se la democrazia finisce nella rete

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se la democrazia finisce nella rete
SE LA DEMOCRAZIA FINISCE NELLA RETE
di Andrea Ferrazzi
«Non conviene combattere lo spirito della propria epoca e del proprio paese;
e, per quanto forte un uomo possa essere, difficilmente indurrà i suoi
contemporanei a condividere sentimenti e idee che vanno contro il corso
generale delle speranze e dei desideri».
Alexis De Tocqueville
«Sono convinto che abbiamo bisogno di reimparare a rallentare l’influenza
iperattiva dei mezzi di informazione sulle nostre vite (…) io apprezzo il
valore della comunicazione istantanea e la potenza della connettività globale
attraverso Internet. Ciò nonostante, si deve riconoscere la fragilità di
innovazioni come il sistema di informazione a ciclo continuo e il così detto
giornalismo partecipativo (…) Vorrei che mettessimo in discussione
l’informazione in stile fast-food, fatta di calorie vuote, confezionata per
mantenerci assuefatti essa; vorrei che riflettessimo invece sul fatto che, per
la maggior parte delle notizie, dedicare tempo a ruminarle è prezioso, sia
per il giornalista che le racconta, sia per il consumatore di informazione che
si trova a casa (…) Dobbiamo mangiare per sopravvivere, ma
un’informazione accurata è un ulteriore requisito per la nostra
sopravvivenza».
Peter Laufer
ABSTRACT
In un momento segnato dal riaffacciarsi delle ombre del Novecento sul continente europeo, si avvertono ancora più forti gli
scricchiolii dei sistemi democratici di fronte alle sfide che essi si trovano ad affrontare: il rapporto con l’economia di mercato, gli
effetti della globalizzazione, le diversità culturali, nonché l’educazione dei cittadini, intesa come presenza di un’opinione pubblica
ben informata. In questo quadro, Internet può contribuire a migliorare lo stato di salute della democrazia? I profeti della Rete (o
cyber-utopisti) ritengono che essa abbia un ruolo decisivo sia nella promozione del cambiamento sociale (da ultimo la primavera
araba), sia nell’agevolare la partecipazione politica della cittadinanza e, quindi, nel rivitalizzare la democrazia nelle società della
tarda modernità. Approcci più critici, invece, mettono in luce alcune problematiche di fondo, sintetizzabili in tre punti: 1) la
polarizzazione e la frammentazione che si verificano on line e che, intrecciandosi fra loro, possono provocare la fine del dibattito
pubblico; 2) gli effetti del sovraccarico informativo sulla mente degli individui e sull’opinione pubblica più in generale; 3) le
potenzialità del Web nella trasmissione e diffusione delle emozioni che rappresentano sì un elemento costitutivo di ogni discorso
politico, ma assumono un carattere particolarmente rilevante ed esacerbato in quello populista.Queste criticità si ripercuotono sulle
condizioni sociali e culturali che concorrono alla stabilità dei regimi democratici, incidendo negativamente – per riprendere le
categorie proposte da Martin Lipset - sia sulla «legittimità», ovvero sulla condivisione di valori, sia sulla «effettività», e cioè
sull’efficienza del sistema. Contribuendo così ad amplificare il disagio della democrazia.
1. La precarietà della democrazia
«Manca un minuto alla mezzanotte in Europa?», si chiedono Niall Ferguson e Nouriel
Roubini, in un articolo uscito di recente sulle pagine del «Corriere della Sera». Lo storico di
Harvard e l’economista della New York University guardano con preoccupazione alla crisi
finanziaria che attanaglia il vecchio continente e, soprattutto, le non risposte dei governi. In
particolare di quello tedesco, che sembra essersi scordato la lezione del XX secolo. «L’Unione
Europea – scrivono – è stata creata per evitare il ripetersi dei disastri degli anni Trenta. Oggi è
venuto il momento in cui tutti i Paesi – ma specialmente la Germania – devono rendersi conto di
quanto sono pericolosamente vicini a lasciarsi travolgere dagli stessi errori» [Ferguson e Roubini
2012]. Le ombre del Novecento si allungano sul nostro presente. Non è dunque un caso che
«Limes», la rivista italiana di geopolitica, abbia dedicato un numero speciale allo stato di salute
della democrazia, pubblicando, tra l’altro, un articolo di Eric Weil, uscito nell’ottobre del 1950 sulla
rivista «Evidences» ma ancora di incredibile attualità. Il filosofo tedesco afferma che «la
democrazia non resiste, per una sorta di grazia di stato, a ogni prova, a ogni tensione, a ogni
ingiustizia». Essa è piuttosto «una marcia verso la ragione, un’educazione perpetua dell’uomo
dall’uomo stesso, affinché quest’uomo sia veramente e pienamente tale». Insomma, «la democrazia
non è mai: è sempre da realizzare» [Weil 2012, p. 111].
Distratti e smemorati, leggendo il passato sulla base del presente, tendiamo invece a credere
che la democrazia sia una conquista acquisita e che niente e nessuno, in particolare dopo la fine
della Guerra Fredda, la possa mettere in discussione. Almeno non in Europa e in Occidente. Eppure
la nostra storia recente dovrebbe invitarci a essere quantomeno un po’ più cauti e prudenti. Scettici
verso chi, come Francis Fukuyama, teorizzò, dopo il crollo del comunismo, la fine della storia e il
trionfo del liberalismo politico ed economico: mentre tutte le visioni alternative si sono inabissate
negli oceani tumultuosi della storia, la liberaldemocrazia sarebbe riuscita a vincere perché si è
dimostrata la più adatta all’organizzazione della società.
A distanza di oltre vent’anni dalla pubblicazione di quel saggio divenuto subito famoso in
tutto il mondo, sappiamo che il mito di un pianeta unificato nella grande pace capitalistica e
democratica si è rivelato fallace. La grande crisi economica scaturita nel ventre molle della finanza
americana e subito estesasi anche al vecchio continente sta mettendo in seria discussione la
credibilità della democrazia occidentale come sistema politico, non solo perché incongruo ad
affrontare l’emergenza, ma perché ne sarebbe addirittura la causa1. Si riaffaccia così sul
palcoscenico della storia la questione del complesso rapporto tra capitalismo e democrazia. Già sul
finire degli anni Novanta, lo storico americano Mark Mazower [1998, p. 389] osservava che «il
vero vincitore del 1989 non è stata la democrazia ma il capitalismo» e che l’Europa nel suo
complesso si ritrova oggi a fare i conti con il problema che l’Europa occidentale ha affrontato sin
1
Su questo punto si rimanda all’editoriale di Lucio Caracciolo su «Limes», n. 2 del 2012, in cui il direttore della rivista
italiana di geopolitica sostiene che «l’offuscamento del modello democratico si configura come declino delle potenze
occidentali», aggiungendo che siamo propensi «a percepire tale decadenza non come parentesi ciclica ma in quanto
tendenza storica».
2 dagli anni Trenta: quello, cioè, di stabilire tra i due un rapporto funzionale. «La depressione del
periodo interbellico – avvertiva - rivelò come la democrazia potrebbe non sopravvivere a una
grande crisi del capitalismo». Dobbiamo perciò ammettere che la democrazia non è il destino
dell’umanità e non lo è nemmeno dell’Occidente: essa è una conquista storica e, come tale, ha avuto
un inizio e potrebbe avere anche una fine [Caracciolo 2012]. Di certo la storia europea del
ventesimo secolo insegna che «è assai difficile creare e mantenere in vita una forma di governo
democratico» [Held 1999, p. 10].
Al di là di alcune posizioni estreme e provocatorie [Guéhenno 1994], sono ormai molti i
contributi su questo tema. Alcuni segnalano un evidente paradosso: sempre più nazioni nel mondo
promuovono l’idea di democrazia proprio mentre la sua efficacia viene apertamente messa in
discussione. Aumentano i paesi democratici e, nel contempo, si riduce la soddisfazione dei cittadini
verso le performance di questo sistema politico [Della Porta 2010, p. 176], in particolare a seguito
del passaggio dall’età moderna all’età globale [Galli 2012, p. 72]. Tra i fattori critici messi in
evidenza c’è, ad esempio, il vuoto di legittimità causato dallo spostamento di competenze dal piano
nazionale a quello sopranazionale [Habermas 1999, p. 46]. Secondo Colin Crouch [2003, p. 7], «ci
muoviamo sempre di più verso un polo postdemocratico e questo spiega il diffuso senso di
disillusione e disappunto per il livello di partecipazione e per il rapporto tra la classe politica e la
massa dei cittadini in molte, forse nella maggior parte delle democrazie avanzate». Non riuscendo a
tenere il passo della globalizzazione, le democrazie si espongono alle pressioni delle elite
privilegiate e delle lobby internazionali. E così l’idea di postdemocrazia «ci aiuta a descrivere
situazioni in cui una condizione di noia, frustrazione e disillusione fa seguito a una fase
democratica; quando gli interessi di una minoranza potente sono divenuti ben più attivi della massa
comune nel piegare il sistema politico ai loro scopi; quando le élite politiche hanno appreso a
manipolare e guidare i bisogni della gente; quando gli elettori devono essere convinti ad andare a
votare da campagne pubblicitarie gestite dall’altro» [Crouch 2003, p. 26].
