento sulle concessioni,
il ministro ha osservato che “non
è mai stato fatto per venticinque
anni”. Osservazioni che, in politichese, indicano che ci sono ancora
conflitti, in sede ministeriale, e che
diversi rapporti tra poteri vanno appianati. E infatti Del Rio aggiunge:
“Lo abbiamo preparato, è già pronto nella sua interezza, finalmente
avremo un regolamento nazionale
sulle concessioni, così non ci saranno più discrezionalità. Proroghe? Il
regolamento stabilirà le condizioni
in cui saranno legittime”. E così tra
una riforma della portualità che,
anche stavolta, vuol passare per decreto e un regolamento delle concessioni, e un sistema di proroghe,
ancora da definire, il governo entra
nell’autunno. Un sistema da prima
repubblica, decreti e ministri che
saltano, con uno schema da seconda: si procede su punti essenziali
per decreto, il Parlamento è un
optional, e si riducono modalità e
capacità di spesa secondo i desideri
di Bruxelles (eh già..).
Per cui, come abbiamo visto, porti come Livorno devono andare a
caccia di project-financing in Europa con modalità tutte da definire e
incerte fortune nel modo con i quali, questi project financing, impatteranno su Livorno. Lo stesso Del
Rio, quando parla di “concentrarsi
sulle priorità” nel finanziamento
delle infrastrutture, dice chiaramente, anche atti del ministero alla
mano, che la tendenza al finanziamento pubblico dei porti è in calo.
E che le procedure, tra l’altro, sono
meno celeri grazie anche al sac-
cheggio dei
governi Berlusconi (vedi
legge Lunardi). Ma quale
è il profilo reale di questa
riforma dei
porti? Fino
all’inizio di
quest’anno
sembrava
tutto pronto. Ma la dimissioni di
Lupi avevano
mandato in
ghiaccio un
progetto che,
nonostante
l’esibizione della tempistica cara al
renzismo, alla fine non era chiaro
nemmeno per gli stessi promotori:
privatizzare le Autorità Portuali?
Portare il numero delle Authority
da 24 a 16 con relativi accorpamenti? Creare un’unica Agenzia
Nazionale? Scontri, confusioni,
colpi bassi, pressioni categoriali,
guerre tra bande nel settore avevano reso le risposte a queste domande sempre più vaghe. Liberisti ma
divisi e confusi, insomma.
Oggi, secondo le indicazioni fatte filtrare dal Ministro alle Infrastrutture e ai Trasporti Graziano
Delrio, che ha ripreso l’iniziativa,
la riforma dovrebbe prevedere una
riduzione da 24 a 14 delle autorità
portuali sotto la direzione di un’agenzia generale unica per i porti e
la logistica. In più si parla di una
consistente riduzione del numero
SANITÀ - Il governo continua a smantellare il servizio pubblico
Assalto a Fort Apache
portata in Parlamento nel 2008. Nel
2013 è passata al Nuovo Centrodestra ed è stata premiata con la carica
di Ministro della Salute nel governo
Letta. Riconfermata da Renzi, l’anno scorso potevamo liberarcene ma
- ahinoi - alle elezioni europee è stata
trombata. La figura del ministro fa
capire chiaramente quanto conti la
sanità nella politica italiana di oggi,
ma tutto sommato è un aspetto marginale, e il poco spazio che abbiamo
è meglio dedicarlo alla questione
dell’appropriatezza delle prestazioni,
che è molto interessante e delicata. Attualmente le dimensioni della spesa per esami e prestazioni inutili è
uno dei principali fattori di instabilità finanziaria del sistema pubblico.
Quali sono le cause? La prima è che
il medico di famiglia, che non è un
dipendente del servizio pubblico ma
un convenzionato, ha tutto l’interesse
a “largheggiare” nelle prescrizioni. Si
dimostra scrupoloso nei riguardi del
paziente, si mette le spalle al coperto
rispetto alle responsabilità per un’eventuale diagnosi sbagliata (la cosiddetta “medicina difensiva”) e magari
accetta pure qualche omaggio dagli
“informatori” delle case farmaceutiche. Queste ormai da anni hanno
scoperto che è molto più redditizio
vendere farmaci per malattie inventate piuttosto che cercare rimedi per
quelle vere, e investono molto di più
nel marketing che nella ricerca. Il risultato è che nei paesi poveri (che non
possono pagare) mancano anche i
farmaci essenziali, mentre al nord c’è
un problema di overdose di farmaci ed esami inutili. I media sparano
notizie su false emergenze (Aviaria,
Sars...) e fanno passare un concetto
distorto di prevenzione: fare gli esami
più svariati per controllarsi di continuo. Così nei paesi ricchi il paziente,
reso ipocondriaco dai media, sceglie il
medico in base alla quantità di esami
e farmaci che “segna”. Al medico sta
bene così, e questa sarebbe la dignità
professionale che si vuole difendere...
Quindi il problema dell’appropriatezza, se lo si affrontasse tenendo
conto di questo
contesto, sarebbe
una bella sfida e
una battaglia politica di primo livello.
Ovviamente invece
i decreti della Lorenzin e di chi l’ha
fatta ministro tendono solo a spostare una quota di mercato dalla sanità
pubblica a quella privata. Lo scrivevamo già qualche mese fa su queste pagine: chi ha un bisogno sanitario (vero
o indotto) e non trova soluzione nella
dei membri dei comitati di gestione che passeranno da 340 a
70. Questo e poco più: perché
tutta la questione dei rapporti di
forza tra agenzia generale e autorità portuali, oggetto di scontro
serio tra diversi soggetti del settore e pezzi di ministero, deve essere ancora definita. Un po’ per
rimanere fuori dalle polemiche
sui media, quelle che ti fanno
cambiare politica anche se non
vuoi, un po’ per definire gli scontri interni alla categoria. Come
andrà a finire? Sicuro è che sarà
più difficile, specie con una Ue
che lavora per un mercato unico
Si procede su punti
essenziali per decreto, il Parlamento
è un optional, e si
riducono modalità
e capacità di spesa
secondo i desideri di
Bruxelles
dei capitali per le infrastrutture,
finanziare pubblicamente le opere. E che i territori pagheranno
pegno per questo. Sicuro che ci
sono meno fondi italiani, vista
anche la restrizione delle opere
strategiche e correlate. Il resto,
lo vedremo quando sarà chiaro
chi uscirà vincitore dal ring del
ministero.
sanità pubblica, se ha disponibilità economica si rivolge al privato,
altrimenti ci rinuncia. Nel primo
caso alla lunga gli converrà stipulare un’assicurazione sanitaria, ma
a quel punto non sarà più disposto
a pagare le tasse per finanziare un
servizio che non gli serve. Il servizio pubblico avrà sempre meno
risorse e dei poveri si occuperanno
le suore come nell’800. La soluzione sarebbe invece quella
di rafforzare in modo molto significativo la prevenzione vera, quella
che punta a ridurre drasticamente i
fattori di rischio
(ambientali,
comportamentali etc.), l’educazione alla
salute e la medicina di prossimità, riaprendo
consultori
in
tutti i quartieri e
potenziando la
presenza di personale sanitario
sul territorio. In
questo modo la spesa per la diagnostica e per i farmaci si ridurrebbe ai minimi termini, ma anche i
profitti di Big Pharma e di qualche
altro...
