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Azienda ULSS 17 Carmen Amato SISS - Servizio Integrazione Sociale e Scolastica - A.ULSS 17; Luciano Galiazzo SIL - Servizio Integrazione Lavorativa DOCUMENTI DEL CORSO DI FORMAZIONE “LA FORMA E L’AZIONE DELL’AGIRE QUOTIDIANO DELL’OPERATORE SOCIALE” Lunedì 24 ottobre 2011 Aula Convegni Associazione “Cinque Dita”, Monselice (PD) – Via Piave, 17 Lunedì 24 ottobre 2011 - ore 14.00 - 18.00 Martedì 8 novembre 2011 - ore 14.00 - 18.00 Mercoledì 16 novembre 2011 - ore 9.00 - 13.00 Responsabile dell’Evento Formativo: Dr.ssa Marta Rappo Direttore del Corso: Paolo Rizzato; Organizzazione e cura degli atti: Alessandro Gozzo 1 Il corso è nato dalla collaborazione tra l’ULS 17 e l’Associazione di Promozione Sociale “Il Portico” di Dolo che opera nell’ambito dell’emarginazione e per una cultura dell’inclusione sociale. Il corso è stato ideato da Carmen Amato e da Luciano Galiazzo in collaborazione con Alessandro Gozzo e Paolo Rizzato mediante una serie di incontri da marzo ad ottobre 2011 in cui si sono concordati nel dettaglio gli obiettivi, i contenuti e l’organizzazione. Il presente fascicolo costituisce la relazione conclusiva e raccoglie tutti i documenti prodotti, alcuni dei quali, come i file video o i Power Point dei relatori, sono riportati nel DVD allegato che ne costituisce perciò parte integrante. Il direttore del Corso Paolo Rizzato INDICE pagina QUESTIONARIO per la riflessione preliminare al corso: RISULTATI quadro dei partecipanti SCHEMI DELLO SVILUPPO DEI 3 MODULI: Primo modulo Secondo modulo Terzo modulo ALLEGATI 3 4 DOCUMENTI DEL PRIMO MODULO DOCUMENTI DEL SECONDO MODULO DOCUMENTI DEL TERZO MODULO Bibliografia Contenuti del DVD allegato RISPOSTE DEI TEST FINALI DI VALUTAZIONE DEL CORSO 9 21 26 30 32 33 5 7 8 2 Prima dell’inizio del corso, durante i colloqui tra gli organizzatori, si è deciso di somministrare un questionario che permettesse di conoscere i vissuti professionali problematici dei corsisti. Il questionario era composto di sole 3 domande “chiuse” nelle opzioni di scelta multipla. Si riportano le domande e l’elaborazione dei dati che sono stati usati dai relatori per formulare i propri interventi e i lavori di gruppo. “ LA FORMAZIONE E L’AZIONE DELL’AGIRE QUOTIDIANO DELL’OPERATORE SOCIALE” QUESTIONARIO PER LA RIFLESSIONE PRELIMINARE AL CORSO: RISULTATI Focalizziamo con quali soggetti viviamo le criticità (vengono indicate 3 criticità, attribuendo una priorità con i numeri 1,2,3; 1=soggetto con criticità più alta) - I servizi specialistici : 17 risposte di cui: 53% n°1; 23,5% n°2; 23,5% n°3 La famiglia : 17 risposte di cui: 17,6% n°1; 64,7% n°2; 17,6% n°3 L’utente : 15 risposte di cui: 33,3% n°1; 20% n°2; 46,6% n°3 Altri dipart/settori az. : 9 risp: 22,2% n°1; 22,2% n°2; 55,5% n°3 I servizi del Comune : 8 risposte di cui: 25% n°1; 50% n°2; 25% n°3 Superiori : 5 risposte di cui 60% n°1; 40% n°3 I servizi per l’impiego : 5 risposte di cui: 40% n°1; 40% n°2; 20% n°3 Colleghi : 3 risposte di cui: 66,6% n°2; 33,3% n°3 Altro : 3 risposte di cui: 66,6% n°1; 33,3% n°3 1 9 3 5 2 3 2 2 2 2 4 11 3 2 4 0 2 0 0 3 4 7 7 2 2 2 1 1 1 1 3 2 4 3 2 4 5 4 4 5 0 8 3 0 0 2 2 4 3 0 5 3 2 3 3 3 1 5 Quali sono le cause di tali criticità? (vengono indicate 4 cause, attribuendo una priorità con numeri 1,2,3,4, 1= causa più incisiva) - - - - Una concezione diversa del lavoro (della mission) 14 risposte di cui: 21,4% n°1; 28,5% n°2; 14,2% n°3; 35,7% n°4 L’operatività a compartimenti stagni che non considera il ruolo di altri servizi o operatori 13 risposte di cui: 30,7% n°1; 30,7% n°2; 38,5% n°3 La non condivisione degli obiettivi 11 risposte di cui: 63,6% n°1; 36,3% n°3; Una differente idea di progetto 11 risposte di cui: 18,1% n°1; 18,2% n°2; 36,3% n°3; 27,3%n°4 Blocchi di comunicazione a causa di livelli di responsabilità differenti per cui il confronto diventa difficile (paura di perdere prestigio, di dover riconoscere altre competenze, ecc.) 10 risposte di cui: 50% n°2; 30% n°3; 20% n°4 Mancanza di informazioni e dati di partenza che portano a trattare un caso senza gli elementi fondamentali di conoscenza 10 risposte di cui: 30% n°1; 30% n°2; 30% n°3; 10% n°4 Disorientamento di fronte a comportamenti/problema 3 (mancanza di informazioni e impreparazione di fronte alle evenienze) 3 3 2 1 9 risposte di cui: 33,3% n°1; 33,3% n°2; 11,1% n°3; 22,2% n°4 - La valutazione del caso fatta in modo parcellizzato, in un ottica ristretta (“monoprofessionale” cioè il contrario dell’UVMD) 1 4 1 2 8 risposte di cui: 12,5% n°1; 50% n°2; 12,5% n°3; 25% n°4 - La mancanza di progettualità 2 2 1 2 7 risposte di cui: 28,5% n°1; 28,5% n°2; 14,3% n°3; 28,5% n°4 - Interscambio e confronto complicati, dovuti alla presenza di professionalità differenti 1 2 2 2 7 risposte di cui: 14,3% n°1; 28,5% n°2; 28,5% n°3; 28,5% n°4 - Un progetto non ritenuto adeguato (mancanza di credibilità e fiducia) 0 1 0 0 1 risposta di cui: 100% n°2 - Eccessiva esposizione in situazioni non conosciute (essere buttati allo sbaraglio) 1 0 0 0 1 risposta di cui: 100% n°1 - Altro 1 0 0 0 1 risposta di cui: 100% n°1 Cosa intendi per lavoro di rete? Un’ idea condivisa esplicitata e concordata tra i partner di modalità di comunicazione, riconoscimento di ruoli che porta a elaborare progetti con funzioni distinte tra i vari soggetti: 26 Risposte Una molteplicità di contatti, di rapporti che ha dato vita a delle consuetudini affermate con la pratica: 3 Altro: 2 (non specificato) QUADRO DEI PARTECIPANTI 57 iscritti: di cui 22 assistenti sociali dei comuni 17 comune esterno 1 disabilità ulss 1 consultorio 1 ser.t 2 9 8 18 educatori volontari in servizio civile operatori III settore 5 di associazioni (4 associazioni) 13 di cooperative A o B 4 SCHEMI DELLO SVILUPPO DEI 3 MODULI “LA FORMA E L’AZIONE DELL’AGIRE QUOTIDIANO DELL’OPERATORE SOCIALE” Primo modulo Lunedì 24 ottobre 2011, ore 14.00 - 16.00 Progetti di vita e ri-motivazione al lavoro di rete Apertura lavori Rappresentante della Conferenza dei Sindaci Direttore Generale dell'Azienda ULSS 17 Rappresentante della Provincia di Padova Prima parte Perché questo corso Ideatori Dr.ssa Carmen Amato SISS - Servizio Integrazione Sociale e Scolastica - A.ULSS 17; E.P. Luciano Galiazzo SIL - Servizio Integrazione Lavorativa; obiettivi L’obiettivo delle activation policies, consiste nel sostenere il passaggio dalla percezione passiva di un sussidio, all’autonomia personale, all'inclusione sociale effettiva, all'integrazione anche lavorativa (welfareto-work). (…) Obiettivo nazionale/regionale di Educazione Continua in Medicina a cui fa riferimento l’attività formativa: sviluppo dell'integrazione di attività assistenziali e socio-assistenziali. Obiettivo Generale: Implementare l’empowerment iniziando a costruire, tramite la formazione, una rete fra operatori, volontari, persone disabili e loro congiunti, associazioni, agenzie educative e servizi del territorio tramite l'acquisizione di conoscenze metodologiche per impostare progetti individuali costruiti sull'idea di rete, del potenziamento dell'autostima e dei legami sociali (empowerment), dell'apprendimento reciproco operatori-urenti. vocabolario Il workfare, Lifelong learning, Mainstreaming, Empowerment, Activation policies. Vetrina Il nostro breve percorso è pensato come una sequenza di occasioni e provocazioni ovvero una serie di finestre o uno scaffale aperto con in mostra tante cose di cui potersi appropriare o servire al momento del bisogno. Sappiamo che questa scelta è criticabile, come tutte le scelte metodologiche che soddisfano alcune persone e non piacciono ad altre. Pensiamo che sia meglio incontrare più persone, perché ciascuna è portatrice di una parte importane di esperienza e di verità sui problemi affrontati. Riferimenti Sono ormai infiniti i sussidi alla conoscenza grazie soprattutto a internet. Noi abbiamo scelto di usare alcuni studi di sintesi come punti di riferimento nel mare magnum del sociale e del terzo settore: un numero monografico di “Etica per le professioni” intitolato “professioni sociali” (n° 3 – 2009) con la sua bibliografia. Il volume di Alecci, Bottaccio “Fuori dall’angolo, idee per il futuro del volontariato e del terzo settore” (L’ancora s.r.l. 2010), in particolare l’articolo di Nicola Negri “cambio di scenario dall’esclusione alla vulnerabilità”. Il testo di Canevaro e Janes “Diversabilità” (Erickson 2003). Inoltre avremo presente il recente “Manifesto per un welfare del XXI secolo” della rivista della Politiche Sociali e altri materiali che saranno a disposizione in fotocopia o in un CD comprensivo di tutti i materiali offerti. Breve analisi dei risultati del questionario a cui i partecipanti hanno risposto Ci limitiamo per oggi alla prima domanda. Le risposte sono state riordinate secondo le priorità di scelta. I servizi specialistici, la famiglia e l’utente sono stati segnalati come i primi tre soggetti che costituiscono un 5 problema nel vostro lavoro. Noi avevamo previsto questi risultati, almeno per i primi 3 posti, ma la conferma è giunta incontrovertibile a indicare dove dobbiamo centrare il focus dei nostri 3 moduli. Oggi focalizzeremo infatti l’attenzione su storie di vita che riguardano le persone definiti ”utenti” (con un termine che contrasta fortemente con il nuovo Workfare) e sullo sfondo intravvederemo le loro famiglie e alcuni servizi e disservizi specialistici. Prima però di inoltrarci nell’argomento si ritiene necessario soffermarsi su alcune premesse metodologiche relative alla gestione del corso. premesse pedagogiche per una buona riuscita del corso. Alessandro Gozzo (vedi nei documenti allegati) Seconda parte Progetto di vita e inclusione sociale: 1 - presentazione di storie di vita“ Paolo Rizzato, Associazione “ IL PORTICO” www.il-portico.it visione di brevi filmati Vi presenteremo una serie di brevi filmati che hanno un duplice scopo. Primo: far conoscere i progetti di vita di persone che sarebbero state destinate dalla sorte ad essere considerati senza futuro, persone delle quali alcuni direbbero spudoratamente “che vita è questa?!”. Secondo: evidenziare i valori esistenziali ed il valore sociale di simili straordinari esempi per rivedere in positivo le nostre esperienze personali, soprattutto le più devastanti, senza perdere la forza di cambiare noi e la deriva, oggi molto diffusa, di una visione fatalista della vicenda umana. Filmato Nick Vujicic – Una lezione di vita (3 min); La forza di rialzarsi Filmato Nick Vujicic – La vita di un grande uomo (3 spezzoni per totale di 2 min) Filmato Claudio Imprudente - Consegna della Laurea Honoris Causa (3 min) Filmato tratto dal progetto “A Pari Merito”; Imprudente intervista il Presidente della Conferenza dei Sindaci dell’ULSS 13 (2 min) Filmato Jeff Onorato – Presentazione del “Fly for the life project” (5 min); Vincere la disabilità dove la disabilità mi ha vinto. Filmato Juri Roverato – Tratto dal II° incontro del progetto “A Pari Merito” (1,30 min); connessione tra mente e corpo Filmato Marilena Rubaltelli – Tratto dal I° incontro del progetto “A Pari Merito” (2,30 min); Ottenere successi e fare cose nuove Filmato Sara Cattaneo da Mixabile su (6 min); Da assistita ad assistente, da “animata” ad animatrice: il Club dell’Amicizia NB. Gli indirizzi internet dei collegamenti si trovano nei documenti del primo modulo Intervallo 16.00 - 18.00 introduzione e gruppi di discussione 2 - Formazione e lavoro: rimotivarsi per il nuovo welfare attivo e per l’autonomia degli utenti. Importanza della tecnica e del contesto con un brano di Nicola Negri “una sfida per gli operatori sociali” a pag. 86-87 del libro di Alecci, Bottaccio “Fuori dall’angolo”, che si può cogliere come “manifesto” prospettico dell’agire sociale innovativo. Il contesto è determinante per ogni apprendimento e per ogni azione sociale. Una riflessione tecnica e strategica nel nostro operare quotidiano è necessaria per l’efficacia degli interventi. 16.30: Lavoro su sé stessi e lavoro di squadra: Confronto in gruppo Esercizio di individuazione della gerarchia nelle preferenze relative alle caratteristiche del comportamento delle persone con cui ci dobbiamo relazionare da vicino e per lungo tempo. Analisi e discussione che serve ad evidenziare le nostre aspettative spesso pensate arbitrariamente, senza il vincolo della necessaria reciprocità. I gruppi sono condotti da Carmen Amato, Bruno Donolato, Alessandro Gozzo e Paolo Rizzato 17.30: Restituzione in assemblea Nota: La seconda parte di questo primo modulo è stata modificata rispetto alla progettazione originaria per un impegno improvviso della psicologa che avrebbe dovuto tenere una relazione dal titolo “Il proprio IO nella relazione con il compito lavorativo, il gruppo e l’istituzione”. DOCUMENTI DEL PRIMO MODULO → a pag. 9 6 “LA FORMA E L’AZIONE DELL’AGIRE QUOTIDIANO DELL’OPERATORE SOCIALE” Secondo modulo Ripensare la qualità nei servizi sociali Martedì 8 novembre 2011 - Ore 14.00 - 18.00 Presentazione dei lavori del pomeriggio: Alessandro Gozzo 14.15 – 15.45: “La gestione delle risorse umane: le buone prassi e le reti di prossimità” Luigi Gui, professore di sociologia, Università di Trieste Metodo didattico: Lezione Partecipata e domande al relatore 15.45 intervallo 16.00- 18.00 “Criticità ricorrenti nel lavoro di rete e possibili risposte” Alfio Checchin, psicologo Introduzione ai lavori di gruppo Discussione sulle criticità evidenziate dai corsisti (risposte alla seconda domanda del questionario) Ogni criticità si rifà molto probabilmente ad un caso già vissuto o attualmente in essere, che può quindi essere descritto. Invitiamo ognuno di voi a raccontare i “propri casi” all’interno del gruppo nel quale vi trovate. Al termine delle varie narrazioni (da concludersi entro le 17.15) il gruppo deve individuarne una da esporre in plenaria. Nell’esposizione in plenaria va raccontato solo il caso cercando (per quanto è possibile) di non esplicitare a quale criticità fa riferimento, in modo da lasciare spazio all’interpretazione del conduttore e dei colleghi degli altri gruppi. discussione nei gruppi ore 17.30 restituzione collettiva delle considerazioni emerse nei gruppi e conclusioni della seconda sessione DOCUMENTI DEL SECONDO MODULO → a pag. 15 7 “LA FORMA E L’AZIONE DELL’AGIRE QUOTIDIANO DELL’OPERATORE SOCIALE” Terzo modulo Mercoledì 16 novembre 2011 ETICA E PROFESSIONI DI CURA 9.00 Presentazione dei lavori della mattinata: Alessandro Gozzo 9.15 - 10.45 Antonio Da Re, ordinario di filosofia morale Università di Padova “Codice deontologico e quotidianità operativa nelle professioni sociali” Lezione partecipata sulla base del saggio apparso nella rivista “Etica per le professioni” n°3-2009, p. 29, dal titolo: “Costruttori di relazioni, non manager della cura” Breve intervallo 11.00 Dr.ssa Carmen Amato, SISS-A.ULSS 17 Il Servizio Integrazione Sociale e Scolastica - A.ULSS 17; costruire la nostra “rete” 11.15 “Una storia di impegno trentennale con persone disabili: l’Associazione IL PORTICO e la sua rete” Docenti: Paolo Rizzato, Riccardo Friede, Associazione “IL PORTICO” Visione di documenti e filmati e testimonianze di protagonisti. Gli elementi costitutivi del lavoro di collaborazione con persone e realtà del territorio. 