«I poeti sono mentitori per professione»?

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«I poeti sono mentitori per professione»?
«I poeti sono mentitori per professione»?
Il valore cognitivo della letteratura
Wolfgang Huemer
Io so la storia di un uomo che racconta le storie. Gli
ho detto molte volte che non credo le sue storie. “Lei
mente” gli ho detto “lei imbroglia, lei inventa, lei inganna”. Questo non lo impressionò. Continuò tranquillamente a raccontare, e quando io gridai: “Lei mentitore,
lei imbroglione, lei inventore, lei ingannatore!” mi guardò a lungo, scosse la testa, sorrise tristemente…1
L’affermazione che la letteratura può avere un valore cognitivo, sembra
prima facie ovvia2. È un luogo comune che la conoscenza di testi letterari
costituisce una parte indispensabile della nostra formazione. Molto di ciò
che sappiamo delle relazioni interpersonali, di ciò che si prova in una certa
situazione non quotidiana (cioè in una situazione che non abbiamo ancora
vissuto), della psicologia, della politica o della storia l’abbiamo imparato
leggendo. Fra tutte le altre funzioni che la letteratura può avere nella nostra
società, sembra indubitabile che possa (anche) offrirci delle nuove prospettive e approfondire la nostra comprensione, il che si manifesta anche
nel fatto che tanti autori scrivono per comunicare un messaggio che porta i
lettori a riflettere sui propri pregiudizi e (in certi casi) a cambiare le proprie
opinioni3.
Fare filosofia a volte significa riflettere su o mettere in dubbio anche ciò
che di solito si prende per scontato. Perciò non ci dovrebbe stupire che un
1
P. Bichsel, L’America non esiste, in Storie per bambini, Marcos y Marcos, Milano 2002, p. 25.
Vorrei ringraziare Carola Barbero, Roberto Pinzani, Luca Pocci e Marco Santambrogio per i loro
commenti su versioni precedenti di questo testo.
3
Con questo non voglio suggerire che il valore cognitivo sia l’unico valore della letteratura, né che
sia quello più importante. Ci sono tanti buoni motivi per prendere un buon libro in mano: a volte si cerca di divertirsi o di distrarsi durante un lungo viaggio in treno, altre volte si cerca di rilassarsi dopo una
impegnativa giornata di lavoro, altre volte ancora si cerca di fuggire dalla realtà in altri mondi possibili,
o di vivere un’esperienza estetica ecc. Vorrei insistere, però, sul fatto che a volte si legge per ampliare
il proprio orizzonte.
2
La società degli individui, n. 32, anno XI, 2008/2
notevole numero di filosofi abbia contestato l’idea che la letteratura possa
avere un impatto cognitivo. La letteratura, secondo questi filosofi, può divertirci, può essere un passatempo piacevole, ma non può, in linea di principio, insegnarci niente. Il problema si pone per tutte le forme d’arte, ma
sembra particolarmente urgente nel contesto della letteratura, per il semplice motivo che i testi letterari sono testi che consistono di proposizioni –
e fin dal nostro primo corso di logica abbiamo imparato che le proposizioni
veicolano un valore di verità, che esse sono o vere o false, a seconda che
descrivano il mondo in modo corretto o non. La letteratura e, più in generale, le opere di finzione4, invece, non hanno neanche la pretesa di descrivere il mondo in modo corretto – parlano di persone che non sono mai vissute e di eventi che non sono mai accaduti – e quindi contengono delle proposizioni che sono – in senso stretto – false. Chiunque prenda in mano Il
processo di Franz Kafka e legga la prima frase, «Qualcuno deve aver calunniato Josef K. poiché senza che avesse fatto alcunché di male una mattina venne arrestato»5, si rende ben conto che queste affermazioni sono false.
Nessuno ha mai calunniato Josef K. e questi non venne mai veramente arrestato, per il semplice fatto che Josef K. non è mai esistito. Questo implica
che la letteratura non può comunicare informazioni, non potendo suscitare
nel lettore credenze vere sul mondo attuale. In breve, secondo questo ragionamento un testo letterario, in quanto è un’opera di finzione, non può avere
alcun valore cognitivo.