L’obiettivo dei
nuovi decreti non è
l’“appropriatezza” ma
spostare una quota
di mercato dalla
sanità pubblica a
quella privata
4
Livorno
anno X, n. 108
ACQUA PUBBLICA - Torna alla ribalta il dibattito sulla gestione del Servizio Idrico a Livorno
N
elle settimane scorse
abbiamo assistito a dichiarazioni su una futuribile
alleanza Gaia/Asa da parte
del Presidente Asa, del sindaco di Capannori (proprietario
del 10% di Gaia) e del sindaco di Livorno (proprietario del
36,5% di Asa). Ci sono diversi
modi di intendere tali dichiarazioni. C’è intanto da tenere presente che la Toscana è
orientata verso l’unificazione
sia degli Ato sia del gestore e
che l’ipotesi di accorpare territori come Livorno e Massa/
Carrara/Camaiore potrebbe
significare rafforzarsi per poter poi reggere l’urto dell’unificazione. Ma al tempo stesso
potrebbe voler dire avviare
una privatizzazione anche di
Gaia che al momento è a totale capitale pubblico e spianare la strada per la vera privatizzazione a favore di Acea
(o Iren) a livello regionale. Né
Del Nista, né i sindaci, hanno
presentato un vero progetto di
fusione, al momento solo dichiarazioni.
Renzi vuole i privati. Questo
improvviso botta e risposta
avviene in un momento in cui
a livello nazionale il governo
Renzi si appresta a varare la
nuova legge di stabilità che
immetterà un tetto al numero
delle partecipate gestite dagli
enti locali e che introdurrà un
limite alla quota pubblica nel
loro capitale sociale, servizio
idrico compreso con ulteriore
spinta verso altre privatizzazioni. I referendum del 2011
avrebbero dovuto fermare
tutto questo, invece la politi-
(segue da pagina 1) ... centralizzata delle Ato (Sblocca
Italia); b) tentativo di costituzione di una singola Ato
regionale per il solo scopo di
essere appetibile per grandi
investimenti (con alto costo
per il cittadino come già avvenuto ovunque in Europa); c)
incentivo alle privatizzazioni
(legge di stabilità precedente)
tanto che chi privatizza può
spendere i fondi ricavati fuori
dal patto di stabilità (quello
che strangola i comuni). Ma
non basta: mentre il mondo
a parte dibatte, nel mondo
esterno emergono ipotesi sulla stampa nazionale che metterebbero in discussione sia
l’esistenza di Asa pubblica
ma anche del grande malato
delle partecipate livornesi:
Aamps. Non a caso, dalle colonne del Sole 24 Ore, il solito
soldatino neoliberista Fassino
ha benedetto l’operazione, finora mantenuta tra le ipotesi
in pole position per diventare
norma. Per approfondire su
Asa rimandiamo all’articolo
qui sopra.
Governo privatizza tutto.
Già, ma cosa ha benedetto
Asa, Gaia o... Acea?
ca nazionale continua in quella
direzione, sia che si parli di centrodestra sia che si parli di centrosinistra. Anche a Livorno, nel
2011 capoluogo di provincia con
la più alta affluenza alle urne
d’Italia, rispetto alla ripubblicizzazione di Asa niente si è fatto,
anzi. La gestione dell’azienda
è andata totalmente dalla parte
opposta a quella richiesta dagli
elettori.
Asa tra privati e finanza. In
questi 4 anni Asa ha continuato
ad avere capitale privato ed in
più ha assunto spiccati connotati finanziari ed ha esternalizzato l’esternalizzabile ed anche di
più. Nei bilanci 2013 e 2014 questa fervida attività finanziaria è
evidenziata più volte. Nel 2013
Asa vende una società di sua
proprietà (Asa Trade) ed immette tutto il controvalore dell’operazione in un fondo a garanzia
di un project financing stipulato
5 anni prima. Lo stesso project
financing di cui si può leggere
nella nota integrativa dell’ultimo bilancio “Relativamente ai
contratti derivati a copertura del
rischio di tasso derivante dal contratto di finanziamento …”. MPS
Capital Service € 9,2 milioni, UNICREDIT Corp Banking € 9,2 milioni, Banco Popolare € 3,8 milioni,
Centrobanca € 5,7 milioni – Decorrenza 31.07.10 Scadenza 31.12.25.
Con un Fair Value che sembra
positivo. Non si sa cosa c’entra
tutto questo con la gestione del
servizio idrico e come mai i 78
milioni di euro di project financing non hanno fatto da volano
agli investimenti, così come dichiarava Del Nista all’epoca del
piano di bancabilità. Così come
si fa fatica a capire perché Asa,
che è concessionaria del servizio idrico, detiene ancora tra le
proprie partecipazioni il 5,08%
di Olt Offshore che quest’anno
ha chiuso il proprio bilancio
con € 62,8 milioni di perdita
dimezzando in pratica il proprio capitale sociale, ma Asa
ha comunque incrementato la
propria partecipazione azionaria passando in bilancio da €4
milioni a €7,2 grazie all’impairment test (il procedimento di
verifica delle perdite di valore
delle attività iscritte in bilancio)
effettuato nel 2014. La politica
nazionale non ha dato seguito
alla volontà degli elettori e Livorno non è immune da questo.
Le dichiarazioni del sindaco.
I pochi dati di bilancio elencati indicano inconfondibilmente
che la finanza è entrata in Asa
e negli ultimi anni si è evoluta.
È anche con questo che dovrà
confrontarsi chi deciderà sul
futuro di questa azienda. Più
volte il sindaco Nogarin si è
espresso a favore di una ripubblicizzazione, ma gli 11 milio-
Un mondo a parte
Fassino come presidente Anci?
Il fatto che il governo è pronto a
fissare un limite, per le amministrazioni comunali, per il numero di partecipate possedute da
un comune. Uno per il tipo ed
anche il limite di quote che può
possedere una amministrazione
comunale. Tra legge di stabilità
2015 e 2016, politiche delle regioni, norme dello sblocca Italia allora cosa sta succedendo
per l’acqua? Ce lo dice lo stesso
Sole 24 ore che, in un articolo
cerimoniale ha già delineato la
strategia (denunciata anche da
Marco Bersani di Attac sul Manifesto): quattro giganti dell’acqua privata già pronti (A2A,
Iren, Hera e Acea), leva finanziaria pronta (Cassa Depositi e
Prestiti, attraverso il fondo strategico italiano che così finanzia la privatizzazione dei beni
pubblici), quadro normativo,
con la nuova legge di stabilità,
già pronto. Stupisce solo che
dai territori non si alzino voci
e strategie di resistenza. Altro
che mondo a parte, visto anche
che la riforma dei porti rischia
di far dirigere lo scalo livornese,
di fatto, a Roma. Asa e Aamps,
e con loro la politica locale pubblica di acqua e rifiuti, potrebbero anche loro essere governate grazie alle decisioni di Roma.
Dove la legge del profitto ad
ogni costo non conosce sosta.
