Metafisica e leggi di natura in D.M. Armstrong Il filosofo australiano
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Metafisica e leggi di natura in D.M. Armstrong Il filosofo australiano
ANNABELLA D’ATRI Metafisica e leggi di natura in D.M. Armstrong Il filosofo australiano David Malet Armstrong, nato a Melbourne nel 1926 e attualmente professore emerito presso l’Università di Sydney, si è conquistato un posto di primo piano nel panorama della filosofia analitica contemporanea a partire in particolare dal testo del 1978 in due volumi, Universali e Realismo Scientifico1. In precedenza, dopo essersi dedicato al tema della visione in G. Berkeley2, filosofo del quale aveva curato anche un’edizione delle opere, aveva comunque ottenuto una vasta notorietà nelle discussioni filosofiche grazie alla netta posizione assunta nella questione del rapporto mente/corpo, a favore di una teoria materialista della mente3. Intendiamo qui di seguito analizzare le tesi principali contenute nell’opera del 1978 e indicare quali di esse sono state da Armstrong riprese e articolate nelle opere successive, in particolare in Cosa è una legge di natura del 1983. Il nostro obiettivo principale è mostrare quanto sia rilevante per il suo sistema filosofico la posizione di base che Armstrong assume in difesa della metafisica: il filosofo australiano saluta infatti con entusiasmo il fatto che essa, dopo la dichiarazione della sua fine Si vedano D.M. ARMSTRONG (1978a) e (1978b). Si veda D.M. ARMSTRONG (1960). 3 Si tratta di D.M. ARMSTRONG (1993). La prima edizione dell’opera risale al 1968 e anche in questo primo sistematico lavoro si rivela l’efficacia del metodo, sia d’indagine che espositivo, di Armstrong il quale presenta le proprie tesi in un serrato confronto critico con le più accreditate teorie filosofiche, non limitandosi a quelle contemporanee. Ma, come ha di recente riconosciuto lo stesso Armstrong, le sue tesi giovanili sulla mente non sono riuscite del tutto a risolvere alcune delle questioni fondamentali che riguardano la natura del mentale, in particolare le questioni che derivano dal riconoscimento del carattere intenzionale della coscienza e dalla percezione delle qualità: «So in my philosophy of mind I face difficulties from the alleged qualia and from the phenomenon of intentionality that seem rather greater that anything I am aware of it in the rest of my ontological scheme» (D.M. ARMSTRONG 2010 p. 115). Una discussione della filosofia della mente di Armstrong, che non rientra comunque nelle finalità del pesente lavoro, richiede necessariamente, in quanto la presuppone, l’analisi delle opzioni metafisiche di fondo dello stessso Armstrong. 1 2 Bollettino Filosofico 27 (2011-2012): 95-118 ISBN 978-88-548-6064-3 ISSN 1593-7178-00027 DOI 10.4399/97888548606437 95 96 Annabella D’Atri operata dal positivismo logico4, sia tornata a essere di nuovo rispettabile. Non esita addirittura a caratterizzare questa fase del pensiero filosofico come una vera e propria “svolta ontologica”5 che farebbe seguito alla nota “svolta linguistica” del Novecento. 1. Predicati e proprietà. L’opera dedicata agli universali è divisa in due parti, di cui la prima di carattere storico-critico, mentre la seconda è volta a presentare una teoria sistematica degli universali, anche se lo stretto intreccio fra le due parti è reso indispensabile dal metodo di Armstrong: egli espone infatti il proprio realismo sugli universali come la teoria che risulta preferibile in base a un mero calcolo razionale dei costi e dei benefici dei sistemi esaminati, calcolo operato grazie all’analisi critica dei vantaggi e degli svantaggi in termini di coerenza e completezza delle diverse teorie in campo, analisi che egli compie appunto nel primo volume. Ma qual è la questione di fondo, l’oggetto principale dell’interesse di Armstrong che lo conduce, a conclusione dell’argomentazione, ad affermare l’esistenza degli universali in re? La questione è dichiaratamente di tipo linguistico: riguarda la natura della proposizione e la sua struttura minima, che corrisponde all’atto della predicazione, all’attribuzione di un predicato a un soggetto. Questo punto di partenza dell’analisi, al quale Armstrong resterà sempre fedele, è fortemente condizionato dai suoi primi interessi in campo filosofico, maturati, come più volte ricorda, quando, negli anni 1949-50 frequentava le lezioni di John Anderson il quale coniugava un rigido naturalismo con la tesi, sorprendentemente analoga a quanto sostenuto in 4 È lo stesso Armstrong a indicare lo stato attuale della metafisica contemporanea come la fase della sua riabilitazione, della riconquista della sua rispettabilità, dopo il discredito su di essa gettato dal positivismo logico e dalla filosofia Oxoniense del linguaggio ordinario: «The years when analytic philosophy was dominated first by the ideas of the logical positivists and then by the ‘ordinary language’ approach that become fashionable in Oxford were thankfully long done. Gone also were the objections that were made to traditional metaphysics by these philosophers. Metaphysics is now respectable again.» (D.M. ARMSTRONG 2010 p. VIII). 5 Armstrong (D.M. ARMSTRONG 1993b, p. 144) adopera quest’espressione nel presentare J. Fales, allievo di G. Bergmann all’Università dell’Iowa, ricordando lo splendido isolamento riservato dal mondo accademico e dalla tradizione analitica alle riflessioni ontologiche avanzate in questa Università. Metafisica e leggi natura in D.M. Armstrong 97 Europa da Russell e Wittgenstein6, che la realtà ha una struttura proposizionale: «Io sono stato comunque influenzato molto profondamente dalla teoria proposta dal mio docente a Sydney, il filosofo scozzese John Anderson, secondo la quale la realtà, benché indipendente dalla mente che la conosce, ha una struttura ‘proposizionale’».7 Anche se Armstrong aderisce pienamente a questa formidabile impresa filosofica, definibile come una vera e propria «svolta fattualista» della filosofia, che trova il suo principale motivo di ispirazione nelle prime proposizioni del Tractatus di Wittgenstein8, ciò che caratterizza in maniera 6 In verità, come ricorda Armstrong (ARMSTRONG, 1993a, p. 96), in Australia, dopo la seconda guerra mondiale, la filosofia era fortemente divisa fra i seguaci di Anderson dell’Università di Sydney e quelli di Wittgenstein, in Melbourne. Armstrong ricorda anche con orgoglio di essere stato l’unico caso di laureato di Sydney a essere chiamato a insegnare a Melbourne. 7 D.M. ARMSTRONG (1999, p. 3). La stessa considerazione viene da Armstrong fatta nel corso dei seminari tenuti alla City University di New York nel 2008: «Interestingly, my own teacher in Sydney, John Anderson, used to argue that reality was ‘propositional’ and appeared to mean much the same thing as Russell and Wittgenstein» (ARMSTRONG 2010, p. 34). 