Questa osservazione ha portato un numero considerevole di filosofi alla
conclusione che i poeti mentono. David Hume, per esempio, suggerisce in
un passo molto noto del suo Trattato sulla natura umana che i poeti cercano di ingannare i lettori in quanto parlano di persone e scenari che nascono
dalla loro immaginazione, ma ne parlano come se descrivessero fedelmente
la realtà: «I poeti stessi, benché mentitori per professione, cercano sempre
di dare una parvenza di verità alle loro finzioni; e dove questa parvenza
mancasse del tutto, le opere, per quanto ingegnose, non offrirebbero gran
diletto»6.
Hume appartiene a una lunga tradizione di filosofi che tengono un atteggiamento scettico verso la letteratura. Già Platone aveva osservato che
«tra filosofia e arte poetica esiste un disaccordo antico»7. Platone, com’è
4
Al solito si distingue fra letteratura e opera di finzione. Non tutti i testi letterari sono opere di finzione, e ci sono opere di finzione che non sono testi letterari (film, telefilm, cartoni animati ecc.). In questo
articolo trascurerò questa distinzione; parlerò soltanto di testi letterari che sono opere di finzione. Le argomentazioni che userò possono essere generalizzate facilmente per tutte le opere di finzione.
5
F. Kafka, Il processo, in Romanzi, trad. it. di E. Pocar, Mondadori, Milano 1969, p. 317.
6
D. Hume, Trattato sulla natura umana, in Opere, Laterza, Bari 1971, vol. 1, p. 135.
7
Platone, La Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 329 (607b).
10
noto, sosteneva che il mondo fisico non fosse nient’altro che una imitazione, una rappresentazione mimetica, delle cose vere e proprie. I poeti, in
quanto descrivono il mondo fisico, non rappresentano le cose vere e proprie, ma le imitazioni di esse e così facendo si allontanano di un ulteriore
passo dalla verità. Se cerchiamo la verità è quindi consigliabile consultare
il filosofo e non il poeta, che in fondo è «un ciarlatano, un imitatore»8. In
più, Platone vedeva un grande pericolo nella poesia: anziché illuminare i
lettori e portarli verso la verità, il poeta «potrebbe turlupinare bambini e
gente sciocca»9, cioè coloro che sono incapaci «di vagliare scienza, ignoranza e imitazione»10. La letteratura, perciò, non è un mezzo adatto per comunicare informazioni, ma può sembrare che lo sia ed è quindi ancora più
inadatta come strumento didattico: storie che parlano male dell’Ade, per
esempio, potrebbero spaventare i giovani, e quindi dovrebbero essere proibite «non perché non siano poetiche e non offrano dilettevole ascolto ai
più, ma perché quanto più sono poetiche, tanto meno le devono udire fanciulli e uomini che hanno da essere liberi e paurosi della schiavitù più che
della morte»11. Di conseguenza Platone conclude che i poeti – come fra
l’altro (e per gli stessi motivi) i pittori – dovrebbero essere espulsi dalla città ideale.
Ma non tutti i filosofi della tradizione anticognitivista condividono l’idea che la letteratura sia uno strumento pericoloso. Un altro esponente dell’empirismo britannico, John Locke, per esempio, afferma che «tutte le applicazioni artificiali e figurative delle parole che ha inventato l’eloquenza,
non sono che modi per insinuare idee sbagliate, suscitare le passioni e con
ciò indurre a giudizi fuorvianti, e perciò si tratta di perfetti inganni»12, ma
assume un atteggiamento più conciliante quando conclude: «L’eloquenza,
come il bel sesso, ha in sé malie troppo potenti per sopportare che se ne
parli contro. Ed è vano biasimare queste arti dell’inganno in cui gli uomini
trovano piacere a essere ingannati»13. Quindi anche Locke condivide l’idea
che i poeti sono mentitori e ammette che cercano di ingannare i lettori, ma
non se ne scandalizza e riesce a vedere anche gli aspetti piacevoli dell’inganno. Per lui, la letteratura non è un pericolo, ma piuttosto un divertimento gradevole che arricchisce la qualità della vita – senza tuttavia contribuire
alla ricerca della verità.
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9
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11
12
13
Ibidem, p. 319 (598d).
Ibidem (598c).
Ibidem (598d).
Ibidem, p. 96 (386b).
J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, Bompiani, Milano 1994, Libro III, cap. X, § 34, p. 951.
Ibidem.