Ospedale. L’entusiasmo con
cui il sindaco Nogarin ha salutato l’annullamento dell’accordo di programma con la Regione per la costruzione del nuovo
ospedale è comprensibile. Probabilmente è proprio sul nuovo ospedale che il Pd ha perso
il Comune di Livorno e la questione ormai ha assunto una valenza simbolica che va oltre gli
aspetti sanitari. Ma il semplice
affossamento
dell’operazione
Montenero non può bastare:
Nogarin non ha ancora trovato
i soldi per la ristrutturazione
di Viale Alfieri (e non ha nemmeno aperto un percorso partecipativo per scegliere il progetto più adeguato). Tirato per la
giacca un po’ da tutti, mostra
grande ottimismo, con il risultato di apparire stralunato. Nel
frattempo, in un quadro nazionale di assalto al fortino della
sanità pubblica, la legge di riforma voluta dal reuccio di Bientina, Enrico Rossi, sta rendendo
ingestibile l’intero sistema regionale. La riduzione dei posti
letto è già arrivata ben oltre la
soglia della spending review, gli
organici sono già all’osso ma
si prevedono 2000 esuberi e il
taglio dei servizi procede con
gli stivali delle sette leghe. Del
territorio e della prevenzione
non se ne parla neanche più. I
dirigenti sembrano aver rinunciato perfino a capirci qualcosa
e il clima che si respira è da “io
speriamo che me la cavo”. Se la
caveranno, come sempre, i peggiori. Chi può se ne va e ai cittadini non resta che sperare nel
referendum.
Insomma, a Livorno il dibattito è fervente perché la rottura
e la guerra tra amministrazione
comunale e regionale continua,
così come continuano gli annun-
ni di euro di capitale sociale
detenuto dal socio privato, ad
esempio, male si sposano con
tali dichiarazioni. Così come
anche le banche che sono
entrate nella gestione diretta
dell’azienda tramite il project
financing, probabilmente non
sarebbero proprio d’accordo.
Di certo sapere che a Livorno
è cambiata la volontà politica
rispetto alla gestione dell’acqua, è un inizio. Un inizio
che però deve essere seguito
da fatti concreti e non da dichiarazioni vuote. Fatti che
potrebbero essere un cambio
di rotta radicale nella gestione dell’azienda e l’apertura
di un tavolo dove Amministrazione Pubblica, Forum
Nazionale dei Movimenti per
l’Acqua Pubblica ed ogni al-
Si parla di fusioni
e pubblicizzazione
ma Asa è in mano
a banche e finanza,
serve invertire la
tendenza
tra realtà interessata possano
confrontarsi seriamente con
l’obbiettivo comune di rendere Asa più efficace, più pubblica, più dei cittadini e senza
l’obbligo di fluttuare all’interno dei mercati finanziari per
poter sperare di sopravvivere.
Andrea Gualtieri - Attivista
Movimenti Acqua Pubblica
ci dei 5 Stelle (vedi Aamps o
Asa), che pur riconoscendogli
il beneficio della complessità
finanziaria e dell’eredità ricevuta, fanno fatica a diventare
atti concreti e costruttivi. Poi
ci sono gli interventi dei nuovi scagnozzi del Pd renziano,
sempre strumentali e dissociati rispetto a quello che fa il
loro governo. Infine il sindaco di Collesalvetti, che per i
media locali è già il sindaco
di Livorno aspettando il 2019
e che dalla collina si occupa
anche di porto. Tutto questo
mentre a livello nazionale si
procede a colpi di decreto per
privatizzare, centralizzare e
tagliare. Ma nel mondo a parte di Livorno si assiste a dibattiti che vengono fuori con
anni di ritardo e senza una
strategia volta quantomeno
a resistere all’attacco che Ue
e governo nazionale portano
ogni giorno al territorio, ai
cittadini e ai servizi essenziali. Nel mondo a parte si parla
di tutto, ma ci sfilano la sovranità sotto gli occhi senza
colpo ferire.
Senza Soste redazione
5
Livorno
Ottobre 2015
CULTURA - Viaggio negli spazi andati irrimediabilmente perduti a Livorno
La città dei cinema e dei teatri
JERRY MANDERS
P
rima i bombardamenti aerei
degli “amici” inglesi e americani durante la Seconda Guerra Mondiale. Poi le demolizioni
dagli anni ‘60 ai nostri giorni
per fare spazio a banche, supermercati, parcheggi. Senza tenere
minimamente conto della storica funzione sociale e culturale
svolta per lungo tempo verso i
livornesi, né della validità di queste strutture da un punto di vista
architettonico. Rapida carrellata
dei principali spazi andati irrimediabilmente perduti che fecero di
Livorno la città italiana con la
più alta densità pro-capite di cinema e teatri.
Cinematografo Artistico
Primo cinema in pianta stabile a
Livorno. Inaugurato il 3 giugno
1905, ubicato in via Grande e
oggi trasformato in parcheggio, è
ricordato perché ospitò la prima
proiezione di un film a soggetto
in Italia, “La presa di Roma”
(il 17 settembre 1905). Nel 1907
mutò nome in Lux et Umbra e si
presentava con un decoro bizantino, soffitto con stucchi d’oro,
velluto rosso e illuminato con
una miriade di lampadine elettriche. Infine prese il nome di
“Cinema Moderno” nel secondo
dopoguerra e fu chiuso il 12 gennaio 1984 quando entrarono in
vigore normative che imponevano importanti e costosi interventi
strutturali volti a scongiurare il
pericolo di incendi. Il suo foyer è
stato riqualificato e al momento
è un negozio di abiti da sposa.
Cinema Teatro Centrale
Ubicato in piazza dei Carabinieri (oggi via dei Carabinieri), fu
inaugurato il 9 dicembre 1911 e
proponeva sia spettacoli teatrali
che proiezioni cinematografiche.
Nel novembre del 1912 uscì con
5.000 copie la rivista cinematografica “Il Centrale” nella quale
si riportavano i sunti dei film e i
programmi dei vari cinematografi di Livorno che facevano parte
del “trust del chiodo” di quel momento, costituito da Lanciotto
Lazzeri e Cesare Gragnani, così
chiamato perché il loro accordo
era pubblicizzato con la distribuzione di un gingillo formato da 2
chiodi incatenati. Rimase aperto
fino agli anni ’60 quando, successivamente ad un delitto che si
consumò all’interno dell’impianto (l’omicidio del custode Marzi,
un evento che scosse a lungo la
città), fu abbattuto per lasciare
il posto alla Banca d’America
e d’Italia (sostituita poi dalla
Deutsche Bank).
Cinema Odeon
Inizialmente pensato per essere
anche un teatro, con i suoi 2.500
posti ridotti a 800 dopo la restaurazione avvenuta nel 1998 è
stato uno dei più grandi cinema
in Italia. Costruito nel 1952 per
volere della famiglia Gragnani,
il progetto fu affidato a Virgilio
Marchi. L’Odeon fu poi ceduto a
Fortunato Marinari ed infine alla
famiglia Lippi che lo ha gestito fino
alla sua chiusura. L’ingresso aveva
una forma semicircolare dal quale
si accedeva al foyer. Da qui si raggiungeva il corridoio che precedeva
la sala, con la sua pianta trapezoidale, passando da tre grandi porte.
Ottimo era l’impianto acustico;
belle e funzionali erano le scelte
tecniche di tipo “futuristico” adottate dal Marchi. Il cinema è stato
chiuso nel marzo del 2005 ed è
stato soppiantato da un parcheggio
per auto. Del cinema è rimasta solo
la facciata d’ingresso.