8 Com’è noto, la proposizione 1.1 del Tractatus dice:«Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose», e la 2: «Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose» (L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, trad. it. A. G. Conte, Torino, Einaudi, 1964, p. 5). Ci sembra opportuno, per i lettori di lingua italiana, richiamare un’importante questione di traduzione. Questo è il testo tedesco della proposizione 1.1:«Die Welt is die Gesamtheit der Tatsachen, nicht der Dinge», la cui traduzione italiana non crea eccessivi problemi; ma la questione si complica se la mettiamo in relazione con la proposizione 2, che definisce i fatti: «Was der Fall ist, die Tatsache, ist das Bestehen von Sachverhalten». Come si vede, in italiano non emerge bene la differenza sia fra i diversi sensi di “cosa”, sia fra la semplice cosa e i rapporti fra cose, che naturalmente solo una successiva attenta analisi dell’opera faranno emergere. Infatti “Sachverhalt” viene definito in 2.01 «eine Verbindung von Gegenständen (Sachen, Dinge)», quindi come una combinazione di oggetti, che possono essere o cose o altre entità. Veniamo invece alle traduzioni inglesi; la prima, del 1922 è di C.K. OGDEN e F.P. RAMSEY, London, Routledge & Kegan Paul, 1922, con introduzione di Bertrand Russell. Così traduce la proposizione 1.1: «The World is everything that is the case» e così la 2.:«What is the case, the fact, is the existence of atomic facts». Qui c’è una lieve modifica del senso originario: definendo fatto come l’insieme esistente di fatti atomici, si evidenzia l’esistenza di minime unità di senso, ma si elimina l’esplicito riferimento ai rapporti fra cose (sache) ed al fatto che questi fatti atomici siano a loro volta combinazione di “objects”. Invece la traduzione di D.F. PEARS e B.F. MCGUINESS, New York, Humanities Press, 1961, alla quale fa riferimento Armstrong traduce la 2 come: «What is the case (a fact) is the existence of state of affairs», traduzione che appunto contiene il termine usato da Armstrong, ma che ha anche il vantaggio di evidenziare il senso di ‘relazione’ rappresentato dal termine “affair”. Il lettore italiano, 98 Annabella D’Atri peculiare il suo approccio alla questione è, da una parte, il rispetto per le teorie classiche della predicazione, a partire innanzitutto dal Parmenide di Platone, e, dall’altra, il rifiuto di un’impostazione meramente “semantica”. Tale rifiuto si sintetizza nel negare che il riconoscimento delle proprietà e del loro statuto ontologico dipenda essenzialmente dal bisogno di assegnare un riferimento, un significato, ai predicati adoperati nei diversi linguaggi. Armstrong intende operare un’«emancipazione della teoria degli universali dalla teoria semantica»9 , il che significa che non dovremmo aspettarci una corrispondenza biunivoca fra predicati (ovviamente qui “predicato” va inteso nel senso di ‘tipo di predicati’, sorvolando sulle differenze linguistiche negli enunciati di predicati che si riconosce abbiano identico significato) e universali o proprietà. Potranno esserci predicati ai quali non corrispondono universali, così come, viceversa, universali ai quali non corrispondono predicati. Come esempi del primo tipo Armstrong porta quelli di ‘unicorno’ (o ‘essere unicorno’) e di ‘essere più veloce della luce’10. Ovviamente non è invece possibile fornire esempi di casi del secondo tipo; per questo secondo caso sorge quindi la seguente questione: cosa ci porta a sostenere che questi universali esistano? La risposta appare fin troppo semplice, derivando da un’asserita analogia con la teoria della percezione: così come è concepibile e ragionevole sostenere che esistano oggetti che non sono percepiti né da noi né da altri, similmente è concepibile e ragionevole sostenere che degli universali, non espressi e non detti, esistano11. Ed ancora, una volta che la questione è stata posta in termini così semplici ed evidenti, non può non nascere un’ulteriore domanda: come mai i filosofi del passato non hanno colto questa analogia? E soprattutto come mai hanno condotto la discussione sugli universali per lo più presupponendo che a ogni predicato corrispondesse un universale, rendendo così oscuro e ‘sovraffollato’ il mondo degli universali? Armstrong non ha dubbi: «È l’influenza dell’argomento che parte dal Significato che ha così spesso falsato, e così fatalmente, il Problema degli ormai avvezzo al termine “stati di cose” in Wittgenstein potrebbe non riconoscere immediatamente, a differenza dal lettore di lingua inglese, la derivazione dal Tractatus del termine “stato di fatto” con il quale si traduce “state of affairs”, termine che, come vedremo, è centrale nella metafisica di Armstrong. 9 ARMSTRONG (1978a, p. 6). 10 ARMSTRONG (1978b, p. 10). 11 Ivi, p. 13. Metafisica e leggi natura in D.M. Armstrong 99 Universali. Se si concepiscono gli Universali come significati, e se si accetta il criterio semantico per l’identità dei predicati, ne segue immediatamente che ciascun predicato-tipo è associato con il suo universale proprio. Di questa situazione poi i Realisti hanno avanzato un’interpretazione inflazionaria, i Nominalisti una deflazionaria.» 12 L’analisi della contrapposizione fra posizioni Nominaliste e Realiste, che è il tema del primo volume sugli universali, trova così il suo filo conduttore nell’individuazione di una comune distorsione semantica: i Realisti moltiplicano i loro universali, ne deprezzano il loro valore (li ‘inflazionano’), mentre i Nominalisti, non riconoscendo una moltitudine di entità non empiricamente date, finiscono per non riconoscere alcun valore agli universali (li ‘deflazionano’): sostengono infatti che esistono solo i particolari. Quanto al problema dell’identità del significato, per darne una spiegazione, seguono strade diverse, possono infatti ricondurlo o a) all’ identità del predicato, o b) a quella del concetto, o c) a quella della classe (o d) dell’aggregato) di appartenenza, o e) alla somiglianza con un modello paradigmatico. E proprio in base al diverso criterio scelto per giustificare l’identità del significato Armstrong individua le diverse forme di Nominalismo, etichettandole rispettivamente come Nominalismo: a) del Predicato, b) del Concetto, c) della Classe d) delle parti, o «Mereologico»13, al quale Armstrong dedica un’attenzione minima, e) della Somiglianza. Egli sottopone poi ciascun tipo di Nominalismo a una critica serrata e passa inoltre al vaglio dell’analisi razionale quella forma di Realismo che è definibile come “Trascendente” o “Platonico” in quanto fa corrispondere ai significati e ai predicati delle entità non spazio temporali. Al termine delle diverse, accurate, analisi, emerge come ipotesi metafisica più plausibile e meno problematica un’altra forma di Realismo, quello immanente che Armstrong spesso identifica con un Realismo di tipo “aristotelico”14. Fra le critiche specifiche alle quali Armstrong sottopone i diversi tipi di analisi dell’identità del significato, ve ne è però una di tipo generale, valida per tutte le teorie elencate: egli mostra, attraverso la riduzione analitica, Ivi, p. 11. Questa ne è la definizione:«La teoria che analizza l‘avere la stessa proprietà, o essere nella stessa relazione da parte di particolari nei termini di essere parte dello stesso aggregato di particolare» (ARMSTRONG 1978a ,138). 14 Per l’interpretazione delle tesi aristoteliche nelle opere di Armstrong si veda D'ATRI (2010). 