CORREITA` Anastasia Laurelli Perfino il buio m`acceca. Il silenzio mi

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CORREITA` Anastasia Laurelli Perfino il buio m`acceca. Il silenzio mi
CORREITA’
Anastasia Laurelli
Perfino il buio m’acceca. Il silenzio mi assorda. Le mie braccia si muovono meccanicamente,
cercano di proteggermi mentre ho la sensazione che le pareti mi si stringano addosso. Inizio a
graffiare il muro, come per cercare una via di fuga. Le unghie mi si staccano dalle dita, ma non mi
rendo nemmeno conto del dolore mentre il muro si tinge di rosso scarlatto.
Dove sei? Io sono così solo. Ti cerco per le strade di Campobasso, nei volti della gente che non
riesco a vedere. Scivolano via da me come acqua nel fiume, ed io non faccio nulla per fermarli. Li
guardo fuggire lontano. Non mi interessano gli altri da quando tu non ci sei. Ed io sono solo.
Dove sei? Dove sei? Dove sei?
“È così bella la vita. Guardati intorno, Michele” mi dici. Mi guardo intorno senza vedere nulla se
non la vita monotona che scorre inesorabilmente fino a giungere fino al comune tragico destino.
“Guarda questi cedri, i cipressi, gli ippocastani. Sono qui, da centinaia di anni, in questa splendida
villa, Villa De Capua, e hanno accolto tantissime vite. Tra i loro rami vedono ogni anno uccellini
nascere e morire, nascere e morire. E questi alberi sono ancora qua. Non vedi che bellezza ci
circonda?” Torno a guardarmi intorno, ma tutto ciò che riesco a vedere sono solamente le lettere
incise sulla corteccia di un tronco e lo stato di abbandono in cui questa villa è stata ridotta
dall’ottusità degli amministratori locali che si sono succeduti in città.
Mi afferri la mano perché sai quanto mi piace lasciarmi guidare da te e mi porti su un ballatoio
circolare. “Vedi questo palchetto? Qui, tempo fa, la nobiltà cittadina veniva a ballare il sabato
sera. Io li vedo ancora, tutti qui, gioiosi, felici, sereni, beati nei loro vestiti pomposi; riesci a vederli
anche tu? Non la senti questa musica che suona, l’orchestra con l’arpa, i violini, il clarinetto e la
viola? Ballare vuol dire festeggiare la vita.” Ed io vorrei tanto vedere, ma non vedo niente.
Sono di nuovo qui, a Villa De Capua, ma adesso comincio a vedere come vedevi tu. Non c’è gente
vestita a festa, non c’è l’orchestra, non c’è alcuna musica, ma ci sei tu, ci sei tu che balli per me. E
questo mi basta. Una danza senza melodia, come una menade impazzita. Tu balli, e volteggi, e salti,
e sfiori la terra, e ti alzi, e volteggi di nuovo, e ondeggi, volteggi, volteggi. Vorrei veramente che
chiunque potesse ancora vederti inneggiare la vita in un modo così magnifico, ma non possono. E
meno male che non possono perché il tuo volto si crepa, e le falene, piombandoti addosso, ti
divorano pezzo dopo pezzo. Ma il tuo sguardo resta felice. Una felicità che permane anche durante
l’attacco di quelle farfalle pelose.
L’allucinazione delle pareti era niente rispetto all’incubo che mi assale in questo momento. I vermi
mi stanno divorando. Sono partiti dai piedi e presto arriveranno alla bocca, al naso, ai polmoni. Li
sento strisciare sul mio corpo ed io sono inerme contro questa processione viscida che mi attacca e
mi morde. Dove sei, Giorgio? Dove sei?
Sono i tuoi vermi, sappilo, e ora vogliono anche me. Vogliono prendermi morso dopo morso, fino
al cuore, perché tu non riesci più a saziarli. Tu, carne morta; tu, carne senza sangue.
Ed io, come te, non posso nemmeno difendermi perché a ogni orda di vermi che schiaccerò,
scaccerò, ci sarà una nuova onda gigantesca pronta a sommergermi.
È inverno eppure tu sei venuto qui a Termoli, al mare, senza dire niente a nessuno. Ma io ti ho
trovato. Mi siedo al tuo fianco, sul bagnasciuga.
“Mi hanno cacciato di casa” mi dici. I tuoi occhi sono fessure rosse e le tue guance sono segnate
da quell’inconfondibile liquido indelebile, le lacrime. Ed io non ti chiedo nemmeno perché ti hanno
mandato via, sento solo le onde a far da eco al tuo dolore. Appoggi la tua fronte alla mia. E tremi.
Tremiamo insieme mentre il vento ci sbatte addosso e in quel momento sento che ti amo, Giorgio.
E in quel momento tu sai che mi ami. Il nostro amore come i nostri nomi, scritti sulla riva e dati in
pasto alla risacca.
Sono tante le pacche sulle spalle. Qualcuno mi sussurra amichevolmente che ce la posso fare, altri
bisbigliano che ho perso peso, che me la sono andata a cercare. Tua madre urla bestemmie e ti
maledice davanti al loculo chiuso. Tuo padre non ha neanche avuto il coraggio di venire. Tutti
vogliono solo dimenticare, io no, perché non posso, non voglio, perché sulle spalle vorrei sentire
solo il tuo braccio, una tua carezza, le cui forme e la cui dolcezza rimarranno sempre impresse sulla
mia pelle. Il tuo era un tocco del tutto particolare, dolce e duro allo stesso tempo, bramoso ma
insieme affettuoso e delicato. E vorrei urlare, sparire, infilarmi nella tua bara e restare nascosto nel
marmo, candido come te, dormire per sempre, nel tuo freddo abbraccio. Sto scoppiando, le parole si
intasano tra labbra e palato, sono troppe e vogliono uscire tutte nello stesso momento.