Salone Margherita
Inaugurato il 17 maggio 1913 e ubicato in via Michon, fu costruito su
progetto dell’ingegnere Carlo Frullani ed era di proprietà dei Signori
Bolaffi, Borghetti, Romoli e Ferlazzo. Poteva ospitare 800 persone
e fu il principale concorrente del
Centrale al punto che dal 13 luglio
1913 si dotò anch’esso di una rivista cinematografica, “Il Programma”, con la quale si descrivevano
le trame dei film e si pubblicavano
tista Innocenzo Gragnani, si trovava in via dei Fulgidi. Presentava facciate eleganti e un portico
costituito da tre archi sostenuti
da pilastri e bozze e sormontato da altri pilastri scannellati di
ordine ionico che sostenevano il
frontespizio della facciata. Altri
pilastri ornavano le parti laterali di tutto il fabbricato. Aveva 5
ordini e 130 palchetti, ognuno
dei quali aveva uno stanzino di
ritirata per offrire la massima
comodità dei circa 1.000 spettatori. Spiccava per eleganza e
comodità, per le bellissime scale, per l’atrio e il foyer con le
cariatidi di Giovanni Duprè. La
sala aveva una forma semicircolare intorno alla quale si trovavano bassorilievi e dorature. Il
palcoscenico era vasto e proporzionato. Molto bello era anche
il lampadario calato dal soffitto
già acceso e ritirato a fine rappresentazione. Inaugurato con
il Mosè in Egitto di Gioachino
Rossini, condivise lo stesso triste destino del San Marco, con
un lento declino e la distruzione
avvenuta a seguito della Seconda Guerra Mondiale.
Teatro Avvalorati
Voluto dall’imprenditore Gaetano Bicchierai, fu edificato
nel 1782 col nome di “Teatro
degli Armeni” nel quartiere
“della Venezia”, dove un tempo
si trovava un magazzino detto
“delle mummie”. Il suo nome
era dovuto alla vicinanza alla
Chiesa degli Armeni. Nel 1790
questo teatro prese
il nome di “Teatro
degli
Avvalorati”
(nome dell’accademia che ne assunse
la gestione). L’esterno assunse l’aspetto
definitivo nel 1867
quando fu costruita
la nuova facciata rivolta verso il palazzo
Comunale, costituita da tre piani e tre
ingressi con finestre
alternate da grandi
Nella foto grande il Teatro degli Avvalorati. Sorgeva dove adesso c’è l’omonima via
colonne ioniche. Oriche costeggia il fosso, parallela a scali delle Pietre.
ginariamente dispoA sinistra il Politeama. Si trovava sugli scali Saffi, accanto alla “fabbrica del ghiaccio” e a due passi dal Mercato delle Vettovaglie.
neva di 126 palchetti
Qui sopra il Cinema Centrale. Si trovava nell’allora piazza dei Carabinieri (in seguisu cinque ordini con
to via) nei pressi del più ampio e famoso teatro Rossini che si affacciava sulla
una pianta a ferro
stessa piazza.
di cavallo, con una
platea larga 15 metri
e lunga 18 metri. Fu restaurato
Costruito sugli Scali Saffi, vicino aprile 1806. Aveva 136 palchi sistepiù volte nel corso degli anni
al Mercato Centrale, fu progettato mati in 5 ordini ed era uno dei più
anche ad opera di artisti quali
da Cesare Sacuto e realizzato con grandi ed armonici teatri d’Italia.
Antonio Niccolini e Giusepuna intelaiatura di ferro e con un L’ingresso principale del teatro era
pe Maria Terreni; in seguito, e
pavimento amovibile per poter ac- sull’attuale via San Marco e si prefino allo scoppio della Seconda
cogliere spettacoli di ogni genere: sentava con la loggia a tre archi con
Guerra Mondiale, divenne una
prosa, lirica, circensi. Questo gra- vestibolo frontale. Conobbe la sua
sala cinematografica chiamata
zie al tetto apribile che permetteva decadenza nei primi anni del ‘900
“Supercinema” dove si proietl’areazione durante i mesi estivi. e durante la seconda guerra montavano film in prima visione.
Aveva una capienza di 3.000 posti diale fu usato come magazzino.
Distrutto durante i bombardaorganizzati in 42 palchi disposti su Nel 1921 ospitò il primo congresso
menti aerei, fu definitivamente
3 ordini. La platea era organizza- del Partito Comunista Italiano. Il
demolito per far posto ad un
ta in 7 file, dietro vi erano poste le Teatro San Marco fu abbattuto dal
viale che tuttora prende il nome
gradinate, illuminate da due grandi terribile bombardamento del 7 giudel cinema e congiunge il Pacandelabri. In alto 9 leggerissime gno 1944.
lazzo Comunale a piazza della
lumières collocate su un cornicio- Teatro Gragnani (o Rossini)
Repubblica.
ne che supportava 600 fiaccole che Chiamato così in onore del progetle programmazioni. Faceva concorrenza al trust Gragnani-Lazzeri. Ha resistito ai bombardamenti
e per molti anni ha continuato l’attività proiettando film a luci rosse
fino al 2012, anno in cui il cinema
è stato definitivamente chiuso. In
luogo del cinema, oggi potrebbe
essere realizzato un supermercato.
Teatro Politeama
Finanziato dall’avvocato Vincenzo Mostardi Fioretti, il Politeama
fu inaugurato il 24 giugno 1878.
venivano accese grazie ad una “locomotiva” che correva nel perimetro del cornicione. Fu demolito nel
1968.
Teatro San Marco
Fu progettato dall’architetto Gargani che poi ne divenne unico proprietario dopo il fallimento della
Società Dutremoul di cui era socio.
Venduto all’Accademia dei Floridi
nel settembre 1805, viene intitolato al figlio della regina d’Etruria
Carlo Lodovico e inaugurato il 27
6
per non dimenticare
anno X, n. 108
7 OTTOBRE 1985 - Trent’anni fa la crisi di Sigonella Quando l’Italia disse no a Reagan
NELLO GRADIRÀ
O
re 13 del 7 ottobre 1985: sulla nave italiana da crociera
Achille Lauro un membro dell’equipaggio scopre quattro uomini intenti a trafficare con armi da
fuoco. Si tratta di un commando
del Fronte per la Liberazione
della Palestina che prepara un’azione di guerriglia nel porto israeliano di Ashdod. Dopo una sparatoria il commando s’impossessa della nave
e prende in ostaggio i 201 passeggeri e i 344 membri dell’equipaggio. Per la loro liberazione
chiede il rilascio di 50 palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Il giorno successivo viene
ucciso il cittadino statunitense
di origine ebraica Leon Klinghofer, un anziano paraplegico
che risulterà l’unica vittima della vicenda. Le trattative, infatti,
con la mediazione dell’Italia,
dell’Egitto, dei leader dell’Olp
Arafat e del Flp Abu Abbas, si
concludono con la liberazione
di tutti gli ostaggi in cambio di
un salvacondotto per i quattro
dirottatori. Il 10 ottobre questi
salgono insieme ai mediatori
dell’Olp su un aereo dell’Egyptair, che però viene intercettato
da quattro caccia Usa. Dopo
molte peripezie l’aereo viene
autorizzato dal premier Bettino Craxi ad atterrare nella base
NELLO GRADIRÀ
L
’11 settembre è una data
fatidica… Quel giorno, nel
1980, alle sedi torinesi di CgilCisl-Uil arrivano le raccomandate che annunciano 14.496
licenziamenti alla Fiat. Gli
scioperi spontanei, i picchetti,
le assemblee, che sono già in
corso fin dalla riapertura delle
fabbriche all’inizio del mese, si
estendono a tutti gli stabilimenti. L’azienda cercava lo scontro
frontale fin dall’anno precedente, quando aveva annunciato il
licenziamento di 61 operai falsamente accusati di complicità
con il terrorismo. E a maggio
Umberto Agnelli aveva lasciato
la carica di amministratore delegato a Cesare Romiti, l’”uomo
forte” che avrebbe dovuto gestire lo scontro frontale con
la classe operaia. Sono finiti i “trent’anni gloriosi” della crescita economica iniziati nel dopoguerra. Nel 1973 e
nel 1979 le due grandi crisi petrolifere avevano segnato la fine
del “compromesso fordista” e
della grande fabbrica. Ma invece
di spiegare la natura della crisi,
Pci e sindacato avevano chiamato i lavoratori all’”austerità”
in cambio di una nebulosa prospettiva di governo del paese. E
il Pci, dopo la grande avanzata
Nato di Sigonella, in Sicilia, dove
arriva poco dopo mezzanotte.