12,30 Questionario di valutazione DOCUMENTI DEL TERZO MODULO → pag. 20 8 DOCUMENTI ALLEGATI AI MODULI 1 DOCUMENTI DEL PRIMO MODULO Il brano che segue è tratto dal contributo di Nicola Negri “Cambio di scenario, dall’esclusione alla vulnerabilità” a pag. 81 del libro “Fuori dall’angolo, idee per il futuro del volontariato e del terzo settore” di cui si allega nel DVD l’intero file PDF. L’autore sintetizza in pochi paragrafi alcune proposte pratiche che gli operatori sociali dovrebbero condividere e scegliere come orizzonte del proprio lavoro negli anni a venire. una sfida per gli operatori sociali Si è detto che il fatto di non poter più pensare in termini di cittadella, di netti confini, di interventi risolutori, di pacchetti di benefici standardizzati può mettere in crisi le motivazioni fondanti l’impegno nel sociale. Si potrebbe, quindi, sentire nostalgia per un tempo in cui i contorni delle politiche e del lavoro sociale erano più definiti. Nondimeno questo mutamento costituisce una sfida professionale. Il repertorio di soluzioni già pronte si restringe. È gioco forza progettare, secondo geometrie variabili, politiche e interventi circostanziati, dinamici e reversibili. Perciò penso che, nel mutato scenario, gli operatori debbano diventare anche più “tecnici”: si profila una esigenza di tecnicizzazione degli interventi. Per tecnicizzazione non intendo la messa a punto di un catalogo di norme e protocolli (o buone pratiche) da applicare in modo automatico ai problemi. Al contrario, intendo la crescita di un sapere fondato empiricamente e finalizzato a contestualizzare le azioni di sostegno. Con il termine tecnicizzazione voglio soprattutto segnalare la rilevanza di un sapere professionale diverso da quello tradizionale di tipo interpretativorelazionale: un sapere quest’ultimo privato, perché racchiuso nella testa dei singoli operatori e nelle loro cartelle sugli utenti. Questo sapere interpretativo-relazionale resta importante, ma deve interagire con altri saperi in grado di dare conto delle condizioni di contesto in cui le relazioni diadiche operatore/utente si collocano. È, quindi, un problema il fatto che i termini di vulnerabilità e capacità, pur entrati nel linguaggio dei servizi, vengano ancora declinati da un punto di vista prevalentemente psicologico, attento soprattutto alle cause soggettive della fragilità individuale. Se nell’ambito del paradigma inclusione/esclusione, tipico della società fordista, il problema dell’empowerment poteva essere ridotto a quello del superamento delle carenze soggettive che compromettevano l’accesso alla cittadinanza, nel tempo della vulnerabilità sociale l’empowerment è anche (sempre di più?) un problema oggettivo-ambientale. Perciò le analisi dei contesti devono uscire dai richiami rituali nei capitoli introduttivi dei piani di zona e dei piani sociali o sociosanitari e diventare un effettivo supporto della programmazione e progettazione di una varietà di interventi sociali complessi: da quelli di recupero urbano a quelli integrati di assistenza domiciliare. Compito di tali analisi è dare conto, con l’impiego di metodologie appropriate, di come le capacità delle persone di far fronte alle difficoltà della vita dipendano dall’interazione delle loro caratteristiche soggettive con quelle delle società locali in cui vivono. Non va poi dimenticato che, mentre nella società fordista i contesti erano per lo più stabili, strutturati e organizzati, nella società postfordista sono diventati più incerti e opachi. La loro struttura, i connessi rischi e opportunità vanno perciò esplorati con attenzione. Così, per esempio, al fine di accrescere l’occupabilità di soggetti cosiddetti deboli in un dato territorio occorrono certamente corsi di formazione specifica, supporti relazionali per l’accompagnamento nel mercato del lavoro, talvolta azioni di riattivazione dell’impegno individuale e della fiducia in se stessi. Ma questi investimenti sui singoli individui possono risultare controproducenti se deludono le aspettative che suscitano. È, quindi, importante esplorare le occasioni di lavoro effettivamente disponibili, affinché le competenze individuali apprese possano trovare un effettivo luogo di sperimentazione ed esercizio. Ed è, soprattutto, rilevante capire il funzionamento delle reti locali in cui circola l’informazione sulle opportunità e sulla reputazione delle persone. Infatti, in un ambiente incerto, è l’inserimento in queste reti a produrre l’effetto di capacitazione più rilevante, che espande il ventaglio delle cose raggiungibili. Senza la conoscenza della struttura sociale locale la successione cura-riabilitazione-reinserimento non funziona. 9 INDICAZIONI PER I LAVORI DI GRUPPO Esercizio di individuazione della gerarchia nelle preferenze relative alle caratteristiche del comportamento delle persone con cui ci dobbiamo relazionare da vicino e per lungo tempo Consegne per il conduttore di gruppo e raccolta dei Risultati Consegnare i foglietti ai corsisti: primo momento dell’attività laboratoriale (lavoro individuale) Raccogliere i fogli dove i corsisti hanno indicato con un aggettivo le caratteristiche personali che a nostro parere dovrebbe avere un collega, utente, dirigente, figlio, elencandole in ordine gerarchico. Secondo momento (lavoro collettivo) Riportare alla lavagna le caratteristiche che ciascun membro del gruppo ha indicato, scrivendo gli aggettivi in ordine sparso e ponendo una X a fianco dell’aggettivo nel caso esso fosse stato scelto da più persone. Esempio: Prestante XXXXX 5 Leale XXXX 4 Competente XXXXXXXXXXXXX 13 Simpatico XX 2 Quindi costruire un nuovo elenco secondo l’ordine delle scelte e indicare a fianco di ogni attributo la seguente categorizzazione V gli aspetti valoriali, con C gli aspetti cognitivi, con R gli aspetti relazionali seguendo l’esempio: Competente 13 C Prestante 5 R Leale 4 V Simpatico 2 R Dopo congrua discussione stabilire un nuovo ordine gerarchico, non basato sul numero delle preferenze, ma su un criterio più razionale e rigoroso, cioè sulla base di un valore oggettivo di alcuni attributi non negoziabili su altri che invece si possono considerare come “opzional”. Il moderatore non esprima valutazioni etiche personali sulle scelte dei corsisti, ma lasci che ciascuno lo faccia liberamente. L’esercizio si deve concludere con la scelta di un elenco ordinato secondo attributi segnati in sequenza rigidamente gerarchica di importanza. Non importa la lunghezza della lista (più si fa lunga e più tempo è richiesto per la mediazione: ci si regola con l’orario concesso). Sono sufficienti 3 o 4 qualità, le prime, più importanti e irrinunciabili. Nel caso di mancanza di unanimità su di un attributo, si risolva il problema ponendosi una domanda esclusiva fra i termini oggetto del contenzioso, ad esempio tra “competente” e “prestante” “Se dovessi scegliere tra un collega competente (ma non prestante) ed uno prestante (ma non competente), con quale preferiresti lavorare?” È evidente che, al di là delle inevitabili battute scherzose, nessuno vorrebbe arrivare in ufficio la mattina e lavorare per tutti i giorni a fianco di un bell’imbusto incapace. Successivamente si applica la stessa domanda inserendo il nuovo attributo in concorrenza: “Se dovessi scegliere tra un collega competente (ma non leale) ed uno leale (ma non competente), con quale preferiresti lavorare?”. Quindi si stila l’elenco finale. I conduttori debbono far notare ai corsisti che questo “gioco” mira a definire il profilo ideale del collega (del dirigente, del figlio ecc.), al solo scopo di comprendere quale tipologia di attributi dovrebbe avere la prevalenza nella condotta individuale. Comunque sono riservate al lavoro di intergruppo le considerazioni finali. Scrivere il risultato definitivo in questo foglio: attributo categoria (C,R,V) 1. ………………………….. 2. ………………………….. 3. ………………………….. 4. …………………………... 10 “LA FORMA E L’AZIONE DELL’AGIRE QUOTIDIANO DELL’OPERATORE SOCIALE” Primo modulo Lunedì 24 ottobre 2011. A. Gozzo Risultati Il collega ideale (femmine 10, maschi 3) attributo categoria (Cognitivo, Relazionale, Valoriale) 1. Collaborativo R 2. Competente C 3. Rispettoso R 4. Leale, simpatico, propositivo, ascolto 5. di supporto (essere d’aiuto), comprensivo, non competitivo, coerente, umile, empatico, intelligente, che sa mettersi in discussione, generoso, appassionato per il lavoro, generoso, allegro, creativo, educato, professionale, non prevaricante, comunicativo, moptivato, positivo, flessibile, affidabile, paziente intuitivo. L’utente ideale (11 F e 2 M) attributo categoria (C,R,V) 1. Collaborazione R 2. Sincerità R…(non è prevalentemente Valoriale?) 3. Consapevolezza di sé e del problema C 4. Disponibilità, Rispettoso, Comunicativo 5. realistico (principio di realtà), motivato, autodeterminazione, riconoscimento del servizio e dell’operatore (2 scelte); 6. mettersi in discussione, orientato al miglioramento, autostima, pulito, rete di supporto, responsabile, critico, interessante, intelligente, combattivo, tenace, portatore di conoscenze, pieno di risorse. il dirigente ideale (10 F, 3 M) attributo categoria (C,R,V) 1. onestà V 2. Competenza, Disponibilità, autorevolezza, C, R, R-V 3. Capacità di ascolto, umile, motivato, pragmatico, coerente, motivante 4. Precisione, passione, umanità, empatia, equilibrio, propositivo, realista, tenace, trasparente, affidabile, paritario, elastico, organizzativo, comunicativo, lungimirante, equo, determinato, coinvolgente, decisionista, con capacità di sintesi, imparziale il figlio ideale (13 F, 1 M) attributo categoria (C,R,V) 1. intelligente C 2. sano1 Fisico, C e R 3. che sappia ascoltare V-R 4. sincero (V), sereno R 5. sicuro di sé, sensibilità, determinato, rispettoso, curioso, fiducioso, consapevole, umile 6. obbediente, generoso Considerazioni sui risultati dei lavori di gruppo (A. Gozzo) I tempi dei lavori di gruppo e delle conclusioni sono risultati piuttosto compressi e pertanto l’esercizio si è potuto sviluppare solo a metà. Nell’incontro successivo il conduttore, A. Gozzo, ha cercato di chiarire il senso dei questa discussione intorno alle “virtù” delle persone che ci 1 Rispetto al termine “sano”, riferito al figlio, nel momento della catalogazione è emerso da alcune mamme presenti come esso non sia solo un attributo fisico, come il termine significherebbe comunemente, ma anche e soprattutto un attributo affettivo, cognitivo (sano di mente) e tutti questi assieme e condensati nella stessa parola. 11 circondano a casa o nel posto di lavoro, ma sarebbe stato più corretto che i corsisti stessi avessero potuto arrivare da soli, attraverso un convincente confronto, alle conclusioni seguenti. L’ideale è morale Quando si enumerano le aspettative che ciascuno ha rispetto ad altre persone è evidente che si possono proiettare su costoro quelle attese relative al comportamento che dovrebbero egoisticamente consentire a noi di vivere tranquilli, senza conflitti; tuttavia se veniamo costretti a ragionare oggettivamente sulle qualità che dovrebbe avere una persona ideale, accadono alcune cose interessanti. Quando si dovesse scegliere tra un attributo di tipo relazionale, cognitivo (o “fisico”), ci troveremmo nell’imbarazzo della scelta e difficilmente potremmo accordarci. Infatti qualcuno potrebbe preferire di avere un collega bello ad uno simpatico se dovesse scegliere fra i due aspetti, mentre un altro potrebbe rifiutare l’antipatia e preferire di lavorare piuttosto con un collega brutto ma simpatico. Allo stesso modo qualcuno potrebbe perdonare ad un dirigente competente di essere arrogante, mentre un altro preferirebbe avere una persona meno competente, ma anche meno altera con la quale lavorare ogni giorno. Non accade la stessa cosa invece se ragioniamo sulla scelta tra due attributi di cui uno riguarda la sfera morale. È ovvio che nella realtà complessa questo problema non si pone nei termini esclusivi che qui usiamo strumentalmente al solo scopo di riflettere sulla dimensione etica di ogni relazione umana; tuttavia il nostro “gioco” dimostra senza equivoci quello che Kant riteneva un’evidenza indiscutibile, ovvero “la legge morale dentro di noi”, intesa come la capacità di giudicare in modo oggettivo, valido per tutti e non solo per il tornaconto personale. Capacità che tutti hanno ma che pochi usano. Se infatti si dovesse scegliere tra un collega onesto ed uno competente o tra un grande organizzatore ed uno rispettoso, nessuno avrebbe dei dubbi a scegliere, perché è praticamente impossibile lavorare a fianco di una persona bravissima nel proprio lavoro ma disonesta. Altrettanto accade con un manager super organizzato ma che ci tratti come pezze da piedi (a meno che non fossimo disonesti o irrispettosi anche noi come lui). Il rispetto sta sempre prima della competenza al punto che ci si dovrebbe domandare se la competenza autentica possa non contemplare in sé anche il rispetto. Ciò non significa che la competenza e le capacità organizzative perdano il loro valore, ma che soltanto le doti etiche possono ottimizzare qualsiasi altra competenza, perché esse stanno o debbono essere poste più in alto nella scala valoriale. Se si inverte l’ordine, ogni relazione e ogni impresa umana è a rischio di fallimento prima ancora di cominciare. E se ciò non avviene è per merito delle altre doti morali che vengono messe in azione dalle persone che si oppongono all’immoralità di alcuni con la coerenza, la pazienza, il senso della giustizia, il perdono… La conclusione è molto semplice. In ogni genere di relazione umana le doti morali sono quelle che dovremmo considerare al primo posto per noi e per gli altri, anche quando gli altri non dovessero agire di conseguenza a questo imperativo così logico ed evidente. Ogni armonia relazionale vive della reciprocità del rispetto, della fedeltà, dell’onestà, mentre ogni conflitto relazionale germina dalla mancanza di questa reciprocità. Si possono applicare tutti i migliori sistemi e le più raffinate tecniche di ascolto, di comunicazione e di comprensione, ma se nelle persone che le applicano sono assenti i principi morali che portano a dominare la nostra condotta al bene comune, ci si troverà perennemente da capo ad ogni incontro. Note tecniche La varietà e a volte ambiguità dei termini è stata una conseguenza del fatto che si sarebbe dovuto specificare con più determinazione nella consegna se l’attributo dovesse essere espresso come una “virtù” es. disponibilità o una qualità con un aggettivo al maschile, es. disponibile, lasciando le locuzioni solo ai casi linguisticamente difficili e da definire con chiarezza. 12 Ai corsisti è stata consegnata la fotocopia delle due pagine seguenti. La prima riguarda una precisazione terminologica che non si può dare per scontata, la seconda concerne un altro aspetto lessicale che serviva a chiarire due concetti importanti soprattutto per l’orientamento etico dell’agire sociale. Menomazione, disabilità, handicap una differenza basilare. Concetti base e struttura dell’ICDH da cui sono scaturiti i concetti base della Legge 104/92 (legge quadro per l’assistenza, integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate) VALIDITA’ : Efficienza psicofisica allo svolgimento di qualsiasi attività lavorativa e non. LESIONE : concetto dinamico Alterazione dell’integrità psicofisica rappresentata da un processo morboso in atto a carattere evolutivo i cui esiti possono essere in sequenza : la guarigione completa il residuare di postumi la cronicizzazione la morte La lesione è sinonimo di malattia : processo morboso intrinseco, essenziale, evolutivo, disfunzionale MENOMAZIONE : Concetto statico. Qualsiasi perdita o anormalità dell’integrità anatomica o funzionale di organi od apparati rappresenta l’esteriorizzazione di uno stato patologico e in linea di principio riflette i disturbi a livello di organo. E’ quindi una conseguenza della lesione consistente in compromissione dell’efficienza fisica o psichica o meglio è il deficit funzionale che ne deriva. DISABILITA’ : Qualsiasi limitazione o perdita (conseguente a una menomazione) della capacità di compiere una attività nel modo o nella ampiezza considerati normali per un essere umano. La disabilità rappresenta l’oggettivizzazione della menomazione e, come tale, riflette i disturbi a livello della persona. HANDICAP : Condizione di svantaggio vissuto da una determinata persona in conseguenza di una menomazione o di una disabilità che limita o impedisce la possibilità di ricoprire il ruolo normalmente proprio a quella persona (in base all’età, al sesso e ai fattori socio-culturali). Rappresenta la socializzazione di una menomazione o di una disabilità e come tale riflette le conseguenze culturali, sociali,economiche e ambientali che per l’individuo derivano dalla presenza della menomazione e della disabilità. Lo svantaggio deriva dalla diminuzione o dalla perdita delle capacità di conformarsi alle aspettative o alle norme proprie dell’universo che circonda l’individuo. MALATTIA-LESIONE = situazione intrinseca e statica MENOMAZIONE = situazione oggettivizzata HANDICAP = situazione socializzata Dott. Carmelo Basso- Dirigente II livello INPS - Neurologo e Medico Legale Dal sito http://www.ain-onlus.org/media/pdf/neurodisabilita.pdf Materiali corso “LA FORMA E L’AZIONE DELL’AGIRE QUOTIDIANO DELL’OPERATORE SOCIALE”, Primo modulo. Lunedì 24 ottobre 2011, Monselice, Via Piave, 17 (tel. 0429 784723). A. Gozzo 13 Valori e principi, una differenza sostanziale Che cosa sono i valori? Li si confronti con i principi. Principi e valori si usano, per lo più, indifferentemente, mentre sono cose profondamente diverse. Possono riguardare gli stessi beni: la pace, la vita, la salute, la sicurezza, la libertà, il benessere, eccetera, ma cambia il modo di porsi di fronte a questi beni. Mettendoli a confronto, possiamo cercare di comprendere i rispettivi concetti e, da questo confronto, possiamo renderci conto che essi corrispondono a due atteggiamenti morali diversi, addirittura, sotto certi aspetti, opposti. Il valore, nella sfera morale, è qualcosa che deve valere, cioè un bene finale che chiede di essere realizzato attraverso attività a ciò orientate. E un fine, che contiene l’autorizzazione a qualunque azione, in quanto funzionale al suo raggiungimento. In breve, vale il motto: il fine giustifica i mezzi. Tra l’inizio e la conclusione dell’agire “per valori” può esserci di tutto, perché il valore copre di sé, legittimandola, qualsiasi azione che sia motivata dal fine di farlo valere. Il più nobile dei valori può giustificare la più ignobile delle azioni: la pace può giustificare la guerra; la libertà, gli stermini di massa; la vita, la morte, eccetera. Perciò, chi molto sbandiera i valori, spesso è un imbroglione. La massima dell’etica dei valori, infatti, è: agisci come ti pare, in vista del valore che affermi. Che poi il fine sia raggiunto, e quale prezzo, è un’altra questione e, comunque, la si