12 13 100 Annabella D’Atri come tutte finiscano per cadere in un regresso vizioso all’infinito. Sia il Nominalismo del Predicato che quello del Concetto, classificabili come soluzioni soggettiviste del problema degli Universali, dal momento che collocano gli universali o nelle parole degli uomini o nelle loro menti15, sono costretti a mettere in relazione due tipi diversi di entità: gli oggetti, da una parte, e il nome o il concetto, dall’altra, trovandosi quindi a dover ammettere sempre ulteriori relazioni intermedie fra le singole cose, cioè gli esemplari particolari delle cose, e il predicato o il concetto. In questi casi si dovranno allora ammettere concetti di concetti e predicati di predicati, concetti e predicati di livello sempre superiore fino all’infinito16. Nel caso invece del Nominalismo della Classe, che sostiene che attribuire a diversi oggetti un unico predicato o un’unica proprietà corrisponde a rendere ciascun oggetto membro di una classe, a generare il regresso all’infinito è la relazione di ‘essere membro di’, che, essendo un predicato, è necessario che a sua volta venga analizzato in termini di appartenenza a una classe. Lo stesso tipo di regresso che vige nel caso del Nominalismo della Classe è valido nel caso del Nominalismo della Somiglianza. A questo proposito occorre sottolineare che Armstrong prende in esame una forma sofisticata di teoria della somiglianza: quella forma che, di fronte al problema che si origina dal fatto che, per lo più, le cose hanno fra loro differenti gradi di somiglianza e non sempre uno stesso grado, risolve tale problema facendo riferimento all’idea di paradigma: «Il Nominalismo della Somiglianza è la teoria che analizza l’avere una stessa proprietà o una stessa relazione da parte dei particolari in termini dell’avere una somiglianza sufficiente con qualche paradigma particolare».17 Ebbene, anche in questo caso, si ricade nel regresso all’infinito in quanto è la relazione di ‘essere somigliante al paradigma’ che, a sua volta, ha bisogno di essere analizzata in termini di somiglianza a qualche paradigma al quale assomiglia. Se, per esempio, abbiamo analizzato ‘essere bianco’ in termini di somiglianza a un dato oggetto paradigmatico della ARMSTRONG (1978a, p. 25). In effetti Armstrong distingue due tipi di regresso, che chiama rispettivamente: a) regresso dell’oggetto, quello al quale abbiamo fatto riferimento e b) regresso della relazione, quello che riguarda il significato della stessa relazione di “cadere sotto un concetto o un predicato” o, viceversa, di ‘applicarsi a un oggetto da parte di un predicato o un concetto’, ma ai fini della nostra analisi, necessariamente sintetica, questa distinzione può essere trascurata. 17 ARMSTRONG (1978a, p. 138). 15 16 Metafisica e leggi natura in D.M. Armstrong 101 bianchezza, ci rimane comunque da analizzare la relazione di somiglianza, e così di seguito. Quindi, onde evitare queste forme viziose di regresso, è opportuno ammettere che i predicati, o meglio, le proprietà degli oggetti, corrispondano a degli universali. A tal proposito Armstrong riconosce che il primo ad avere con chiarezza difeso la teoria degli universali è stato Bertrand Russell. Questi scrive in The Problems of Philosophy del 1912: Se vogliamo evitare gli universali bianchezza e triangolarità noi sceglieremo un particolare pezzo di cosa bianca o un particolare triangolo e diremo che qualche cosa è bianca o è un triangolo se ha una rassomiglianza col particolare che abbiamo scelto. Ma allora la rassomiglianza ricercata deve essere un universale. Poiché vi sono molte cose bianche, la rassomiglianza deve stare fra molte paia di particolari cose bianche; e questa è la caratteristica di un universale. Sarà inutile dire che vi è una somiglianza diversa per ciascuna coppia, in quanto dovremmo dire che queste somiglianze si somigliano fra loro, e quindi in ultimo saremo costretti ad ammettere come un universale la somiglianza. La relazione di somiglianza quindi deve essere una verità universale ed essendo stati forzati ad ammettere questo universale, noi troviamo che non vale la pena di inventare difficoltà ed inammissibili teorie per evitare di ammettere degli universali come bianchezza e triangolarità18. Russell però, nello stesso capitolo del libro, introduce il suo famoso “terzo mondo” o mondo degli universali e dell’universale dice: «non è nello spazio né nel tempo, non è né materiale né mentale: eppure è qualcosa»19 . Russell, così, riconoscendo che gli universali hanno una realtà altra da quella dello spazio e del tempo, diviene il massimo rappresentante nel Novecento di quello che Armstrong chiama “Realismo Platonico”. E comunque, questa è ora la questione cruciale che Armstrong affronta, può questa concezione trascendente degli universali dar conto del problema delle proprietà, rispondere cioè alla solita questione: cosa significa per una cosa avere una proprietà (o essere in relazione con un’altra cosa o altre cose), sfuggendo al regresso vizioso all’infinito, del tipo di quelli ai quali abbiamo precedentemente fatto cenno? La risposta di Armstrong è assolutamente negativa, anzi, è proprio nelle ontologie di ispirazione platonica che emergono le maggiori difficoltà 18 19 RUSSELL (1922, pp. 150-151). Ivi, p. 114. 102 Annabella D’Atri logiche di analisi del concetto di proprietà. Sono quelle stesse difficoltà che lo stesso Platone ha ben riconosciuto nel Parmenide, e che si sintetizzano nel problema, che ha attraversato tutta la storia del pensiero occidentale, del rapporto dell’uno con i molti, o nel problema dell’uno oltre i molti. Nel Parmenide la questione viene posta, fra l’altro, per quanto riguarda il rapporto della Forma o Idea con le cose: il problema sorge in quanto è necessario che le cose partecipino delle Idee, ma, contemporaneamente, anche che ne siano separate. Questo è uno dei passi cardine del dialogo platonico: Ma allora ciascuna realtà che partecipa, partecipa di tutta la forma o di una parte? Oppure esiste un altro tipo di partecipazione oltre a questi?» «E come potrebbe esistere?- rispose» «Ti sembra, dunque, che la forma sia presente nella sua interezza in ciascuno dei molti, rimanendo essa una, o come?» «Perché, che cosa lo impedisce, Parmenide?- chiese Socrate» «Se fosse una e identica, sarebbe presente contemporaneamente nella sua interezza nei molti, che però sono separati, e in questo modo essa sarebbe separata da sé20. Strettamente connessa con questa aporia, propria della teoria delle Idee, lo stesso Platone inoltre coglie l’aporia derivante dall’argomento del regresso all’infinito: analizzando l’idea di grandezza21 sostiene che, se chiediamo cosa sia comune alla cosa grande e all’idea di grandezza, immediatamete fa il suo ingresso una terza idea di grandezza che le accomuna e così di seguito fino a che le idee diventano una pluralità infinita. Armstrong riconosce a Platone il merito di aver colto le aporie della relazione fra cose e proprietà, e quindi gli riconosce una superiorità filosofica rispetto ai platonici novecenteschi che hanno sorvolato sulle aporie proprie del concetto di partecipazione, ma, fatto significativo, quando si riferisce all’aporia presentata nel Parmenide, lo fa attraverso l’interpretazione datane da Aristotele. Armstrong la chiama infatti questione del “terzo uomo”, che è così citata da Aristotele in Metafisica 990 b15-17; anche attraverso questi indizi si rivela l’ intenzione, da parte del filosofo australiano, di assumere la questione per come la presenta Aristotele, cioè come uno dei motivi fondamentali di critica e 20 21 Parmenide, 131 a4- b2 in PLATONE (2004, p. 213). Parmenide 132a2-b2 in PLATONE (2004, p. 215). Metafisica e leggi natura in D.M. Armstrong 103 rigetto della teoria platonica delle Idee o Forme trascendenti. Ma Armstrong nota anche che l’argomento del terzo uomo è valido contro la teoria delle Forme trascendenti solo in quanto si assuma anche l’auto-predicazione delle forme, cioè, per esempio, il fatto che la Forma del bianco, la bianchezza, sia essa stessa bianca, cosa che, per esempio, non è, mentre, invece, è vero che la forma del bianco è essa stessa una forma, quindi che essere forma è un predicato che si applica anche a se stesso22. Pur senza volere addentrarsi nelle questioni esegetiche della teoria platonica delle Idee, Armstrong ricorda come sorprendentemente la sua introduzione da parte di Platone in Fedone 95-96, sia congiunta alla questione della ricerca delle cause del divenire23. Sorprendentemente perché proprio la necessità che le Forme agiscano come cause del mondo, nota opportunamente