11
La tradizione dell’anticognitivismo letterario non è soltanto un fenomeno della storia della filosofia, un capitolo chiuso e ormai superato, ma è
presente anche nella filosofia e nella critica letteraria contemporanee. La filosofia del primo Novecento è caratterizzata da una svolta verso il linguaggio: molti filosofi di quest’epoca sostennero che attraverso un’analisi del
linguaggio si potevano affrontare tutti i problemi filosofici degni di essere
discussi. I filosofi di questa tradizione, tutti particolarmente interessati alla
filosofia della scienza, si concentravano sul linguaggio descrittivo: sul fatto, cioè, che il linguaggio ci permette di fare affermazioni che descrivono
aspetti rilevanti della realtà. Di conseguenza adottarono un’immagine del
linguaggio che prendeva le nozioni di riferimento e di verità come nozioni
di base. Partirono, in altre parole, dal fatto che le parole si riferiscono a cose o a persone e che le proposizioni veicolano un valore di verità. Questa
immagine del linguaggio, però, si dimostra notoriamente inadeguata se applicata al linguaggio letterario, nel quale i nomi propri non si riferiscono a
persone esistenti e le proposizioni non descrivono eventi accaduti nel mondo reale.
Per Bertrand Russell, uno dei maggior esponenti della filosofia del primo Novecento, le proposizioni contenenti descrizioni definite o nomi propri sono vere solo se esiste esattamente un oggetto (o una persona) a cui il
nome o la descrizione si riferisce14. Quest’analisi lo spinse ad adottare una
versione forte dell’anticognitivismo. Secondo Russell, tutte le proposizioni
che fanno parte di un’opera di finzione sono false. Dell’Amleto di Shakespeare disse esplicitamente: «Le proposizioni nel dramma sono false perché un tale uomo non è mai esistito»15. Russell ammise che queste proposizioni erano sensate perché potevano suscitare le nostre emozioni, ma affermò che la parola «Amleto» non era un nome proprio e che le emozioni che
proviamo per Amleto non presuppongono delle credenze16.
Russell, quindi, applicò alla letteratura un’immagine del linguaggio adeguata al linguaggio scientifico. Le sue conclusioni ci lasciano un po’ perplessi. Non solo tolgono alla letteratura ogni forma di valore cognitivo – da
proposizioni false non si può imparare niente – ma la riducono anche a un
gioco arbitrario di segni vuoti. In un testo letterario, le parole non hanno il
14
Questa è una condizione necessaria ma non sufficiente. Cfr. B. Russell, On Denoting, “Mind”, 14,
1905, pp. 479-493.
15
B. Russell, An Inquiry into Meaning and Truth, Allen & Unwin, London 1962, p. 277.
16
Quindi Russell, come Locke, sosteneva che opere della finzione letteraria possono suscitare emozioni. Questa tesi fu contestata, nella seconda parte del Novecento, da quei filosofi secondo i quali si
possono provare delle emozioni genuine solo se si crede che l’oggetto a cui si dirige l’emozione esista,
il che ha dato luogo alla discussione sul cosiddetto paradosso della finzione. Cfr., per esempio, C. Radford, How Can We Be Moved by the Fate of Anna Karenina?, “Aristotelian Society Supplementary
Volume”, 49, 1975, pp. 67-80.
12
loro significato ordinario, la letteratura viene considerata un uso aberrante
del linguaggio. In questo modo non si può spiegare perché la letteratura – e
altre opere di finzione come i film o i telefilm – giochino un ruolo centrale
nella nostra vita culturale. Perciò alcuni filosofi della tradizione analitica,
insoddisfatti di quest’analisi, hanno cercato di proporre approcci più sofisticati che, però, rimangono sempre legati alle nozioni di riferimento e di
verità.
John Searle, per esempio, è dell’idea che i testi letterari consistano di atti linguistici che funzionano più o meno come quelli del linguaggio ordinario, in cui, però, alcune convenzioni sono messe fra parentesi, con il risultato che la connessione fra parola e mondo viene sospesa. «Raccontare storie», secondo Searle, «è un gioco linguistico a sé; per essere giocato richiede un insieme di convenzioni separate, anche se esse non sono regole di significato; e il gioco linguistico sta a cavalcioni dei giochi di linguaggio illocutivi, ne è parassita»17. In questo modo Searle può salvare l’idea che
l’appartenenza a un testo letterario non cambi il significato di una parola o
di un enunciato. La sua mossa di tagliare tutte le connessioni fra linguaggio
letterario e mondo può tuttavia sembrare problematica. In questa concezione la letteratura diventa un fenomeno di nicchia che perde ogni contatto col
mondo reale. In più, l’idea che il linguaggio letterario sia una sorta di parassita del linguaggio ordinario non rende giustizia al fatto che tanti bambini acquisiscono il significato di un numero notevole di parole tramite le fiabe che raccontiamo loro.