Per sopravvivere le democrazie si trovano dunque a dover affrontare alcune sfide cruciali: il
rapporto con l’economia di mercato, gli effetti della globalizzazione, le diversità culturali. Oltre a
queste, Robert Dahl [2000, p. 194] ne individua un’altra: l’educazione dei cittadini, ovvero la
presenza di un’opinione pubblica ben informata. «Grazie al costo relativamente contenuto delle
comunicazioni e dell’informazione – sostiene il politologo americano – la quantità di notizie
politiche disponibili, a tutti i livelli di complessità, è cresciuta enormemente. Tuttavia, questa
maggiore disponibilità di informazioni non necessariamente produce una maggiore competenza e
una più chiara comprensione: le dimensioni degli insiemi politici, la complessità e la più ampia
quantità di informazioni sottopongono invece i cittadini a una pressione superiore» [Dahl 2000, p.
3 197]. Alla luce di queste considerazioni, vale dunque la pena chiedersi se Internet contribuisca,
come molti auspicano e credono, a migliorare «la capacità dei cittadini di impegnarsi in modo
intelligente nella vita politica» e se possa essere considerato un mezzo che favorisce «l’educazione
civica, la partecipazione politica, l’informazione, le decisioni creative fondate sul dispiegamento
delle molte tecniche e tecnologie proprie del XXI secolo» [ibiden]. In altre parole: se Internet
favorisca il rinnovamento e il consolidamento della democrazia.
2. L’ideosi cibernetica
Se riscrivesse oggi, a distanza di quasi quindici anni, «Il secolo delle idee assassine», lo
storico Robert Conquest potrebbe inserire un capitolo inedito dedicato a una nuova forma di
totalitarismo: quello cibernetico2. Che, a ben vedere, potrebbe essere inquadrato come un caso di
«ideosi», vale a dire come una patologia meno virulenta rispetto ai regimi totalitari che hanno
caratterizzato il ventesimo secolo, ma pur sempre potenzialmente pericolosa, perché riesce ad
attecchire, «portando con sé una acritica fiducia in una serie di soluzioni preconfezionate con cui gli
esseri umani e i loro Stati» tentano di «superare i propri problemi» [Conquest 1999, p. 24]. Il Web è
diventato una di queste soluzioni preconfezionate che godono di una generalizzata fiducia acritica?
Possiamo parlare di un’ideosi cibernetica? A questo proposito, Evgeny Morozov rileva che «con
Internet tutto è irresistibile, non fosse altro perché è a portata di mano». «E’ Internet – sottolinea –
non l’energia nucleare, a essere vista da moltissimi come l’estrema soluzione tecnologica a tutti i
problemi dell’umanità […] Man mano che Internet rende le soluzioni tecnologiche meno
dispendiose la tentazione di farvi ricorso sempre più aggressivamente e indiscriminatamente cresce
di pari passo» [Morozov 2011, p. 289].
Con quali prospettive? Leonard Kleinrock, uno dei padri della Rete, ritiene che essa possa
diventare «un’infrastruttura invisibile che fungerà da sistema nervoso globale per le persone e i
computer di questo pianeta». Lo sviluppo dell’infrastruttura porterà all’impiego di «agenti
intelligenti» che «consentirà al ciberspazio di catapultarsi fuori dai monitor dei computer, in cui è
stato intrappolato per decenni, e di penetrare il nostro mondo puramente fisico, offrendo a chiunque
una porta di ingresso al Web e aprendoci a nuove prospettive e opportunità». Anche lo sviluppo di
applicazioni e servizi sarà enorme. «E’ fisiologico immaginare congegni minuscoli – sostiene
Kleinrock – incorporati ovunque nel mondo fisico e che contengono strumenti per il ragionamento;
attuatori; sensori; file di memoria; sistemi di trattamento dei dati; comunicatori; videocamere;
microfoni; speaker; display; identificatori a radiofrequenza e altro ancora. Software specifici che
2
La definizione è di Lainer [2012].
4 svolgono le funzioni di un assistente personale saranno dislocati per tutto il Web e si occuperanno
di acquisire e analizzare notizie; di studiare le tendenze economiche e sociali; di compiere attività
sofisticate in modo efficiente, adattandosi all’ambiente in cui operano e all’obiettivo richiesto. Al
punto che la maggior parte del traffico virtuale registrato sarà generato non più dagli esseri umani,
quanto da questi congegni embedded e dagli agenti partoriti da software intelligenti». Non solo.
«Quantità enormi di informazioni – afferma ancora Kleinrock – appariranno all’istante nella Rete
globale e, dopo essere state elaborate e memorizzate, forniranno dati indispensabili agli apparati
decisionali e di controllo della nostra società» [Kleinrock 2012, p. 44-45].
I «cyber-utopisti» ritengono che un mondo interconnesso offra maggiori possibilità di
progresso per tutti. Uno degli esponenti di questa scuola di pensiero è Henry Jenkins, blogger e
accademico di fama internazionale. «Ci sono molte evidenze scientifiche – argomenta – che
indicano come molti di noi stiano utilizzando la tecnologia in modi che ci rendono più intelligenti.
Attraverso una serie di attività informali online – dai fan site a Wikipedia, dalla condivisione di
video al social networking – le persone stanno cominciando ad apprendere in modi nuovi, che
migliorano la loro capacità di produrre e valutare le conoscenza e che ampliano le loro capacità di
espressione. Stanno imparando a comunicare attraverso una serie di diverse forme mediali.
Imparano a collaborare e a condividere la conoscenza per rispondere collettivamente a domande
molto più complesse di quanto di potrebbe fare da soli. I singoli individui stanno imparando a
condividere pezzi di media l’uno con l’altro, costruendo nuovi significati, lavorando insieme per
filtrare il disordine e per concentrare l’attenzione sulle cose che invece hanno per loro valore». Si
tratta, insomma, di «accrescere la capacità della gente comune di partecipare in modo significativo
a un processo importante, quello di modellare la produzione e la diffusione della nostra cultura».
Derrick de Kerckhove, già direttore del Programma McLuhan in Cultura e Tecnologia dal
1984 al 2008 e insignito della «Papamarkou Chair in Technology and Education» presso la Library
of Congress, parla di «mente accresciuta» per indicare «l'ambiente cognitivo, attivo sia a livello
personale che collettivo, che le tecnologie intessono attorno a noi e dentro di noi, attraverso Internet
in particolare». La «mente accresciuta» funziona sia come memoria estesa, sia come intelligenza di
elaborazione per ogni individuo che usa tecnologie elettroniche, dal telegrafo, al “cloud
computing”, a Twitter». Non solo: «Unisce le persone invece di dividerle, come è successo con
l'alfabeto, e tiene conto di qualsiasi quantità di voci singole all'interno di uno spazio di informazione
5 fluido, definibile in base agli individui e alla comunità che lo abitano, seguendo i bisogni
collettivi»3.
Oltre a mettere in risalto gli effetti positivi sugli individui, i «cyber-utopisti» sono anche
convinti che Internet abbia delle proprietà terapeutiche in grado sia di curare e rinforzare le
ammalate e deboli democrazie occidentali, sia di eliminare i virus autoritari che ancora infestano
molte nazioni.
Per Manuel Castells [2012] la Rete è uno spazio di libertà che rompe il monopolio
comunicativo e informativo dei media tradizionali, troppo spesso soggetti ai condizionamenti di chi
detiene il potere politico o economico. Grazie al Web, i cittadini possono essere così sia «cani da
guardia», sia i protagonisti di una nuova era politica. Perché partecipano attivamente alla
costruzione dello «spazio della comunicazione socializzata», anziché subirne passivamente gli
effetti. In Rete i cittadini costruiscono i propri spazi di relazione e di informazione, di dialogo, di
confronto e, se necessario, di mobilitazione. Castells parla di «autocomunicazione di massa». «Di
massa» perché arriva a tutta la società, nonché alle reti di comunicazione globale. «Auto» perché i
messaggi vengono prodotti, ricevuti, selezionati e combinati direttamente dagli individui o da
gruppi inter-relazionati tra loro». Cambiando lo spazio della comunicazione, il Web trasforma
anche il processo politico. «La democrazia nell’era di Internet – sentenzia Castells – non è la
democrazia dei partiti. E’ la democrazia dei cittadini, fatta dai cittadini, per i cittadini» [ibidem, p.
2-7].
