“Vizi” danteschi (e loro redentore) in due commenti inediti del

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“Vizi” danteschi (e loro redentore) in due commenti inediti del
“Vizi” danteschi (e loro redentore)
in due commenti inediti del Trecento all’«Inferno».
MASSIMO SERIACOPI
Confrontarsi con gli sforzi interpretativi (e spesso apologetici)
di uomini di cultura coevi a Dante che di lui si sono occupati si rivela
sempre estremamente fruttuoso, se non altro perché obbliga lo studioso
di oggi a rimettere in discussione dati acquisiti a volte passivamente da
una secolare tradizione esegetica — come se ormai tutto fosse chiaro
nella valutazione del dettato dantesco, della sua costituzione e dei suoi
“messaggi”. Il che è per me tutt’altro che vero, con buona pace di chi,
anche in anni recenti, ha perentoriamente sostenuto di aver trovato,
tutta e sola, la chiave di lettura dell’intero ordito dantesco.
Esemplare è in questo senso proprio l’enorme serie di dati che si
è accumulata riguardo alle “allegorie fondamentali” presenti nel canto
proemiale del poema: e siccome le valenze attribuite alle tre fiere e al
profetizzato Veltro mostrano fin dagli anni Venti del XIV secolo
sfaccettature variabili, forse non risulterà ozioso ripercorrere le
proposte di due testi che, oltre ad avere in sé una qualche componente
di rispettabile documento linguistico e letterario, poiché ancora
trecenteschi (e dunque partecipi della formazione culturale e “mentale”
dantesca) possono offrirci validi spunti di riflessione sulle questioni in
esame.
Mi riferisco ai commenti, che fino al mio rinvenimento erano
rimasti inediti, contenuti nei manoscritti Laurenziano Gaddiano XC
Superiore 128 e Tempi 6 della Biblioteca Mediceo Laurenziana di
Firenze, l’uno inerente ai primi diciotto, l’altro ai primi sedici canti
dell’Inferno.1
Operando con chiarezza all’interno della tipologia esegetica
trecentesca, fortemente allegorizzante riguardo al poema dantesco, il
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primo commentatore inizia a chiosare dall’emistichio del verso 26 del
canto I costituito da lo passo, che viene interpretato come “il luogo e il
tempo del peccato, nel quale chi persevera non è vivo”.
Già nella chiosa successiva, riferita al verso 31, parafrasa così il
dettato dantesco, facendoci rimettere in discussione (al di là di quanto
si rimanga poi convinti dalla sua indicazione: ma sarà compito nostro
capire cos’è economico e produttivo accettare) la tradizionale
identificazione della lonza con il “vizio” della lussuria:
«Cominciando io a ssalire alla cognisienza delle virtù, mi si
fece innanzi la lonza», ciò è la vanagloria, che è cosa leggere:
però che non è niguno sì umile che, quando ode dire bene di sé,
la vanagloria nol tocchi. E così il fa ritornar ne’ vizii. Altri
figurano la lonza per la lossu<ria>, ch’è maculata di diversi
pensier<i>.
Sùbito risulta evidente un dato: l’esegeta attinge da, e si
confronta con, più di un precedente sforzo interpretativo; quindi, da
una parte già la tradizione mostrava delle incertezze, evidentemente; e
in più si può notare come manchi una capacità di interpretazione
complessiva di un sistema preordinatamente organizzato come è la
Commedia, e come solo i più accorti dei commentatori antichi daranno
segno di aver inteso.
Non manca però una coerenza interna, data proprio
essenzialmente dalla rigidità del sistema interpretativo allegorizzante
applicato (già intuibile da questa netta categorizzazione in vizi/virtù), a
questa serie di chiose: e l’identificazione della lonza qui proposta (non
esclusivamente, si badi bene) come la vanagloria ci deve comunque
far riflettere, come dicevo.
Né in letteratura, né nelle arti figurative mancano esempi
dell’allineamento di questi tre vizi-impedimenta al pellegrinaggio
salvifico, come ho avuto modo di accorgermi, ad esempio, da una
tavola conservata presso la Galleria dell’Accademia di Firenze: si
tratta di un san Giovanni Evangelista in trono che schiaccia tre
raffigurazioni allegoriche denominate, in calce, superbia, avarizia e,
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per l’appunto, vanagroria; il pittore fiorentino, Giovanni del Biondo,
risulta nominato in documenti datati dal 1356 al 1399, quindi è ben
accomunabile, anche cronologicamente, al commentatore preso in
esame.