David Lewis, invece, sostiene che i testi letterari contengono descrizioni vere non del mondo attuale, ma di altri mondi possibili18. Tutto ciò che
viene raccontato è quindi veramente accaduto, basta trovare un mondo possibile che risulti fedele alla nostra finzione. In questo modo Lewis può salvare il valore cognitivo della letteratura: essa ci può insegnare tante cose –
ma solo su altri mondi possibili. Secondo l’approccio di Lewis la letteratura ci può dare esempi concreti di ciò che è possibile, di ciò che potrebbe
accadere. Anche questa proposta ci lascia con un certo senso di vuoto, però: anche nella concezione di Lewis la letteratura perde il suo contatto con
il mondo attuale. Quando vogliamo imparare qualcosa, cerchiamo di capire
come stanno le cose intorno a noi, ma è a dir poco molto improbabile che
tanti lettori leggano per informarsi su come stanno le cose in altri mondi
possibili – mondi che non potranno mai visitare e che non hanno nessun legame causale con il mondo attuale. Inoltre, Lewis non può rendere giu17
J. Searle, Lo statuto logico della finzione narrativa, “Versus”, 19-20, 1978, pp. 149-162.
Cfr. D. Lewis, Truth in Fiction, in Philosophical Papers, vol. 1, Oxford University Press, Oxford
1983, pp. 261-280.
18
13
stizia all’idea che la letteratura abbia un valore cognitivo sui generis, non
può, in altre parole, spiegare perché leggere un romanzo a volte possa darci
un altro livello di comprensione rispetto, per esempio, allo studio di un manuale.
Alcuni filosofi hanno osservato che i testi letterari avrebbero un tema
esprimibile in un ‘riassunto tematico’, thematic statement, una proposizione che non contiene riferimenti a persone o a scenari fittizi e che ha un valore di verità. Questo riassunto tematico sarebbe, secondo loro, il vero portatore del valore cognitivo del testo. Il tema di Otello, per esempio, non è
che Otello fosse un generale moro al servizio della Repubblica veneta, né
che fosse sposato con Desdemona e invidiato da Jago – questi sono nient’altro che dettagli che servono a trasmettere il vero tema del dramma: la
gelosia e le sue conseguenze devastanti. Anche un lettore tredicenne, che
nella sua vita non ha mai provato questa emozione intensa, attraverso la
lettura del testo può acquisire credenze vere sulla gelosia e su ciò che si
prova in questa situazione.
Questa posizione rappresenta un grande passo avanti in quanto suggerisce che ciò che impariamo da un testo non si trova in una proposizione
contenuta nel testo, ma in una proposizione che emerge dal testo. Trova i
suoi limiti, però, nella difficoltà che abbiamo di estrarre un riassunto tematico generale, adeguato, ma allo stesso tempo abbastanza informativo da
essere rilevante, da un testo letterario. Il problema, come nota Jerome Stolnitz, è che rischiamo di trovarci di fronte un riassunto talmente generico da
diventare vuoto e banale:
Che cosa rimane della/e verità dedotta dalle tragedie antiche? Potremmo metterci d’accordo su “l’orgoglio precede la caduta”. Per questo genere di illuminazioni, chi ha bisogno della grande arte? […] Le verità dischiuse o suggerite dall’arte
[…] vengono ad assomigliare sempre di più a luoghi comuni. Sono, anzi, sotto altri aspetti, ancora meno convincenti19.
Se riduciamo il valore cognitivo della letteratura alle informazioni che
possono essere comunicate da un riassunto tematico molto generale dobbiamo concludere che la letteratura può insegnarci solo una serie di luoghi
comuni irrilevanti20.
19
J. Stolnitz, On the Cognitive Triviality of Art, “British Journal of Aesthetics”, 32, 1992, pp. 191-200,
qui p. 195 s.