Lanciando il progetto «Internet for Peace», con l'obiettivo di candidare la Rete al Premio
Nobel per la Pace, l’allora direttore della rivista Wired, Riccardo Luna, sposò in pieno questa tesi:
«Dobbiamo guardare a Internet come a una grande community in cui uomini e donne di tutte le
nazionalità e di qualsiasi religione riescono a comunicare, a solidarizzare e a diffondere, contro ogni
barriera, una nuova cultura di collaborazione e condivisione della conoscenza. Internet può essere
considerato per questo la prima arma di costruzione di massa, in grado di abbattere l'odio e il
conflitto per propagare la democrazia e la pace. Quanto accaduto in Iran dopo le ultime elezioni e il
ruolo giocato dalla Rete nella diffusione delle informazioni altrimenti prigioniere della censura sono
solo l'ultimo esempio di come Internet possa divenire un'arma di speranza globale»4. Secondo
3
Su questo punto si rimanda all’intervista a Derrick de Kerckhove pubblicata su «La Stampa» il 16 febbraio 2011,
oppure al sito web
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/tecnologia/grubrica.asp?ID_blog=30&ID_articolo=8674&ID_sezione
=&sezione=
4
Su questo punto si rimanda all’articolo apparso sul sito Web di Wired Italia, all’indirizzo:
http://mag.wired.it/news/storie/wired-candida-internet-nobel-per-la-pace.html
6 questo approccio «tecno-ottimista», la rete dispone quindi di una forza democratizzante che può
rendere il mondo un posto migliore in cui vivere. Dove tutti possono esprimere liberamente le
proprie opinioni, dove chi governa è soggetto a un’opinione pubblica attenta e finalmente
informata, dove prevale il dialogo tra pari, dove nessun aspirante tiranno può imporre il proprio
punto di vista, dove i cittadini contano davvero nella determinazione delle politiche pubbliche, dove
la libertà e l’eguaglianza coesistono senza tensioni.
E’ proprio così? Possiamo dormire sonni tranquilli se nel prossimo futuro i decisori pubblici
delegheranno molte funzioni, se non tutte, a tecnologie in grado di garantire rapidità, efficienza ed
efficacia? Internet riporta davvero il potere nelle mani dei cittadini, rigenerando i sistemi
democratici agonizzanti? Non occorre essere luddisti per sollevare alcune perplessità su un simile
approccio. «In questo schema – ammonisce Jaron Lanier, il guru di Internet e dei new media che è
stato uno dei leader della rivoluzione digitale – agli esseri umani non è riservato un posto
privilegiato. Presto i computer saranno così grandi e veloci, la Rete così ricca di informazioni, che
le persone diventeranno obsolete». «Se non riusciremo a riformulare gli ideali digitali prima del
nostro appuntamento con il destino – aggiunge – non saremo riusciti a creare un mondo migliore.
Avremo invece aperto la strada a un’epoca buia, in cui ogni elemento umano verrà svalutato»
[Lanier 2010, p. 109]. «Per molti di noi – ricorda lo scrittore e critico letterario John Freeman – la
creazione di Internet ha fatto qualcosa che nessun altro dei progressi avvenuti nella storia delle
comunicazioni era mai riuscito a fare: ci ha legati irrevocabilmente, forse fatalmente, a una
macchina e alle sue capacità sovraumane. Se vogliamo capire a fondo il frangente critico in cui oggi
ci ritroviamo, dobbiamo fare i conti con i cambiamenti prodotti dal lavorare attaccati a questa
macchina, e valutare se esista un modo per rallentare i ritmi, così da poterne fare un uso migliore e
mantenere una presa salda nei territori del reale. Diversamente, avremo oltrepassato quel ponte che
ci teneva nella penombra soltanto per entrare in un’altra, ben più inesorabile oscurità» [Freeman
2010, p. 21].
Non per tutti, insomma, il Web è un sole che illumina una nuova alba per l’umanità. Al
contrario dei «cyber-utopisti», i «cyber-realisti»5 riconoscono i pericoli che si nascondono nella
Rete e non accettano acriticamente l’idea che essa possa servire a migliorare lo stato di salute della
democrazia laddove essa già esiste, nonché ad esportarla anche nei paesi che non l’hanno mai
provata. Nonostante un coro quasi unanime sostenga che il Web – e in particolare i social network –
abbia giocato un ruolo decisivo prima nelle sommosse in Iran e poi nelle rivoluzioni della così detta
5 La
definizione è sempre di Morozov [2011]. 7 primavera araba, riflessioni più attente confermano che non c’è invece alcun legame: l’illusione che
Facebook e Twitter siano stati fattori decisivi nelle rivolte di piazza è smentita dalle analisi sul
campo6. Allo stesso modo, l’opinione diffusa secondo la quale grazie al Web la democrazia può
superare la crisi che la sta investendo rischia di essere fuorviante, perché non tiene conto di alcune
criticità della Rete, sintetizzabili in tre punti: 1) la polarizzazione e la frammentazione che si
verificano on line e che, intrecciandosi fra loro, possono provocare la fine del dibattito pubblico; 2)
gli effetti del sovraccarico informativo sulla mente degli individui e sull’opinione pubblica più in
generale; 3) le potenzialità del Web nella trasmissione e diffusione delle emozioni che
rappresentano sì un elemento costitutivo di ogni discorso politico, ma assumono un carattere
particolarmente rilevante ed esacerbato in quello populista.
Come vedremo, queste criticità si ripercuotono anche sulle condizioni sociali e culturali che
concorrono alla stabilità dei regimi democratici, incidendo sia sulla «legittimità», ovvero sulla
condivisione di valori, sia sulla «effettività», e cioè sull’efficienza del sistema7.
3. Polarizzazione e frammentazione: la scomparsa del dibattito pubblico8
In un saggio del 1942 che analizza la propaganda hitleriana, il filosofo John Dewey sostiene
che «discutere e dialogare è l’unico metodo per realizzare la comunità attraverso processi
comunicativi liberi e aperti». «Questo metodo – aggiunge - è il cuore e la forza dello stile di vita
americano e le debolezze della nostra democrazia rappresentano, tutte, l’espressione del fallimento
nel tenere fede alle esigenze che esso impone». E’ la differenza, sostanziale e decisiva, con i metodi
del nazismo, tutti orientati alla ricerca dell’unità sociale attraverso l’utilizzo della forza e
all’evocazione di istinti ed emozioni primordiali. Alla violenza si deve contrapporre il dialogo,
l’unico mezzo funzionale al superamento di quei «pregiudizi di ordine economico, razziale,
religioso» che «mettono in pericolo la democrazia perché creano ostacoli alla comunicazione o ne
deviano o distorcono il funzionamento». E’ dunque necessario «difendersi dall’uso di ogni aspetto
6
Su questo punto si rimanda a Morozov [2011] e Selwan El Khoury [2012].
7
La distinzione tra «effettività» e «legittimità» è stata proposta da Martin Lipset nel suo «L’uomo e la politica» del
1960, tradotto in Italia nel 1963. Per «effettività» si intende «l’efficienza di fatto, cioè la misura in cui il sistema riesce
ad assolvere alle fondamentali funzioni di governo, intese queste nel senso voluto dalla maggior parte della popolazione
e dai potenti gruppi che in essa vivono». Con «legittimità» si riferisce invece alla «capacità del sistema a far sorgere e a
mantenere viva la convinzione che le istituzioni politiche esistenti siano le più adatte per quella società». E così: «La
misura in cui i sistemi politici democratici contemporanei sono legittimi dipende in gran parte dai modi in cui i
problemi fondamentali che hanno storicamente diviso la società sono stati risolti […] Le crisi di legittimità sono
principalmente un fenomeno storico recente, che ha fatto seguito al sorgere di aspri conflitti fra i gruppi sociali, i quali
sono in grado, a causa dei mezzi di comunicazione di massa, di cristallizzare intorno a loro valori diversi da quelli
considerati in passato come i soli accettabili» [Lipset 1976, p. 77].
8
Per una critica alle teorie sulla fine della sfera pubblica si rimanda a Gamble [2002], in particolare pp. 81-97.
8 della scienza e di ogni forma di tecnologia per imporre la servile camicia di forza del
conformismo». In che modo? Dice Dewey: «Siamo impegnati in una sfida, lanciata ad ogni
elemento del sistema di vita democratico, che consiste nell’usare la conoscenza, la tecnologia e ogni
forma di relazione umana per promuovere l’unità sociale attraverso la libera associazione e la libera
comunicazione. Ora più che mai, appare chiaro che il sistema di vita democratico ci impegna in uno
sforzo incessante per abbattere i muri delle classi, delle diseguali opportunità, di colore, di razza, di
religione e di nazionalità, che rendono gli esseri umani estranei tra loro»9.
L’auspicio di Dewey si può realizzare grazie a Internet? Sì, secondo i «cyber-utopisti» che
vedono nella Rete lo strumento adatto alla creazione di un unico villaggio globale, dove non
esistono recinti che creano divisioni tra un «noi» e «un loro», dove i muri vengono abbattuti sotto i
colpi delle connessioni, dove trionfano il dialogo tra pari e la partecipazione spontanea e interessata
alla vita pubblica. In realtà, però, il ruolo di Internet è, anche da questo punto di vista, molto più
ambiguo. Innanzitutto, per la sua azione polarizzante. Come rilevato da Lovink [2012, p. 24],
«internet è un terreno per le opinioni polarizzate e utenti tendenti all’estremo», tanto che si riscontra
«un’attitudine a distruggere il dialogo». «L’internet pubblica si è trasformata in un campo di
battaglia, spiegando così il successo dei giardini recintati come Facebook e Twitter che tengono
fuori l’Altro aggressivo». «Raramente» perciò «vediamo le due parti discutere tra loro» [ibidem, p.