potrà esaminare solo a cose fatte. Se, ad esempio, una guerra preventiva promuove pace, e non alimenta altra guerra, lo si potrà stabilire solo ex post. I valori, infine sono “tirannici”, cioè contengono una propensione totalitaria che annulla ogni ragione contraria. Anzi, i valori stessi si combattono reciprocamente, fino a che uno e uno solo prevale su tutti gli altri. In caso di concorrenza tra più valori, uno di essi dovrà sconfiggere gli altri poiché ogni valore, dovendo valere, non ammetterà di essere limitato o condizionato da altri. Le limitazioni e i condizionamenti sono un almeno parziale tradimento del valore limitato o condizionato. Per questo, si è parlato di “tirannia dei valori” e, ancora per questo, chi integralmente si ispira all’etica del valore è spesso un intollerante, un dogmatico. Il principio, invece, è qualcosa che deve principiare, cioè un bene iniziale che chiede di realizzarsi attraverso attività che prendono da esso avvio e si sviluppano di conseguenza. Il principio, a differenza del valore che autorizza ogni cosa, è normativo rispetto all’azione. La massima dell’etica dei principi è: agisci in ogni situazione particolare in modo che nella tua azione si trovi il riflesso del principio. Per usare un’immagine: il principio è come un blocco di ghiaccio che, a contatto con le circostanze della vita, si spezza in molti frammenti, in ciascuno dei quali si trova la stessa sostanza del blocco originario. Tra il principio e l’azione c’è un vincolo di coerenza (non di efficacia, come nel valore) che rende la seconda prevedibile. Infine, i principi non contengono una necessaria propensione totalitaria perché, quando occorre, quando cioè una stessa questione ne coinvolge più d’uno, essi possono combinarsi in maniera tale che ci sia un posto per tutti. I principi, si dice, possono bilanciarsi. Chi agisce “per principi” si trova nella condizione di colui che è sospinto da forze morali che gli stanno alle spalle e queste forze, spesso, sono più d’una. Ciascuno di noi aderisce, in quanto principi, alla libertà ma anche alla giustizia, alla democrazia ma anche all’autorità, alla clemenza e alla pietà ma anche alla fermezza nei confronti dei delinquenti: principi in sé opposti, ma che si prestano a combinazioni e devono combinarsi. Chi si ispira all’etica dei principi sa di dover essere tollerante e aperto alla ricerca non della giustizia assoluta, ma della giustizia possibile, quella giustizia che spesso è solo la minimizzazione delle ingiustizie. Gustavo Zagrebelsky, "valori e conflitti della politica", la Repubblica, 22 febbraio 2008 14 INDIRIZZI INTERNET DEI FILMATI Conoscere esperienze di vita come queste, drammatiche e al tempo stesso esaltanti, diventa una lezione molto più importante di tanti discorsi per comprendere e superare molti problemi vitali e quotidiani sia dell’utenza sia degli operatori sociali stessi. Non si tratta di giungere semplicemente ad affermare “se ce l’hanno fatta loro, ce la potrò fare anch’io”, affermazione che ha comunque un forte valore di ri-motivazione e di stimolo al sorpasso della visione miope che spesso, nella solitudine e in assenza di amicizie e confronti, causa un sovradimensionamento paranoide delle proprie difficoltà. Simili storie di straordinari riscatti esistenziali confermano una verità psicologica essenziale: non esistono situazioni oggettive assolutamente insuperabili; la volontà vince anche contro le peggiori avversità. Detto in altri termini, nessuna situazione umana è così degenerata ed emarginante da non consentire una possibilità di affrancamento umano e sociale che consenta di riacquistare dignità e gioia di vivere. Filmato Nick Vujicic – Una lezione di vita (3 min) o La forza di rialzarsi o Indirizzo web: http://www.youtube.com/watch?v=Det7KEh-gEI Filmato Nick Vujicic – La vita di un grande uomo (3 spezzoni per totale di 2 min) o Amo vivere la vita: io sono felice o Indirizzo web: http://www.youtube.com/watch?v=W9Y7TTg3588 Filmato Claudio Imprudente - Consegna della Laurea Honoris Causa (3 min) o Chi è Claudio Imprudente? o Indirizzo web: http://www.youtube.com/watch?v=E7xL8_RLQdQ Filmato tratto dal progetto “A Pari Merito” o Imprudente intervista il Presidente della Conferenza dei Sindaci dell’ULSS 13 (2 min) o Livelli di eccellenza o Indirizzo web: http://aparimerito.wordpress.com/video Filmato Jeff Onorato – Presentazione del “Fly for the life project” (5 min) o Vincere la disabilità dove la disabilità mi ha vinto. Superare l’handicap o Indirizzo web: http://www.youtube.com/watch?v=_qe6UfUgl1o Filmato Juri Roverato – Tratto dal II° incontro del progetto “A Pari Merito” (1,30 min) o La connessione tra mente e corpo o Indirizzo web: http://aparimerito.wordpress.com/video Filmato Marilena Rubaltelli – Tratto dal I° incontro del progetto “A Pari Merito” (2,30 min) o Ottenere successi e fare cose nuove o Indirizzo web: http://aparimerito.wordpress.com/video Filmato Sara Cattaneo da Mixabile su (6 min) o Da assistita ad assistente, da “animata” ad animatrice: il Club dell’Amicizia 15 Il programma del primo incontro prevedeva la elazione di una psicologa che, per un impegno improvviso e inderogabile nel pomeriggio del 24 ottobre dovette rinunciare all’incarico. Essa è stata sostituita dal prof. Alessandro Gozzo, docente in pensione di Filosofia e Scienze dell’Educazione e di Metodologia delle Scienze Sociali della SSIS del Veneto nella sede di Ca’ Foscari. Di questo intervento, per la scelta drastica di riduzione compiuta a favore dei lavori di gruppo e a seguito della mezz’ora di ritardo nell’inizio dei lavori, i corsisti hanno potuto ascoltare solo alcune piccole parti forse apparentemente sconnesse. Nelle pagine che seguono si possono invece cogliere nel loro significato propedeutico al corso come introduzione pedagogica. Quali fattori garantiscono la possibilità di successo ad un corso di formazione? Per la buona riuscita di qualsiasi percorso di formazione sono necessari alcuni chiarimenti preliminari che non vengono quasi mai esplicitati e che forse sono la causa di tante insoddisfazioni da parte dei frequentanti e degli organizzatori. Non credo che questa premessa sia oziosa e spero di riuscire a dimostrarlo a chi avrà la pazienza di ascoltare le riflessioni che seguono. Tutte le conoscenze a portata di mano Noi oggi abbiamo la possibilità, inedita fino a qualche decennio fa, di conoscere attraverso internet tutto lo scibile umano. Da alcuni anni si possono ascoltare, leggere o vedere le lezioni, le conferenze, i dibattiti degli esperti in qualsiasi disciplina e trovare le più recenti elaborazioni intellettuali, i libri digitalizzati, gli articoli di giornali e riviste, gli archivi di biblioteche, le migliori esperienze compiute, i dibattiti e le critiche di ogni tipo; si possono porre domande e trovare le risposte ad una miriade di problemi ed a quant’altro si desideri approfondire in ogni campo della scienza, delle arti, della letteratura, della professione, del tempo libero… Di fronte a questa macchina mastodontica di conoscenze in rete, i corsi di aggiornamento possono giocare solo su pochi fattori per assicurarsi un minimo di reale utilità e di successo che non sia un’impressione emotiva o superficiale, una sagra di ovvietà o un’esposizione bella ma intimorente di teorie astratte. Uso del WEB Il primo fattore su cui “giocare” un corso è il fatto che sono ancora pochi coloro che usano il web con frequenza per il proprio costante autoaggiornamento, perciò nei corsi di formazione si possono aiutare i partecipanti a saper trovare nell’immenso scrigno-immondezzaio di internet, le informazioni corrette e i canali autorevoli e attendibili entro i quali navigare con profitto. Le conferenze degli esperti, che si suppone siano persone aggiornate anche sulle offerte informatiche, possono fungere da comoda sintesi di ciò che è degno di interesse ed è reperibile nel grande “mercato” della cultura di cui internet è ormai la vetrina privilegiata e il negozio più comodo e frequentato anche per la conoscenza, l’acquisto e la fruizione di oggetti culturali non informatici come il libri, le riviste, i musei, I convegni o gli archivi. Incontri ravvicinati Un secondo fattore è quello di usare il canale vivo, diretto del confronto con i volti di coloro che hanno messo in pratica ciò che pretendono di insegnare, perché internet consente solo in alcuni casi di interagire in diretta e senza filtri ed anche perché è più efficace conoscere chi ha realizzato le grandi idee non solo in una dimensione diversa o in un paese lontano, ma piuttosto nel piccolo di una realtà locale a noi vicina. Questo contatto diretto con gli esperti si realizza parallelamente all’incontro con i propri colleghi e con nuovi volti di partecipanti in una situazione diversa dalla normale routine. Questa situazione consente di dialogare, di fare amicizie e di confrontare il proprio operato spesso in modo rilassato e fruttuoso. Partecipazione diretta Vi è tuttavia un fattore che si rivela decisivo per la buona riuscita di un percorso di istruzione: il livello di coinvolgimento dei partecipanti. Senza la partecipazione cosciente dei frequentanti, ogni corso lascia il 16 tempo che trova ovvero non provoca cambiamenti significativi nell’esperienza professionale della maggioranza dei fruitori2. Ciò non autorizza a scaricare sui corsisti, in tutto o in parte, la responsabilità del successo del corso, ma serve soprattutto a richiamare gli organizzatori alla necessità inderogabile di questo coinvolgimento. Vi sono relatori molto bravi nel creare l’empatia che affascina, ma oltre al fatto che sono molto rari, difficilmente reperibili e spesso costosi, si dà il caso ormai frequente che essendo tutti noi abituati ad un sacco di “effetti speciali”, si rischia di assuefarsi anche alle più incisive novità, vanificando con un banale “già sentito” i migliori insegnamenti, oppure si riduce il confronto con queste persone speciali ai pochi minuti del dibattito in cui solo alcuni fortunati possono interloquire sui problemi che li riguardano. Un portfolio attivo Ogni percorso di insegnamento, per quanto breve, dovrebbe considerare anche un ulteriore fattore decisivo per la sua riuscita e cioè il monitoraggio e il confronto sui risultati raggiunti. Questo momento di solito corrisponde ad un questionario di verifica fatto a caldo alla conclusione dei lavori. I cambiamenti significativi sono tuttavia quelli che incidono nelle lunghe distanze; sono cambi di rotta o anche semplici aggiustamenti che migliorano la qualità del lavoro e della vita. Per evitare che l’entusiasmo suscitato da un insegnamento si spenga nel momento del ritorno alla quotidianità è necessario che sia sostenuto nel tempo. Questo sostegno lo possono assicurare raramente gli stessi insegnanti-aggiornatori (per ovvi motivi) e perciò lo devono assicurare i corsisti stessi per sé stessi come adulti in grado di imparare non solo come si fanno le cose, ma anche come non dimenticarle. Ogni percorso formativo dovrebbe prevedere anche alcuni suggerimenti sul modo di sedimentare gli apprendimenti, ricevuti quasi sempre in fretta e in sovrabbondanza; dovrebbe prevedere la costruzione di un portfolio delle attività svolte, al quale il corsista può ritornare per rivedere, controllare, “ruminare” i dati e le esperienze compiute. Il portfolio diventa immediatamente il prodotto “pubblico” in cui ciascuno, anche “esterno”, può prendere visione del percorso compiuto e può valutarlo e migliorarlo. Una progettazione condivisa Da queste premesse ne deriverebbe con chiarezza che ogni percorso dovrebbe essere co-progettato cioè pensato e strutturato assieme da partecipanti e maestri, ma ciò non capita quasi mai perché richiederebbe, nei percorsi brevi, un tempo forse equivalente alla durata del percorso stesso. Nella realtà c’è sempre qualcuno che, conoscendo le esigenze e i problemi di un gruppo, chiama le persone adatte a dare le risposte o chiama perlomeno coloro che egli ipotizza essere adatti a farlo. Alla fine del percorso si vede se quel qualcuno ha indovinato oppure no. Questo problema non si pone quando parliamo di una comune “scuola”, istituita con scopi dichiarati esplicitamente nei programmi, perché chi si iscrive deve adattarsi ai percorsi preordinati e alle regole prestabilite e saranno gli altri a determinare senza appello, attraverso verifiche ed esami, il successo di ogni frequentante. Non è il caso di questo brevissimo corso, ma di solito si usano i medesimi sistemi delle scuole e si soprassiede sulla necessità di un coinvolgimento diretto dei partecipanti, lasciando la possibilità di espressione individuale agli spazi ristretti delle domande ai relatori o alle sedute dei lavori di gruppo. E tanto dovrebbe bastare per soddisfare un minimo di esigenza “democratica” e di protagonismo dei soggetti prevalentemente passivi, i quali, abituati dall’infanzia ad essere comodamente imboccati mentre sonnecchiano sulle sedie, percepiscono in genere come un fastidio il fatto di essere coinvolti, di dover faticare per produrre qualcosa e di essere costretti a giocarsi in pubblico rischiando di fare brutta figura (e questo accade non tanto per ignoranza, ma spesso per il semplice fatto che i corsi di aggiornamento si tengono in aggiunta all’orario di lavoro, nelle ore in cui i partecipanti sono più stanchi). Simili controindicazioni garantiscono più facilmente il successo di “formazioni” brevi, fatte con nomi prestigiosi o roboanti, con figure di successo, con relazioni rapide e ad effetto, con veloci scambi di idee simili nei modi ai Talk show o alle classiche presentazioni domestiche di prodotti da piazzare sul mercato. Si esce soddisfatti o meno come se si fosse andati al cinema e tutto finisce lì. Anche queste formule “propagandistiche” hanno il loro valore, ma se lo scopo è innescare una riflessione e far compiere un primo 2 Pensare che un gruppo di corsisti seduti ad ascoltare un oratore stiano imparando equivale a credere che chi ascolta estasiato una musica sappia suonarla alla tastiera al termine dell’audizione. Allo stesso modo vedere due ragazzi seduti ad un banco a leggere un libro e pensare che stiano studiando sarebbe come credere che una persona bighellonante con le mani in tasca stia facendo filosofia. Le due cose sono probabili, ma raramente corrispondono a verità. 17 passo lungo un percorso articolato di cambiamento, allora bisogna fare scelte metodologiche diverse. Ci soffermeremo alcuni minuti a riflettere su queste scelte. Una metodologia seria (che faccia riferimento alle scienze dell’educazione) Per iniziare un pomeriggio potenzialmente barboso vi voglio fare un regalo dolce, con l’augurio che non si riveli indesiderato per qualcuno (distribuzione di una galatina a testa con vassoio o con “lancio sul posto”). Tutti noi abbiamo in mente un modello formativo, cioè un modo ideale di insegnare e di imparare. Esso in genere corrisponde -inevitabilmente e fatalmente- a quello scolastico, sistema che si deve all’impostazione ottocentesca dell’istruzione di massa, basata sulla lezione frontale come mansione principale del docente in classe e sullo studio personale come compito dello studente, a casa. L’impianto era funzionale alla diffusione della cultura per bocca di maestri, come libri viventi per chi non poteva possederne o accedere a biblioteche o comprenderne l’astruso contenuto. Simile impianto non è sostanzialmente mutato, anzi, esso continua ad essere il modello quasi unico di riferimento. In ogni grado di scuola e con un aumento progressivo dalle elementari all’università, prevale la lezione frontale classica (“logocentrica” secondo la definizione di Renzo Titone, 1959). In pratica i ragazzi stanno seduti ed ascoltano i docenti che parlano per la stragrande maggioranza delle ore scolastiche. Il metodo però, dopo 15 anni di vita sui banchi è entrato nella mente di ciascuno di noi come strada privilegiata per l’apprendimento e come esclusivo sistema per l’insegnamento. Purtroppo esso funziona con una percentuale molto bassa di persone, (non a caso i laureati in Italia sono pochi e la maggior parte degli studenti si perde lungo la strada), non sviluppa l’autonomia e produce effetti contrari alle buone intenzioni pedagogiche3 tanto sbandierate. Insomma noi non possiamo insegnare nulla, se non il rumore delle parole (Agostino), è l’allievo che decide che cosa imparare. La prova è molto semplice e gli insegnanti la conoscono: quando vanno a fare le verifiche si mettono spesso le mani nei capelli perché ogni allievo ha compreso le cose a modo suo. (Quidquid recipitur admodum recipientis recipitur4…). Questo non significa che, ad esempio, la lezione a voce non abbia un suo valore, ma che essa rischia di non avere alcuna efficacia se l’allievo non ascolta e che anche quando l’allievo ascolta con attenzione, comunque succede inevitabilmente che l’apprendimento non corrisponde mai all’insegnamento. Anche nei corsi di aggiornamento impostati con il metodo scolastico tradizionale accade con frequenza una cosa molto strana e nota a tutti. Un corso di pessimo livello