Armstrong, indebolisce fortemente la tesi di Platone che le proprietà delle cose sono dipendenti da forme o entità trascendenti: È naturale dire sia che i poteri causali di un particolare sono determinati dalle sue proprietà, sia che questi poteri sono determinati dall’essere in sé del particolare e da niente oltre a questo. Ma se si accetta la teoria degli universali trascendenti, le proprietà di una cosa non sono determinate dal suo essere in sé, ma piuttosto dalle relazioni che essa ha con le Forme oltre se stessa24. Il bisogno di riconoscere che le cose hanno un potere causale su altre cose che non può derivare dal rapporto delle cose con le loro Forme, accanto alla ragione di carattere logico derivante dalla separatezza delle Idee, sopra ricordata, è una seconda, forte ragione, che Armstrong adduce contro tutte le teorie esplicative delle proprietà che non riescano a dar conto dei poteri causali delle cose. Aderendo, di fatto, alla definizione aristotelica della conoscenza come conoscenza delle cause, Armstrong avanza come alternativa ontologica più plausibile la propria dottrina, che Si riconosce chiaramente in questa precisazione l’applicazione da parte di Armstrong alla teoria platonica delle Idee della questione dell’autoreferenzialità delle classi, o paradosso delle classi, che, com’è noto, si origina dalla domanda: la classe che contiene tutte le classi che non contengono se stesse, contiene se stessa? 23 Si tratta dei notissimi brani in cui Platone parla della sua insoddisfazione per la le cause individuate dai naturalisti, e del suo bisogno di rifugiarsi nei logoi (da tradursi come discorsi, o concetti e idee). Sull’interpretazione del brano si veda REALE (1987, p. 157). 24 ARMSTRONG (1978a, p. 75). 22 104 Annabella D’Atri ammette la realtà spazio-temporale degli universali, con ciò riattualizzando la critica di Aristotele alla teoria platonica delle idee come critica neoaristotelica al platonismo novecentesco di Russell. 2. Universali e stati di fatto. Come riesce il Realismo immanente, quello che sostiene che gli universali esistono non separati dalle cose,quella forma di Realismo alla quale aderisce Armstrong, a sfuggire alle questioni logiche legate al problema del rapporto fra oggetti e loro proprietà, fra individui e universali? Se tutti i paradossi derivano dalla questione sul tipo di relazione sussistente fra questi due generi di entità, la mossa di Armstrong consiste nel rigettare l’idea che fra particolari e universali esista una vera e propria forma di relazione: la questione del tipo di relazione sorge infatti se partiamo dal presupposto che le due realtà siano distinte e separate. E questo presupposto, fallace, è condiviso anche dalla tradizione empirista, a partire da Locke, il quale, distinguendo fra l’essenza nominale delle cose, cioè l’idea complessa data dalla collezione di tutte le loro proprietà, e la loro essenza sconosciuta, non risolve il problema del rapporto fra questo misterioso substrato e l’idea della cosa come un insieme di proprietà. Seguendo le critiche di Berkeley all’idea di sostrato di Locke, Armstrong nota il perfetto parallelismo, quanto al problema della relazione fra cosa e suo concetto, delle tesi di Locke con quelle del Platonismo Trascendente: Tutto ciò che possiamo dire sulla relazione è che è la relazione che sussiste fra il substratum e le proprietà. Non possiamo dire nessuna cosa interessante sul substratum. Locke lo descrisse come “qualcosa che non so cosa sia”, ma questa di fatto è una descrizione troppo lusinghiera! Egli suppone che il substratum abbia un qualcosa, una natura, sebbene noi in tale natura non possiamo penetrare. Ma nei fatti può non avere alcuna natura. Essa è mera particolarità, mera mancanza di natura che si trova in una relazione indescrivibile con le proprietà. Non è chiaro se così abbiamo ottenuto un’ipotesi intellegibile25. Di conseguenza, quindi, Armstrong sostiene che quello che si richiede è appunto una forma di Realismo Immanente che sia di tipo non-relazionale, tale cioè da presupporre che fra particolarità e universalità dei particolari sussista un’unione molto più intima che non una semplice relazione. Anzicchè presupporre la loro separatezza ontologica, che costringe poi i 25 ARMSTRONG (1978a, p. 105). Metafisica e leggi natura in D.M. Armstrong 105 filosofi a dover dar conto della loro unione, si presuppone la loro unità ontologica e si fa appello al processo di astrazione razionale come responsabile della loro separatezza: fra i particolari e le loro prorietà esiste solo una distinzione di ragione, o, per dirla con Duns Scoto, al quale Armstrong fa esplicito riferimento, fra la “haecceitas”, o l’essere un dato questo, di una cosa e le sue “forme” vige una “distinzione formale”26. Armstrong perviene così alla nozione centrale della sua ontologia, quella di “stato di fatto” (state of affairs)27:«Uno stato di fatto è definito come il possedere una proprietà da parte di un particolare o l’essere in relazione da parte di due o più particolari»28. Come si può notare, quindi, per Armstrong sono universali sia le proprietà (universali monadici, a un termnine) che le relazioni (universali a più termini), ma sia le une che le altre rispondono a quello che Armstrong chiama il Principio di Istanziazione, che afferma che per ciascun universale a un numero di termini n, esiste almeno un numero n di particolari che lo istanziano. Nel caso più semplice, quello dell’universale monadico, o a un solo termine, ci sarà almeno un particolare che possiede quella proprietà. In maniera speculare, se guardiamo la cosa dal punto di vista dei particolari, questi rispondono al Principio che, per ciascun particolare x, deve esistere almeno un universale U, una proprietà o una relazione tale che x sia U. I due principi insieme, chiamati da Armstrong di “Istanziazione” e di “Rigetto dei particolari nudi”, contraddistinguono il Realismo Immanente teorizzato da Armstrong. Sono essi sufficienti a rappresentare la concezione ontologica di Armstrong, quell’ipotesi generale sul mondo che fa degli stati di fatto le entità di base? Su questa questione Armstrong è particolarmente preciso: egli parte dalla distinzione, operata da D.C. Williams fra “ontologia analitica” e Armstrong ritiene che il concetto di hacceitas di Scoto corrisponda alla nozione aristotelica di τóδε-τι (un certo-questo), per come viene da Aristotele presentato in Categorie, 3b 10-17 (in ARISTOTELE 1989, pp. 313-315), laddove in verità Aristotele distingue fra un certo-questo, riferito appunto al mero esssere un particolare senza proprietà alcuna, o sostanza prima, (come direbbe la metafisica contemporanea, un particolare “nudo”, bare) e l’essere un certo-quale in quanto appartenente a una specie, o avente una sostanza seconda. Armstrong, che non condivide la distinzione aristotelica fra predicazione accidentale e sostanziale, e, di conseguenza, neanche il concetto di sostanza seconda, in questo caso coerentemente si richiama ad Aristotele solo incidentalmente. 27 Come ricordato nella precedente nota 6, il termine corrisponde alla traduzione inglese di Sachverhalt introdotto da Wittgenstein. 28 ARMSTRONG (1978a, p. 114). 