“Non siamo sbagliati, Michele” mi accarezzi ed io non so se crederti. Il labbro mi sanguina e mi fa
male, l’occhio destro si sta gonfiando. Mi hanno picchiato, fuori scuola, ma a me non interessa.
“Ci urlano contro, ma non dobbiamo mollare” sussurri dolcemente e le tue parole fanno
dimenticare per un attimo anche le accuse di tua madre che m'incolpa dell'odio che prova per te.
Mi soffermo a guardare una coccinella che mi era planata sul ginocchio.
Te la indico e tu, posando la mano sulla gamba, cominci a sfiorarla con il dito. E la mia pelle
memorizza quel tocco casuale, tutti i tuoi muscoli, i tuoi nervi, le tue impronte, il tuo calore; la mia
pelle urla di non voler essere più toccata da mani diverse.
Ho paura, sono solo in camera mia. Nessuno viene a trovarmi, nemmeno i miei, non so se per
amore, vergogna, dignità, imbarazzo, rispetto. Il mondo gira vorticosamente intorno a me e la tua
faccia mi appare costantemente davanti agli occhi. È possibile che un'assenza sia una presenza così
prepotente? Il vomito risale velocemente fino all’esofago e si blocca. Non riesco a respirare e mi
sento morire.
“Tu sarai il principe sul palco, io sarò la principessa nella tua vita” sussurro nel buio della mia
camera.
“Non ci sarà nessun principe, Michele” e, sorridendo “però tu già sei la mia principessa.”
Passo il braccio intorno alla tua schiena. “Che è successo?”
“Hanno preferito dare la parte a un altro, con gusti sessuali ‘convenzionali’.” Ti stringo e ti bacio
le labbra, sapendo quanto ci tenessi a quel ruolo, a recitare, a darti al pubblico, a cercare il mio
sguardo fra i palchetti del teatro Savoia.
“Neanche tu hai bisogno di recitarla la parte del principe, la stai vivendo” sussurro.
E tu annuisci, distante. Ed io soffro, sapendo che questa pugnalata ti avrebbe segnato e che io non
avrei avuto medicine per il tuo dolore.
Sono tornato a scuola. Il tuo banco, posto di fianco al mio, è vuoto. Mi manca l’aria.
“Perché ci prendono in giro?” mormoro. Mi sfiori con le labbra. “Sono stupidi e invidiosi.”
Faccio schioccare la lingua contro il palato, chiedo di più. Voglio capire che cosa intendi, non
sopporto più di passare per i corridoi di questo Liceo Classico bigotto e sentirmi etichettato con la
parola ‘frocio’. “Così ci chiamano, ma tu fai finta di non rendertene conto. Ci etichettano quegli
stessi maschi che studiano l’omosessualità nell’antica Grecia e non se ne scandalizzano. Ipocriti,
bastardi. “Amore – mi sussurri – ma tu studi Dante…non ti curar di loro, ma guarda e passa.”
La prof ha fatto un discorso sulla vita, su quanto sia inutile buttarla via come hai fatto tu.
Non capisce, nessuno capisce che dietro un sorriso può nascondersi la debolezza, che dietro un “va
tutto bene” può esserci un mondo che sta crollando. Hai cercato la morte quando non hai retto più
agli sguardi, ai giudizi, agli atteggiamenti di chi ti stava intorno. Coautori, non so fino a che punto
inconsapevoli, di un omocidio preterintenzionale.
La psicologa mi chiede sempre di te. Non riesco a non rispondere, e parlo, parlo, la sommergo con
fiumi di parole e poi arrivano le lacrime, inondo la stanza anche con quelle, finisco per non riuscire
a respirare. Affogo.
«Giorgio, quando senti questo messaggio mi richiami? Che fine hai fatto?» impreco e chiudo la
chiamata. Sono preoccupato. È il quarto messaggio che ti lascio in segreteria. Quando tua madre
si presenta alla mia porta, con gli occhi infossati, la sensazione di tragedia mi paralizza.
Da quando te ne sei andato, senza un abbraccio, senza un addio, è passato un anno. Indosso ancora
la tua collana, quella che portavi quando sei morto. Ho sempre pensato che il più forte fra noi fossi
tu, tu con i tuoi sorrisi e gli inni alla vita. Tu e le canne, tu e la felicità, tu e i tuoi “va beh, fa niente,
la prossima volta andrà meglio.”
La prossima vita ti sta andando meglio, eh? Non ti perdonerò per avermi abbandonato, per avermi
distrutto e costretto a ricostruirmi daccapo. Eri le mie fondamenta, io mi appoggiavo su di te, tu mi
capivi. Perché non hai fatto altrettanto? Perché non hai mai cercato il mio aiuto? Perché hai
preferito morire invece di parlarmi dei problemi che ti affliggevano, della tua rabbia per essere stato
cacciato da casa, dell’angoscia per le offese sulla tua omosessualità? Non eri solo, Giorgio; cosa c’è
di sbagliato nel chiedere aiuto? Mi avevi insegnato ad andare avanti a testa alta, sempre e
comunque, ma la lezione non valeva solo per me, Giorgio. Valeva per entrambi. Avremmo potuto
curarci le ferite a vicenda.
Da qualche settimana frequento Federico, potrebbe essere il compagno giusto per provare a voltar
pagina. Ma tu sarai sempre una cicatrice, una piacevole cicatrice, il ricordo che di tanto in tanto mi
divora un po’ di cuore e mi ruba la felicità. Da qualche settimana, però, non sono più solo e so che
tu, se potessi, saresti felice per me.