può piacere ad una persona ed uno ottimo può dispiacere ad un’altra oppure, per il medesimo corso, l’insegnamento elargito può essere determinante per qualcuno o del tutto ininfluente per un altro. Questa apparente ovvietà non è da attribuire soltanto all’umore, sempre più mutevole, delle singole persone e alle differenze del patrimonio culturale individuale, ma principalmente al fatto che le aspettative costruite dal corsista sono state deluse perché su di esse non si è “lavorato” a sufficienza in termini di analisi, di comunicazione e di condivisione degli obiettivi del corso stesso. Diventa perciò essenziale in ogni corso preoccuparsi di conoscere le aspettative dei corsisti e i loro reali bisogni, di informare correttamente sulle intenzioni degli organizzatori e di non forzare la partecipazione di coloro che non hanno interesse ad imparare, cioè a contribuire attivamente al successo del corso stesso. Un insegnamento personalizzato La distribuzione delle caramelle è stata fatta con due metodi diversi: col vassoio e con il “lancio personalizzato”. In entrambe i casi però il metodo ha delle controindicazioni. Nel primo caso dal vassoio prende solo chi trova deliziose le caramelle: gli altri non portano a casa nulla e pur apprezzando il gesto, sperano che la prossima volta, che so, ci siano caramelle Mou. Nel secondo caso la mancanza di cortesia nel modo di porgere l’oggetto, ossia nella forma, può vanificare la gentilezza del dono ricevuto, cioè la sostanza. Insegnare in modo efficace è personalizzare i messaggi che veicolano le conoscenze. Gli insegnanti spesso distribuiscono le conoscenze come caramelle tutte uguali o perlomeno indistinte. La galatina è una buona caramella fatta col latte, alimento diffusissimo soprattutto nei bambini, ma una simile distribuzione non considera i gusti personali e tanto meno, ad es., la galattosemia che trasforma la caramella in veleno. Informazioni identiche appassionano uno e demotivano un altro. Chi ha la pazienza di mettersi a studiare la 3 “L’analfabetismo funzionale di oggi non corrisponde ad una deprivazione originaria, più o meno riferibile allo status economico delle famiglie (…), quello che sta emergendo è l’effetto di un apprendimento non interiorizzato, che si risolve in operazioni ripetitive e che decade una volta che le medesime operazioni non continuino ad essere sollecitate dall’esterno.” Benedetto Vertecchi 4 Ciò che è recepito viene recepito secondo il modo del ricevente. È un motto della Filosofia Scolastica che sottolinea come la conoscenza, similmente all’acqua, prenda la forma del “recipiente” in cui viene “versata” 18 singola persona e i metodi migliori per comunicare con lei? È possibile rispettare queste condizioni? Questo obiettivo ambizioso può paralizzare qualsiasi serio tentativo di insegnamento? Si può uscire dall’empasse dettata da un eccesso di scrupolo didattico? Il genitore che usa uno stesso metodo con figli diversi non può lamentarsi se poi non ottiene gli stessi risultati. Ognuno di noi chiede un trattamento personalizzato per il taglio dei capelli o per i vestiti che indossa, figuriamoci per la formazione del proprio carattere! La soluzione secondo le migliori teorie pedagogiche è semplice, anche se si stenta ad applicarla. Si tratta di non pretendere che tutti arrivino al medesimo risultato nello stesso tempo, perciò è necessario attendere le diverse maturazioni senza forzarle all’eccesso, cioè di dare a ciascuno il tempo di cui ha bisogno e non di un tempo stabilito; si tratta di mettere gli allievi in relazione con molti stimoli, con differenti situazioni, tecniche ed educatori in modo che egli possa trovare un filone di interesse, possa far emergere i propri talenti e possa comprendere che vi sono varie strade di accesso alla cultura. Se tale personalizzazione appare difficile per un genitore in una famiglia, sembra quasi impossibile con un gruppo o una classe. Eppure se si impostasse un intervento mirato all’autonomia dell’allievo e non alla sua dipendenza dai maestri che lo imboccano, anche colui che aiuta o educa verrebbe aiutato a risolvere il problema della individualizzazione degli apprendimenti proprio dagli stessi allievi od utenti. E questa verità metodologica è tanto più verificabile quanto più adulta è l’assemblea degli educandi. Questo corso potrà dare risultati mediocri per la sua impossibilità di pensare ai problemi di ciascuno, ma qui dentro siamo tutti maggiorenni e dunque dovremmo anche essere adulti (oggi le due cose coincidono meno di ieri, pare), e il discente adulto è quello che supera antipatie, che apprezza le discipline indipendentemente dal feeling con i docenti, che analizza il proprio stato d’animo e lo modifica in funzione della situazione e che sa comprendere anche le debolezze degli insegnanti. Apprendere è comprendere, anche nel senso speciale di “capire la situazione” e di non giudicare con freddezza, di mettersi in discussione e di iniziare ad ogni “corso” una nuova avventura di piena collaborazione. Condividere i significati per creare un contesto favorevole Il problema di condividere i significati dei contenuti e delle azioni rimane un problema di base e per tale motivo è sempre opportuno munirsi di un glossario da condividere. Tuttavia, nel caso dell’educazione degli adulti, come in questo corso, le cose tendono a capovolgersi, perché è il discente che diventa decisivo per il successo del percorso formativo più del docente e del suo metodo. Il senso di questa premessa pedagogica sta proprio qui, ovvero nel far comprendere ai corsisti come sia necessario diventare adulti nell’apprendimento e come uscire, come superare le modalità puerili con le quali ci si atteggia spesso involontariamente rispetto agli insegnamenti impartiti. Condividere i significati vuol dire creare un contesto efficace per l’apprendimento e anche per l’insegnamento. Anche i migliori relatori o intrattenitori possono infatti possono fallire se il loro intervento cade in un clima sfavorevole. Per far capire l’importanza decisiva del contesto basti pensare alla più esilarante barzelletta mai ascoltata e a quando la si è riproposta in altri ambienti dove nessuno ha riso oppure, per rendere il paragone più nobile, si pensi al medesimo effetto applicato ad una poesia bellissima e all’indifferenza che suscita se recitata male o tra persone distratte da altri argomenti. Per creare un clima e un contesto favorevole è perciò importante giungere al corso con aspettative adeguate, con informazioni corrette, con spirito di collaborazione…e con una forte dose di buon umore! Un atto di volontà adulta (chi di voi sa fare la barchetta con questo foglio di carta? Chi non la sa fare? Bene, tu fai la barchetta, me la consegni e poi io mostro come la insegno a fare a te che non la sai, in pochissimi secondi. Adesso insegno a fare la barchetta a te che non lo sai………. Prova.. Non ci riesci, come mai? Che cosa ho fatto io? Mi sono limitato a SPIEGARE il foglio. Potrei spiegarlo altre volte, ma finché tu non prendi il foglio in mano e lo pieghi un passo alla volta, non imparerai.). La conoscenza è una costruzione lenta come l’apprendistato presso un pittore, un bagnino, uno psichiatra, una bottega d’arte o un’infermeria. Non si può spiegare come si dipinge e nemmeno come si nuota se non si inizia a dipingere o ad entrare in acqua. L’insegnante costruisce la conoscenza passaggio dopo passaggio con i suoi allievi, al loro fianco. Anche gli adulti imparano così. Apprendere è partecipare al processo di conoscenza, è ricostruire il sapere già fatto. Senza la collaborazione dell’allievo e la condivisione degli stessi 19 obiettivi dell’insegnante, questi non può nulla5. Si può stare anche una vita a fianco di una persona straordinaria e comportarsi esattamente al contrario, perché noi impariamo solo quello che vogliamo imparare. Apprendere è un atto di volontà del discente, mentre le intenzioni del docente possono non contare nulla o addirittura causare l’effetto contrario. È vero che impariamo anche indirettamente e che siamo influenzati dal contesto, ma non esistono adulti più refrattari all’insegnamento di quelli che chiamiamo i “fragili” e che spesso sono introversi o depressi. Provate a chiedere a costoro di fare qualcosa che esca da ciò che fanno e desiderano fare, anche se ciò che fanno li abbruttisce e li rovina, e vedrete che è molto più facile addestrare un gatto selvatico. Sappiamo tutti dagli studi americani che per superare la depressione ci sono solo due cose lo sport e il volontariato, ma provate a convincere una persona depressa a fare queste cose e vedrete che solo una su dieci cambierà vita e si salverà. Questo significa che apprendere è comunque un’azione volontaria anche quando si sono acquisiti involontariamente alcuni comportamenti: essi vengono comunque accettati dalla nostra volontà. Una disciplina interiore Quando si studia la pedagogia si scopre che noi abbiamo imparato tutto (→ scrivi su di un foglio le azioni che, 6 secondo te, non ti sono mai state insegnate ). Oggi dobbiamo in qualche misura condividere un modello educativo, altrimenti se non ci capiamo sui termini… si divorzia (“che cosa intendi per”… lavoro di rete, etica della professione, ecc…?). I relatori possono anche essere venuti qui per insegnare qualcosa, ma il successo dipenderà più dalla vostra bravura che dalla nostra. Mi spiego. Istruire non è difficile. Tutti sappiamo, ad esempio, come ci si dovrebbe alimentare. (ditemi qual è il settore corretto del → quadrante antropologico del cibo7: quanti lo seguono? Quanti masticano adagio, non leggono o non guardano la tivù, mangiano la frutta almeno mezz’ora prima dei pasti e li iniziano regolarmente con la verdura? Non avremmo alcuna acidità né disturbo. Lo stesso vale per il galateo: tutti lo conosciamo, ma quanti lo mettono in pratica?) L’istruzione non basta per rendere l’uomo migliore se manca l’educazione che è la disciplina interiore. Forse che gli assistenti sociali migliori sono quelli che hanno più informazioni? E gli educatori professionali di maggior successo sono quelli che conoscono più trucchi degli altri nel relazionarsi? Il cuoco eccellente è forse quello che conosce a memoria più ricette degli altri? Conoscere le ricette è l’istruzione, saper cucinare è l’educazione. Nel corso gli oratori possono darvi alcune ricette, ma sta a voi giocarvele con le pentole, il fuoco e gli ingredienti che troverete nel vostro luogo di lavoro. Questo discorso evidenzia l’impotenza di chi insegna rispetto al potere di chi riceve e può buttare alle ortiche il più prezioso suggerimento o il miglior consiglio. Per imparare bisogna essere docili e apprensivi (docile non è il sottomesso, ma è colui al quale si può docére, in latino insegnare; apprensivo va inteso anch’esso nel significato etimologico di persona “disposta ad apprendere”, nel senso positivo di “timoroso” come l’amante che attende con ansia i giudizi di chi ama). Senza docilità e apprensione l’insegnante istruisce ma non educa e l’allievo diventa presuntuoso e impermeabile agli insegnamenti. I docili e gli apprensivi sanno davvero imparare (azione che comprende tutta la scienza dell’educazione: saper ascoltare, saper migliorare il proprio metodo di insegnamento, saper studiare, ricercare, aggiornarsi, collaborare, pazientare, perdonare, superare i propri limiti, amare, superare i conflitti, ecc.). Saper imparare è disciplina, anzi, la disciplina delle discipline. Alessandro Gozzo PS Sulla base di queste considerazioni si è cercato di costruire il breve percorso di questa formazione, consapevoli dei limiti degli organizzatori stessi e confidando nell’aiuto e nella comprensione dei corsisti. 5 In educazione si usava dire che “gli allievi non sono un vaso da riempire ma una creta da plasmare”. Maria Montessori, dià nei priomi decenni del 1900 diceva però che il bambino è “cera molle che si automodella”. In questo auto-modellamento c’è tutta l’educazione all’autonomia che dovrebbe contraddistinguere ogni tipo di scuola nuova. Una scuola che ancora non esiste, almeno a livello di massa. 6 Respirare, camminare, defecare, pensare, innamorarsi…Yoga, maratona, educazione al controllo sfinterico, filosofia, arte di amare…: esiste una disciplina per ogni nostra azione apparentemente istintiva. 7 Diagramma di Venn: mangiare tanto/poco; bene/male; l’unica intersezione corretta è poco e bene, tutti lo sanno, ma quanti ci riescono? 20 2 DOCUMENTI DEL SECONDO MODULO Dell’intervento del prof. Luigi Gui, abbiamo i video che saranno allegati nel DVD. Le pagine che seguono sono un articolo consigliato per l’approfondimento dal docente stesso che ce lo ha inviato. Operatori sociali, co-operatori progettuali di Luigi Gui 1. Operare nel dopo-welfare state Nella società detta “complessa” e “a pluralismo estremizzato”, dei paesi industriali e tecnologizzati del Nord del mondo, a matrice culturale Europea, segnata dalla valorizzazione di ogni esperienza singolare e soggettiva del benessere, il social work (lavoro sociale) centrato sull’assistenza delle persone in difficoltà, non pare più facilmente riducibile alla tradizionale forma dell’aiuto basato sull’erogazione di prestazioni più o meno standardizzate. Non appare più sufficiente, cioè, la mera azione di ridistribuzione standardizzabile di beni e servizi (tendenzialmente universalistica, caratteristica delle politiche del welfare state nascente), ma viene richiesto ai prestatori d’assistenza di sostenere ciascuno di coloro che si trova in una qualche difficoltà perché possa farvi fronte personalmente, nel modo più soddisfacente per sé, secondo le forme originali e particolari in cui si esprime. Da questa prospettiva i social workers (“assistenti sociali”, in Italia) si trovano a dover coniugare la loro professionalità in un contesto vario e precariamente cangiante, caratterizzato dalla pluralità dei soggetti erogatori di servizi e dall’apertura a nuove potenziali risorse attingibili. Soprattutto nelle realtà sociali più urbanizzate e ad economia di terziario avanzato, paiono aumentare in quantità e in varietà le opportunità di "combinare" risposte sempre più personalizzate ai bisogni individuali, parallelamente alla crescita di un "quasi mercato" dei servizi sociali e sanitari che si candida ad “assistere” i cittadini-clienti del dopo-welfare state; per altro verso, però, chi si trova in condizioni di maggiore debolezza, di disagio, di abbandono, rischia altrettanto fortemente di rimanere escluso dal supermarket dei servizi, per incompetenza comunicativa con quel sistema di erogazioni, per ignoranza e disorientamento, o, in fine, per il sovraccarico di stress decisionale a cui ogni persona oppressa dall’angoscia e dalla preoccupazione non riesce a far fronte. L'eccedenza di accessi possibili al sistema pluralista dei servizi e delle prestazioni, che promette molto ma non garantisce nulla, paradossalmente rischia, così, di lasciare fuori proprio coloro che maggiormente ne avrebbero bisogno. D'altro lato l'istituzione pubblica, che in questa dinamica pare aver perso la centralità che caratterizzava le politiche sociali nei decenni passati, risulta meno evidente e meno facilmente raggiungibile ai cittadini utenti/clienti, mentre il mandato istituzionale di protezione sociale e di tutela si affievolisce all’insegna della libertà di scelta dei singoli individui. 