26 106 Annabella D’Atri “cosmologia speculativa”29, per affermare che la teoria degli stati di fatto esaurisce la propria concezione ontologica più generale, quella che si occupa appunto preliminarmente di decidere in generale sul tipo di realtà costituita dai ‘mattoncini’ del nostro mondo che, come ebbe a dire lo stesso Armstrong, corrispondono alle ‘pepite’ che lo compongono, ma non sono sufficienti a descriverlo nella sua complessità. Tocca poi a un’altra parte della conoscenza, quella che Williams chiama appunto “cosmologia descrittiva”, ma che molti chiamano “metafisica”, indicare le caratteristiche specifiche delle entità di base, individuarne gli universali che le costituiscono, farne un ‘inventario’ preciso. La metafisica risulterebbe così distinta dall’ontologia, che, quest’ultima, sarebbe dottrina a essa preliminare, e che, individuando le caratteristiche necessarie degli enti, si occuperebbe, per dirla alla maniera aristotelica, dell’essere in quanto essere30. Orbene, per Armstrong, i due Principi sopra indicati, che specficano le caratteristiche generali e necessarie di ciò che è, cioè degli stati di fatto, appartengono appunto all’ontologia, o metafisica preliminare. Ma per fare l’inventario del mondo devono intervenire gli scienziati: sono loro che individuano gli universali, che ci dicono come è fatto il mondo. Per questo Armstrong aggiunge agli attributi che caratterizzano il proprio Realismo anche quello di “Scientifico”. Nonostante il riconoscimento delle competenze specifiche degli scienziati però il nostro filosofo può permetersi, proprio sulla scorta delle dottrine predicate dagli scienziati, anche di avanzare delle ipotesi generali su come sia fatto quel mondo che egli ritiene costituito da stati di fatto. La prima ipotesi che Armstrong avanza è che esso corrisponda a un unico sistema spazio-temporale, ipotesi che gli consente anche di identificare ogni particolare con la sua posizione nello spazio-tempo: tale ipotesi è propria della dottrina che egli definisce “Naturalismo”. 29 L’articolo di Williams, che contiene questa distinzione, “On the Elements of Being”, The Review of Metaphysics 7 (1953), pp. 3-18, è ora tradotto in italiano con il titolo “L’alfabeto dell’essere” in VARZI, (2008, pp. 340-356). 30 Si veda a questo proposito come viene presentata la questione da VARZI (2005, pp. 27-28): «nella sua dimensione formale l’ontologia si occuperebbe invece di ciò che esiste non al fine di redigerne un inventario dettagliato né al fine di specificarne la natura, bensì sotto il profilo generalissimo delle sue caratteristiche necessarie. […] Così concepita, l’ontologia formale è dunque molto vicina a quella teoria dell’essere in quanto essere che per Aristotele era l’ontologia tout court: si occupa dell’essere indipendentemente dalle sue diverse manifestazioni.» Metafisica e leggi natura in D.M. Armstrong 107 Così tutte le caratteristiche del Realismo di Armstrong, con le quali egli di volta in volta lo designa, ci sono ormai note: si tratta di un Realismo Immanente, Aristotelico, Scientifico, associato al Naturalismo. La particolrità della metafisica di Armstrong, che ne fa la sua marca tipica, è infatti la tesi che il realismo degli universali sia necessario per continuare a credere nell’efficacia della conoscenza e nelle verità da essa predicate. Senza un loro saldo ancoraggio nella realtà metafisica quindi anche le leggi di natura, che sono ricercate dagli scienziati per dar conto dell’ordine e della regolarità che il mondo manifesta, diventano facile bersaglio dello scetticismo radicale: la loro necessità, a partire da Hume, risulta di fatto derubricata in quanto viene ricondotta proprio a quella regolarità di cui le leggi di natura dovrebbero essere il fondamento. 3. Critiche al Regolarismo. Nel testo del 1983, dedicato a definire le leggi di natura, Armstrong sviluppa appunto la sua critica nei confronti della cosiddetta teoria “Regolarista” delle leggi, quella che, richiamandosi a Hume, sostiene che la necessità che attribuiamo alle leggi scientifiche dipenda unicamente dall’associazione d’idee, in base a cui prevediamo qualcosa di ancora non osservato a partire dalla collezione di fatti simili osservati. La nostra idea di connessione necessaria, com’è noto, si fonda secondo Hume unicamente sulla regolarità nel susseguirsi dei fenomeni. Ma, come Armstrong sottolinea con forza, la capacità di poter inferire qualcosa di nuovo dai fenomeni osservati non è solo compito specifico della scienza, ma anche una delle capacità più importatnti per la vita stessa degli esseri umani; quindi una spiegazione delle leggi che si limiti semplicemente a identificarle con la regolarità della natura mina dalle fondamenta non solo la conoscenza scientifica ma anche le credenze e le convinzioni del senso comune, che sono alla base dei comportamenti umani e del vivere quotidiano. Rimane inoltre la questione banale, ma assolutamete sensata: come potrebbe essere possibile che gli uomini comuni riescano nel predire fenomeni come, per esempio, un fatto scontato quanto vitale che il fuoco brucerà, se nella realtà non ci fosse qualcosa che garantisca e fondi simili previsioni e inferenze? La stessa obiezione è naturalmente valida a proposito delle previsioni, certamente più complesse, della conoscenza scientifica. Quindi, questo il ragionamento lineare di Armstrong, solo una teoria Realista, quale quella da lui esposta in Universali e Realismo Scientifico, è in grado di rispondere agli attacchi dello scetticismo e di fondare la conoscenza sull’esistenza reale degli universali. 108 Annabella D’Atri Inoltre, applicando anche in questo caso il metodo dialettico in senso aristotelico, procedendo cioè attraverso la critica delle tesi contrapposte, metodo che rimane fra le caratteristiche più notevoli della sua filosofia, il pensatore australiano parte dall’esame della teoria humeana della regolarità, per mostrare la necessaria presenza in essa di una dose minima di realismo: la teoria infatti deve assumere come dato, base su cui fondarsi, proprio la regolarità della natura, che quindi viene assunta come reale. Ricordando come l’obiettivo polemico di Armstrong sia quello di sconfiggere lo scetticismo derivante dalle teorie regolariste della causalità, potremmo aggiungere che Armstrong intende sconfiggere il suo avversario, lo scetticismo, sul suo stesso terreno; con ciò seguendo un ragionamento analogo a quello messo in atto dal “realista” Cartesio, il quale, per contrastare le tesi degli scettici del Cinquecento, aveva l’obiettivo di rifondare, proprio a partire dal meccanismo del dubbio, una nuova metafisica sistematica. Armstrong sostiene a tal proposito che, se, come spesso si fa, si associa la teoria della regolarità, o Humeana, con posizioni Nominaliste in metafisica, non si riesce a spiegare come sia possibile individuare delle regolarità in natura, non si comprende cioè come sia possibile riconoscere che a cose identiche seguono cose identiche. Questa prima critica alla teoria della Regolarità corrisponde infatti perfettamente alle critiche di soggetivismo, che Armstrong ha già avanzato nei confronti delle teorie Nominaliste: in base a quale criterio, fra le tante proprietà delle cose che osserviamo, riusciamo a distinguere quelle che danno luogo a regolarità: «la versione Realista della teoria delle leggi come Regolarità, per lo meno, dovrà ammettere gli universali. Come altrimenti sarà possibile dire che diverse istanze di una certa uniformità sono oggettivamente tutte istanze dello stesso fenomeno?»31. Comunque, anche concedendo che la teoria Regolarista si converta a questo Realismo minimo, contro di essa resterebbero altre serie obiezioni che Armstrong articola nelle seguenti argomentazioni: I. La regolarità non è sufficiente: a) ci sono dei casi in cui è possibile osservare regolarità alle quali non sono associate leggi alcune, o almeno non siamo indotti a ritenere leggi tutte le regolarità che osserviamo in natura: il fatto, per esempio, che in una stanza tutti portano un orologio da polso non indica che via sia una legge di