Egli diventa dunque ancora più chiaramente, in base a questi
dati, rivelatore di una precisa temperie culturale della quale anche
Dante aveva partecipato, seppure in modo assai più “personalizzato” e
con capacità rielaborative decisamente superiori.
Le chiose proseguono nell’esplicazione dei vv. 37 (Tempo era,
et cetera), 45 (La vista che m’aparve d’un leone, et cetera) e 49 (E una
lupa, et cetera), in modo coerente con le indicazioni iniziali; quanto al
primo punto, viene annotato:
essendo occupato Dante ne’ vizii, alcuna speranza gl’era
l’ora del tem<po>, et cetera. E la pelle della fiera, immaginando
la chiareza del conossimento, gli cominciava a p<u>llulare nella
mente nel principio del dì, sì come in principio di luce e fine di
scurit<à>, essendo il sole in compagnia delle stelle colle quale
era acompagnato quando imprima ebbero moto: per la qual cosa
ch’era di prim<av>era, a mezo marzo. E immaginando alla
vechieza de gaetta pelle, consciderando il naturale, che, dove è,
più pare cotal fuoco più s’accenda, avegna non si dée accendere
se non come visio, et cetera.
Estesa e ricca di indicazioni relative agli intrecci e al
concatenamento di generazione e “richiamo” tra vizi la seconda
chiosa:
poi che l’autore ebbe speranza d’ostare al primo visio, segue
la seconda battaglia, dov’e’ dice: la vista d’uno leone, nel qual si
figura superbia, radice di tutti gli altri vizii. Egli è più forte di
tutti li altri animali e niente teme. Alcuno per questo figura la
superbia che non teme Iddio. Del superbo dice Ieremia: «Ecco
come il leone ter[r]à la superbia dig<…>ano». Il leone è bestia
d’aguato che figura la ‘nvidia. Il Salmista dice: «In luogo ascoso,
sì come leone in sua spilonca»; e questo dice per lo invidioso,
che sempre s’ingegna di nuocere. Il leone è furioso, però ch’e’
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per furia e iracundia fremisce: ché figura l’ira Proverbiorum 19:
«Sì come fremito del leo<ne>, così l’ira del re». Il leone è
maninconico, e però ha la quartana, e dorme e appare pigro e
accidioso: libro Numerorum, capitolo 24: «Iacendo dorme pigro
e rapacissimo e vizioso». Figura l’avarizia; il Salmista:
«Ricevettono me sì come leone presto alla preda»; ed è
divoracissimo, e per questo figura la gola. E <…> Petri V dice:
«Il leone, andando intorno per divorare». Il leone ama e dissidera
giacere carnalmente colla leonessa: Genesi, capitolo V: «Iacesti
carnalmente come leone e leonessa», onde figura lussuria. Onde
il leone gli rapresenta tutte le delettazione de tut<t>i i vizii per
impedirlo ch’e’ non salga a conossimento di virtù.
La concezione del confronto, della battaglia continua con la
disposizione peccaminosa che si frappone al pellegrino sulla via della
salvezza, la polisemia in realtà attribuita alle successive apparizioni,
per cui si potrebbe pensare che le tre fiere non siano che il
rispecchiarsi dell’una nelle altre, comunque quantomeno concatenate,
possono, ad un attento esame, rivelarci aspetti profondi del pensiero
che genera tanto il testo dantesco quanto quello dei suoi esegeti
trecenteschi; e da sottolineare sarà ancora il rimando ai testi che
vengono riconosciuti come fonte del dettato e delle concezioni del
poema.
Per il terzo punto si noterà come venga costituita una specie di
“parte finale” di un cerchio che si è aperto e che si deve
consequenzialmente richiudere:
perché l’avarizia, per la qual si figura la lupa, è quel vizio di
che quasi nullo è che non sia maculato in alcuna sua parte, però
ch’è l’avarizia tenacità, avidità, ciò è disiderare. Puossi pensare se
alcuno è che non discìdere richeze: però l’autore di questi tre vizii
di che sono maculati gli omini comunemente fa menzione dicendo
ove, impedito da questi vizii, ritornava: nel luogo basso de’
peccati.