21 Nell’eterogeneità delle forme dell’aiuto, dell’assistenza e della cura, la persona-cittadino-utentecliente-paziente si trova di fatto sempre più sola, toccata da molte agenzie assistenziali e di cura ma sostanzialmente abbandonata nella ricomposizione personale della sua identità e delle sua esistenza. In quest’epoca diventa, così, crescentemente importante un lavoro “sociale” (collettivamente riconosciuto e legittimato) di orientamento e informazione degli “orfani del welfare state”. In tale prospettiva, gran parte delle Regioni italiane ha espressamente indicato nella normativa regionale la necessità di attivare una specifica funzione, diffusa nel territorio, di interlocuzione con i cittadini potenziali utenti dei servizi, sia nei termini del più noto e tradizionale “segretariato sociale” (già consolidato nel servizio sociale italiano sin dagli anni ’70), sia come funzione essenziale di forme innovative quali: “sportello unico”, “porta sociale”, “sportello di cittadinanza”, “punto d’accesso”, “ufficio di cittadinanza”, “porta unica d’accesso”, “funzione dell’ufficio di promozione sociale”. Tuttavia, mentre nel passato si poteva ritenere che l'obiettivo principale di tale servizio fosse rendere consapevoli ed informati i cittadini/utenti sull'esigibilità dei loro diritti/prestazioni entro un'appartenenza civica "garantita", ora la funzione istituzionale di informazione e orientamento diventa in primo luogo un’occasione di riconoscimento e di ascolto della particolarità soggettiva ed originale di ogni cittadino, dei suoi "bisogni", delle sue mete di realizzazione. In questo senso, ciò che è richiesto dalle persone più deboli agli operatori “professionisti dell’aiuto” non è tanto “eliminare” i problemi assumendosene la competenza risolutiva, quanto sostenere e facilitare la loro ricerca continua delle migliori composizioni di equilibrio fra le diverse istanze soggettive e le provocazioni ambientali, in un incessante riposizionamento e mutamento degli elementi in gioco. I primi passi nella ricerca di benessere sono rappresentati, quindi, dalla ricerca di rapporti interpersonali accoglienti e capaci d’ascolto, di orientamento e prima consulenza. Nella società odierna, caratterizzata da contesti di relazione “a legami deboli” e reti comunitarie a responsabilità limitata, cioè vincolanti per aspetti parziali dell’esistenza, capaci di farsi carico dei propri membri limitatamente ad alcune dimensioni della loro vita, pare rimanere inapplicata la responsabilità sociale sulla globalità dell’esperienza vitale di ciascuno, lasciato di fatto solo nelle “sue” difficoltà di ricerca della propria realizzazione. I membri di queste società non paiono soffrire tanto di assenza “potenziale” di reti di aiuto, quanto di disorientamento e paralisi negli intrecci aggrovigliati e talvolta inconcludenti dei loro tentativi di far fronte ai problemi. Un primo ed essenziale servizio, dunque, è rappresentato dall’aiuto a ritrovare chiarezza e determinazione per ri-progettare le azioni e le relazioni entro un quadro dotato di “senso”: riconoscere gli interlocutori possibili di una condivisione dei problemi, per farli emergere dalla percezione individuale e solitaria e portarli al rango di “problemi sociali”, cioè affrontabili comunitariamente. Nel lavoro degli assistenti sociali, in tal modo, le persone possono essere non tanto aiutate a raggiungere consolidate condizioni di un benessere previsto e presunto, ma sostenute nella costante vulnerabilità quotidiana propria di una società che appare sempre più “liquida” (Cesareo V., 1997) e inaffidabile. 2. Comprendere per assistere La dinamica incerta e costante del gioco delle possibilità, spinge dunque a cercare interlocutori (assistenti) affidabili e competenti, che sostengano nel percorso e offrano coordinate per la propria azione, che comprendano (letteralmente “prendano con”) gli obiettivi esistenziali di chi chiede soccorso, assistendo (letteralmente “stando accanto”) nella ridefinizione di progetti esistenziali. 22 L’attuale evoluzione del servizio sociale (prodotto dalla composizione concertata degli interventi socio-assistenziali a livello locale), può muoversi, dunque, lungo due direttrici: a) la relazione cittadini/sistema-dei-servizi, nei suoi aspetti di accessibilità, qualità, rispetto dell’autodeterminazione e della libertà di scelta dei servizi da fruire; b) la pianificazione e progettazione concertata fra i diversi attori del welfare mix locale. In un servizio sociale orientato in tale direzione, sono riconoscibili sei elementi che dovrebbero caratterizzare l’azione professionale degli assistenti sociali: ascolto, comprensione, accoglienza, condivisione, accompagnamento, co-determinazione (Gui, 2004). L’accento, in questa sede, viene posto sulla co-determinazione (operatore/cittadinoutente/comunità) per la particolare sottolineatura sulla necessità che ogni soggetto venga riconosciuto competente dei propri problemi e autodeterminato nei propri progetti. Se si vuole affrontare la questione dell'assistenza in una società globalizzata, ove i confini tra benessere e malessere, tra inclusione ed esclusione, tra normalità e anormalità si fanno sempre più incerti, va potenziata la disponibilità a costruire intrecci solidali inediti, provocando e alimentando spazi di comunicazione e di costruzione condivisa. Gli assistenti sociali, per farsi accoglienti nell'accezione qui proposta, divengono - si potrebbe dire - meno "operatori sociali" (coloro che operano a partire da una definizione data) e più "co-operatori sociali" (coloro che fanno convergere il loro operato verso una definizione da costruire con altri); Questa prospettiva applicata alla relazione con le persone da assistere, implica la capacità di cogliere gli universi di significato entro cui queste fanno esperienza di senso, rendendosene partecipi. Tale condivisione induce gli operatori a cercare una definizione comune della realtà problematica da affrontare e degli obiettivi da raggiungere (Ferrario F., 1996), porta al loro ingresso nelle reti di relazione e alla promozione di ulteriori legami produttori di agio (Folgheraiter,1998). In questa stessa linea, il lavoro sociale di progettazione, implica capacità di comunicazione con soggetti diversi utilizzando differenti codici comunicativi e strutture di relazione inclusive della diversità: un "tavolo" di lavoro, un "tavolo" di trattativa o un "tavolo" di concertazione sono, in definitiva, possibili "spazi" di condivisione. Ad un operatore sociale professionista, nella realtà attuale, pare essere richiesta, dunque, anche la capacità di "condividere" e di provocare condivisione, nei termini di facilitazione della comunicazione e promozione dell’integrazione operativa su obiettivi contingenti condivisi. L’operatore sociale perde ogni presunta autosufficienza “scientifico-tecnologica” (il mito dell’esperto, autorevole in quanto tecnicamente rigoroso in relazione a protocolli stabiliti) che lo farebbe presumere capace di “operare” garantendo prodotti sociali dipendenti dalla sua professionalità. Sembra aver perso fondatezza la concezione “istruttiva” fondata sul presunto controllo unilaterale dell’intervento da parete dell’operatore, il quale, forte delle sue teorie e dei suoi sistemi di conoscenza, opererebbe utilizzando la propria strumentazione tecnica in vista di un risultato prevedibile, e va acquistando rilievo la prospettiva “socio-costruzionista” (Fruggeri, 1997) che riconosce nell’operatore un co-autore degli interventi, il cui esito sta nei processi interattivi “tra i cui elementi costitutivi figurano i sistemi di significato e di rappresentazione di tutti i soggetti coinvolti (…) per come si coordinano nell’azione congiunta” (Fruggeri, 1997, p.180). Non a caso fra gli operatori sociali ha preso piede, negli anni recenti, il concetto di “accompagnamento sociale”8. (Gui L., 1998), con particolare riferimento agli interventi nelle situazioni di maggiore disagio ed emarginazione. La prospettiva dell’accompagnamento sta emergendo non solo per la maggiore adeguatezza delle risposte d’aiuto a persone per le quali non siano preconfezionati “pacchetti assistenziali” già standardizzati, ma anche per la sua forte valenza relazionale, di promozione dell'empowerment e per la possibilità di articolazione flessibile e creativa di soluzioni personalizzate. 8 Di questo si trova esplicito riferimento tanto nella normativa italiana (all' art. 28, della legge quadro 328/00 e nel Piano Nazionale degli interventi e dei Servizi Sociali 2001/2003) che nella più recente pubblicistica di settore 23 Accompagnamento sociale (Landuzzi e Pieretti, 2003) evoca una posizione d'aiuto che non si basa (come accadrebbe tradizionalmente) su una domanda asimmetrica fra colui che chiede aiuto e colui che lo offre, fra colui che è carente di conoscenze, di competenze e di risorse (l'utente) e colui che possiede conoscenze, competenze e risorse (il professionista); in sostanza, si esce dalla forma tradizionale dell'erogazione, secondo la quale vi sono bisogni chiaramente codificati di cui alcuni sono portatori e risposte altrettanto chiaramente strutturate di cui i servizi (e i loro operatori) sono capaci. Al soggetto che versa in condizioni di difficoltà, non si sottrae l’abilità e la responsabilità di scoprire quali siano gli obiettivi dei suoi progetti e le azioni efficaci per raggiungerli. Piuttosto, l'operatore sociale si pone accanto a chi è in difficoltà per riconoscere con lui (e così rendere trattabili) i desideri e i problemi che egli percepisce come propri. Lungo il percorso di ascolto, comprensione, accoglienza, condivisione, l'operatore "accompagna" il soggetto ad impadronirsi consapevolmente della propria progettualità. Affiancandolo, l'assistente sociale, consente la tessitura di rinnovate relazioni che incorniciano il soggetto in una rete di rapporti e di azioni costruttive, promuove un intreccio di ruoli complementari, capaci di far sperimentare alla persona nuove possibilità di autodeterminazione e di senso. Da qui si coglie che gli interventi sociali d’aiuto nella forma dell'accompagnamento, pur partendo dalle singole persone, giungono a trattare con soggetti considerati non più singolarmente ma negli intrecci di relazioni, nelle reti che cambiano con loro. Il disagio del singolo non può trovare mutamento né miglioramento fino a che l’intero carico di tale trasformazione della sua condizione posa prevalentemente sulla sua singola capacità di cambiare. Nella prospettiva qui abbozzata si tratta di impostare un lavoro di reticolazione che coinvolga il soggetto più in difficoltà, all’interno di un processo di riconoscimento reciproco di valore e di identità. Risulta perciò cruciale il passaggio da un orientamento di case-work “clinico” o individuale (inteso come prestazione d’aiuto che si esaurisce in una relazione “a due”) ad uno che implica la pianificazione di care comunitaria nella quale l’assistente sociale (e il servizio a cui appartiene) si rende consapevole di non essere l’unica risorsa d'aiuto, ma, al contrario, una delle tante possibilità a cui la persona in difficoltà può attingere. Tutte le persone implicate in questa interazione vanno modificandosi come sistema interattivo, di cui l'assistente sociale fa parte, appunto, per "accompagnare" al superamento dei problemi e al perseguimento degli obiettivi concordati. 3. Una marginalità cruciale Si passerebbe, seguendo quest’impostazione, dall’assistere come “aggiustare ed aggiungere” ciò che manca ad un assistito ritenuto deficitario, all’idea di assistere come “stare accanto”, sostenere chi va intraprendendo nuovi possibili percorsi. Sul piano del servizio sociale individuale, questa prospettiva comporta - come si è detto - un’accentuata personalizzazione delle prestazioni in base alla specificità di ogni cittadino-utente (Payne M., 1998). Richiede la definizione di accordi (o contratti) operativi nella direzione degli obiettivi comuni, il sostegno, la valutazione in itinere e la verifica finale del processo di cambiamento avviato. Un co-operatore così inteso si implica in processi previsionali e di decisione comuni; in ultima analisi, co-progetta azioni di cui non è primo titolare ma solo “assistente”. Questo modo di operare (co-operare), sul piano dell’azione sociale ed istituzionale comporta un vero e proprio “lavoro” di promozione della partecipazione e dell’incontro fra soggetti diversi, fra organizzazioni e fra enti, di negoziazione fra le differenti istanze presenti (Fletcher K., 1998), di progettazione condivisa e azione coordinata coerentemente agli obiettivi fissati in comune, di management delle risorse finalizzato agli esiti comunemente auspicati, di monitoraggio e verifica del sistema integrato, di nuova formulazione progettuale ed eventuale cooptazione di nuovi soggetti. Tale operatore, volutamente “marginale” per il modo di porsi accanto alla titolarità dei soggetti che “assiste”, risulta un co-operatore assolutamente cruciale nei processi di risoluzione e 24 fronteggiamento dei problemi, certamente non meno carico di competenza e ruolo professionale di quanto si rappresenti nella visione “istruttiva” ancora frequente in altre professioni di antico e consolidato prestigio. Bibliografia di riferimento Bauman Z. (2001), Voglia di comunità, Laterza, Roma-Bari. Cesareo C. (1997), La società della globalizzazione. Regole sociali e soggettività. Una introduzione al tema, in “Studi di sociologia”, XXXV, 3-4, pp.251-287. Dal Pra Ponticelli M. (2001), La professionalità dell’assistente sociale secondo la legge quadro di riforma dell’assistenza, in Sgroi E., Rizza S., Gui L. (a cura di), Rapporto sulla situazione del servizio sociale, Eiss, Roma . Donati P. (2000), Le nuove culture del benessere sociale, in Secondulfo S. (a cura di), Trasformazioni sociali e nuove culture del benessere, FrancoAngeli, Milano. Ferrario F. (1996), Le dimensioni dell’intervento sociale, Carocci, Roma. Fletcher K. (1998), Negotiation for health and social services professionals, Jessica Kingsley Publishers, London; trad it. (2000), La negoziazione nei servizi sociali e sanitari, Erickson, Trento. Folgheraiter F. (1998), Teoria e metodologia del servizio sociale. La prospettiva di rete, FrancoAngeli, Milano. Fruggeri L. (1997), Famiglie. Dinamiche interpersonali e processi psico-sociali, NIS, Roma. Gui L. (1998), L’intervento per le persone senza fissa dimora: più che nuove strutture, un approccio diverso, in Caritas Italiana e Fondazione E. Zancan (a cura di), Gli ultimi della fila, Feltrinelli, Milano. Gui L. (2004), Le sfide teoriche del servizio sociale, Carocci, Roma. Landuzzi C. e Pieretti G. (a cura di) (2003), Servizio sociale e povertà estreme, Franco Angeli, Milano. Payne M. (1995), Social work and community care, Macmillan, London. Lo psicologo Alfio Checchin, ha lasciato il Power Point del suo intervento che viene inserito in formato PDF nel DVD allegato. La lezione: “Criticità ricorrenti nel lavoro di rete e possibili risposte” è stata molto ridotta per questioni di tempo, perciò grazie agli appunti che il relatore ha messo a disposizione se ne possono ritrovare e rivedere con calma i contenuti. 25 3 DOCUMENTI DEL TERZO MODULO Presentazione dei lavori della mattinata Alessandro Gozzo Il titolo di questo breve corso “la forma e l’azione dell’agire quotidiano…” rivelava già le intenzioni di svolgere una formazione fedele alle parole contenute nel termine stesso: dare forma all’azione, compenetrando teoria e pratica, le idee e gli atti, il pensiero e la realtà. Nella introduzione pedagogica del 1° modulo sottolineavo come questo risultato non dipendesse soltanto dalla qualità oggettiva degli interventi e dalla “docilità” soggettiva agli insegnamenti impartiti, quanto piuttosto dalla capacità di adulti studiosi di rendersi “apprensivi” verso le istruzioni e le informazioni impartite e ricevute in modo attivo e critico9. Istruzioni, informazioni ed emozioni provocano cambiamenti? In un corso si ricevono sostanzialmente tre cose: istruzioni e informazioni che causano nei corsisti emozioni diverse, forse volutamente trasmesse dai docenti, ma che spesso possono essere differenti e addirittura contrarie a quelle che si volevano intenzionalmente trasferire. È evidente che istruzioni e informazioni, cioè le “ricette” o le “notizie” relative ad un tema o ad un problema, causano anche dei cambiamenti nella memoria, nel bagaglio culturale e nel comportamento delle persone, ma quello che ci interessa sottolineare è proprio il fatto strabiliante che troppo spesso questi cambiamenti non solo non sono in linea con le intenzioni degli insegnanti, ma non si vedono nemmeno. È molto difficile controllare gli effetti dei primi tre “eventi” della formazione “formale” sulle singole persone, soprattutto se esse sono state abituate a ricevere istruzioni e informazioni secondo il modello classico della “trasmissione di nozioni”, come una semplice distribuzione delle caramelle, generica, a pioggia e più o meno corretta o “simpatica”. Partecipare per cambiare Quando si insegna a persone adulte è importante chiarire come si intende “giocare” la partita della formazione. Esplicitare le regole dell’insegnamento consente di garantire una maggiore corrispondenza dell’apprendimento a ciò che i docenti vogliono comunicare. In questo corso di formazione si è scelto di dare precedenza alla varietà dei cibi piuttosto che ai tempi di digestione, pertanto è inevitabile che si vada a casa con l’insoddisfazione di non aver potuto digerire diverse pietanze, ma lo scopo espresso all’inizio era proprio quello di far conoscere a più persone simultaneamente i differenti modi di approcciare i problemi culinari (quale cibo si adatta meglio a quale persona o ricorrenza) e non quello di fare una cenetta a lume di candela, senza vincolo (dall’introduzione al secondo modulo) Per imparare bisogna essere docili e apprensivi (docile non è il sottomesso, ma è colui al quale si può docére; apprensivo va inteso anch’esso nel significato etimologico di persona “disposta ad apprendere”, nel senso positivo di “timoroso” come l’amante che attende con ansia i giudizi di chi ama). La prova inconfutabile che l’insegnamento non corrisponde mai all’apprendimento, è molto semplice e gli insegnanti la conoscono meglio di altri educatori: quando vanno a fare le verifiche si mettono spesso le mani nei capelli perché ogni allievo ha compreso le cose a modo suo. (Quidquid recipitur admodum recipientis recipitur: ciò che viene recepito prende la forma del recipiente). Questo non significa che i consigli, la discussione o la lezione a voce non abbiano un loro valore, ma che essi rischiano di non avere alcuna efficacia se l’allievo (l’utente, il collega, i familiari…) non ascolta, non sa ascoltare o non vuole ascoltare; e che