79].
Alla polarizzazione si aggiunge e si intreccia un altro fenomeno tipico del Web: la
frammentazione. Le discussioni on line tendono a svolgersi in «camere di risonanza», dove
accedono quasi esclusivamente individui con le stesse opinioni che, consapevolmente o meno, si
sottraggono al confronto con chi la pensa in modo diverso. «Emerge un branco, e voi siete con lui o
contro di lui» [Lanier 2010, p. 84]. Secondo Massimo Gaggi e Marco Bardazzi [2010, p. 88], «la
prospettiva è quella di un proliferare di nicchie geografiche e soprattutto mentali, nelle quali
rinchiudersi perdendo di vista il quadro d’insieme: un universo fatto di tribù che si scambiano un
volume limitato di conoscenze e informazioni».
Questa tendenza alla frammentazione è ulteriormente accentuata da quella che Eli Pariser pioniere dell’attivismo politico online e dirigente di MoveOn.org, l’organizzazione progressista che
ha dato un contributo determinante nella campagna per l’elezione di Barack Obama - chiama la
«bolla dei filtri», ovvero il personale bagaglio di informazioni all’interno del quale si vive quando si
9
Il saggio è contenuto nella raccolta degli scritti politici curata da Giovanna Cavallari e pubblicata da Donzelli nel
2003.
9 è online10. L’autore di «The Filter Bubble» ritiene che l’adattamento del flusso di informazioni alla
nostra identità porti alla graduale scomparsa dell’esperienza comune, con conseguenze negative sul
discorso politico e, quindi, sulla democrazia. Che funziona «solo se noi cittadini siamo capaci di
pensare andando al di là del nostro ristretto interesse personale». Ma, per poterlo fare, è necessario
avere una visione condivisa del mondo in cui viviamo. «Dobbiamo entrare in contatto con la vita, i
bisogni e i desideri degli altri. La bolla dei filtri ci spinge nella direzione opposta, ci dà
l’impressione che esista soltanto il nostro interesse personale. E se questo va benissimo per fare
acquisti on line, non va affatto bene per portare a prendere decisioni migliori insieme» [ibidem, p.
132].
Se all’inizio Internet portava con sé la grande speranza di diventare il mezzo che permetteva
a intere città e interi paesi di creare insieme la loro cultura attraverso il dialogo, la personalizzazione
ha prodotto un effetto molto diverso: una sfera pubblica selezionata e manipolata da algoritmi,
volutamente frammentata e che osteggia il dialogo. Anziché rafforzare i pilastri su cui si regge la
democrazia, il Web, attraverso l’azione congiunta di polarizzazione e frammentazione, rischia così
di minarne la solidità. Eli Pariser ritiene che «il problema politico più grave creato dalla bolla dei
filtri consiste nel rendere sempre più difficile il dibattito pubblico» [ibidem, p. 125]. E che questo
sia un nodo nevralgico per i sistemi democratici lo sostiene, sia pure non direttamente in relazione a
Internet, anche un grande intellettuale europeo come Ralf Dahrendorf . «Una delle perdite maggiori
di cui oggi mi rammarico – afferma – è proprio il dibattito democratico, la discussione informata e
ponderata sulle grandi questioni» [Dahrendorf 2001, p. 100]. La «ricerca di omogeneità» e la
«voglia di stare tra i popoli simili, tra coloro che ci assomigliano di più da tutti i punti di vista» sono
emerse in reazione alla globalizzazione, prima che la Rete condizionasse ogni aspetto delle nostre
vite. Al contrario di quanto sostengono i «cyber-utopisti», però, il Web alimenta e non contrasta
questa tendenza contraria a una delle grandi forze della democrazia: quella di «far sì che gente
diversa – dal punto di vista etnico, religioso o politico – [possa] vivere insieme e sottoscrivere
valori comuni» [ibidem, p. 26].
4. Tra frittelle e algoritmi
Dahrendorf fa dunque riferimento esplicito alla scomparsa di una discussione politica
«informata» e «ponderata» e, a questo proposito, riconosce aspetti positivi e negativi del ruolo della
Rete nei processi democratici. «Internet – sostiene – consente una più ampia partecipazione,
seppure astratta, al dibattito. Non è esattamente il dibattito politico informato nei termini in cui io lo
10
Pariser [2012] disegna un modello dei filtri che agisce in tre fasi: 1) cerca di capire chi sono le persone e quali sono i
loro gusti; 2) fornisce loro i contenuti e i servizi più appropriati; 3) affina la sintonia creando la corrispondenza perfetta.
10 intendo, perché uno dei problemi dell’immensa discussione che si svolge nella rete è che noi non ne
conosciamo mai né lo stato né gli esiti». Dahrendorf ammette di non riuscire a far pendere la
bilancia dei pro e dei contro né da una parte né dall’altra. «C’è sicuramente un vantaggio
nell’ampliamento delle occasioni di discussione – spiega – e c’è sicuramente qualcosa di negativo
nella confusione in cui questa discussione si svolge, nell’incertezza sui partecipanti e sui destinatari,
e in una certa casualità nel modo di procedere» [ibidem, p. 73]. Chissà se oggi, a distanza di oltre
dieci anni da queste considerazioni, Dahrendorf rivedrebbe il suo giudizio sostanzialmente neutro
sul rapporto tra Internet e democrazia e, in particolare, sulla qualità dell’informazione dopo la
rivoluzione digitale che sta stravolgendo tutte le vecchie regole del gioco e disattendendo le
aspettative della prima ora11. Che non erano poche. In un noto saggio del 2007, Vittorio Sabadin
sosteneva che «la gente che vuole restare informata non ha mai vissuto un momento più felice: ha
ora a disposizione la più vasta offerta di media della storia dell’umanità, una combinazione di
rotative del XIX secolo, di radio e tv del XX e di siti web e blog del XXI» [Sabadin 2007, p. 17].
Il problema, quindi, non è più la presenza di un sistema pluralistico che garantisca a tutti le
stesse opportunità di accesso, dal momento che la Rete ha spezzato il monopolio informativo dei
media di massa condizionati, se non addirittura controllati, da aziende e governi. La questione è
un’altra: un sistema dove ogni cittadino può fare informazione rappresenta un arricchimento
quantitativo, ma non qualitativo. In Rete si trovano immensi serbatoi di contenuti e notizie, dove
però è sempre più complicato verificare la veridicità e l’autorevolezza. Per i profeti della rete la
soluzione è semplice. Manuel Castells, ad esempio, liquida il tema della credibilità
dell’informazione 2.0 dicendo che «tutto dipende dall’abilità dell’informato nel separare il grano
dal loglio». «In altre parole – osserva ancora – tutto dipende dal livello di educazione e dalla qualità
culturale dei cittadini. Ormai, la credibilità non sta più solo dalla parte di chi emette l’informazione,
ma anche nella capacità di filtraggio di chi la riceve» [Castells 2012, p. 5].
Ma cosa succede se è proprio la Rete a influenzare l’educazione e la formazione dei
cittadini? Avranno le competenze, le conoscenze e le qualità intellettuali per districarsi nella
giungla informativa del Web? Per rispondere a questi interrogativi, e più in generale per capire se
11 Come
annota Geert Lovink, «inizialmente Internet sembrava in grado di colmare molte delle tipiche lacune della
vecchia “sfera pubblica”, e le prime analisi sulle forme del discorso pubblico che andavano emergendo on line venivano
ben inquadrate in questa tradizione apparentemente defunta. Piattaforme quali blog, forum di discussione e siti di
informazione partecipativa dediti al citizen journalism venivano considerati la nuova frontiera della libertà
d’espressione, ambiti in cui chiunque avesse accesso a internet poteva prendere parte alla comunicazione politica».
[Lovink 2012, p. 2].
11 Internet favorisca un’opinione pubblica critica e informata, è utile riflettere su tre aspetti tra loro
interconnessi: 1) gli effetti delle nuove tecnologie sulle facoltà intellettive degli individui; 2) la
scomparsa delle questioni complesse; 3) l’informazione algoritmica e il falso mito della
disintermediazione.
Cittadini come frittelle
C’è chi parla di «effetto frittella» e chi di un «io esausto». C’è chi evidenzia la perdita della
capacità di una «lettura profonda» e chi denuncia una «twitterizzazione della cultura». Ma il
fenomeno che tutti intendono descrivere è l’effetto di Internet sulle facoltà intellettive delle persone,
se non, addirittura, i cambiamenti che esso produce a livello cerebrale. «Decine di studi di
psicologi, neurobiologi, educatori e progettisti web – spiega Nicholas Carr - arrivano alla stessa
conclusione: quando andiamo online entriamo in un ambiente che favorisce la lettura rapida, il
pensiero distratto e affrettato, e l’apprendimento superficiale. Naturalmente è possibile anche
pensare in modo approfondito mentre si naviga in Rete, proprio come si può pensare in modo
superficiale leggendo un libro, ma non è quello il tipo di pensiero che la tecnologia incoraggia e
premia». In questo senso, «la Rete può a buon diritto essere considerata la più potente tecnologia di
alterazione della mente mai diventata di uso comune, con la sola eccezione dell’alfabeto e dei
sistemi numerici» [Carr 2011, p. 144].