Craxi dà ordine alle forze armate
di prendere in consegna l’aereo, e
intorno al Boeing si schierano l’Aeronautica militare e i Carabinieri.
Poco dopo però vengono circondati da 50 uomini della Delta Force
Usa atterrati senza autorizzazione,
che pretendono la consegna dei
dirottatori e di Abu Abbas, considerato il mandante dell’azione.
Arrivano altri Carabinieri che li
circondano a loro volta e la tensione sale alle stelle. Reagan infuriato
telefona ai più autorevoli esponenti del governo italiano ma Craxi
non cede: il delitto è avvenuto su
una nave italiana, i dirottatori si
trovano sul territorio italiano e
verranno giudicati in Italia. Inoltre
non esistono prove certe del coinvolgimento di Abu Abbas. Alle 5.30 i militari nordamericani
si ritirano. I dirottatori vengono
arrestati e l’aereo con i mediatori
si dirige a Ciampino. Viene di nuovo seguito da aerei Usa che cercano di dirottarlo per catturare Abu
Abbas, ma vengono dissuasi dai
caccia italiani. Alle 23.10 il Boeing
arriva a Roma, ma un altro aereo
Usa, atterrato dopo aver dichiarato una falsa emergenza, si mette
di traverso sulla pista. L’ammiraglio Martini, capo del Sismi, gli
intima di sgombrare entro cinque
minuti, dopo di che verrà rimosso
con un bulldozer. Gli statunitensi
se ne vanno e i mediatori dell’Olp
voleranno a Belgrado. Il Ministro
della Difesa repubblicano Spadolini, esponente della fazione più
filo-americana e filo-israeliana della maggioranza, chiede le dimissioni di Craxi, ma il governo riceve
l’appoggio del Partito Comunista e
della Dc di Andreotti e Cossiga. Abu Abbas, rifugiatosi in Iraq, verrà condannato in contumacia dai
giudici di Genova per il dirottamento, sulla base - si legge su Wikipedia - “di documentazione statunitense e israeliana”. Catturato
dai nordamericani
durante la guerra
nel Golfo nel marzo 2003, morirà
un anno dopo in
un carcere presso
Baghdad per un
“attacco
cardiaco”. L’incidente
di Sigonella non
pregiudicò i buoni
rapporti tra Italia
e Usa: secondo
Cossiga, nel 1986
Craxi per farsi perdonare concesse all’alleato l’utilizzo della base per i bombardamenti sulla Libia, salvo poi avvertire
Gheddafi dell’imminente attacco.
L’episodio avvenne in un periodo
di passaggio tra la cosiddetta prima
Secondo i soliti
“complottisti”,
Mani Pulite è
stata la vendetta
statunitense contro
Craxi per lo smacco
subito
OTTOBRE 1980 - I 35 giorni della Fiat e la “marcia dei 40mila”
La fine dell’operaio massa
Ritratto di Marx a Mirafiori
del 1975-’76, aveva subito nel 1979
la prima sconfitta elettorale dopo
trent’anni. Dopo l’11 settembre
1980 alla Fiat la mobilitazione
cresce, e due settimane dopo c’è
lo sciopero generale nazionale dei
metalmeccanici. Al corteo di Torino ci sono 100mila persone, e il
giorno dopo il segretario del Pci
Berlinguer ai cancelli di Mirafiori
garantirà l’appoggio del suo par-
tito in cambio dell’occupazione
della fabbrica. In realtà il Pci e la
Cgil hanno già deciso che la classe operaia dovrà capitolare. Basta
leggere alcuni stralci di un’intervista rilasciata due anni prima da
Luciano Lama, segretario della
Cgil, a Repubblica per rendersene conto: “Sì, si tratta proprio di
questo, il sindacato propone ai
lavoratori una politica di sacrifici.
Sacrifici non marginali, ma sostanziali”. Lama contrapponeva
occupati e disoccupati (“se vogliamo esser coerenti con l’obiettivo di
far diminuire la disoccupazione, è
chiaro che il miglioramento delle
condizioni degli operai occupati
deve passare in seconda linea”)
e apriva le porte ai licenziamenti
(“c’è un certo numero di aziende
che ha un carico di dipendenti eccessivo. Non si tratta di cifre terribili, ma neppure esigue. Siamo
nell’ordine di parecchie decine di
migliaia di lavoratori”). Sabato 27
settembre cade il governo Cossiga.
La direzione della Fiat, “per senso
di responsabilità” rinvia i licenziamenti ipotizzando il ricorso alla
cassa integrazione. Si tratta di una
repubblica e la seconda. Nei decenni del regime democristiano
la politica estera italiana, dettata
soprattutto da Giulio Andreotti,
tendeva a mantenere buoni rapporti con il mondo arabo. Dopo
Tangentopoli, con il disfacimento dei tre grandi partiti di massa, prevarrà invece una visione
ferocemente atlantista e filosionista. Secondo i soliti “complottisti”, Mani Pulite sarebbe stata
la vendetta statunitense contro
Craxi per lo smacco subito a Sigonella, e negli ambienti della
destra fascistoide quell’episodio
viene esaltato come l’ultimo (o
l’unico) esempio di dignità nazionale di fronte agli Usa dal
dopoguerra ad
oggi. I “manettari”, tra i quali
il divetto Marco
Travaglio, hanno invece accusato il malvagio
Craxi di complicità con il terrorismo, laddove
per
Travaglio
“terroristi” sarebbero l’Olp,
Arafat e i palestinesi in generale.
A dimostrazione di come oggi
in Italia né stampa né politica
mainstream riescano ad uscire
dal recinto della sudditanza “atlantica”.
manovra per sfiancare i lavoratori
e dividerli. Il 30 settembre la Fiat
comunica che verranno messi a
zero ore più di 22mila lavoratori.
L’assemblea dei delegati decide di
proseguire la lotta e si continua con
il blocco totale dei cancelli. Ma il
14 ottobre ci sarà un episodio che
condizionerà l’esito della mobilitazione: i capi e i quadri intermedi
della Fiat, supportati dall’azienda,
si danno appuntamento al Teatro
Una sconfitta
decisiva che chiuse
un ciclo decennale di
lotte operaie
Nuovo e fanno partire un corteo
che attraversa la città. Si dirigono verso corso Marconi e sfilano
sotto la sede della Fiat per dimostrare la propria fedeltà al padrone.