anche quando la persona ascolta con attenzione, succede comunque e inevitabilmente che l’apprendimento non corrisponda mai perfettamente all’insegnamento. Questa considerazione non deresponsabilizza i docenti, ma responsabilizza i discenti adulti; li rende corresponsabili del successo degli eventi formativi e si applica non solo a questo corso, ma anche all’esperienza professionale di chiunque abbia un ruolo di accompagnamento, di guida o di cura. Senza la condivisione delle mete non si raggiungono gli obiettivi formativi 9 26 d’orario. Dopo il corso, per chi desidera approfondire, ci sarà tutto il tempo di riprendere i filmati su Youtube, o la descrizione del collega ideale per capire quanto le difficoltà dipendano dalla nostra situazione oggettiva o soggettiva, quanto le relazioni umane con colleghi, dirigenti, utenti o familiari si costruiscano o si demoliscano sulla base delle proprie sciagure amplificate o piuttosto sul saper decidere una priorità morale nei nostri atteggiamenti, perché spesso pretendiamo dagli altri quello che noi (sappiamo, ma) non vogliamo fare. Il primo modulo avrebbe dovuto insegnare questo, cioè a dire a sé stessi: (dall’introduzione al secondo modulo) “in qualsiasi situazione critica mi trovo, devo crearmi delle alleanze con coloro che l’hanno già superata; Per ogni problema irrisolvibile che ci assilla dobbiamo avere consapevolezza che esso è già stato risolto da qualcuno; da poco o in altro tempo; in questo o in altro luogo cento volte e forse anche meglio di come vorremmo e potremmo risolverlo noi10. Apprendere per impegnarsi e impegnarsi per poter apprendere Noi abbiamo appreso tutto ciò che diciamo di conoscere e da adulti noi sappiamo come le cose devono essere fatte… ma perché non le facciamo? La nostra amata e ricercata indipendenza è spesso l’inizio della nostra disfatta morale. Non possiamo isolarci se vogliamo operare per il bene comune e, senza operare per questo bene, non facciamo nemmeno il nostro, perché i due beni coincidono. (viene consegnata una bustina di tè). Ciò che possiamo fare noi in questo corso è simile a questa azione: vi viene donato un filtro dicendo di gustarvi il te, ma quel filtro ora non serve a niente, perché non abbiamo qui con noi due elementi essenziali, l’acqua e il fuoco. Le conoscenze che acquistiamo sono come le sostanze nella bustina; possono essere anche profumate e potenzialmente energizzanti, ma si devono contestualizzare; ci vuole un ambiente nel quale si valorizzino le essenze, e ci vuole anche una energia per ottimizzare ogni arricchimento culturale e per poter dissetare noi e gli altri. Nell’acqua fredda dei nostri ragionamenti e della realtà paralizzante il filtro non rilascia le sostanze. E se abbiamo solo il fuoco dell’entusiasmo o del sacro furore ideologico, possiamo bruciare in un attimo i migliori insegnamenti selezionati, stagionati e confezionati a dovere. L’armonia che assicura il buon risultato dell’intero processo è il rispetto delle buone regole del suo svolgimento e questo aspetto si può paragonare all’etica che si presenta come orientamento di ogni azione al bene comune. Il talento dei talenti L’etica, come scienza della giustizia, è l’energia buona che dirige ogni azione al bene comune, universale. Senza l’afflato morale non c’è educazione e senza educazione ogni relazione umana, ogni comportamento ritorna alla confusione e all’incomunicabilità della babele originaria, alla giungla della violenza, al caos delle opinioni senza alcun riferimento. Di tutte le doti umane ve n’è una che le ottimizza; è il talento che hanno tutti, anche di colui che non lo usa: il talento di far fruttare i talenti. Questo talento è la capacità di ottimizzare le proprie azioni, le proprie qualità, i propri pensieri, le proprie emozioni: è l’onestà, la volontà di dire tutta la verità, sempre; di essere autentici e limpidi, di non barare con sé stessi e con gli altri. Senza questa dote delle doti ogni discorso formativo cade miseramente nell’istruzione più tecnica, più fredda, più inutile per il miglioramento del mondo. Le relazioni hanno successo solo tra persone oneste e così accade per ogni insegnamento, per ogni collaborazione. L’onestà rende bella la bellezza, ricco il benestante, amabile la persona amata, buona la bontà, giusta la giustizia, corretta la correzione, saggio lo studioso, degna la vita. 10 Internet ci apre un mondo che rappresenta una potenziale comunità planetaria di operatori eccellenti e in questa rete tutti possono aiutarsi a vicenda in uno sforzo comune inimmaginabile fino a pochi anni fa. La rete non risolve certo i conflitti, ad esempio, con gli amministratori (e direi proprio perché gli amministratori non fanno “rete” con gli altri attori!), ma noi dobbiamo cercare di costruire relazioni nuove, “esterne”, con le realtà, le esperienze e le persone più diverse, che mettano in moto un processo di dissodamento del nostro cervello, di scioglimento delle resistenze al cambiamento, di accensione della motivazione e dell’entusiasmo, di riflessione sui principi universali, di vittoria sulle delle dinamiche perverse che costruiscono i muri di separazione tra uffici, tra realtà operative e tra gli individui. 27 Il prof. Antonio Da Re ha tenuto una lezione con il supporto di un Power-Point che si trova nel DVD allegato. I contenuti più ampi e argomentati dell’intervento si trovano inoltre nell’articolo del numero 3 del 2009 di “Etica per le professioni” che durante il corso è sempre stato a disposizione dei partecipanti. Si riporta la prima pagina dell’articolo. Il Power-Point dell’intervento di Paolo Rizzato sulla mission dell’associazione “Il Portico” e la visualizzazione della rete attivata per rispondere ai bisogni dell’utenza si trova nel DVD allegato assieme alle 6 pagine in cui si sintetizzano le differenti attività svolte per l’integrazione sociale. 28 BIBLIOGRAFIA 29 BIBLIOGRAFIA 30 Ai partecipanti è stata riproposta la triade di domande iniziali per valutare il cambiamento di opinione dopo il corso. Si riportano per intero i risultati RISPOSTE DEI TEST FINALI DI VALUTAZIONE DEL CORSO “LA FORMA E L’AZIONE DELL’AGIRE QUOTIDIANO DELL’OPERATORE SOCIALE” corso di formazione- SISS Servizio Integrazione Sociale e Scolastica - A.ULSS 17 – Monselice RIASSUNTO RISPOSTE AI QUESTIONARI FINALI SOMMINISTRATI AI PARTECIPANTI Risposte ai quesiti: Focalizziamo con quali soggetti viviamo le criticità: (indicare solo 3 criticità, attribuendo una priorità con i numeri 1, 2, 3; 1=soggetto con criticità più alta) Soggetti Priorità 1 Priorità 2 Priorità 3 I servizi specialistici 12 9 4 Utente 6 4 8 Famiglia 4 9 6 Amministratori 4 6 3 Superiori 3 4 4 Altri dipartimenti 3 2 1 Servizi del comune 3 0 1 Colleghi 1 2 6 Altri settori del comune 0 0 2 Quali riteniamo siano le cause di tale criticità in relazione al soggetto con il quale viviamo maggiore: (indicare la priorità con i numeri 1, 2, 3, 4; 1= causa più incisiva) Causa Priorità 1 Priorità 2 Priorità 3 L’operatività a compartimenti stagni che non 11 7 2 considera il ruolo di altri servizi o operatori La mancanza di progettualità / soluzione confusa 9 3 4 Una concezione diversa del lavoro (della mission) 6 5 3 Una differente idea di progetto / soluzione 5 4 7 La non condivisione degli obiettivi 4 8 6 Rivalità, presunzione di fare da soli… 2 5 5 Blocchi di comunicazione 1 7 1 Complicazioni per professionalità differenti 1 2 3 Mancanza di credibilità e fiducia / progetto ritenuto 1 2 0 inadeguato Mancanza di informazioni 1 1 1 Rifiuti nel timore di eccessivo coinvolgimento 0 1 0 la difficoltà Priorità 4 2 0 2 5 2 1 1 2 1 3 1 “Cosa si intende fare per fronteggiare la difficoltà identificata come primaria?” 1. Confronto, condivisione, sensibilizzazione, chiarezza di obiettivi. Consapevolezza del proprio ruolo e della propria mission 2. Comunicare, concordare e concertare con sinergia 3. Maggiore trasparenza e collaborazione 4. Cercare di avere una concezione comune di lavoro di rete e attuarla al fine di realizzare gli obiettivi prefissati 5. Condividere "protocolli" in cui si individuano e condividono attività, ruoli e responsabilità 6. La comunicazione e/o la relazione nel quale le parti ci riconoscano negli scopi e fini 7. Chiarire i fattori che comportano questa criticità con un dialogo chiaro e continuo 8. Maggiore dialogo comunicazione puntuale reale 31 9. Continuare a lavorare in un'ottica di collaborazione e integrazione tra servizi finalizzata alla concertazione nonostante le barriere altrui 10. Riuscire a comunicare o per lo meno comprendere i bisogni dei soggetti per cui si lavora 11. Aumentare la comunicazione in modo che sia condivisa l'identità professionale dell'assistente sociale e del suo ruolo 12. Capire prima di tutto che non è una sola persona che forma la società ma più persone che si aiutano reciprocamente, senza giudicare, aperte al dialogo 13. Maggior coinvolgimento leva sulle capacità dell'utente di pensare ad una propria progettualità di vita 14. provare ad aprire un dialogo costruttivo da entrambe le parte per migliorare il servizio 15. Conoscere meglio l'utenza 16. Per quanto riguarda la famiglia cercare di impostare il progetto portando prima essa al poter arrivare alla persona protagonista del progetto. Secondo cercare di lavorare assieme senza escludere ciò che di primo impatto può sembrare superfluo 17. Maggiore collaborazione, riflessione e condivisione in riferimento alla progettualità e alle prassi con i diversi servizi coinvolti 18. Maggiori colloqui con i diversi servizi specialistici 19. Sensibilizzare altre persone alla compassione 20. Presentarsi in maniera professionale e disponibile a creare una progettualità condivisa con i servizi territoriali 21. Purtroppo, spesso, a causa di lunghi passaggi nelle fila gerarchiche il potere decisionale è distante dall'operatività sicuramente la comunicazione/condivisione oltre che un dovere può costituire uno strumento utile 22. Sapere le problematiche dell'utente ed essere preparati, lavorare in modo che ognuno possa aiutare a realizzare l'integrazione dell'utente portando le proprie conoscenze 23. Chiarire che per dare aiuto bisogna saper come fare: è inutile dire “arrangiati” se non si sa nemmeno da che parte cominciare 24. Individuare un'idea comune di progetto, ricevere tutte le informazioni del caso e lavorare sempre nella condivisione degli obiettivi 25. Continuare a cercare di costruire una collaborazione efficace che renda possibile una condivisione degli obiettivi 26. Mediare tramite altri settori, potenziare momenti di comunicazione 27. Porre al centro dei progetti/ interventi/ azioni il benessere e l'interesse della persona e di chi le sta attorno, ridimensionando quelle che sono i fondamenti e le competenze professionali specifiche degli operatori 28. Cercare il dialogo attraverso il confronto e la spiegazione della normativa 29. Migliorare il lavoro di rete 30. Migliore coinvolgimento dei servizi specialistici attraverso li UMD 31. Attivare lavoro di rete 32. Purtroppo è una difficoltà difficile da fronteggiare, in quanto chi si trova in posizione di superiorità gerarchica difficilmente media 33. Evidenziare il problema senza identificarlo però come ostacolo, nel senso che la progettualità va comunque costruita con il dialogo e la collaborazione nel rispetto delle rispettive competenze 34. Mettere a disposizione la propria professionalità per fare chiarezza sul caso e considerare la persona nella sua globalità, individuare insieme agli altri servizi un obiettivo, sul quale poter costruire un progetto globale più ampio 35. Dialogare, cercando di creare momenti per discutere accettando le idee di tutti 36. Trovare il modo, assieme ai colleghi, di lavorare con le persone di cui “ci prendiamo cura”, fare assieme 37. Cercare di mettermi dal loro punto i vista. Relazionare, rendere conto in modo fruibile (documento) il lavoro e gli obiettivi da cui si parte. Rendergli più terra terra e concreti prima di tutto perché siano credibili e probabili 38. Nella quotidianità utilizzi tutte le strategie professionali e personali evitando di avvelenare le criticità “istinto di sopravvivenza” 32 2. Risposte al quesito: “Quali elementi ritenete necessari potenziare per una maggiore efficacia nel lavoro…” A- in riferimento alla vostra professione/servizio apprendimento/aggiornamento di strumenti/metodi di lavoro approfondimenti su aspetti etici/deontologici implementazione di informazioni sulle risorse (presenti nel territorio, ambiente ecc. e perché? 1. Sono tutti validi e complementari ad una maggiore efficienza 2. Risposta A, perché ritengo siano fondamentali 3. Risposta A, per migliorare l'operatività quotidiana 4. Risposta A, essendo tirocinante penso che prima di tutto sia necessario apprendere i diversi metodi lavorativi 5. Risposta B, per responsabilizzare 6. Risposta B, perché ritengo siano strumenti/mezzi condivisibili in un progetto 7. Risposta A 8. Risposta A, perché più strumenti sono più possibilità di soluzione 9. Risposta C, per trovare nuovi attori della rete 10. Risposta B, per capire cosa ci spinge a lavorare per aiutare gli altri 11. Risposta C, per un lavoro di rete maggiore e più efficace 12. Risposta A, per la conoscenza nel settore disabilità, per aiutare e contribuire nei progetti con maggior tranquillità e chiarezza 13. Risposta A, per declinare l'intento di aiuto in modo più puntuale, professionale, oggettivabile almeno in alcuni ambiti così che la relazione educativa abbia strumenti operativi forti 14. Risposta A, perché la formazione continua permette una maggiore competenza e professionalità 15. Risposta A, perché è da poco che sono educatrice presso una coop di disabili quindi ritengo sia importante un aggiornamento e apprendimento personale 16. Risposta C 17. Risposta A, perché la formazione è un aspetto fondamentale per fornire mezzi, idee, pratiche da riproporre nell'ambiente lavorativo 18. Risposte A,C perché solo attraverso una formazione continua ed una conoscenza delle risorse a disposizione è possibile che vi sia una maggiore efficacia nei servizi offerti 19. Risposta A per essere preparati al bisogno di altre personalità 20. Risposta C, per creare opportunità maggiori di integrazione e di benessere delle persone emarginate 21. Risposta C, nel momento in cui la risorsa è anche la presenza del privato sociale, del volontariato utile è per l'operatore conoscerne esistenza, finalità e condividere le esperienze 22. Risposta C, per avere punti di riferimento chiari nel momento delle difficoltà 23. Risposta A, perché non tutti sono esperti delle materie spesso trattate, quindi corsi di formazione/aggiornamento sono utili se fatti bene 24. Risposta A, perché non si può operare senza strumenti, improvvisando sulla base della propria esperienza quotidiana 25. Risposta C, perché attraverso la conoscenza delle risorse territoriali si possono ottenere risposte maggiori in base alle molteplici difficoltà che si possono presentare ai servizi 26. Risposte A,C perché è fondamentale aggiornarsi dal punto di vista professionale ma anche aumentare la conoscenza di tutte le risorse 27. Risposta C, perchè a volte la non conoscenza di ciò che offre il territorio può limitare quelle che potrebbero costituirsi come risorse fondamentali per la persona 28. Risposta A, perchè le esigenze dell'utente e della società sono in continua mutazione 29. Risposta A, perchè solo la formazione continua è utile a tale scopo 33 30. Risposta A, perchè dovendo rafforzarsi con più figure professionali e non, è necessario avere un approfondimento in aspetti teorici e metodi di lavoro 31. Risposta A, perchè solo la formazione continua è garanzia per fronteggiare la disprofessionalizzazione 32. Risposta C, perchè conoscendo meglio il territorio si può disporre di maggiori risorse 33. Credo siano elementi che vadano ben analizzati e contemplati. Forse non è necessario potenziare quando valuti bene ed esaminare in modo costruttivo 34. Risposta C, perchè il lavoro svolto alle persone non può prescindere dalla conoscenza del contesto in cui la persona stessa vive. Spesso si viene a sapere dopo che ci sono risorse che potevano essere coinvolte prima magari che un problema diventi ancora più complesso 35. Risposta C perchè spesso le difficoltà nel lavoro sono dovute alle scarse conoscenze delle effettive risorse 36. Risposta C, per capire quanto più c'è a disposizione nel territorio proprio per quella persona 37. Attenzione agli atteggiamenti che assumiamo sotto il profilo etico 38. Risposta C perchè dalla mia esperienza si conosce e si riconosce la risorsa che ti viene calata dall'alto che accetti nel momento in cui poco conosci del territorio 39. Risposta A perchè una maggiore formazione professionale è fondamentale attivare una progettualità B- In riferimento all’utenza (progetti, attività, iniziative in suo favore…) un’analisi critica rispetto ai progetti in atto, alle modalità di ingaggio/coinvolgimento dell’utente una rilettura dell’ambiente e del contesto e delle risorse disponibili una maggiore responsabilizzazione dell’utente e della famiglia ………………………………. e perché? 