Con quali effetti? Distrazione, perdita del pensiero critico, della creatività e delle capacità di
ricordare e di approfondire. «La Rete – precisa Carr – ci rende più intelligenti soltanto se definiamo
l’intelligenza con gli standard della Rete stessa. Se invece ci basiamo su un’idea più ampia e
tradizionale di intelligenza – se consideriamo la profondità del pensiero e non solo la sua velocità –
dobbiamo arrivare a una conclusione diversa e ben più inquietante […] Le funzioni mentali che
stanno perdendo la “battaglia per la sopravvivenza del più occupato” in corso fra le cellule cerebrali
sono quelle che presiedono al pensiero calmo, lineare, quelle che utilizziamo per seguire una lunga
narrazione o un’argomentazione complessa, quelle che sollecitiamo quando riflettiamo sulle nostre
esperienze o contempliamo un fenomeno esterno o interno. A vincere sono le funzioni che ci
aiutano a localizzare velocemente, a classificare e valutare frammenti disparati d’informazione,
quelle che ci fanno mantenere salde le nostre traiettorie mentali mentre siamo bombardati dagli
stimoli» [ibidem, p. 171-172].
In questa prospettiva, le facoltà intellettive degli individui condizionate dal Web non
funzionano più come una formica che lentamente esplora il terreno che si trova a percorrere, bensì
come cavalletta che salta velocemente di qua e di là, senza avere però una conoscenza completa, né
una prospettiva adeguata alla valutazione della situazione. E’ l’affermazione dell’utente search, «un
12 nomade che prende informazioni un po’ qua e un po’ là senza badare troppo alle fonti che lo
riforniscono» [Gaggi e Barduzzi 2010, p. 11]. Ecco i «figli della rivoluzione del tempo reale»,
interessati soltanto a cosa accadrà nell’immediato», tanto da non riuscire nemmeno a vedere la
differenza tra il niente e il qualcosa [Lovink 2012, p. 67].
La scomparsa delle questioni complesse
Come scrive Sharon Begley su «Newsweek»12, «non è solo la quantità di informazioni che
bussano alla porta del nostro cervello a mandarlo in crisi, è anche la frequenza. Un flusso continuo
che ci chiede di rispondere istantaneamente, sacrificando la riflessione e l’accuratezza a favore del
falso dio dell’immediatezza». E’ l’attualità che vince sulla rilevanza. «Il nostro cervello tende ad
accorgersi dei cambiamenti nei momenti di stasi. Una mail che arriva sul nostro Blackberry è
riconosciuta come un cambiamento della stasi; allo stesso modo un nuovo post su Facebook.
Tendiamo a dare più importanza, più peso sulle nostre decisioni, alle ultime informazioni che
abbiamo ricevuto, non a quelle più importanti, o utili». Per di più, «se il Web privilegia il tempo
reale, c’è meno spazio per la riflessione e più tecnologia tesa a facilitare chiacchiere impulsive»
[Lovnik 2012, p. 26].
Più informazione può quindi significare meno conoscenza, soprattutto se un immenso fiume
di informazioni ci travolge, provocando un crollo dell’attenzione. Se i temi rilevanti e complessi
scompaiono a vantaggio di quelli più popolari. «A creare allarme oggi c’è un fenomeno del tutto
nuovo: i motori di ricerca indicizzano le fonti in base alla popolarità, non alla Verità. La ricerca è il
codice tecno-culturale che regola la vita contemporanea». [ibidem, p. 219]. Abbiamo smesso di
imparare le cose a memoria, non abbiamo più alcuna necessità di profondere degli sforzi per delle
funzioni che possiamo benissimo delegare ai motori di ricerca. Basta un click ed ecco numeri di
telefono, significato delle parole, orari di apertura dei negozi, biografie di personaggi illustri e
naturalmente notizie su tutto ciò che ci interessa. Allo stesso modo, non c’è più spazio per le analisi
articolate e profonde. Meglio esprimere giudizi brevi e taglienti, a suon di metafore e di tweet.
In un interessante articolo pubblicato su «La Lettura», inserto domenicale del «Corriere
della Sera», Federico Fubini, analizzando il successo dei professionisti della crisi economica,
racconta un episodio che riguarda il Premio Nobel Nouriel Rubini, protagonista di una conferenza
stampa a Villa d’Este. «Roubini non stava svolgendo un’analisi, o semplicemente un discorso.
Stava twittando. Non che avesse un computer o uno smartphone nelle mani. Ma non pronunciava
12 L’articolo si trova anche on line, all’indirizzo web http://www.thedailybeast.com/newsweek/2011/02/27/i-­‐
can-­‐t-­‐think.html. 13 nessun concetto che non potesse rientrare in un tweet, 140 caratteri su un social network». Le
interpretazioni più popolari della crisi sono quelle raccontate con messaggi spot e una dialettica
estrema. Le altre possono circolare solo in una ristretta cerchia di addetti ai lavori [Fubini 2012, p.
2-3]. Ecco un esempio di cosa si può intendere quando si parla di «twitterizzazione della cultura».
L’informazione algoritmica
Grazie a Internet, siamo tutti giornalisti. Produttori e divulgatori di notizie. Attraverso blog e
social network. E’ l’informazione dal basso, il «citizen journalism», il giornalismo collettivo. Che
non richiede più la presenza del professionista, perché l’informazione viaggia sospinta dal vento del
passaparola virtuale. «E’ lo scenario proiettato nel mito della casa di vetro, trasparente e
indipendente. Al posto delle vecchie querce – i grandi quotidiani – che ogni centro di potere cercava
di attirare nella sua zona d’influenza, cento fiori non condizionabili – i blog, le informazioni
veicolate dalle reti sociali – forti della natura non gerarchica del nuovo modo di comunicare, del
lavoro volontario di migliaia di blogger entusiasti e di tecnologie che, riducendo quasi a zero il
prezzo delle news, hanno democratizzato il sistema» [Gaggi e Bardazzi 2012, p. 22].
Ecco la disintermediazione. Tema rilevante. Finito sotto i riflettori soprattutto dopo le analisi
del «New York Times» e della «Columbia Journalism Reviw» sugli effetti della comunicazione
diretta di Obama. Se la Casa Bianca comunica direttamente con i cittadini grazie alle nuove
tecnologie, chi separa il grano delle informazioni dal loglio della propaganda? Nessuno, ma la
questione – dicono i «cyber-utopisti» - è di scarsa rilevanza perché l’informazione dal basso
consente ai cittadini di abbeverarsi alla fonte di notizie che preferiscono. Niente più monologhi,
niente più rischio di un’informazione manipolata dagli interessi economici e politici. In un’epoca in
cui un video su «You Tube» può distruggere la carriera politica di chiunque o mettere in crisi
un’azienda, non c’è più spazio per le bugie e le verità nascoste.
Approcci più critici descrivono, però, una realtà ben diversa. Nella quale il mito della
comunicazione diretta si infrange come un’onda sugli scogli degli algoritmi che, dopo la pubblicità,
iniziano a gestire anche le nostre esistenze. Gli intermediari non sono spariti, anche se non hanno
più il volto del giornalista che selezionava e “impaginava” le notizie, attribuendo loro – in modo del
tutto soggettivo e partigiano – una diversa importanza. Piuttosto, sono diventati invisibili. Come
ricorda Tim Wu, docente alla Columbia University, la nascita della Rete non ha eliminato gli
intermediari: li ha solo cambiati13. I mezzi di informazione che utilizziamo on line sono in grado di
interpretare i nostri interessi, le nostre passioni e i nostri desideri. Come le impronte lasciate sul
13
Citato in Pariser [2012], p. 53.
14 terreno da un animale e poi fossilizzate, anche i nostri percorsi virtuali lasciano delle tracce che
resistono nel tempo e che permettono agli algoritmi di scoprire qualcosa su di noi. Per offrirci poi
un’informazione su misura che «darà la preferenza ai contenuti che confermano la nostra visione
del mondo rispetto a quelli che la mettono in discussione» [Pariser 2012, p. 73].
Da questo punto di vista, la Rete non favorisce un sistema di informazione più libero,
partecipato e democratico perché immune dai condizionamenti di chi detiene il potere economico e
politico.Al contrario, la dinamica della personalizzazione sposta le informazioni nelle mani di
poche società, di colossi sempre più potenti: se la conoscenza è potere, le asimmetrie di conoscenza
sono asimmetrie di potere [ibidem, p. 119]. L’informazione algoritmica disegna un abito di notizie
su misura per ciascuno di noi14. Ma questo non aiuta ad entrare in relazione con le idee, le storie, le
vite degli altri. In questo modo, «è facile perdere l’orientamento, credere che il mondo sia una
piccola isola mentre in realtà è un continente immenso e vario» [ibidem, p. 87]. Insomma: «la
cosiddetta rivoluzione dell’informazione si è disintegrata in un’inondazione di disinformazione»
[Lovink 2012, p. 222].