20
Ciò non implica che l’analisi tematica non abbia pregi notevoli quando si tratta di mettere in evidenza ciò che succede quando leggiamo un testo da un punto di vista letterario. Mi limito a suggerire
che spesso quest’analisi è rimasta legata a una concezione del valore cognitivo della letteratura che attribuisce troppa importanza alla comunicazione di proposizione vere. Per una discussione informativa
sulla rilevanza dell’analisi tematica, cfr. L. Pocci, The Return of the Repressed. Caring about Literature
14
I tre approcci appena discussi sono esemplari per lo sviluppo della filosofia della letteratura nel Novecento. Ciascuno fa un notevole passo avanti
per rendere giustizia all’idea che la letteratura possa avere valore cognitivo.
Tutti e tre, però, rimangono legati a una concezione del linguaggio che assume le nozioni di verità e riferimento come nozioni di base. Rimangono
legati, quindi, a un’immagine del linguaggio che, come abbiamo visto sopra, è notoriamente inadeguata per affrontare il linguaggio letterario21. Finché rimarremo fedeli a questa immagine, saremo disposti a concludere che
il linguaggio letterario ha un deficit enorme nei confronti del linguaggio
scientifico, che nel primo caso abbiamo a che fare con un uso aberrante del
linguaggio in cui le regole dell’uso ordinario sono messe tra parentesi. Secondo questa concezione, gli scrittori fanno solo finta di usare le parole nel
modo ordinario; fanno solo finta di fare affermazioni, descrivere il mondo,
porre domande, dare ordini ecc., come facciamo nel linguaggio ordinario,
ma in realtà partecipano a un gioco linguistico completamente diverso che
non ha nessun legame col mondo reale e, di conseguenza, nessun valore
cognitivo. L’anticognitivismo letterario trasforma la letteratura in un fenomeno di nicchia, un passatempo, un ornamento piacevole, ma in fondo inutile. Se uno volesse imparare qualcosa di rilevante e di profondo sul mondo reale, sarebbe meglio, secondo questa tradizione, che consultasse un
manuale e non perdesse tempo con la letteratura, che non è considerata
roba seria.
L’anticognitivismo, come ho accennato sopra, non è stato difeso solo da
filosofi, lo troviamo anche in alcune delle correnti più influenti della critica
letteraria contemporanea. Il decostruzionismo, per esempio, suggerisce che
«il n’y a pas de hors-texte», non c’è nulla al di fuori del testo. Secondo
questa concezione, il linguaggio è un sistema di simboli che si riferiscono
solo ed esclusivamente ad altri simboli. In questo modo si perde il contatto
fra linguaggio e mondo reale con gravi conseguenze: non solo i testi letterari, ma tutti i testi, non sono in grado di descrivere stati di cose del mondo
attuale, dunque il linguaggio diventa un sistema cieco di simboli vuoti.
Abbiamo visto finora che nella filosofia c’è una lunga tradizione di anticognitivismo letterario la quale, mettendo in dubbio l’assunto comune che
la letteratura abbia un valore cognitivo, arriva alla conclusione che le afferand its Themes, in J. Gibson, W. Huemer, L. Pocci, a cura di, A Sense of the World. Essays in Fiction,
Narrative and Knowledge, Routledge, New York 2007, pp. 89-103.
21
Un’immagine alternativa fu proposta, per esempio, da Ludwig Wittgenstein, per cui non le nozioni
di verità e di riferimento, ma quelle di uso e di gioco linguistico sono le nozioni di base. Cfr. L.
Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1999. Per varie applicazioni dell’immagine wittgensteiniana del linguaggio al linguaggio della letteratura, cfr. i saggi del volume The Literary Wittgenstein, a cura di J. Gibson, W. Huemer, Routledge, London 2004.
15
mazioni di un testo sono – in un certo senso – false. Prima di abbandonare
una certezza del senso comune, però, dovremmo fermarci un attimo per
chiederci se il ragionamento che ci porta a questa conclusione radicale sia
plausibile. In primo luogo sarebbe importante riflettere sul concetto di valore cognitivo implicito in questi argomenti. E non saremmo soli: una lunga tradizione filosofica suggerisce che la letteratura possa, in effetti, arricchire in modo sostanziale le nostre conoscenze sul mondo attuale. Prima di
dare la parola ai filosofi, però, vorrei far sentire la voce di uno scrittore,
Franz Kafka, che nel 1920 scrisse questo breve racconto, intitolato La
trottola:
Un filosofo si tratteneva sempre dove c’erano bambini a giocare. E quando vedeva un ragazzo con una trottola, si metteva subito in agguato. Non appena la trottola girava, il filosofo la inseguiva per prenderla. Che i bambini facessero chiasso
e cercassero di allontanarlo dal loro giocattolo, non gli importava; se riusciva a
prendere la trottola, mentre ancora girava, era felice, ma solo un istante, poi la buttava via e se ne andava. Credeva infatti che la conoscenza di ogni inezia, dunque
anche, ad esempio, di una trottola che gira, fosse sufficiente per conoscere l’universale. Perciò non si occupava dei grandi problemi; gli pareva antieconomico.