La cupiditas, lo smodato desiderio di beni materiali e di potere,
viene dunque riconosciuto come errata disposizione che universalmente
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insidia la natura umana stessa, costringendola a ripiegarsi verso
l’errore, la parte bassa degli istinti e dei desideri, “l’infernalità”.
Né mancano poi osservazioni di qualche interesse, anche nel
loro mostrare incertezza interpretativa, riguardo all’apparizione di
Virgilio; all’altezza del v. 61 (Mentre ch’io, et cetera) si chiosa infatti:
ruinando l’autore in basso loco per la forza e rimembra<n>za
delle delettazioni de’ ditti vizii, gli appa<r>ve Virgilio, ch’el
piglia per lo effetto dell’u<ma>na ragione, e lui piglia per sua
guida. E dice ch’e’ parie fiocco per lungo silenzio, però che gran
tempo stette ch’e nonn ebbe fama, e massimamente nella nostra,
la poesia, la quale egli ristettero; o vuo’ dire ch’era fiocco però
ch’e’ mai non intese la nostra fede, ond’e’ no.lla seppe né poté
operare.
Rigidità interpretativa e duplicità interpretativa, dunque; per
quest’ultima la spiegazione fornita viene a essere, diciamo così,
“storico-letteraria” o “storico-religiosa”.
Ma passiamo all’analisi di come l’esegeta interpreta il passo
relativo al redentore venturo di questi vizi; al verso 100 (Molti sono, et
cetera) si sostiene:
però dice questo, perché questo vizio è quelo di che l’umana
natura è più maculata che di niuno altro. Molti sono gl’animali a
cui s’amoglia, ciò è che sono congiunti con questa lupa, ch’el
piglia per l’avarizia; e più saranno, però che continuo gl’uomini
vanno di male im-peggio, e così farnno infino che questo Veltro,
ciò è l’unigenito Figliuolo di Dio, verrà a giudicare l’umana
generazione. E’ non ciberà né mai cibo, o volle cibo, terreno, né
oro, né argento, ma sapienza e virtù e carità e giustizia. E nota
che peltro è una generazione di metallo, e pigliasi qui per oro e
ogni metallo. Segue: e sua nazione sarà tra feltro e feltro. Feltro
è uno panno vile; e però dice che suo principio fu e sarà nella
umilità e nella giustizia, non pretermittendo la misericordia. E
allora, qua<n>do verrà, scaccerà ogni vizio dil mondo.
Come vedremo compiutamente più avanti, il commentatore
mostra di avere presente lo sforzo esegetico di Graziolo dei
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Bambaglioli, tra gli altri; e a quest’altezza, sottolineata la diffusione
“pandemica” della bramosia di beni terreni, e lo stretto intreccio di tale
vizio con numerosi altri peccati, le chiose esaltano le valenze
messianiche del dettato: al Veltro viene attribuito il significato di
richiamo al reditus del Cristo in occasione del Giudizio Finale; ma tale
valutazione non si limita solo in questo senso, perché sùbito dopo,
chiosando il verso 101 (Infin che ‘l Veltro, et cetera), si aggiungono
osservazioni che rivelano con ancor maggiore chiarezza la loro
“fonte”:
secondo l’oppenione di molti, Dante vole intendere per
questo Veltro uno pastore o principe giusto e magnanimo, però
che è possibile che, per la infloenzia de’ corpi celestiali, alcuno
pastore o principe magnanimo e giusto nel tempo che ver<r>à
signoreggi nel mondo, per la virtù del quale signo<re …>
<di>strutti e cacciati del mondo,e sia pace e riposo per tutto
come fu al tempo d’Attaviano imperadore, che con felicità
imperò anni 56 e mesi 6; e nel 52° anno del suo imperio nacque
Cristo. E la nazione di questo pastore o principe non cerca né
oro, né argento, né queste cose terrene, ma sapienza e virtù. E
vuol dire che suo nazione sarà tra feltro e feltro, ciò è di schiatta
non grande, né per padre, né per madre, e sarà salute d’Italia e di
tutto il mondo. […].