5. Tu chiamale, se vuoi, emozioni
Dopo le rivolte in Iran, è stata la primavera araba a suscitare l’entusiasmo di commentatori e
analisti politici sulle potenzialità rivoluzionarie e democratizzanti del Web. In Egitto, uno dei grandi
protagonisti della rivolta contro il regime di Mubarak è stato un giovane manager di Google: Wael
Ghonim, incoronato dal «Time» persona più influente del 2011. Il blogger che ha propiziato la
rivolta di piazza Tahrir ripercorre in un libro autobiografico gli avvenimenti che hanno cambiato il
suo Paese, al termine di una “rivoluzione rivoluzionaria” che in un primo momento si è organizzata
sulla piazza virtuale dei social network per poi trasferirsi nel mondo reale, dove l’odore del sangue
e il dolore della morte sono stati gli stessi di sempre. Una “rivoluzione 2.0”, come recita il titolo.
Una rivoluzione senza eroi.
«In passato – scrive Wael Ghonim – le rivoluzioni sono state quasi sempre guidate da leader
carismatici avvezzi a tutte le astuzie della politica, spesso addirittura da geni militari. Sono quelle
che io chiamo rivoluzioni modello 1.0. Quella egiziana, però, è stata differente: è stata davvero un
movimento spontaneo, e a guidarla era solo ed esclusivamente la saggezza della folla».
Inizialmente, però, anche Wael Ghonim, uno che di politica non si era mai occupato ma che vedeva
14
A questo proposito, vale la pena citare anche il rischio che, di fronte a motori di ricerca sempre più invasivi, gli
individui abbassino i loro standard per farlo sembrare intelligente. «Laddove c’è da aspettarsi che il punto di vista
umano sarà modificato dall’incontro con tecnologie profondamente innovative, la pratica di trattare l’intelligenza della
macchina come se fosse reale richiede che le persone perdano contatto con la realtà» [Lanier 2010, p. 45].
15 crescere in sé la voglia di cambiare il suo paese, pensa di riporre la sua fiducia in un leader. In un
salvatore della patria da contrapporre a Hosni Mubarak: Mohamed Mostafa ElBaradei, già
presidente dell’agenzia internazionale per l’energia atomica dell’Onu. Personalità riconosciuta e
apprezzata a livello internazionale. A lui il blogger egiziano dedica una pagina su Facebook,
iniziando a lavorare per il cambiamento. «A quell’epoca – ricorda – difendere un’idea voleva dire
appoggiare l’individuo che la incarnava». L’iniziativa, nonostante diverse difficoltà, ottiene un
discreto successo: 150 mila iscritti in poco tempo. Ma niente a che vedere con quanto accade in
seguito.
La svolta vera avviene nel giugno del 2010, quando su Internet si diffondono le immagini
scioccanti di Khaled Mohamed Said, un ragazzo pestato a morte da due agenti della polizia di
Alessandria. «Ricordo quel giorno – osserva il blogger egiziano – come fosse ieri. Sedevo nel mio
piccolo studio di Dubai e faticavo a tenere a freno le lacrime che mi solcavano le guance» [ibidem,
p. 74]. Ghonim decide allora di aprire una nuova pagina su Facebook: «Kullena Khaled Said»,
siamo tutti Khaled Said. I primi messaggi sono scritti in prima persona, come fosse lo spirito del
giovane ammazzato a parlare. E’ l’inizio di una narrazione giocata su fattori emotivi che riscuote un
successo è immediato. E insperato. Se la pagina Facebook riservata a ElBaradei aveva una
dimensione più razionale, in quella dedicata a Khaled Said erano i sentimenti a giocare un ruolo
decisivo. Un aspetto, questo, sottovalutato da chi si è concentrato esclusivamente sull’importanza
dei social network nell’abbattere la censura e, con essa, i regimi che la imponevano. E’ vero:
Twitter e Facebook sono stati strumenti essenziali nell’esprimere opinioni e nel diffondere notizie
scomode, oltre che un punto di riferimento nell’organizzazione delle proteste15. Ma l’esperienza di
Wael Ghonim e della rivoluzione egiziana confermano anche l’importanza dei sentimenti nelle
azioni politiche e la facilità con la quale essi si diffondono in Rete.
Ormai da tempo gli esperti di comunicazione politica fondano le proprie strategie sul
presupposto che la via per la vittoria è lastricata di intenzioni emotive. Drew Westen, esperto di
psicologia clinica e politica, ricorda quanto riconosciuto quasi tre secoli dal filosofo David Hume: è
la ragione a essere schiava delle emozioni, e non viceversa. «Non prestiamo attenzione – sostiene 15 A questo proposito, in un post lo stesso Ghonim
scrive: «Facebook si è trasformato nello strumento che ci permette
di esprimere le nostre opinioni, le nostre ambizioni e i nostri sogni senza sottostare a pressioni di sorta… Ormai il
nostro messaggio può competere, per diffusione, con i giornali di regime». Poi, a conclusione del libro: «Ora che un
numero così alto di persone può comunicare così facilmente, il mondo è diventato un posto molto meno accogliente per
i regimi autoritari. L’umanità sarà sempre afflitta da uomini assetati di potere. E non è detto che lo stato di diritto e la
giustizia fioriranno sempre e comunque in ogni luogo. Ma grazie alla moderna tecnologia, la democrazia partecipativa
sta diventando una realtà. I governi faticano sempre più a isolare i cittadini, censurare le informazioni, tenere nascosta
la corruzione e nutrire una popolazione passiva di messaggi propagandistici. A poco a poco, inesorabilmente, le armi di
oppressione di massa si stanno estinguendo». [Ghonim 2012, p. 313-314]. 16 ad argomenti che non suscitano in noi interesse, entusiasmo, paura, rabbia o disprezzo. Non
veniamo toccati da leader che non suscitano in noi una risonanza emotiva. Non troviamo i
programmi politici degni di discussione se non hanno implicazioni emotive per noi, per la nostra
famiglia o per ciò che ci è caro» [Westen 2008, p. 27]. Un messaggio, per essere efficace, deve
partire da qualcosa di emotivamente forte, «una questione morale che il paese deve affrontare, la
storia personale di un candidato, la storia di una persona che il candidato ha incontrato durante la
campagna elettorale, un’ingiustizia che chiede di essere riparata» [ibidem, p. 27].
La differenza tra le due iniziative mediatiche di Wael Ghonim sta proprio nell’innesco
emotivo, che mancava alla prima (quella di ElBaradei) e che invece aveva la seconda (quella di
Khaled Said). Più di tante argute riflessioni razionali sul senso di un’azione a favore della
democrazia, quelle immagini scioccanti hanno colpito allo stomaco gli egiziani, provocando un
diffuso senso di ingiustizia. La triste vicenda di un egiziano qualunque poteva accadere a chiunque
e in ogni momento. Per questo la sua storia ha suscitato paura, odio, rabbia, disprezzo, empatia. La
richiesta di democrazia appare così la trascrizione in bella copia della volontà di sbarazzarsi di un
regime che, per mantenere il potere, aveva utilizzato ogni mezzo. La miccia emotiva non aveva
fatto altro che far esplodere animi già pieni di sentimenti negativi. «A parte i desideri e le paure –
sostiene Drew Westen – gli esseri umani sono motivati anche da valori, convinzioni cariche di
emozioni su come le cose dovrebbero o non dovrebbero essere, sul piano morale, interpersonale o
estetico. Anche se tendiamo a vedere i valori come fattori essenzialmente culturali, molti dei valori
che motivano le persone – a prescindere dalla cultura a cui appartengono – si basano su propensioni
biologiche, proprio come i desideri e le paure». E’ dunque importante accettare «l’idea che buona
parte del nostro comportamento rifletta l’attivazione di reti di associazioni emotivamente cariche, e
che questa attivazione avvenga in buona parte al di fuori della nostra coscienza» [Westen 2008, p.
82-83].
Se l’attivazione dell’innesco emotivo da parte dei «ribelli» egiziani è avvenuta in modo
piuttosto casuale, lo stesso non si può dire per la risposta del regime. Dopo qualche tentennamento,
la sua reazione è avvenuta sullo stesso terreno: quello delle emozioni. Anziché difendersi dalle
accuse con spiegazioni razionali, c’è stato il tentativo di denigrare la vittima che aveva infiammato i
cuori dei cittadini, dipingendo il giovane ammazzato come un drogato, un poco di buono e non
certo l’eroe che si voleva celebrare. Il regime voleva parlare alla pancia e non alla testa delle
persone. Voleva farle indignare, non riflettere. Si è trattato di una battaglia comunicativa in piena
regola, combattuta con mirate strategie di comunicazione fatte di messaggi carichi di emotività. Una
scelta, questa, resa ancora più necessaria dal terreno in cui si svolgeva lo scontro: la Rete.