Conoscendo realmente la minima inezia, è come conoscere tutto; perciò si occupava soltanto della trottola girante. E ogni qualvolta si facevano i preparativi per
farla girare, aveva la speranza che vi sarebbe riuscito, e quando la trottola girava,
mentre la rincorreva ansimando, la speranza gli diventava certezza, ma poi, quando si trovava in mano quello stupido pezzo di legno si sentiva male e le grida dei
bambini che fino a quel momento non aveva udite e ora invece gli colpivano improvvisamente le orecchie, lo facevano fuggire, sicché andava barcollando come
una trottola sotto una frusta maldestra22.
Il racconto di Kafka mi sembra pertinente perché può essere usato per
rispondere agli argomenti degli anticognitivisti in quanto suggerisce che
non la letteratura, ma la filosofia sarebbe triviale da un punto di vista cognitivo. Kafka ridicolizza il filosofo che parte da alcuni assunti di base e
applica un metodo preciso, colui che, in breve, conduce una ricerca seria
ma, in fin dei conti, non capisce nulla. Il filosofo cerca di capire un sistema
dinamico, il ruotare della trottola, ma ogniqualvolta la prende in mano per
esaminarla da vicino, la trottola perde questa sua proprietà essenziale: non
gira più; si trasforma in uno stupido pezzo di legno. L’errore del filosofo
consiste nel non capire che i suoi strumenti non sono adeguati a catturare
l’aspetto che proprio gli interessa: il ruotare della trottola. Anziché riflet-
22
F. Kafka, Racconti, trad. it. di E. Pocar, Mondadori, Milano 1970, p. 451.
16
tere sul suo metodo, però, il filosofo non si dà per vinto e continua a provare, finché lui stesso barcolla come una trottola sotto una frusta maldestra.
Applicando questa morale al nostro problema possiamo constatare che
l’errore dei filosofi anticognitivisti consiste nel collocare il valore cognitivo di un testo letterario nel suo comunicare proposizioni vere. Gli anticognitivisti non capiscono che i testi letterari sono sistemi dinamici capaci di
comunicare verità concrete le quali, però, non sono funzione del significato
letterale delle proposizioni, ma emergono dal testo. Il primo filosofo (a mia
conoscenza) a rendere esplicito questo punto è stato Aristotele quando, nella Poetica, ha sostenuto che la conoscenza nasce non da descrizioni verosimili di ciò che è veramente accaduto, ma dalla comprensione di ciò che potrebbe o dovrebbe accadere. Paragonando il lavoro del poeta a quello dello
storico, che tenta di descrivere fedelmente la realtà, Aristotele dice:
Ed infatti lo storico e il poeta non differiscono per il fatto di dire l’uno in prosa
e l’altro in versi […], ma differiscono in questo, che l’uno dice le cose accadute e
l’altro quelle che potrebbero accadere. E perciò la poesia è cosa più nobile e più filosofica della storia, perché la poesia tratta piuttosto dell’universale, mentre la storia del particolare. L’universale poi è questo: quali specie di cose a quale specie di
persona capiti di dire o di fare secondo verosimiglianza o necessità, al che mira la
poesia pur ponendo nomi propri, mentre invece è particolare che cosa Alcibiade
fece o che cosa patì23.
Per Aristotele, dunque, il valore cognitivo, la vera comprensione, non si
limita ad aggiungere proposizioni vere alla ‘banca dati’ delle nostre conoscenze. Consiste piuttosto nello sviluppare un senso di ciò che può accadere, un senso attinente all’orizzonte del possibile. Consiste, in altre parole,
nel trasgredire i limiti dell’attuale e nell’esplorare i veri limiti che sono stabiliti dalle leggi di natura. Una proposta molto più recente, che va in questa
direzione, è stata formulata da Catherine Elgin, secondo la quale lo scetticismo verso la letteratura nasce da una concezione sbagliata del progresso
cognitivo. In un suo articolo Elgin esprime questa idea in modo eloquente:
Sembra che gli esseri umani raccolgano informazioni nello stesso modo in cui
gli scoiattoli raccolgono noci. Pezzo per pezzo, mettiamo insieme dati e li immagazziniamo per esigenze future. Molti epistemologi e molte persone comuni pensano che il progresso cognitivo consista nell’accumulo di dati24.