natura che lo sancisca.32 Ci 31 32 ARMSTRONG (1983, p. 16). Ivi, p. 17. Metafisica e leggi natura in D.M. Armstrong 109 potrebbero anche essere delle uniformità locali, valide solo in un certo spazio, o tempo, ma non potrebbero essere considerate leggi in quanto a queste ultime attribuiamo necessariamente l’universalità. b) Esistono inoltre delle possibilità fisiche non realizzate, cioè dei fenomeni derivabili da leggi che tuttavia, per una serie di circostanze, non si sono mai realizzati. In questi casi i teorici della Regolarità non vedrebbero la legge o la scambierebbero con qualcosa d’altro. Per illustrare questa critica Armstrong sceglie il caso presentato da K. Popper in Logica della scoperta scientifica: i moa sono uccelli della Nuova Zelanda estinti, morti tutti prima dei loro cinquant’anni, ma essi sarebbero vissuti più a lungo se dei virus non li avessero condotti alla morte. Non è quindi una legge che i moa muoiano prima del raggiungimento del cinquantesimo anno, ma si deve al caso. Un teorico della Regolarità direbbe invece che è una legge, in quanto per tutti i moa è stato vero che essi sono morti prima di quell’età33. II. Mentre i casi precedenti mostrano che regolarità e legge possono essere distinte, cioè che la regolarità non è sufficiente a identificare una legge, per provare che la regolarità non è neanche necessaria all’esistenza della legge, Armstrong si affida ai casi di leggi che riguardano oggetti non esistenti, o, come preferisce dire, ai casi di leggi non istanziate: a) il caso emblematico di leggi non realizzate, cioè di fenomeni retti da leggi di natura, che di fatto non si verificano è quello della prima legge del moto di Newton, che dice che, in assenza di forze, ogni corpo tende a conservare il proprio stato di moto o di quiete34: «L’asserzione della legge ci dice cosa accade a un corpo su cui non agisce una forza. Tuttavia può essere che l’antecedente della legge non sia mai istanziato. Può essere che su ogni corpo che c’è agisca una forza»35; b) analogamente la teoria della Regolarità non potrà fornire alcuna spiegazione delle asserzioni controfattuali, quelle che affermano che, se qualcosa, contrariamente al fatto, si fosse realizzata, ne sarebbe discesa come conseguenza qualche altra 33 Così conclude POPPER (1970, pp. 483-484): «Quest’esempio mostra che possono esserci asserzioni vere, rigorosamente universali, che hanno un carattere accidentale, e non il carattere di vere e proprie leggi universali di natura. Di conseguenza, la caratterizzazione delle leggi di natura come di asserzioni rigorosamente universali è logicamente insufficiente e intuitivamente inadeguata». 34Questa la formulazione classica del principio di inerzia: «In assenza di forze, un "corpo" in quiete resta in quiete, e un corpo che si muova a velocità rettilinea e uniforme continua così indefinitamente». 35 ARMSTRONG (1983, p. 21). 110 Annabella D’Atri cosa. È un controfattuale la proposizione “se non avessi frenato, la mia auto sarebbe finita nel burrone”: cosa ci autorizza a ritenere vera una tale affermazione se l’antecedente, il fatto di non avere frenato, non si è realizzato? III. Il terzo tipo di critica, secondo Armstrong decisivo, nei confronti della teoria della Regolarità dipende poi dallo stato attuale della ricerca scientifica: infatti «molte delle leggi della fisica contemporanea non si manifestano nelle regolarità, quanto nelle distribuzioni statistiche»36. La teoria della Regolarità non è in grado di dar conto delle leggi statistiche che assegnano un preciso valore alla probabilità; in verità un tale valore dipende in maniera stretta dalla casualità con la quale in natura si verificano alcuni eventi: se un evento, molto raro in base alla legge, in un dato periodo di osservazione si realizzasse più frequentemente, si assegnerebbe un valore molto più alto alla sua probabilità. Vedremo a breve come la teoria proposta da Armstrong intenda invece superare queste critiche ancorando la teoria delle leggi di natura alla teoria degli universali37. Così lo stesso autore riassume il nesso logico fra leggi di natura e universali: «Dopo tutto le leggi sono le maniere fondamentali in cui le cose si comportano, e le maniere di comportarsi dipendono dalle proprietà delle cose. E, se le proprietà sono universali, le leggi verrebbero a connettere gli universali che i particolari istanziano.»38 Se questa è l’ipotesi, se cioè le leggi sono considerate connessioni fra universali, non può non sorgere conseguentemente la questione sullo statuto ontologico di tali connessioni fra universali: essendo esse delle relazioni, sono esse stesse degli universali? Questa è la domanda principale che costringerà Armstrong a sviluppare ulteriormente la sua originaria nozione di “stato di fatto”, in maniera tale da tenere conto anche di un ulteriore problema, quello di distinguere la necessità della legge di natura dalla necessità logica, cioè il tipo di relazioni necessarie studiate dalle scienze della natura dal tipo di relazioni necessarie proprie delle leggi logiche. A tal proposito già Popper39 aveva sostenuto che la necessità “cosmica”, propria delle leggi di natura, che dipende da molteplici fattori, Ivi, p. 29. Come ha giustamente scritto D. MUMFORD (2007, p. 49), il realismo svolge una funzione essenziale nella teoria della legge del nostro filosofo: «Realism about universals is thus an essential part of Armstrong’s theory of laws» . 38 ARMSTRONG (2010, p. 35). 39 Vedi nota 16. 36 37 Metafisica e leggi natura in D.M. Armstrong 111 deve essere distinta dalla necessità di tipo logico, che è invece per sua natura incondizionata. Armstrong, dal canto suo, come vedremo fra poco, sostiene che, pur essendo necessario che in una legge di natura l’antecedente venga seguito dal conseguente, la legge stessa non è necessaria; egli intende così garantire al suo mondo di stati di fatto il carattre della contingenza. 4. Le leggi di natura. Per meglio comprendere la teoria delle leggi è opportuno ricordare che nell’opera sugli universali del 1978 Armstrong ammette l’esistenza di universali di secondo livello, cioè di proprietà predicabili di proprietà, quali, ad esempio, “essere complesso”, o “essere strutturale”. L’esempio più semplice di proprietà strutturale è quello di “composto di due elettroni”: «Consideriamo la proprietà strutturale di essere (esattamente) due elettroni, una proprietà posseduta da tutti gli insiemi di elettroni con due membri. Non possiamo dire che questa proprietà implichi lo stesso universale, essere un elettrone, preso due volte, perché un universale è uno e non molti»40. Ciò che vale per gli universali monadici, cioè la possibilità che essi siano di secondo livello, vale anche per gli universali a più termini, cioè le relazioni, che possono anche essere di secondo livello quando collegano fra loro universali di livello inferiore; e il capitolo finale di Teoria degli Universali è appunto dedicato a definire la causalità e la legge naturale in termini di relazioni fra universali. Cosa è una legge di natura può quindi considerarsi il completamento della teoria degli universali di Armstrong. Venendo ai dettagli, se una legge è una relazione necessaria fra due universali, quali F e G, è corretto costruire una relazione di implicazione, espressa dalla seguente formula: N(F,G) → (x) (Fx Gx), cioè il fatto che esista una relazione necessaria fra F e G implica che, per tutti i particolari x, se questi sono F, sono anche G. Si noterà che in tal modo Armstrong intende restituire alla legge di natura il carattere di forte necessità che le teorie Regolariste tendono a negarle. In altri termini Armstrong intende andare oltre la mera regolarità del susseguirsi dei fenomeni naturali, per individuare l’esistenza di un legame reale fra universali. Ma la natura di questo legame fra universali doveva essere ulteriormente analizzata: come lo stesso Armstrong ricorda, lo ha inizialmente indotto a riflettere meglio sulla relazione di azione necessaria 40 ARMSTRONG (1978b, p. 138). 