1. Fondamentale è la lettura del contesto per verificare l'adeguatezza di progetti verso la responsabilizzazione e la crescita dell'utente e la famiglia per un integrazione a livello lavorativo e sociale 2. Risposta B perché la rielaborazione è indispensabile 3. Risposta B, per lavorare al meglio con più efficienza 4. Risposta A 5. Risposta B, perché a volte sfuggono risorse soprattutto quello non economiche. Il lavoro di rete aiuta a reperirle 6. Risposta C, per la partecipazione, per dar visibilità a se stesso 7. Risposta B 8. Risposta B, per fare progetti e/o creare iniziative con l'utente è fondamentale conoscere il suo ambiente e le risorse che come operatore posso offrire 9. Risposta C, perché ci sono sempre meno risorse territoriali rendono necessario un coinvolgimento maggiore della famiglia, se possibile 10. Risposta B, per sapere come muoversi nel territorio inteso come rete tra le varie realtà 11. Risposta A, per verificare le motivazioni di partenza, l'utilità attuale e riformulare eventuali progetti che non tengono conto della parte dell'utente 12. Risposta C, perché se pur l'aiuto di operatori ed educatori sia sempre o quasi a buon fine, l'utente non sarà mai completo senza l'aiuto stesso della famiglia 13. Risposta A, per ritrovare il senso vero della qualità della vita dell'utente e personalizzare l'offerta con lo scopo di realizzare gli obiettivi educativo/assistenziali veramente centrali e pieni per la persona 34 14. Risposta A, perché analizzando e studiando i vari casi si può arrivare ad un accordo realmente valido per l'utente e non solo per l'aspetto economico del servizio offerto 15. Risposta A 16. Risposta A 17. Sono tutti elementi collegati, chiamati a collaborare e a lavorare in sinergia 18. Vanno tenuti in considerazioni tutti questi aspetti partendo da un'analisi critica dei progetti in atto 19. Risposta B, perché osservando e analizzando le risorse si possono creare progetti 20. Risposta B, attivare percorsi nuovi rispetto a quelli classici 21. Risposta B, perché fondamentale è la condivisione con l'utenza, senza la cui partecipazione al progetto, lo stesso rischia il fallimento 22. Risposta C, per dare all'utente un ruolo di protagonista nel centro stesso di integrazione 23. Risposta C, perché spesso tendono a fare poco. La maggior responsabilizzazione farebbe si che l'utente e la famiglia godano appieno delle situazioni 24. Risposta A 25. Risposta A, perché si deve sempre partire dal presupposto che il progetto deve essere continuamente modificato e condiviso per poter ottenere una qualsiasi forma di risultato 26. Risposta B perché è necessario reperire altre risorse non monetizzabili e difficilmente misurabili che possono contribuire al benessere della persona-utente 27. Risposta A, perchè progetti opportunamente rispondenti alle problematiche del caso, possono risultare poco efficaci a livello di ridimensionamento/risoluzione del problema stesso 28. Risposta B 29. Risposta C per ottenere un maggior processo di autonomia 30. Risposta A, perchè ritengo in questa fase sia opportuno un lavoro di verifica su come si sta lavorando più che avere maggiori risorse 31. Risposta C, perchè c'è sempre una percentuale di buono esistente da cui partire 32. Risposta C perchè spesso l'utente e la famiglia si considerano “attori passivi” del progetto di aiuto 33. Credo che il potenziamento di tutte queste attività permette la comprensione reale delle risorse da mettere in gioco per la riuscita del progetto. Ascolto del reale bisogno della persona, analisi del percorso e maggiore collaborazione con gli altri attori del territorio 34. Tutte le opzioni perchè nell'agire quotidiano dell'operatore sociale sono importanti tutti questi aspetti 35. Risposta B 36. Risposta B, pensare all'utente come inserito nel suo contesto e quindi da qui l'importanza di capire quali risorse abbiamo a disposizione 37. Non si capisce 38. Una maggiore responsabilità istituzionale del sociale, l'operatore sociale da solo non ce la può fare 39. Risposta A perchè sarebbe fondamentale poter avere una supervisione sulla situazione 3. Risposte al quesito: Possiamo rivedere criticamente alcuni nostri atteggiamenti? siamo radicati alle nostre idee relative alle cose; siamo legati alle nostre progettualità (un po’ gelosamente); agiamo con l’inconscia convinzione di poter fare da soli; ………………………………………………….. Cosa posso/possiamo fare per migliorare le pratiche “a livello micro” (nell’intreccio delle relazioni umane...) 35 1. L'ascolto anche dei colleghi diventa confronto e motivo di crescita. Opportunità di autocritica e rettifica sulle proprie convinzioni 2. Risposta C, attuare reti più solide e dare maggiore spazio alla collaborazione 3. Una seria supervisione 4. Risposta B, arrivare ad una progettazione promossa da tutti gli attori dove ognuno ha i propri compiti 5. Risposta A, ma è anche un punto di forza, comunque mediare ascoltando e cercando di essere chiari 6. Risposta A, cercare delle esperienze e delle risorse che si accomunano per favorire i rapporti 7. Se agiamo con la consapevolezza che come esseri umani siamo limitati e fallibili, confrontarmi maggiormente con colleghi e altri operatori per accrescere le mie conoscenze, nuove modalità di lavoro e crearmi intorno una rete di reale collaborazione 8. Risposta C, continuare a lavorare per favorire il lavoro di rete, nonostante le continue difficoltà 9. Risposta C, bisogna capire quali sono le difficoltà a cui andiamo incontro e cercare di collaborare con le risorse del territorio 10. Svincolarsi per quanto possibile dalla parte burocratica, ascoltare ed esporsi promuovere la condivisione di punti vista 11. Risposta C, possiamo aprirci a nuove esperienze, renderci più disponibili nei confronti del sociale, conoscere e promuovere 12. Risposta B, confronto maggiore tra servizi simili, per collaborazione buone prassi/ progettualità, diversi che hanno in carico l'utente. Educare alla collaborazione per evitare di lavorare settorialmente senza un'ottica d'insieme 13. Risposta B, condividere con colleghi e superiori per poter dare un miglior servizio 14. Non so dare una risposta perché sono pochi giorni che lavoro presso una coop 15. Risposta A, riuscire ad abbracciare più teorie su vari argomenti ricreandole e facendole nostre 16. Risposta B, attivare degli spazi di ascolto nei confronti dell'utenza con delle diverse figure professionali 17. Risposta A, cercare di ascoltare di più l'utente come attore della propria vita cercando di capire assieme a lui quale ruolo assumere nella vita. Per ridare significato alla propria esistenza nella società 18. Risposta A, renderci disponibili con cuore 19. Risposta B, aprire e cercare nuove strade, nuove progettualità partendo dalla persona 20. Facciamo fatica ad individuare le criticità del nostro agire nel lavoro in-di rete, personalmente mettermi in atteggiamento di apertura verso l'esterno 21. Risposta A, ascoltare i consigli di altri con più esperienza e farne tesoro, essere pronti a cambiare prassi se ce ne fosse bisogno per avere un risultato 22. Essere più umili senza però farsi mettere i piedi in testa, sono una volontaria del SCN penso che l'unica cosa da fare sia dare sempre il 100% e cercare di collaborare con tutti quelli che ci circondano 23. Risposta A, possiamo assumere un atteggiamento più aperto, duttile, flessibile, mettendo sempre in gioco ed essendo pronti a cambiare le nostre idee 24. Sia nel rapporto tra operatore utente che quello con i colleghi si potrebbe cominciare ad ascoltare realmente, come punto iniziale per la buona riuscita di un rapporto uomo-lavoro efficiente 25. Spesso pensiamo alle soluzioni prima di conoscere a fondo il bisogno, dissociare con più convinzione la persona dal bisogno 26. Risposta A, riflettere su quello che sono le mie comunicazioni, pensandole, rimodulandole attorno all'ascolto e alla comprensione di quelli che sono i reali bisogni della persona che accadono al servizio 27. Risposta A, migliorare la comunicazione tra servizi e territorio e far comprendere alle forze politiche del territorio l'importanza e lo scopo di ciò che si fa 28. Risposta A, migliorare la comunicazione/informazione con tutte le persone servizi correlati 29. Risposta A, maggiore ascolto della persona ricavando fini tempo per poterlo fare 30. Risposta A, servizi gestiti in associazione, mai lavorare da soli 31. Risposta A, possiamo applicare in atteggiamento di ascolto ed accoglienza, cercando di mediare le varie posizioni senza immedesimarsi nella madre, ma restando professionali 36 32. Credo vadano rivisti tutti questi atteggiamenti nell'ottica dell'ascolto e rispetto delle idee partendo proprio dal fatto che dobbiamo cambiare prima noi e il nostro modo di vedere prima di attendere un cambiamento dagli altri 33. Tutto, riflettere sulla scelta del mio agire quotidiano e ricordare quotidianamente che nel mio agire incido nella vita delle persone di cui mi occupo, dei colleghi, dei responsabili 34. Risposta A, avere l'umiltà di accettare le visioni di tutti e che la nostra idea vale quanto quella degli altri 35. Risposta B, dovremo condividere gli obiettivi e le mete con tutte le persone che si prendono cura della persona, ricordandoci di fare e organizzare i progetti con lei, collegamento dei vari attori 36. C'è un grande bisogno di ascolto dal punto di vista delle opinioni e delle professionalità, occorre però convinzione e fermezza sul nostro ruolo, che non vuol dire fare da soli, andrebbe scritto sulla carta dei servizi 37. Concetto di responsabilità, dare un senso meno rigido e realizzante 38. Risposta A Sarebbe importante confrontarsi con tutti i servizi e gli operatori che collaborano in quanto la maggiore parte delle persone con cui si lavora non partecipano a simili iniziative di formazione 4. Risposte al quesito: “Cosa ritenete utile promuovere a livello di formazione per sviluppare la rete di formazione tra gli attori del sistema della rete stessa?” 1. Opportunità di confronto-discussione frequenti 2. Promuovere l'informazione, l'implementazione e la fallibilità del raggiungimento degli obiettivi 3. Condividere momenti formali che si trasformino in operatività. Partire dalla quotidianità per migliorare/modificare gli interventi 4. Penso sia utile prima di tutto una condivisione del significato "lavoro di rete" e solo successivamente attuarlo condividendo gli obiettivi, scambiandosi le informazioni e progettando infine un percorso finalizzato alla realizzazione degli obiettivi dell'utente e dei servizi 5. Coinvolgere i responsabili per creare la cultura della responsabilità e della rete 6. Incontri periodici, discussioni, dibattiti, promuovendo la partecipazione a tutti i livelli, comunque considerando il contesto dove si sta operando 7. Maggiore formazione/conoscenza sulle possibilità offerte dai servizi territoriali in continua evoluzione per essere operatori più competenti 8. Maggior coinvolgimento di tutte le categorie professionali territoriali 9. Utile promuovere gli incontri di formazione dove gli enti e gli attori si presentano, in modo da sensibilizzare i lavoratori di questo settore e creare una rete solida 10. Coinvolgere più operatori possibili 11. Mi piacerebbe che ogni tot di tempo, nel centro o associazione si facesse una piccola riunione tra tutte le persone che ci lavorano dentro, per discutere dei problemi o dubbi apertamente tra queste persone 12. Rappresentanza variegata delle varie professioni di rete o in alternativa formazione per gruppi professionali omogenei. Formazione partecipata su aspetti pratici, discussione di casi in gruppo e ricerca soluzioni. Spazio per pensare a pratiche azioni innovative 13. Formazione attinente al ramo di lavoro svolto e formatosi preparati, attuali e competenti senza mappe mentali che potrebbero influenzare chi ascolta 14. Importanza della comunicazione chiara ed efficace tra i vari attori del sistema di rete 15. Più interazione con professionisti del settore, intendendoli non come grado qualificato, ma come persone che hanno esperienze dirette utili, vive sull'argomento, sia che essi siano persone che si basano sulla propria professione sia su altro tipo di interazione con vari argomenti 16. Sarebbe opportuno analizzare dei casi e lavorare coinvolgendo differenti figure professionali. Confrontarsi sulle diverse competenze e modi di approccio alla risoluzione del caso 17. Partirei dall'analisi di alcuni casi inventati cercando di capire come ogni operatore si muove e dovrebbe muoversi. Tale prospettiva potrebbe essere applicata con un gruppo omogeneo prima per poi discutere il caso con un gruppo eterogeneo 37 18. Momenti anche solamente di incontro e condivisione del proprio lavoro e delle difficoltà che si incontrano nel relazionarsi con altri servizi con i quali ci si trova a collaborare 19. Durante questo percorso formativo ho avuto modo di rendermi conto che gli operatori hanno poca conoscenza reciproca delle finalità e degli obiettivi dei diversi servizi presenti nel territorio 20. Informazione sui risultati ottenuti lavorando in rete, far capire che lavorare insieme si può mettendosi in gioco in prima persona condividendo gli obiettivi 21. Migliorare la comunicazione cercando di venirsi incontro a vicenda 22. Ritengo utile corsi di formazione specifica sulle varie problematiche e metodi concreti-linee guida per poterli affrontare. Linee guida entro le quali, poi, l'operatore si muoverà in relazione alla specificità del caso 23. Momenti di coinvolgimento tra operatori sociali e sanitari dello stesso territorio, incontri da promuovere a livello micro 24. Partendo dal presupposto che ciascuna azione è già stata percorsa da qualcuno prima di noi, riterrei interessante organizzare una formazione che parte dall'analisi di una problematica specifica da analizzare e da arricchire con le esperienze e la pratica degli operatori 25. Corsi di formazione tra operatori e parte politica aggiornamento sulle normative e la sua attuabilità 26. Corso di formazione che coinvolge gli operatori e la parte pubblica, per andarci a condividere gli stessi concetti e lo stesso linguaggio utile per raggiungere meglio gli obiettivi previsti 27. Incontri dove poter confrontarsi fra i diversi attori della rete 28. Analisi delle politiche sociali, supervisione nei servizi 29. Sarebbe utile favorire la conoscenza delle risorse del territorio, in termini di servizi, associazioni, agenzie per il lavoro e risorse umane, inoltre sarebbe utile chiarire mission ed obiettivi di queste risorse 30. Tavoli di lavoro a tempo. Momenti istituzionali di confronto e sulla loro progettualità con tutti gli attori coinvolti. Lavori di gruppo su sull'attivazione della rete su temi specifici 31. Approfondire il dialogo tra operatori sociali, sviluppare occasioni di confronto anche con dirigenti e responsabili 32. Sarebbe utile fare più formazione tra associazioni diverse in modo che ognuno porti la sua esperienza e ci sia modo di confrontarsi. Bisogna parlare esprimendo le proprie idee e magari progettando qualcosa assieme 33. Tra servizi dobbiamo imparare ad attribuire lo stesso significato ai termini pensando al benessere ecologico della persona prendendo sempre in considerazione il contesto. A volte la condivisione dalla criticità e dei problemi è molto utile, ad es il lavoro di gruppo fatto durante il corso è stato interessante 34. Avere modo di condividere esperienze sul territorio per confrontarle, collaborazione delle proposte 35. Formazione e supervisione della rete esistente formale ed informale continuativa. Non potete chiedere il nostro tempo oltre a quello a noi riconosciuto istituzionalmente 36. Effettuare la supervisione dei casi con tutti i servizi coinvolti sul caso, affinché si possa discutere più approfonditamente sulle situazioni e sulle decisioni prese 38 UNA SFIDA PER GLI OPERATORI E I SERVIZI Di Luciano Galiazzo riflessione a margine dell’evento formativo “LA FORMA E L’AZIONE DELL’AGIRE QUOTIDUIANO DELL’OPERATORE SOCIALE” Una passione comune Il fare gratuito, il servizio agli altri, soprattutto in favore di chi nella società è più debole, è un fenomeno connaturato alla storia dell’uomo, dal momento del suo organizzarsi in comunità e società civili, fino a codificarlo nelle fondamenta delle nazioni e degli stati mediante le leggi. Un esempio luminoso è la nostra carta costituzionale che sancisce il principio di uguaglianza e il valore della solidarietà. Nel tempo le più diverse forme di solidarietà e assistenza hanno saputo organizzarsi dando vita anche alle moderne forme di assistenza e sicurezza, quali ospedali, ospizi, servizi di recupero e riabilitazione, sostegni alle categorie più deboli, interventi a favore della famiglia, servizi educativi, organizzazioni di tutela e difesa… Sempre la società civile, tramite la sensibilità e l’attenzione dei singoli individui, ha saputo anticipare risposte creative ed efficaci, contribuendo al benessere comune. Le motivazioni sono state e sono a tutt’oggi le più diverse, con radici culturali o religiose, ma tutte in comune hanno la passione per la causa degli esseri umani e l’aspirazione a costruire un mondo migliore. Una fragilità diffusa Tutti sappiamo come nel tempo gli stati abbiano fatto sempre più propria questa funzione di tutela, fino a commisurare il grado di evoluzione e di modernità al livello di organizzazione e alla forza dei servizi di assistenza e sicurezza. Il cosiddetto “welfare state” si è affermato però solamente nel mondo occidentale e conseguente al boom economico delle società occidentali. I segnali di crisi si sono manifestati però già prima dell’attuale crisi finanziaria ed economica e, direi, ancor prima che il fenomeno della globalizzazione raggiungesse le dimensioni attuali. Da tempo si era notata l’impossibilità di estendere tale modello a livello planetario per l’evidenziarsi di un problema di sostenibilità, rendendoci conto che la nostra economia, quella occidentale per intenderci, si regge sullo sfruttamento delle risorse di altri mondi. Sicuramente la crisi attuale va incidendo sula scala dei valori e delle priorità dei cittadini del nostro paese, rischiando di nascondere una verità più profonda: le ragioni della crisi del welfare sono anche altre e andrebbero ricercate nella verifica degli esiti delle politiche adottate in questo campo. Innanzitutto occorre constatate che il passaggio dei servizi di assistenza e di tutela dalla società allo stato ha provocato una sorta di separazione/contrapposizione tra due mondi: il risultato della necessità di definire contorni e competenze, interpretata forse in modo errato. I fattori negativi possono essere stati: la delega allo stato di compiti impropri e, parallelamente, da parte dello stato, l’arrogare a sè tali compiti che invece spetterebbero alla società civile. Altro fattore negativo: la gestione irresponsabile delle risorse a causa della mancanza di controllo e partecipazione dei cittadini. Alla fine la percezione che si ha è quella di un infragilimento delle condizioni di vita, non solo da parte delle persone più deboli, ma anche nelle situazioni che potremmo definire normali. Si percepisce un diffuso senso di vulnerabilità anche negli strati di popolazione che sembravano in situazione di sicurezza. 