Oltre ai capetti, che alla Fiat non
sono più di 15mila, scendono in
piazza i bottegai e la destra. Passerà alla storia come la marcia dei
40mila, anche se i telegiornali
della sera parlano di 20mila.
Neanche La Stampa, il giornale
della Fiat, avrà il coraggio di
riportare questa cifra, fermandosi a 30mila. Parte una grande
campagna mediatica sulla “storica giornata”, punto di svolta
nelle relazioni sindacali, e “sarà
Repubblica di Scalfari - scrive
Claudio Vainieri - il giornale
che più di ogni altro santificherà la marcia dei 40.000”. Per i
sindacati è un’opportunità da
non perdere per gettare la spugna: anziché organizzare una
contromanifestazione per contarsi, il giorno dopo firmano
l’accordo con cui si mandano
in cassa integrazione 22.000 lavoratori e si decide la riapertura
della fabbrica. Gli operai non
ci stanno, le assemblee respingono l’accordo. Ma i burocrati
sindacali annunciano che è stato “approvato a larga maggioranza”. La direttiva di Fassino,
all’epoca responsabile Pci per il
settore fabbriche, è di “far passare l’accordo a tutti i costi”. Poi
parleranno di una vittoria della classe operaia… L’anno successivo i dipendenti
Fiat sono 27.300 in meno, nel
1985 36.000 in meno. E per tutti
gli anni ’80 si conterà un numero impressionante di suicidi (circa 200) tra gli operai licenziati.
Ottobre 2015
7
stile libero
LETTURE - “Per il bene che ti voglio”: il secondo romanzo del livornese d’adozione Michele Cecchini
Q
uello tra Livorno ed il libro
è un rapporto ormai da tempo consolidato. Per la tradizione editoriale e libraria, ma anche per la prolifica produzione
saggistica e letteraria. Michele Cecchini è uno scrittore di origine lucchese che da
tempo vive a Livorno. Tra gli
animatori a Lucca dell’esperienza dello spazio autogestito
Il Mattaccio, dove si occupava
delle attività culturali, co-fondatore del Cineforum Ezechiele
25,17 (realtà tuttora molto attiva), Michele nel 2010 pubblica
il suo primo romanzo “Dall’aprile a Shantih”, con il quale
ha aperto a Praga una rassegna
dedicata agli esordienti italiani.
Insieme a Ettore Borzacchini
ha ideato, scritto e condotto il
programma radiofonico “Aperte Virgolette”. Dopo la scomparsa del Borzacchini, Michele
ha ripreso a metà della stagione
successiva con un nuovo format radiofonico, “Saccadé”,
in cui via via ospita suoi amici, tra i quali Bobo Rondelli,
Pilade Cantini, Marco Malvaldi, Antonio Bardi, Daniele
Caluri, Michele Crestacci e
molti altri. Lo scorso 15 aprile
è uscito il suo secondo romanzo, “Per il bene che ti voglio”,
che ha avuto un’ottima accoglienza: il giro di presentazioni
sta attraversando tutta l’Italia
e il romanzo è stato ‘Libro del
giorno’ a “Fahrenheit”, la trasmissione in onda su RadioTre.
Lo abbiamo incontrato sui gradoni della Curva Nord dello
stadio Armando Picchi e ne
abbiamo approfittato per parlare del suo libro. Partiamo da Livorno. Perché?
Quello a Livorno è stato, per
così dire, un passaggio per me
necessario ma non dettato dalle
circostanze. A volte, semplicemente, capita di riconoscere i
luoghi con cui si percepiscono
affinità. E per quello che riguarda la mia piccola esperienza,
posso confermare che Livorno è una città accogliente: mi
ha aperto spazi e mi ha offerto opportunità. Con il tempo,
poi ho provveduto al trasferimento professionale (adesso è
docente di materie letterarie in
un istituto superiore in città,
ndr). Non escludo di spostarmi ancora, in futuro. Magari
all’estero, chissà. Spostarsi fa
bene, aiuta a crescere e a vedere le cose da una prospettiva sempre nuova. Questo romanzo, come il
primo, è edito dalla casa editrice Erasmo. Anche questa è una scelta che ha a che
fare con Livorno. Ho avuto la fortuna, tramite un
amico comune, di conoscere
Franco Ferrucci, editore e libraio, cui sottoposi il manoscritto
del mio primo romanzo. A lui
piacque e decise di pubblicarlo. Era il febbraio del 2010. Fu
un gesto coraggioso, perché si
trattava di un testo decisamente
sperimentale. La scomparsa di
Franco ha costituito per la città
Liberi di emigrare
una perdita gravissima, perché era
un punto di riferimento, un animatore abilissimo nel coinvolgere e
nell’aggregare. Devo molto al suo
supporto e al suo incoraggiamento. Con il mio secondo romanzo
volevo contribuire alla salvaguardia e alla crescita di un progettochiave per la città, quale appunto
la casa editrice, con cui collabo-
“Posso confermare
che Livorno è una
città accogliente:
mi ha aperto spazi
e mi ha offerto
opportunità”
ro anche per altri progetti. “Per il bene che ti voglio” racconta di un emigrante che negli
anni ‘30 si trasferisce negli Stati
Uniti. Come è nata l’idea? Mio nonno Umberto nel 1923
sbarcò a Ellis Island e fu uno di
quelli che finì ‘a pala e piccone’.
Nel corso del tempo, il ramo da
parte di mio padre si è spostato
quasi per intero a San Francisco.
Dalle nostre parti è cosa abituale:
pare ci siano più lucchesi a San
Francisco che a Lucca. Ogni tanto
venivano a trovarci questi parenti, i classici “ameri’ani di Lucca”:
persone che a me bambino pare-
vano piovute da un altro pianeta,
vestite in modo improbabile e che
parlavano una lingua tutta loro.
Scrivere di queste persone è stato un po’ riattraversare un pezzo
della mia storia familiare. Il protagonista del tuo libro però
è un emigrante anomalo: si trasferisce negli Stati
Uniti per tentare la
fortuna nel circuito
dei teatri Off-Broadway... Sì, si tratta di un’emigrazione
non
dettata da esigenze
economiche ma artistiche. Ci tenevo a rifuggire dal cliché del
povero
emigrante
con la valigia di cartone, su cui già tanto
è stato detto e scritto. Tutto sommato,
il protagonista del
mio libro rivendica il
diritto e la libertà di
spostarsi, a prescindere dal tipo di esigenza. Alcune porzioni del romanzo
sono scritte in una lingua particolare, che definisci “italiese”. Coloro che partivano per l’America, inevitabilmente si contaminavano con un altro mondo, per cui
non gli era più possibile mantenere l’identità di partenza. Allo stesso tempo, non erano ancora pronti per una piena integrazione nel
luogo di arrivo. I primi emigranti
dunque rimangono
in una sorta di limbo, finiscono per essere “non più” e allo
stesso tempo “non
ancora”. Nel mio personaggio questo ibridismo è evidente fin
dal nome: Antonio
Bevilacqua in America decide di essere
Tony
Drinkwater.