17 Appare ormai assodato, infatti, che «i media non si limitano a riportare le notizie ma
svolgono un ruolo chiave anche nella circolazione dei sentimenti», nel senso che «gli utenti restano
invischiati in un groviglio di stimoli che poi vengono canalizzati secondo modalità specifiche»
[Lovink 2012, p. 146]. I social network non riescono ad «addomesticare i nostri impulsi interiori», e
così «Internet crea un flusso infinito di reazioni nervose» [ibidem]. In un’intervista a «Limes»,
anche un profeta della Rete come Derrick de Kerckhove riconosce come «fenomeno nuovo e dalle
implicazioni considerevoli» quello «dell’emozione circolante», che «si diffonde attraverso le
comunicazioni su blog, Twitter, Facebook»16. Anche la bolla dei filtri, oltre a determinare la
scomparsa dei problemi di interesse pubblico e delle questioni complesse che non hanno una rapida
evoluzione e non ci coinvolgono personalmente, crea un «mondo di emozioni» [Pariser 2012, p.
121-122].
Con quali conseguenze? Il prevalere di messaggi semplificati e di notizie che suscitano
sentimenti può risultare pericoloso per le democrazie: è vero che «il ricorso agli effetti emozionali è
costitutivo di ogni discorso politico», ma si può ben dire che «essi assumono un carattere
particolarmente esacerbato nel discorso populista» [Charaudeau 2012, p. 15]. Se la strada
cibernetica è lastricata di sentimenti ed emozioni, essa può condurre la democrazia verso pericolose
derive populiste.
6. La democrazia finisce nella Rete?
La scomparsa dei problemi di interesse pubblico e del dibattito politico, la perdita delle
capacità di analisi critica e di lettura approfondita da parte degli individui, l’affermazione
dell’informazione algoritmica, la conseguente cancellazione delle questioni complesse e il prevalere
delle notizie che suscitano emozioni sul Web rappresentano alcune sfide alla tenuta e al
funzionamento delle istituzioni democratiche, sia sul versante della «legittimità» che su quello della
«effettività».
Sul versante della legittimità, perché – come abbiamo visto - Internet non favorisce la
condivisione di valori attraverso il dialogo tra persone moderate e aperte al confronto che
sostengono posizioni diverse, bensì l’emergere di posizioni radicali e polarizzate, di tribù virtuali
chiuse in se stesse e di utenti convinti che esista solo il loro interesse personale. Viene così meno
uno dei postulati della democrazia liberale: l’esistenza di una sfera politica, luogo del consenso
sociale e dell’interesse generale [Guéhenno 1994]. «Al posto di soggetti autonomi non restano che
situazioni effimere in funzione delle quali si annodano alleanze provvisorie appoggiate a
16
L’intervista è pubblicata su «Quaderni speciali di Limes», anno 4, n. 1, pp. 35-40.
18 competenze mobilitate per l’occasione. Invece di uno spazio politico, luogo di solidarietà collettiva,
vi sono solo percezioni dominanti, tanto effimere quanto gli interessi che le manipolano. Siamo
all’atomizzazione e omogeneizzazione al tempo stesso. Una società che si frammenta all’infinito,
senza memoria e senza solidarietà» [ibidem, p. 38].
Ciò implica, tra l’altro, la mancanza di un «auspicabile» dibattito pubblico basato sul
contraddittorio, anch’esso elemento funzionale in un processo democratico [Manin 2011, p. 169180]. Perché il confronto tra opinioni discordanti, se non addirittura opposte, è un presupposto non
solo per il miglioramento della qualità delle decisioni collettive, ma anche per controbilanciare la
frammentazione dello spazio pubblico e per agevolare la comprensione delle scelte. «Il confronto
unifica il campo in cui le opinioni si contrappongono e crea uno spazio in cui esse interpellano ed
entrano in relazione. Ma lo spazio delle opinioni può presentare anche un’altra configurazione ed
essere frammentato in una miriade di isole, internamente omogenee, prive di comunicazione le une
con le altre». Da questo punto di vista, Internet, pur offrendo agli individui nuove opportunità di
entrare in contatto gli uni con gli altri, favorisce contatti e legami stabiliti per affinità, in particolare
ideologica e politica. «In ciascuna di queste molteplici isole o reti di individui che condividono
un’opinione si possono prevedere effetti di rinforzo e di polarizzazione, dal momento che lo
scambio con individui che le pensano allo stesso modo produce in generale una radicalizzazione
delle opinioni dei partecipanti nella direzione comune ai membri» [ibidem, p. 176-177]. Da questo
punto di vista, dunque, il Web non aiuta il processo democratico, ma lo rende più problematico17.
In assenza di un confronto tra opinioni diverse, a soffrire è anche l’educazione, altro
elemento fondamentale della cittadinanza e, quindi, della democrazia. «L’educazione – sostiene il
teologo Bruno Forte – avviene attraverso l’ascolto, la condivisione e il dialogo, che, tuttavia, non
significa annullamento delle differenze: non si amano gli altri se non si è se stessi, accettando anche
l’inevitabile diversità tra loro». La democrazia necessita di cittadini capaci di pensare criticamente e
di entrare in contatto con il punto di vista degli altri. Ma questo «può accadere a condizione che
apprendano a mettersi in discussione e a riflettere sulle ragioni per cui sostenere una certa posizione
invece di un’altra, piuttosto che – come spesso accade – vedere il dialogo politico unicamente come
occasione per vantarsi o conquistare vantaggi sulla controparte» [Nussbaum 2011, p. 15». La
mancanza di confronto - unita alla predisposizione degli Stati a orientare i sistemi educativi
17
Manin suggerisce due modi concreti per favorire il confronto tra argomenti opposti nelle democrazie contemporanee
e, non a caso, entrambi escludono l’utilizzo di Internet. Il primo consiste nel dar vita, fuori dai periodi elettorali, a
dibattiti basati sul contraddittorio su temi di interesse pubblico, con relatori che rappresentano associazioni e movimenti
o che sono esperti o autorità di riconosciuta autorevolezza. Il secondo, nel corso delle campagne elettorali, è
rappresentato dai dibattiti televisivi che propongono il contraddittorio fra i leader dei partiti e delle coalizioni in lizza
[Manin 2011, p. 178-179].
19 esclusivamente alla crescita economica - sta così provocando «una crisi di proporzioni enormi e di
enorme significato», dalla quale si uscirà solo attribuendo alla competenze umanistiche e artistiche
il peso che meritano. Altrimenti «si produrranno generazioni di macchine piuttosto che cittadini in
grado di pensare autonomamente» [ibidem, p. 7]. Anche in questa prospettiva, Internet rappresenta
più una minaccia che un’opportunità, se è vero che – come abbiamo visto - i suoi effetti sulle
capacità intellettive degli individui risultano essere assai negative, determinando una perdita della
capacità di analisi critica e di lettura profonda. La Rete «allena» i circuiti cerebrali adibiti al
multitasking e al pensiero veloce, costringendo al riposo forzato quelli che utilizziamo per seguire
un’argomentazione complessa, per sviluppare la creatività, per rafforzare il pensiero critico. In
questo quadro, come si può pensare a cittadini preparati e capaci di separare il grano dal loglio,
come auspicato da Manuel Castells? Sottoposta a un continuo bombardamento di stimoli, la mente
delle persone tende a valutare le informazioni non in base alla veridicità e alla rilevanza, bensì
privilegiando le più attuali e, su suggerimento degli algoritmi, le più popolari. La rottura del
monopolio informativo del vecchio sistema comunicativo top-down non garantisce, di per sé,
un’opinione pubblica più informata, proprio perché agli individui che stanno smarrendo le proprie
capacità di analisi critica e approfondita risulta sempre più problematico distinguere tra «opinioni
patrizie» e «dicerie plebee» [Lovink 2012, p. 219].
Sul versante dell’effettività, l’eccessiva partecipazione cibernetica rischia di condizionare
negativamente l’azione di leader politici, schiavi delle infinite voci del Web. «Leggi i sondaggi,
segui i blog, tieni conto dei messaggi che appaiono su Twitter e degli stati su Facebook e dirigiti
esattamente là dove si trovano gli altri e non dove pensi che dovrebbero andare. Ma se tutti
“seguono”, chi dirige?», si chiede l’editorialista del «New York Time» Thomas L. Friedman. Che
aggiunge: «Quando si dispone di tecnologie che facilitano reazioni e giudizi rapidi e immediati, e
quando si ha a che fare con una generazione abituata a ricevere gratificazioni istantanee – ma ci si
trova a dover affrontare questioni complesse, come l’attuale crisi creditizia o la mancanza di posti
di lavoro o l’esigenza di costruire da zero i Paesi arabi – si è alle prese con una notevole
discrepanza – nonché una sfida per la leadership» [Friedman 2012, p. 56-57]. E per la democrazia.
Se chi governa è ostaggio del potere dei follower e della tirannia del tempo presente, non
avrà la forza di prendere decisioni impopolari ma necessarie e di prospettiva, proprio a scapito
dell’effettività di cui parlava Martin Lipset. Davanti allo schermo di un computer, di un tablet o di
uno smartphone, la «miopia della democrazia» peggiora inesorabilmente, diottria dopo diottria.