112 Annabella D’Atri fra universali la seguente, acuta, domanda di un suo allievo: nella formula N(F,G) la relazione N è essa stessa un universale?: Ma, quanto più consideravo la questione, tanto più iniziavo a vedere il fascino della tesi che N(F,G) sia due cose insieme, il sussistere di una relazione fra universali e un universale (complesso) esso stesso. Quest’idea, che lo stato di fatto costituito da N(F,G) sia esso stesso un universale, non risolverà l’intero problema della comprensione dell’implicazione. Alla fine, come vedremo, la relazione di azione necessaria nomica, N, si dovrà accettare come originaria. Ma, se possiamo accettare anche che N(F,G) sia un universale, istanziato nelle istanze positive della legge, allora, penso, sarà molto più facile accettare la natura originaria di N. Sarà possibile vedere chiaramente che, se N sussiste fra F e G, questo implica un’uniformità a livello di particolari di primo livello41. All’origine, cioè nella sua struttura ontologica, una legge di natura è un universale che si realizza nelle sue diverse istanziazioni particolari: in ciascun particolare che, per il fatto di essere F è G. Occorre infatti ricordare che, essendo la legge un universale, anche a essa si applica il principio di istanziazione che sostiene che gli universali non esistono se non nei particolari42. Ed è a questo momento dell’argomentazione che si colloca quella che possiamo considerare la chiave di volta nella concezione della legge di Armstrong: lui stesso ricorda di aver sostenuto, nel testo sugli universali, che l’unione in uno stato di fatto di un particolare con un universale, o di due particolari in una relazione, consiste in un particolare, e di avere inoltre chiamato questo fenomeno “vittoria della particolarità” 43; aveva anche aggiunto che questo fenomeno si verifica anche quando un universale si unisce con un universale di livello superiore. La tesi generale era infatti che gli stati di fatto sono comunque sempre particolari di primo livello. Ora, approfondendo la teoria della legge, riconosce di essersi sbagliato: «Nello stato di fatto N(F,G), i particolari di secondo livello, F e G, insieme con l’universale di secondo livello, N, costituiscono uno stato di fatto che considerazioni di simmetria inducono a pensare sia un particolare di secondo ARMSTRONG (1983, p. 88). È opportuno ricordare che proprio a questo principio Armstrong riconduce la propria ispirazione generale di tipo “aristotelico”. 43 Si veda ARMSTRONG (1978a, p. 115). 41 42 Metafisica e leggi natura in D.M. Armstrong 113 livello. Ma un particolare di secondo livello è un universale di primo livello.»44 In verità, come nota acutamente Mumford45, in seguito la concezione subirà una modifica radicale: nel testo Un Mondo di Stati di Fatto Armstrong parlerà delle leggi non più come universali ma come tipi di stati di fatto, definendo i tipi come mere astrazioni tratte dagli esemplari particolari46, con la dichiarata intenzione di non moltiplicare le entità della sua ontologia, ma, di certo, rendendo più problematica la sua concezione: come fa infatti una mera astrazione a rendere necessaria una connessione47? Ma rimane da considerare ora se e come la concezione della legge come relazione, universale, fra universali riesca a superare le difficoltà incontrate dalla teoria della legge come regolarità, difficoltà che abbiamo elencato nel terzo paragrafo: I. Per quanto riguardo la necessità di distinguere fra legge e mera regolarità, la teoria di Armstrong afferma semplicemete che basta riconoscere che non tutte le regolarità corrispondono in natura a delle leggi: Non è necessario che le uniformità Humeane del singolo caso, le uniformità connesse con le uniformità locali e le uniformità che sono uniformità solo perché non si sono realizzate determinate possibilità, siano considerate come manifestazioni di leggi. Infatti non può sussistere nessuna relazione adeguata fra gli universali interessati. Essere un moa non rende necessario morire prima dei cinquanta anni.48 II. Più complessa, ma anche più interessante, si rivela la risposta della teoria di Armstrong alla questione delle leggi non istanziate, e a quella della validità delle proposizioni controfattuali, dal momento che esse sembrerebbero contraddire il principio di fondo della sua filosofia naturalista, cioè il principio di istanziazione degli universali. Infatti, come ARMSTRONG (1983, p. 89). MUMFORD (2007, pp. 55-56). 46 ARMSTRONG (1999, pp. 225-227). 47 Si potrebbe uscire dalla difficoltà, e rispondere a Mumford, distinguendo fra un livello epistemologico e uno ontologico: per astrazione perveniamo a conoscere come indipendente l’universale che di fatto è sempre congiunto con un particolare. In questo caso una legge generale è sempre presente in una particolare, che lascia intravedere in essa la forma generale. 48 ARMSTRONG (1983, p. 99). 44 45 114 Annabella D’Atri riconosce lo stesso Armstrong, proprio le leggi non istanziate, cioè le leggi singole che hanno come antecedenti degli eventi non realizzati, garantiscono in molti casi la capacità di prevenire sia danni per i singoli che disastri per il genere umano tutto, quali, per esempio, degli incidenti nucleari. Per rispondere a tale questione Armstrong, che anche in tal caso guarda ai risultati della ricerca scientifica contemporanea, fa ricorso al concetto di legge funzionale. All’interno di questa cornice, le leggi non istanziate corrisponderanno a casi di valori delle variabili non saturati, che la legge funzionale mette in relazione. Le leggi non istanziate saranno così interpretabili proprio come dei casi di controfattuali. Per conciliare poi questa impostazione con il principio di istanziazione, al quale non intende rinunciare, Armstrong propone di interpretare le leggi funzionali come leggi di livello superiore, che regolano le leggi di livello inferiore. Nel caso della prima legge di Newton, noi siamo in grado di mostrare la presenza della forza di inerzia come agente in congiunzione con altre forze e siamo in grado quindi di costruire la curva della funzione che mette in relazione la quantità di queste altre forze, reali e misurabili, con la quantità della forza di inerzia: in base all’andamento della curva, siamo poi in grado di sapere che, se le altre forze fossero assenti, cosa che di fatto non è, il corpo agirebbe solo in base alla forza di inerzia. Rendendo la legge non istanziata, che mette in relazione un universale P con un universale Q, con la formula P0→Q0, Armstrong avanza la seguente interpretazione: La concezione che desidero proporre è che l’asserzione di una legge non istanziata dovrebbe essere costruita come un contro-fattuale. Istanze dell’universale P0 non esistono. Dunque non esiste la legge P0→Q0. Ma, se ci fossero dei P0, cioè se P0 esistesse, allora P0 sarebbe governata dalla legge che tutti i P0 sono Q0. Asserzioni di leggi non istanziate sono in realtà solo asserzioni su quali leggi sussisterebbero se, contrariamente ai fatti, certi universali fossero istanziati, cioè, esistessero. In questo modo io ammetto le leggi non istanziate, ma solo come casi delle leggi, logicamente secondari.49 III. La questione finale, alla quale Armstrong dedica una più ampia analisi, è quella legata