Si confronti il testo appena riportato con la redazione inedita del
volgarizzamento di Graziolo dei Bambaglioli contenuto nel codice
Strozzi 165 della Biblioteca Mediceo Laurenziana di Firenze:
Imperciò possibile cosa è che per la influenzia de’ corpi
celestiali alcuno pastore eclesiastico e duca o principe
magnanimo nel tempo ch’è a venire signoreggi nel mondo, per la
virtude del cui salutevole reggimento sia distrutta la felonia e ‘l
pecato, e agli uomini sia data universale pace e riposo di bene, sì
ccome già intervenne al tempo della salute e della grazia di
Cesare Ottaviano Augusto imperadore, il quale felicemente
imperòe nel mondo anni LVI e mesi 6 […].
Quali sono gli elementi ricavabili dalla disamina delle
interpretazioni proposte da questi esegeti? Intanto, sicuramente si nota,
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al di là delle oscillazioni e incertezze interpretative, che il rigore
sistematico sul quale è basato l’intero apparato di chiose garantisce il
fedele rispecchiarsi dell’applicazione di una precisa forma mentis,
capace non solo di rendere conto, come già si diceva, della temperie
culturale presso la quale anche Dante si era formato, ma anche di
costituire un reticolato coerente di spunti interpretativi, e quindi, al di
là di tutto, una vera e propria “opera” con una sua valenza culturaleletteraria, sistematicamente organizzata.
In più, scendendo nel particolare, sicuramente i dati forniti
danno da riflettere anche all’esegeta moderno: personalmente credo
che il Veltro, nel suo significato letterale di “cane”, rimandi alla
profetizzazione (sul modello di quella riconosciuta nella IV ecloga
virgiliana) di ciò che potrà operare il vicario imperiale Cangrande della
Scala (rappresentante dell’Imperatore riconosciuto da Dante come
Agnus Dei, Arrigo VII); non a caso l’incipit di una ballata in sua lode
di Gidino da Sommacampagna recita: Arder d’amor mi face/ quel Can
che fuga la lupa fallace.
Ma al di là delle mie personali convinzioni, sicuramente si
noterà come confrontarsi con un esegeta contemporaneo di Dante
fornisca validi spunti di riflessione da non trascurare, anche quando ci
sia resi conto del fatto che in gran parte risulta antieconomico
assumere senza critica quanto gli antichi esegeti propongono e spesso
ripetono riprendendosi l’un l’altro: è che il dettato dantesco è difficile,
molto complesso, ricchissimo quanto a “livelli di significato” e con
strettissime interconnessioni inter-testuali ed extra-testuali.
Passando all’analisi del secondo commento inedito da me
rintracciato e preso in esame, contenuto nel codice Tempi 6 della
Biblioteca Mediceo Laurenziana di Firenze, si potrà notare la
consonanza del “sistema interpretativo” con quello appena riscontrato
nel commento precedentemente scandagliato.
Anche questo non è certo un caso: evidentemente il presente
esegeta si è pure lui formato secondo la temperie culturale e di
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pensiero rigidamente allegorizzante tipica dei primi commentatori
danteschi.
Così, all’altezza del verso 31 (Ed ecco, quasi, et cetera) si
chiosa:
quando l’autore comincia di salire, ciò è d’intendere alle
virtù, egli fu tentato e impedito da lussuria — e alcun dice da
vanagloria —, poi da superbia e poi da avarizia. E per la lussuria,
o vero vanagloria, figura la lonza, ed era di pelo maculata.
Leggera: dice però che leggermente salta nella mente all’uomo;
maculata: dice però che ogni cosa mischiata di diversi colori in
sé abbellisce più all’animo corotto che lle schiette. E quel vizio è
abile alla natura dell’uomo più che niuno altro. Per la superbia
pone per figura lo lione; la quale superbia l’autore,
conoscendola, èbbene paura, però che già gli piaceva quel vizio e
gli altri.
Come si diceva, c’è un perfetto riecheggiarsi, una
corrispondenza che pare annullare le distanze tra questi commentatori,
partecipi di uno stesso “mondo”; la salita (ostacolata) verso le celestiali
virtù, la contrapposizione alle rette intenzioni del viator “figurata”
nelle fiere, l’inserimento di ogni più piccolo dettaglio, di ogni minimo
termine negli schemi perfettamente delimitati del sistema
interpretativo (ogni sostantivo o aggettivo non viene mai riconosciuto
utilizzato se non con un preciso “fine intermedio” oltre l’apparenza per
costituire il percorso verso la comprensione di un fine ultimo, anzi, del
fine ultimo): sono questi tutti elementi che meglio ci permettono di
comprendere i “meccanismi di funzionamento” degli esegeti coevi a
Dante, e qualche lume possono pur gettare su testo, contesto e strutture
del poema.