«L’efficiente funzionamento della democrazia rappresentativa viene sfigurato da ricorrenti iniezioni
di democrazia diretta», scrive Furio Cerutti [2012, p. 396]. Anche perché, ai continui
condizionamenti di un elettorato sempre più frammentato e distratto dalla e nella Rete, si aggiunge
20 un aumento della complessità tecnica delle questioni e, quindi, delle politiche da mettere in atto. «In
questo quadro la democrazia, sia quella reale e malandata dei vari sistemi politici, sia quella
invocata da populisti e protestatari di varia specie, sembra sempre di più dissociata dal
buongoverno, se per questo si intende la capacità di gestire i problemi nati dalla globalizzazione con
la sua caratteristica preponderanza dei mercati sulla politica, di farlo muovendosi nell’ambito
europeo d’interdipendenza regolata, e con una seria considerazione per le generazioni future»
[ibidem, p. 399]. Il «disagio della democrazia» di cui parla Carlo Galli nasce anche dalla crisi della
sua effettività, e cioè dalla delusione dei cittadini verso le sue prestazioni. Per dirla ancora con le
parole di Furio Cerutti [ibidem, p. 400], «per conservare legittimità il governo par le peuple non
può andare a scapito del governo puor le peuple». La scarsa efficienza delle istituzioni rischia,
infatti, di aprire le porte ai populismi18, che oggi trovano in Internet un terreno particolarmente
fertile per la diffusione dei propri messaggi semplicisti e carichi di (ri)sentimenti. Spesso indirizzati
contro i nemici di turno, siano essi le élite politiche o i poteri occulti della grande finanza globale.
Da questo punto di vista, il «cyber-populismo» conserva alcune specifiche caratteristiche proprie di
questa degenerazione patologica della democrazia: la presenza di leader carismatici, lo
scardinamento dei meccanismi e dei sistemi di rappresentanza e di mediazione e, appunto, il
bisogno di nemici reali o immaginari19. Allo stesso tempo «sfrutta» alcune caratteristiche del Web
per propagarsi nel corpo malato delle democrazie contemporanee: in particolare la prevalenza delle
notizie che suscitano emozioni, del chiacchiericcio irrazionale e dei messaggi semplificati.
In conclusione, possiamo dire che Internet rende problematica la condivisione di alcuni
valori di fondo che concorrono alla stabilità dei sistemi democratici (legittimità), e ne inficia
l’efficienza, agendo negativamente sulla loro capacità ad assolvere fondamentali funzioni di
governo rese ancora più complesse nel passaggio dall’età moderna all’età globale (effettività). La
Rete non si è rivelata utile nemmeno ad affrontare la sfida dell’educazione dei cittadini di cui parla
Robert Dahl. Anzi, l’opinione pubblica rischia di essere meno informata, sicuramente meno
propensa a riflettere e affrontare questioni complesse. Il futuro della democrazia è una di queste.
Troppo importante per essere discussa nella piazza virtuale, a suon di «tweet» e di «mi piace».
7. Conclusione: un Manifesto per la Slow Communication
A ben vedere, dunque, il futuro della democrazia dipende anche dall’affermazione di una
18
Come osserva Carlo Galli [2012, p. 64-65], «tutte le contraddizioni strutturali della democrazia, con le quali questa ha
convissuto, tutte le mediazioni, tutta la complessità, oggi appaiono insopportabili – proprio perché la prestazione delle
istituzioni democratiche è di fatto in pauroso calo, sfidata dalle dinamiche della globalizzazione».
19
Su questo punto si rimanda all’interessante analisi di Alessandro Lanni [2011].
21 nuova cultura digitale, di una nuova alfabetizzazione mediatica e di una nuova etica intellettuale
fondata sulla ricerca di un equilibrio sostenibile tra la velocità e l’immediatezza del Web e il
pensiero lento, lineare e approfondito che utilizziamo per seguire una lunga narrazione e
un’argomentazione complessa oppure per riflettere sulle esperienze della nostra esistenza.
Il Web ha rivoluzionato il nostro modo di vivere e di relazionarci con gli altri, rivelandosi
uno strumento fondamentale in moltissime attività. E’ evidente a tutti che non possiamo più farne a
meno. La Rete è una presenza sempre più rilevante nella nostra vita, che crescerà ancora. Milioni di
persone si ritrovano in questa piazza virtuale senza confini per chiacchierare, spettegolare,
discutere, mettersi in mostra e amoreggiare su Facebook, Twitter, MySocial e ogni altro tipo di
social network. L’essere sempre connessi appare ormai come una necessità, e non una scelta.
Spedire e ricevere messaggi è un modo per essere visibili. «Vivere una vita senza tweet – sostiene
provocatoriamente il massmediologo Geert Lovink – significa smettere di vivere».
Già. Ma possiamo fermarci prima di arrivare a questo punto di non ritorno. Ecco perché
ritengo utile promuovere un Movimento per la Slow Communication, un’iniziativa culturale che non
intende affatto condannare la funzione e il ruolo di Internet nelle società post-moderne, né
tantomeno riproporre una versione aggiornata di quella paura socratica che, come sottolineato da
Umberto Eco, si basa sulla convinzione che «ogni avanzamento tecnologico possa abolire o
distruggere qualcosa che consideriamo prezioso, fecondo, qualcosa che per noi è un valore in se
stesso e ha un carattere profondamente spirituale». Mira, piuttosto, a promuovere una prospettiva
diversa, evitando di cadere nel pessimismo culturale e partendo invece dalla necessità di imparare a
utilizzare il Web 2.0 con più moderazione e meno dipendenza. In modo più responsabile e
consapevole. Senza ignorare le conseguenze che la Rete esercita su ognuno di noi, sul nostro modo
di essere e di pensare, sui nostri atteggiamenti e sui nostri comportamenti. Finanche sulle nostre
menti.
Nel 2000 l’entusiasmo digitale trovò il suo testo-cult nel «Cluetrain Manifesto», dove
quattro esperti americani misero a punto «95 Tesi» per descrivere il nuovo ordine generato dal web:
in uno dei passaggi più significativi affermavano che «attraverso internet la gente stava scoprendo e
inventando nuovi modi di condividere conoscenza rilevante a una velocità accecante». In realtà,
come rilevato da Nicholas Carr, Internet ci rende stupidi. Gli effetti di un’esposizione eccessiva al
Web sono profondi, sia sugli individui che sulle comunità, perché si mette in pericolo la profondità
e la peculiarità della cultura che tutti noi condividiamo. E così, sotto la pressione del sovraccarico
informativo e della tecnologia dell’istantaneamente disponibile, rischiamo di diventare, come
osservato da Richard Foreman, «pancake people», ossia delle «persone-frittella» larghe, distese e
22 sottili, come la vasta rete di informazioni alla quale accediamo con un semplice click.
E allora: è già troppo tardi, come sostiene Sam Anderson sul «New York Times», per battere
i ritirata e tornare a un’epoca più calma? Forse. Ma dobbiamo provarci, se vogliamo avere un
maggiore controllo della nostra vita, se vogliamo evitare di perdere la nostra umanità. Citando
l’informatico Joseph Weizenbaum, Carr sostiene che a renderci più umani è ciò che è meno
calcolabile rispetto a noi stessi: le connessioni fra la mente e il corpo, le esperienze che danno
forma alla memoria e al pensiero, la nostra capacità di emozione e di empatia. Se non vogliamo
sacrificare le qualità e le caratteristiche che contraddistinguono le persone dalle macchine sull’altare
di quella che Heidegger chiamava la «frenesia della tecnica sfrenata», dobbiamo avere
l’autoconsapevolezza e il coraggio di non delegare ai computer le nostre attività più profondamente
umane e le nostre occupazioni più intellettuali, in particolare tutti quei compiti che richiedono
saggezza. Dobbiamo, cioè, resistere alle seduzioni della tecnologia, dell’informazione istantanea,
della velocità e della (presunta) efficienza.
Nell’agosto del 2009, il Wall Street Journal pubblicava un «Manifesto for the Slow
Communication», in cui lo scrittore e critico letterario John Freeman scriveva: «I nostri giorni sono
limitati, le nostre ore sono preziose. Dobbiamo decidere che cosa vogliamo fare, che cosa vogliamo
dire, di che cosa e di chi dobbiamo prenderci cura. Bisogna pensare come vogliamo ripartire il
nostro tempo in base a queste domande, entro limiti che non possiamo cambiare. In poche parole,
dobbiamo rallentare». Dobbiamo riappropriarci del tempo, sganciando la nostra idea di progresso
dalla velocità, che non sempre porta a risultati soddisfacenti e a relazioni sostenibili. Dobbiamo
abbandonare l’utopia dell’efficienza perfetta, per evitare di tornare ad essere dei meri decodificatori
di informazioni, acritici e superficiali. Dobbiamo imparare a scollegare la nostra mente da Internet
per riconquistare lo spazio della riflessione. Dobbiamo, insomma, riscoprire la lentezza per
acquistare una rinnovata sintonia con il mondo reale che ci circonda.
D’altro canto, come osserva Carlo Galli [2012, p. 92], «se la democrazia di oggi e di domani
potrà essere senza centro, non potrà però essere senza un fine» e questo «non può non consistere –
al di là delle molteplici e contrastanti forme che assume – nella fioritura umanistica delle libere
personalità in uno spazio pubblico».
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