all’importanza della statistica nell’ambito della 49 Ivi, p. 112. Metafisica e leggi natura in D.M. Armstrong 115 scienza. A tal proposito occorre ricordare che proprio ad Armstrong si deve una nuova interpretazione del concetto di probabilità, ricostruita, grazie all’analisi combinatoria della possibilità, a partire da alcune proposizioni del Tractatus di Wittgenstein.50 Limitandoici comunque alle leggi di natura, che sono a tema in questo articolo, ciò che è interessante notare è come Armstrong intenda affrontare la questione del rapporto fra necessità e contingenza alla luce di un’interpretazione unitaria, che considera la necessità come il livello massimo di probabilità del verificarsi di un evento, la probabilità come il livello intermedio, probabilità che viene espressa appunto da una scala che va da 1 a 0, e l’impossibilità come il livello minimo, cioè pari allo zero. Il nostro mondo, l’unico reale, per Armstrong, il quale rifiuta il realismo dei mondi possibili di David Lewis, è completamente pervaso dalla contingenza. Non è assolutamente necessario che il mondo sia proprio così come è, anzi, aggiunge, avrebbe potuto essere diverso da come è. Ma, una volta che si realizzano determinati fatti o stati di fatto, si realizzano anche alcune leggi che necessariamente conducono al realizzarsene di altri: ribaltando una tradizione di pensiero che assegna la contingenza solo ai particolari e la necessità agli universali, Armstrong sostiene infatti che i suoi universali, quindi anche le leggi, in quanto relazioni fra universali, sono contingenti. Questa tesi è in assoluta coerenza con il naturalismo scientifico di Armstrong, che sostiene che il filosofo, cioè il metafisico, ha il compito di indicare i caratteri generali del mondo, nel nostro caso l’essere in quanto insieme di stati di fatto, e che invece è compito dello scienziato scoprire quali questi stati di fatto siano, quali siano gli universali che li compongono e li mettono in relazione, quindi quali leggi di natura sussistano. Quanto alla necessità di determinate leggi, essendo essa non di tipo logico, anch’essa possiede un determinato grado di probabilità, cioè quello massimo. Queste le conclusioni alle quali perviene Armstrong: 50 Non è possibile in questa sede soffermarsi su questa teoria, fra le più interessanti di Armstrong, anche perché sarebbe necessario premettere, oltre a un’attenta analisi di alcune proposizioni del Tractatus, anche una sintesi della “teoria dei mondi possibili” di David Lewis, teoria alla cui critica è appunto dedicato il saggio di ARMSTRONG, A Combinatorial Theory of Possibility, Cambridge University Press, Cambridge 1989. 116 Annabella D’Atri Le leggi irriducibilmente probabilistiche sono anche relazioni fra universali. Queste relazioni danno (sono costituite da) una certa probabilità oggettiva che istanziazioni individuali dell’universale antecedente renderanno necessaria l’istanziazione dell’universale conseguente. Esse forniscono la probabilità della necessitazione del caso particolare. Come tutte le leggi, esse devono avere in qualche tempo istanziazioni (positive). Le leggi deterministiche sono casi limite delle leggi probabilistiche (dalla probabilità 1)51. Quindi, nelle leggi di natura, l’inferenza necessaria da un antecedente a un conseguente è essa stessa sottoposta a calcolo di probabilità, il che spiega il carattere meno rigido, “sperimentale” e progressivo delle scienze della natura rispetto alle scienze esatte: logica e matematica. Le scienze della natura sono irriducibilmente a posteriori; e lo sono a tal punto che diventa una condizione di esclusione dal novero delle leggi di natura il fatto che una determinata inferenza possa derivare a priori dai due termini messi in relazione. La stessa matematica, per eccellenza scienza di relazioni, non avrebbe a che fare, per Armstrong, con relazioni autentiche, cioè con universali di secondo livello che connettono universali di primo livello, bensì con quelle che, a partire da Russell, si chiamano “relazioni interne”, che cioè non hanno uno statuto ontologico separato dalla natura stessa degli universali correlati. Per esemplificare, asserire la relazione di superiorità del due rispetto all’uno non aggiunge nulla alla natura dei numeri coinvolti, ma riguarda una relazione implicita (cioè interna) alla loro essenza: Se si può mostrare a priori che due universali devono stare in una certa relazione, allora fra essi non c’è una tale relazione. La connessione nomica fra universali, in ogni caso, non può essere stabilita a priori. Deve essere scoperta a posteriori. Così forse le leggi di natura possono essere trattate come relazioni irriducibilmente di secondo livello, autentiche relazioni fra universali. Invero, io suppongo che le leggi di natura costituiscano le sole relazioni di secondo livello fra universali52. Come si vede, la netta separazione delle leggi di natura dalle leggi logiche è in Armstrong funzionale al riconoscimento del carattere provvisorio della ricerca scientifica, che dipende inevitabilmente dalla sua natura storica, ma non significa abdicare all’idea e al valore della verità. La questione della verità 51 52 ARMSTRONG (1983, pp. 172-173). Ivi, p. 84 Metafisica e leggi natura in D.M. Armstrong 117 diventerà infatti quella centrale nella ricerca posteriore di Armstrong, coniugandosi in indagini sui verificatori differenziate in base ai tipi di proposizioni vere alle quali essi corrispondono. A costituire i verificatori degli enunciati delle leggi scientifiche saranno appunto le relazioni universali, reali e istanziate, fra universali. Nel sistema metafisico di Armstrong la causalità, vero e proprio “cemento dell’universo”, può essere definita quella «relazione di fondo che unisce secondo legge le cose nel mondo»53; e in tal modo le leggi di natura possono ri-diventare, dopo l’età dei relativismi e degli scetticismi, manifestazioni di poteri reali e oggettivi corrispondenti a proprietà universali delle cose. Abstract Aim of the paper is to sketch the theory of laws of nature and briefly the metaphysical system of D. M. Armstrong, the most famous Australian philosopher and one of the leading authorities in contemporary analytical ontology. In his first work on universals describes his theory, defined Immanent, Aristotelian and Naturalistic, due to the fact that in his view universals are nothing without particulars, that are instantiations of the formers. Armstrong’s ontology is therefore based on the concept of State of Affairs, namely a particular having a property or two or more particulars being related. Once he has in his ontology notions of universals and state of affairs, Armstrong is able to analyse the laws of nature as relations between universals, themselves universals, in order to overcome Humean theory of Regularity and ensuing skepticism about scientific knowledge. BIBILIOGRAFIA ARISTOTELE (1989), Categorie, a cura di M. ZANATTA, Milano, BUR, 1989. D.M. ARMSTRONG (1960), Berkeley's Theory of Vision: A Critical Examination of Bishop Berkeley's Essay Towards a New Theory of Vision, Melbourne University Press, Melbourne. 53 ARMSTRONG (2004, p. 144). 118 Annabella D’Atri D.M. ARMSTRONG (1978a), Nominalism and Realism: Universals and Scientific Realism, Vol. I, Cambridge University Press, Cambridge. D.M. ARMSTRONG (1978b), A Theory of Universals: Universal and Scientific Realism, Vol. II. Cambridge University Press, Cambridge.. D.M. ARMSTRONG (1983), What is a L aw of Nature?, Cambridge University Press, Cambridge. D.M. ARMSTRONG (1993a), "Reply to Bigelow" in K. CAMPBELL, L. 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