Né va trascurata la sottile, anche fine spesso, ricerca delle
“motivazioni psicologiche” che spingono in certe direzioni il
complesso animo umano, indagato sia nella sua natura che nelle sue
possibili varianti d’essenza e comportamentali.
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Di séguito alle considerazioni appena proposte, chiosando il
verso 49 (E una lupa, et cetera), si inserisce l’interpretazione della
terza fiera che in sé pare riassumere ed esaltare le componenti dei più
terribili vizi che affliggono l’uomo:
qui pone l’autore per l’avarizia una lupa, per figura. Il quale
vizio è di quella natura, però che llo avaro giamai non si vede
sazio, e quanto più ha, più disidera d’avere; e questo vizio
impedisce più l’uomo che nessuno altro vizio, e di rado se ne
monda mai, anzi, quanto più invecchia l’uomo, e viene in più
tempo, più diventa avaro.
Di nuovo il concetto di una “realtà figurale”, di nuovo
osservazioni perfettamente coerenti con quanto esposto finora, e
notazioni relative al “vivere uomini”, a quali sono gli atteggiamenti
tipici di una definita condizione esistenziale; né ci si smentisce, dopo
aver precisato, al verso 60, che “le tenebre sono dove sono i vizii”,
indagando il senso riposto nelle parole che compongono il verso 61
(Mentre ch’io ruvinava in basso loco, et cetera):
qui dice l’autore quando questi tre vizii, e spezialmente
l’avarizia, lo conducevano in basso luogo, ciò è a perdizione, e
lla Ragione gli s’offerse innanzi, figurando questa Ragione per
Vergilio; e da essa Ragione è consigliato e aiutato.
È evidente quali sono i limiti di sistemi interpretativi così
rigidamente strutturati: si corre il rischio, spesso, di perdere la
centralità del soggetto umano, ridotto egli stesso ad allegoria, mentre è
chiaro che Virgilio mantiene, per esempio, tutta la sua consistenza
umana, appunto; schematizzare, irrigidire, diviene giocoforza
banalizzare, evidenziare certi aspetti pur presenti a discapito di una
comprensione più globale, più sfumata e anche più ricca, ché la
potenza dell’opera dantesca sta anche nella capacità di riflettere sulle
mille sfaccettature del reale e di quel compositissimo microcosmo che
è l’uomo e il suo agire, prima di rapportarsi con la dimensione
anagogica.
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Volendo indagare ancora le proposte interpretative dell’esegeta
che ha consegnato le sue osservazioni al redattore del codice tempiano,
si potrà riflettere sull’analisi dei versi relativi alla profezia del Veltro;
ai versi 100-101 Molti sono gli animali, et cetera; e più saranno, et
cetera) si nota:
qui dice l’autore che a molti si fa moglie questo vizio della
cupidità, l’avarizia, ciò è a dire che persevera con molti in vita di
loro che non si sanno partire da essa. Poi profeteza che questa
avarizia durerà infino alla venuta del Veltro, ciò è d’uno venturo;
nónne intendete “cane”, ma “criatura”, la quale sarà virtuoso,
savio, amorevole, el quale la caccerà di questo mondo e di terra
in terra finch’e’ l’arà rimessa ne l’inferno, là onde si partì prima.
E questo è assai chiaro: che ogni uno sa che questo vizio e gli
altri vennoro e vengono da Lucifero e dai suoi. E dice che quello
venturo debba nascere di vili parenti.
Davvero interessante, benché inaccettabile, questa specie di
“paraetimologia” proposta per far capire chi si nasconda nel “termine
profetico”: non importa che in realtà non si ipotizzi nemmeno chi
possa essere il personaggio adombrato, che si pensi assai
genericamente all’indicazione di una criatura: l’importante è entrare
nel sistema mentale di quel “gioco” davvero tipicamente
“medioevale”.