Ecco, in questa “terra
di mezzo” abitata da
chi non è più italiano
e non ancora americano, rientra anche la
lingua: anche qui gli
emigranti si ritrovano “a metà”, perché
parlano appunto ‘italiese’, un goffo miscuglio di italiano e inglese che qualcuno ha
definito “lingua della
sopravvivenza”. Per
farti qualche esempio, non dicevano “lavoro”, ma “giobbo”
(da job), non “strada”
ma “stritta” (street),
“sciumecca” invece di
“calzolaio” (da shoes
maker) e così via.
In calce al romanzo
ho messo un piccolo
vocabolario ‘italieseitaliano’: in qualche
modo la mia vuole
essere anche un’operazione di salvaguardia di questo piccolo patrimonio,
che ritengo molto poetico proprio
perché racconta il disperato tentativo di integrarsi, di diventare a
tutti i costi qualcos’altro quando
ancora non se ne hanno i requisiti. Credo che qui stia uno dei perni attorno a cui ruota il romanzo:
la ricostruzione storica era per me
un pretesto per parlare di uomini
a metà, di terre di mezzo, di metamorfosi in corso e trasformazioni di carattere esistenziale. Tutte
cose che ritengo attualissime. A proposito di attualità: credi che la buona accoglienza ricevuta dal tuo romanzo sia dovuta anche al fatto
che racconti l’emigrazione? Non c’è stata presentazione dove
non sia stato avvicinato da qualcuno che aveva il desiderio di
raccontarmi vicissitudini familiari che avevano a che fare con
l’emigrazione. Vicende spesso
assai dolorose. Purtroppo ho la
sensazione che con questo fenomeno, che ha riguardato milioni
di italiani, ancora non si siano
fatti per bene i conti. I manuali di storia, per dire, dedicano
all’emigrazione nel migliore dei
casi un paragrafo. Comprendere e conoscere quanto accaduto,
viceversa, aiuterebbe non poco
nella valutazione dei fenomeni
attuali, anche per cogliere certe
evidenti simmetrie. La parte americana del libro si
svolge anche a San Francisco,
che tu delinei come una città
molto mediterranea. Sì, nel testo la rappresentazione della città ha decisamente a
che fare con Livorno. Qui non
si tratta solo della innegabile
parentela che storicamente c’è
con l’America, ma anche e soprattutto per le analogie proprio
con San Francisco: entrambe
“Il protagonista del
mio libro rivendica
il diritto e la libertà
di spostarsi, a
prescindere dal tipo
di esigenza”
hanno di fronte a sé un’isola che
ospita un carcere, e poi il porto, l’accoglienza, la vocazione
all’espressione artistica, ma anche la funicolare e il Cable Car,
il ponce e l’irish coffee, i presidi
militari. Ecco, la parentela si
ritrova a mio giudizio soprattutto nella tenacia con cui San
Francisco e Livorno difendono
la propria libertà e i propri spazi
di autonomia,
anche nel sopperire a emergenze sociali,
come
quelle
abitative e culturali. Un’ultima
cosa: al momento
hai
qualche
altro
progetto in cantiere? No, per ora
no. La scrittura di un libro è
una cosa molto
gratificante ma
anche molto faticosa. Le pagine sono il frutto
di continui rifacimenti, di un lavoro anche doloroso, emotivamente sfiancante. Qualche idea
già ce l’ho ma per il momento
mi dedico alle presentazioni. In
ottobre sarò a Bologna, a Mantova, ad Arezzo e altrove.
Senza Soste redazione
Info: www.michelececchini.it
Pagina Otto
anno X, n. 108 - Ottobre 2015
TITO SOMMARTINO
A
lla faccia dei petrodollari, dei
fondi d’investimento e dei
magnati dell’estremo Oriente, il
2015 è stato l’anno dalle piccole
squadre, a cominciare da quelle
che si sono affacciate per la prima
volta nei massimi campionati europei nazionali: Frosinone e Carpi in Italia, Ingolstadt in Germania, Bournemouth in Inghilterra,
Tondela in Portogallo. Il Gazélec Poco, però, è frutto del caso: l’Ingolstadt ha dietro di sé il Gruppo
Wolkswagen, il Carpi un’azienda
di abbigliamento che fattura 60
milioni annui e il Bournemouth,
come tutte le squadre inglesi di
Premier e First Division, si è fatta
forte dell’equa spartizione dei diritti tv (che quest’anno ammontano a quasi 90 milioni). Quel
“poco”, a prima vista, sembra riguardare un’altra neopromossa, il
Gazélec Football Club Ajaccio.
Nato nel 1960 dalla fusione tra
Gazélec Ajaccio e Football Club
Ajaccio, il Gfca ha in tutto e per
tutto l’aspetto di un club semiprofessionistico piovuto dal cielo nel
calcio dei grandissimi: un budget
ridicolo per i canoni della Ligue 1
(quasi 5 mln di cui 4 provenienti
dai diritti tv), uno stadio da neanche 3.000 posti portato in fretta e
furia a 5.000, un organigramma
che conta appena due persone assunte e un manipolo di volontari,
e dove anche presidente e direttore sportivo si rimboccano le maniche per guidare il trattore e rizzollare il manto erboso o dipingere
gli spogliatoi. Insomma, si giocherà anche al Vélodrome o al Parco
dei Principi ma lo spirito è sempre
quello da dopolavoro di Edf e
Gdf, i colossi di gas ed elettricità
dai quali è nato il club (Gazélec è
la contrazione di Gaz ed Electricité). Eppure è dietro queste presunte debolezze che si nasconde la
grandezza di questo piccolo grande club. C’è due senza tre Stavolta nessuno ha vanificato il
risultato ottenuto sul campo. Per
ben due volte nella propria storia,
infatti, il Gazélec non ha potuto
dare seguito alla promozione dal
campionato National alla Ligue
2. Nel 1965 fu proprio il club a
scegliere di mantenere lo statuto
di dilettante e girò il titolo al Bastia, che affronterà il prossimo 21
novembre al Furiani (1). Proprio
la famosa tragedia che colpì lo stadio bastiaccio fu all’origine di alcuni dissapori tra il Bastia e il
Gfca. Accadde che a causa della
lunga indisponibilità del Furiani,
al centro di lunghe perizie dopo
quanto accaduto, il presidente del
club ajaccino offrì gratuitamente il
proprio stadio al Bastia. Per tutta
risposta, i sostenitori turchini si resero protagonisti di vandalismi in
città e di incidenti contro i tifosi
del Gazélec. Un comportamento
che portò l’allora presidente del
Gfca, Michel Appietto, a usare
parole durissime e “avvertire” il
Bastia che se non fosse stato ristabilito un rapporto di collaborazione, da lì in avanti squadra, club e
La famiglia dei miracoli
CALCIO - Sotto il cielo di Ajaccio si è consumato il più grande miracolo della
storia calcistica corsa dopo la finale Uefa del Bastia nel 1978. Andiamo alla
scoperta del Gazélec, un piccolo club caratterizzato dalla passione genuina
dei propri tifosi e dalla storica vicinanza ai nazionalisti e ai comunisti corsi.
tifosi turchini sarebbero stati accolti
come “non desiderati” ad Ajaccio.