39 Molte persone e addirittura fasce di popolazione stanno sperimentando un abbandono da parte dei servizi e una loro sofferta rinuncia alla salute. In un paese che ha voluto sancire il principio di uguaglianza nel suo DNA, la Carta Costituzionale, questo costituisce un drammatico problema di giustizia. Le quotidiane relazioni con cittadini segnati da svantaggio o disabilità soffrono ancor più di subalternità e assistenzialismo o gravate da pratiche che si ispirano a logiche di infantilizzazione, segregazione, integrazione passiva. La persona disabile o svantaggiata come risorsa di una comunità inclusiva Schierarsi per una prospettiva inclusiva con il suo riferimento all'adultità pone una domanda: qual è il ruolo dei servizi nella costruzione dell'essere cittadini dentro l'attuale società? Il mondo dei servizi per la disabilità rappresenta oggi un contesto di frontiera in cui misurarsi alla luce della logica inclusiva contenuta nel «patto costituzionale». In questa prospettiva è richiesto da un lato agli operatori di (ri)entrare in contatto con le molte situazioni “invisibili”, dall'altro, a chi indirizza, di far diventare i servizi veri laboratori di ricerca territoriale per dare risposte attuali e concrete al diritto alla salute di ogni cittadino. Promuovere un progetto di cambiamento che investa sul futuro vuol dire attivare percorsi di sostegno alle persone, alle famiglie, alle aggregazioni sociali con le quali le persone, la società, si organizzano, si esprimono e partecipano. Come promuovere “coinvolgimento”? Una sfida per gli operatori sociali Oggi non possiamo più pensare ad interventi risolutori, a soluzioni standardizzate e risolutive, né avere nostalgia di tempi in cui i contorni delle politiche e del lavoro sociale erano definiti. È necessario accrescere le competenze tecniche perché non è con l’attuazione di norme e protocolli che si risolvono i problemi, ma occorre, attraverso la competenza, saper contestualizzare le azioni e gli interventi. Questo ragionamento ci riconduce al problema dell’empowerment che non può essere ridotto al superamento da parte del singolo delle proprie carenze soggettive, ma investe anche l’ambiente. L’analisi del contesto e il coinvolgimento di tutti i soggetti coinvolti diventano l’effettivo supporto alla programmazione e progettazione degli interventi. “compito di tali analisi è dare conto, con l’impiego di metodologie appropriate, di come le capacità delle persone di far fronte alle difficoltà della vita dipendano dall’interazione delle loro caratteristiche soggettive con quelle delle società locali in cui vivono.” “Così, ad esempio, al fine di accrescere l’occupabilità di soggetti cosiddetti deboli in un dato territorio occorrono certamente corsi di formazione specifica, supporti relazionali per l’accompagnamento nel mercato del lavoro, talvolta azioni di riattivazione dell’impegno individuale e della fiducia in se stessi”, ma anche “esplorare le occasioni di lavoro effettivamente disponibili, affinché le competenze individuali apprese possano effettivamente trovare un luogo di sperimentazione ed esercizio. Ed è, soprattutto, rilevante capire il funzionamento delle reti locali in cui circola l’informazione sulle opportunità e sulla reputazione delle persone.” … “Senza la conoscenza della struttura sociale locale la successione cura-riabilitazione-reinserimento non funziona.” Quale “partecipazione” ? Attenzione alla ideologia della “partecipazione”! Partecipazione può ridursi a spartizione di risorse, dove i più forti si spartiscono quote di mercato. Avviene anche con le risorse sociali… A volte la partecipazione si presenta sotto forma di progetti o programmi di sviluppo, ben confezionati, ma che non arrivano ad innestare processi di sviluppo istituzionale. A volte sono proposti per ottenere consenso politico. 40 Altre volte la partecipazione si presenta sotto forma di rappresentanti che vantando un diretto contatto con categorie di cittadini, la cosiddetta prossimità, si ritengono rappresentanti legittimi, presentandosi come mandanti e mandatari e, in fondo, rivendicando potere ai tavoli decisionali, al mercato delle risorse. La partecipazione a volte è “passiva”, si adagia sulla dipendenza dai servizi e conta in misura corrispondente, oppure, all’opposto è sempre e comunque contro, non sa confrontarsi e arrivare a scelte responsabili e condivise. A volte la partecipazione è semplice adesione, imposta e subita o semplice vantaggio, senza porsi l’interrogativo del perché e il che cosa della partecipazione, senza nemmeno definire ciò in cui ci si coinvolge. Esiste anche il mito della “partecipazione dal basso” quando ci si orienta a coltivare la partecipazione in qualche isola felice, rinunciando al confronto a livelli più alti e lasciando che le scelte e decisioni avvengano altrove. Possiamo concludere con la convinzione che occorre diffidare quando si usa indiscriminatamente il termine “partecipazione”. Semmai misurare la “capacità di voce” dei destinatari dei nostri interventi. Da qui l’esigenza a mio avviso di creare spazi di riflessione anche e soprattutto nelle organizzazioni dei servizi nei quali siano implicati tutti gli attori, anche i destinatari: in tal modo la partecipazione sarà un risultato e non solo uno slogan. Partecipazione e Terzo Settore: la persona al centro Nel nostro contesto parlare di riflessione e confronto implica necessariamente considerare le realtà con le quali maggiormente si esprime la partecipazione: il cosiddetto “Terzo settore”. Il T.S. è quel complesso di istituzioni che all'interno del sistema economico si collocano tra lo stato e il mercato, ma non sono riconducibili né all’uno né all’altro; sono cioè soggetti organizzativi di natura privata, ma volti alla produzione di beni e servizi a valenza pubblica o collettiva (cooperative sociali, associazioni di promozione sociale, associazioni di volontariato, ONG, ecc.). È opportuno ricordare che qualunque definizione si voglia sostenere, il fenomeno studiato non si presta ad essere ricondotto a semplici e definitivi schemi definitori trattandosi di una realtà sociale, economica, e culturale in continua evoluzione. In ogni caso è a partire dalla metà degli anni '70 che si comincia a considerare questo fenomeno e gli si assegna una posizione che lo separa concettualmente dallo Stato e dal Mercato, favorendo l'equiparazione dei tre settori a livello di società complessiva. Il Terzo Settore è anche un fenomeno economico (non un insieme di forme organizzative extraeconomiche, come inizialmente sostenuto) che, attraverso le sue organizzazioni, ha dato un contributo sempre più consistente al benessere della società, un contributo non inferiore, anche se di natura diversa, da quello di Stato e Mercato. Questa rappresentazione rischia però di nascondere quel mondo vitale, quella partecipazione civile che ha spesso rappresentato la spinta per la nascita di tante realtà e organizzazioni all'interno del settore, anche se è servita a classificare questo fenomeno, a conferirgli una piena dignità nell'analisi economica, a studiarne il ruolo all'interno del sistema di Welfare. Nel momento attuale considerare le realtà di T.S. solo per la produzione di beni e servizi a valenza pubblica o collettiva non può più bastare. L’orientamento altruistico nelle relazioni che instaurano attraverso il coinvolgimento personale, i servizi di cura e accudimento delle fasce deboli della popolazione devono coniugarsi con una consapevolezza e una responsabilità nuove, per dare un vero contributo alla determinazione del benessere collettivo. Questa convinzione prende spunto dal principio di sussidiarietà. Il principio di sussidiarietà, come ben sappiamo, è, prima ancora che un principio organizzativo del potere, un principio antropologico che esprime una concezione globale dell'uomo e della società, 41 in virtù del quale fulcro dell'ordinamento giuridico è la persona umana, intesa sia come individuo che come legame relazionale. Così gli individui possono e devono compiere in prima persona ciò che è nelle loro possibilità, senza demandarlo alla comunità. analogamente le aggregazioni più piccole possono operare nelle possibilità che hanno senza demandare a livelli più alti [...] perché l'oggetto naturale di qualsiasi intervento nella società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva (subsidium) le membra del corpo sociale, non già di distruggerle e assorbirle. (1931 - Enciclica Quadragesimo Anno di Pio XI) Ci soffermiamo sul problema del welfare perché è a partire dalla sua crisi che si approfondisce il principio della sussidiarietà e si affermano nuovi soggetti che concorrono alla determinazione del benessere collettivo. Il welfare che abbiamo conosciuto è stato associato ad un periodo storico, il Novecento. Molti lo identificano ad una vera e propria civiltà. Da un punto di vista antropologico esso è il sistema di risposta e tutela dai rischi della vita, di cui una persona dispone in quanto cittadino. Questo è avvenuto dentro l'evoluzione della statualità che ad un certo punto (Novecento) e a certe condizioni (conflitti di classe, est-ovest, dialettica tra culture, industrializzazione, ecc.) ha maturato i diritti/doveri sociali come componente essenziale della propria affermazione. Sono ormai più di trent'anni che si discute della crisi del welfare state. Il mantenimento o meno del cuore di questa civiltà del welfare costituisce la sfida che abbiamo di fronte. Ritrovarci, ciascuno con la propria funzione e competenza, operatori, servizi e rappresentanti di realtà della società civile, ha il significato di cercare nuove strade, nuovi orizzonti. Il welfare municipale Dentro questo processo fatto di problemi, valori, esperienze e proposte, è nata l'idea di welfare municipale, ovvero una sua rivisitazione finalizzata a fare i conti con i cambiamenti in atto e con le risposte, nazionali e non solo, date da questi cambiamenti. (E' l'esperienza dei Patti territoriali, della Pianificazione strategica, delle Iniziative locali di sviluppo, dei Piani di zona previsti dalla 328 ecc.). Per welfare municipale non si intende “un sistema organizzato di servizi gestiti direttamente dall'Ente locale,..., bensì un processo in cui tutte le diverse componenti, vivendo nella città potessero partecipare alla realizzazione di condizioni delle benessere” (CNEL, 1996). Il welfare municipale è un processo di governance dal basso e nasce da pratiche locali che nel dare risposta ai bisogni concreti espressi da soggetti concreti, fanno emergere significati condivisi del vivere insieme tra le persone, le famiglie, i gruppi sociali coinvolti. Il territorio e la comunità locale che lo abita indicano il valore che l'appartenenza a un luogo riveste in termini di socialità tra le persone, soprattutto quelle più deboli. “Dobbiamo considerare le comunità locali sì come un dato ma, ancora di più come un compito (Campedelli, 1997). Il luogo del vivere insieme richiama fortemente l'idea del compito di riconoscimento reciproco, dell'appartenenza a una medesima vicenda. Operare per riconoscere, promuovere e valorizzare le energie presenti a livello locale significa intraprendere socialmente, avere una visione aperta della imprenditorialità sociale e questo richiama l'immagine e le caratteristiche della rete sociale. In essa rientrano i soggetti del Terzo settore, i soggetti privati, i soggetti pubblici locali, cioè le articolazioni dello Stato più vicine. Ma soprattutto rientrano i fruitori dei servizi, e questo significa riconoscere alle persone e alle famiglie la titolarità di una gamma di diritti: di essere fruitori effettivi, competenti, in grado di contrattare e discutere la qualità delle prestazioni e delle relazioni instaurate. Questi soggetti diventano in tal modo co-produttori del lavoro di cura che viene svolto e delle relazioni che si instaurano. Queste “competenze” vanno promosse all'interno della comunità locale in una logica di investimento. 42 Un tipo di investimento è quello della socialità, intesa come capacità di generare relazioni di partecipazione tra i vari attori della comunità. Un secondo genere di investimento è quello di cittadinanza per fare in modo che una quantità sempre maggiore di diritti possa essere riconosciuta. Emerge poi la necessità di pensare alle politiche sociali come ad un fattore imprescindibile di sviluppo del territorio. Esse infatti mettono in circolo ricchezze in termini di opportunità di lavoro, risorse economiche, professionalità, processi comunicativi e attraggono investimenti... Una comunità locale ha bisogno che le istituzioni siano costantemente rigenerate, ma ha altresì bisogno, in una visione integrata del principio di sussidiarietà, che si formino nuove e autonome istituzioni, le istituzioni civili. La nuova tendenza del welfare dovrà forse fare i conti con la disomogeneità dell'offerta dei servizi a seconda del contesto locale, ma la progressiva territorializzazione degli interventi di welfare è allo stato attuale un processo inarrestabile Oggi, nel momento in cui si intensificano segnali di cambiamento e di incertezza, risulta indispensabile ascoltare tutte le voci dei protagonisti e lo specifico contributo di ciascuno, flessibile e dinamico, dal momento dell’analisi dei contesti, fino alla predisposizione dei progetti, con un’attenzione particolare alle fasce più deboli. Da un lavoro impostato in questo modo, con questa consapevolezza può scaturire un concreto contributo al miglioramento del benessere collettivo e alla coesione delle comunità locali, ridefinendo e rinnovando le politiche sociali in modo partecipato e corresponsabile. _______________________________________________________________________________________ Si ringraziano tutte le persone che hanno reso possibile questa iniziativa. Si ringraziano Marta Rosso e Annachiara Marchiori, volontarie dell’Associazione “Il Portico” di Dolo per il supporto dato all’organizzazione di ogni modulo Si ringrazia l’associazione “Cinque Dita”, di Monselice, per l’ospitalità e la premura dimostrata fine 43 Contenuti del DVD allegato 1. Materiali vari relativi all’organizzazione del corso e inseriti nella cartellina 2. Alfio Checchin: Power Point del suo intervento “Criticità ricorrenti nel lavoro di rete e possibili risposte” 3. Antonio Da Re: Power-Point della lezione “Codice deontologico e quotidianità operativa nelle professioni sociali” 4. Paolo Rizzato: Power-Point dell’intervento sulla mission dell’associazione “Il Portico” e visualizzazione della rete attivata per rispondere ai bisogni dell’utenza 5. Manifesto Per un welfare del XXI secolo 6. “Fuori dall’angolo, idee per il futuro del volontariato e del terzo settore” libro a cura di Alecci e Bottaccio editrice l’Ancora srl, formato PDF 7. Luigi Gui: “La gestione delle risorse umane: le buone prassi e le reti di prossimità” 8. Video (frammenti dalle riprese) 44