La venuta del Veltro, ciò è d’uno venturo; l’esegeta sembra
percepire l’utilizzo, in Dante, di un senhal, sull’uso dei rimatori in
lingua d’oc, rivelato dall’uso insistito di una serie di consonanti e
vocali che nascondono in sé reconditi significati.
Prosegue il commentatore, chiosando il verso 103 (Questi non
ciberà, et cetera):
qui dice che questo venturo non sarà uomo che disideri
richeze di possesioni, né di moneta. Alcuna oppinione è che
l’autore voglia dire che questo sarà quando ritornerà l’etade di
Saturno, la quale si dice per li naturali passati che quella fue che
gli uomini erano buoni e giusti, e dopo lui fu l’etade di Iove, la
quale non fu così buona; poi quella di Marte, la quale fu con
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guerre e con rapine e ccosì per seguente e per ordine. Ora è l’età
di Mercurio, onde, secondo questa oppinione, debia seguire
dietro a questa quella della Luna, e ppoi ritornare a Saturno, sotto
il quale debbia venire questo Veltro, figurato veltro però che ‘l
veltro è nimico proprio della lupa.
Anche a questa altezza non mancano certo spunti su cui
riflettere: soprattutto si noti la ripresa effettuata dell’idea (già
“classica”) di una ciclicità epocale, del mito dell’età dell’oro (l’età di
Saturno, appunto) e del suo atteso ritorno (cosicché elementi pagani ed
elementi cristiani si fondono; anzi, questi ultimi completano e
“inverano” i precedenti).
Non si potrà negare che tali modelli interpretativi del reale non
sono estranei al pensiero e al dettato dantesco, certo assai più profondo
e più originale di quanto qui proposto, decisamente polisemico (ché
anzi la più pura poesia dantesca proprio in questa polisemicità trova
nutrimento), ma comunque non così distante come è invece per noi da
tali categorie interpretative.
Infine soffermiamoci sull’esplicazione del verso 112 (Ond’io
per lo tuo me’ penso, et cetera); l’esegeta sostiene:
qui la Ragione voglia per lo meglio trarre l’autore di queste
delettazioni temporali, ciò è vizii, e dimostrarli quanto sono
vituperevoli e dannosi con figurargli le pene che portano i
peccatori predetti, e poi quelli che purgano si sperano vita
etterna, po’ come gli vertuosi e gli purgati hanno vita etterna,
esendo meritati a cciò ch’esso autore sì per le pene come per lo
bene delle virtù s’induca a lasciare i vizii e a pigliare la via di
virtùe.
Dante, riconosciuto come simbolo dell’umanità cristiana sviata,
vede il suo messaggio inserito in categorie troppo rigide, ma senz’altro
uno dei nuclei essenziali del suo messaggio viene compreso nella sua
base fondante, quella stessa che verrà poi riportata in chiaro
nell’Epistola a Cangrande (chiunque ne sia l’autore, comunque
consonante con l’intenzione dantesca): l’invenzione poetica diventa
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anche un modo per “removere viventes in hac vita de statu miserie et
perducere ad statum felicitatis”.
Si capisce allora che i due esegeti da me presi in esame hanno
ben presente un ulteriore elemento basilare che informa di sé il poema
dantesco: allegoricamente, moralmente e anagogicamente parlando
sotto la lettera, Dante vuole fornire un exemplum per i viventi perché si
preoccupino di ben vivere, prima che preoccuparsi di ben morire.
Solo così, ricostituendo una società civile ben funzionante, sarà
possibile riconformare il mondo sub-lunare a quello della perfetta
civitas celeste, solo così sarà possibile il reditus del pellegrino dal
mondo dell’esilio terreno alla vera e definitiva patria celeste.
Questo dato almeno molti degli esegeti trecenteschi mostrano,
tra le righe, di averlo compreso, e dunque più che qualcosa hanno da
comunicare anche a noi che lavoriamo in questi anni per meglio
comprendere e ritrasmettere quel mare magnum che è il poema
dantesco.
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NOTE
1
Ora da me editi rispettivamente in «Letteratura Italiana Antica», IV, 2003, pp. 16176 e in Intorno a Dante. Un commento inedito di fine Trecento ai primi sedici canti
dell’«Inferno»…, Firenze, Libreria Chiari/ FirenzeLibri, 2004.
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