Nel 1999 il Gazélec conquista la
promozione sul campo e stavolta
in L2 ci andrebbe eccome. Ma la
Lega calcio francese si oppone: un
assurdo articolo del regolamento
vieta a una città con meno di
100.000 abitanti di poter avere due
società professionistiche nella stessa divisione. I gaziers lottano con
tutte le proprie armi contro questa
decisione ma gli avversari sono
tanti. Uno su tutti l’Sc Bastia. La
Lega mantiene la sua decisione e
l’appello al Consiglio di Stato viene rigettato. La fusione scampata Per poco i due club cittadini non si
fondevano. Era il 1972 e l’Ac Ajaccio, all’epoca il club più famoso e
importante, si rivolse al Gazélec
per cercare di mantenere la squadra nella massima serie e far fronte
ai problemi finanziari che ne pregiudicavano l’iscrizione. I due club
raggiunsero un accordo di massima ma poi i dirigenti del Gfca ci
ripensarono. La motivazione? Tutta sociale e politica. Così recita il
comunicato ufficiale dell’epoca:
“[…] Dopo averci pensato a lungo
abbiamo deciso di privilegiare i valori del calcio dilettantistico e rifiutare la proposta del sindaco di
Ajaccio di avvicinarci all’Aca, che
ha un’estrazione borghese e bonapartista. Inoltre l’Aca ha un nome
inglese (Athletic Club Ajaccio,
ndr) la cui creazione è legata all’attività turistica della città. Il Gazélec
vuole essere invece il rappresentante dei reali valori dell’identità corsa”. Aiacciu cita nostra Sembrerà strano ma in Francia l’unica città in grado di annoverare
due squadre professionistiche oltre
Parigi è la piccola Ajaccio. Fuori
dall’isola molti pensavano che ad
Ajaccio ci fosse solo l’Athletic
Club, più comunemente chiamato
Aca, che rispetto al Gazélec può
vantare 13 campionati di Ligue 1.
Invece se all’Aca va la supremazia
cittadina in termini di palmarès, al
Gfca va quello di squadra più popolare e amata della città. I due
derby giocatisi lo scorso anno in
Ligue 2 sono finiti in parità: agli
“Orsi” è andato il primo in casa del
Gfca e Les Gaziers si sono rifatti con
gli interessi andando a vincere in
trasferta per 3-0. Stadio Ha senso parlare di casa e trasferta
perché le due squadre di Ajaccio
hanno due stadi diversi e per giunta di proprietà (un caso più unico
che raro in Francia visto che al momento solo l’Auxerre ha uno stadio privato). Se l’Aca gioca nel
freddo François Coty, il Gazélec
ha la propria casa al ben più piccolo e caldo “Mezzavia”, appena
comprato a prezzo di favore dalla
Caisse centrale d’activités sociales
de l’énergie (Ccas), un organismo
che tra le altre cose gestisce le assicurazioni, le attività sociali e le vacanze proprio dei lavoratori di Edf
e Gdf, gli stessi che nel 1960 a tempo di record tirarono su lo stadio
lavorando giorno e notte da volontari. Anche in quell’occasione nessuno restò con le mani in mano,
come sottolineò il presidente e fondatore del Gfca, il sindacalista comunista Ange Casanova (a cui verrà poi intitolato lo stadio): “Anche
i nostri giocatori, con il loro allenatore, hanno eretto recinzioni, costruito e dipinto gli spogliatoi,
piantato e mantenuto il prato. Questa è la nostra casa, il nostro lavoro.
Quella di una vera famiglia”. Il legame calcio-nazionalismo Un concetto, quello di “famiglia”,
la cui accezione è abbastanza estesa nell’isola. Qua la famiglia non è
solo quella regolata da rapporti di
parentela ma anche da affinità politiche, sociali, culturali, economiche e spesso poco lecite. L’anziano
proprietario del club, il 77enne
Fanfan Tagliaglioli, nel “suo” sta-
dio ha messo lo striscione “Sempre
cù noi” in omaggio ai suoi amici
Jean-Claude Colonna (all’epoca
vicepresidente del club) e AngeMarie Michelosi, parenti del “padrino” della Corsica del Sud JeanJérôme Colonna, uccisi nel 2008 e
nel 2009 a colpi di pistola. In sede,
invece, fanno bella mostra di sé le
foto di alcuni dei molti politici indipendentisti uccisi negli ultimi 25
anni a conferma di quanto i legami
tra grande banditismo, indipendentismo e calcio, nell’isola, sono
sempre stati strettissimi. Il primo
ministro francese, Manuels Valls
ha perfino fatto intendere che i
club calcistici corsi vengono usati
per riciclare il denaro sporco della
malavita locale e dei bracci armati
del movimento nazionalista. Comunque, così come lo era il fondatore Casanova, è un po’ tutto il
Gazélec ad essere storicamente vicino ai comunisti e ai nazionalisti.
Particolarmente evidente, negli
anni ’90, la vicinanza ad A Cuncolta (il braccio politico del Flnc Canal Historique (2)) sia del Gfca che
del Bastia. Lo stesso Jean-François
Filippi, presidente del Bastia al
momento della tragedia di Furiani
del 5 maggio 1992, fu assassinato
due anni e mezzo più tardi prima
che andasse a deporre al processo.
Con lui il club è stato letteralmente
infiltrato dal Flnc Canal historique
di Charles Pieri (che aveva il palco
vip allo stadio, accompagnava la
squadra in trasferta ed è stato comprovato che si è occupato in prima
persona del trasferimento dell’allora giovanissimo Mickaël Essien a
Lione. Ma l’episodio più grave è
forse la scomparsa del terzino Pierre Bianconi, colpevole soltanto di
essere un simpatizzante troppo fervente del Movimento per l’Autodeterminazione (Mpa), il clan nazionalista avverso. Mpa che invece
sembra avere le mani sull’Aca. Nel
2012, in pieno centro ad Ajaccio,
l’omicidio di Jacques Nacer, ex se-
gretario e membro del Consiglio
dell’Aca, vicinissimo all’allora
presidente del club Alain Orsoni,
figura storica del Fronte di Liberazione Nazionale Corso (Flnc),
fondatore nel 1990 proprio del
Mpa e fratello di Guy, assassinato
anch’egli. Orsoni prese il club
dopo 13 anni di latitanza in America Latina e solo un mese dopo il
suo rientro scampò a un tentativo
di omicidio dopo la partita interna
contro l’Evian. Il tifo organizzato In una piccola comunità come
quella dei Gaziers, il tifo organizzato non poteva che ricalcarne l’identita culturale e politica. Al
Mezzavia si leggono e si ascoltano
solo striscioni e cori in lingua corsa. I due gruppi organizzati si
chiamano Compañero e Sezzione
Guardia Storica. Sono pochi ma calorosi e comunque più belli e caldi
dei cugini dell’Aca. Chi si aspettava un esodo dalla città di Napoleone al Parc des Princes per la recente storica sfida col Paris Saint
Germain, però, è rimasto deluso:
solo alcune decine di tifosi hanno
seguito la squadra nella capitale
preferendo le tv dei bistrot del centro storico.
Note (1) Il 5 maggio 1992, in occasione della semifinale di Coppa di
Francia, una tribuna provvisoria costruita velocemente allo
stadio Furiani di Bastia crolla
causando la morte di 18 persone e 2.357 feriti. (2) L’Flnc Canal Historique era
un movimento nazionalista corso
armato nato nel 1990 da una scissione del Flnc.