23
Aristotele, Poetica, 1451b 3-11.
C. Elgin, Art and the Advancement of our Understanding, “American Philosophical Quarterly”, 39,
2002, pp. 1-12, qui p. 1.
24
17
Questa concezione del progresso cognitivo può essere adeguata per una
parte della nostra attività scientifica, quando si cerca di ampliare il corpus
delle conoscenze all’interno di un paradigma predefinito, ma non ne fornisce un quadro comprensivo. A volte i veri progressi consistono nel capire
che un paradigma, un determinato schema di rappresentazione, è arrivato al
limite e che dovrebbe essere sostituito da un altro. «Il progresso cognitivo
spesso consiste in riconfigurazioni – nel riconoscere un campo [domain] in
modo che aspetti finora omessi o trascurati, configurazioni [patterns] e risorse vengano alla luce»25. Il valore cognitivo della letteratura e, più in generale, dell’arte, consiste secondo Elgin nel ruolo che entrambe possono
avere nel promuovere queste riconfigurazioni:
L’arte non comunica, e non pretende di comunicare, delle verità letterali e descrittive. Piuttosto cerca di sfidare, di disorientare, di stupire, e di esplorare, e così
facendo di rivelare ciò che gli approcci più regolamentati non hanno le risorse per
tentare26.
Ciò non significa, ovviamente, che l’arte abbia un valore cognitivo solo
in quanto può contribuire a una rivoluzione kuhniana in una disciplina
scientifica. Il suo valore cognitivo consiste piuttosto nel riflettere sulla propria posizione, nell’interrogarsi sulla direzione da prendere per progredire,
e nel mettere in gioco ciò che finora abbiamo dato per scontato. Una volta
accettato che il progresso cognitivo non consiste sempre nell’accumulo di
dati, arriviamo a una concezione che può rendere giustizia alla letteratura.
Il progresso cognitivo che ci può fornire la letteratura, quindi, non consiste
necessariamente nell’acquisire delle credenze vere, ma nel raggiungere un
livello di comprensione più profondo. Con questa mossa Elgin può ridurre
la distanza fra scienza e letteratura di cui parlava Platone. Come le scienze,
anche la letteratura contribuisce ad arricchire la nostra visione del mondo,
la nostra comprensione di ciò che sta accadendo intorno a noi e di ciò che
noi stessi siamo.
L’anticognitivismo parte da una divisione netta fra contesti di finzione e
contesti fattuali che porta a una distinzione rigida tra letteratura e scienza,
attribuendo un valore cognitivo solo alla seconda. Ma questa divisione non
è sostenibile. Anche nelle scienze a volte ci serviamo di contesti di finzione
per approfondire le nostre conoscenze: ci sono situazioni nelle quali gli
scienziati devono sviluppare degli esperimenti mentali per provare le loro
teorie. Non si può, per esempio, testare in modo empirico ciò che accade a
25
26
Ibidem.
Ibidem, p. 12.
18
un disco che non gira nelle vicinanze di un buco nero che gira, ma si può
eseguire un esperimento mentale. Osservando alcuni parametri (le leggi naturali rilevanti e le condizioni iniziali) si può concepire uno scenario finzionale e così facendo arrivare a una descrizione della situazione che esemplifica tutti e soli gli aspetti rilevanti27. Ciò dimostra che i contesti della
finzione possono contribuire alla nostra comprensione anche nel campo
delle scienze naturali.
Inoltre, gli esperimenti mentali possono servire anche da modello per il
modo in cui funziona la letteratura. La stessa Catherine Elgin, per esempio,
afferma che «le opere di finzione sono esperimenti mentali»28. Anche un
romanzo di Jane Austen, secondo Elgin, può essere considerato un esperimento mentale in quanto fornisce una descrizione di una situazione circoscritta che osserva alcuni parametri ed esemplifica tutti e soli gli aspetti
rilevanti, permettendoci di approfondire le nostre conoscenze sul modo in
cui un gruppo di persone si comporta in una determinata situazione.
Restringendo la sua attenzione a tre o quattro famiglie fittizie, Austen in effetti
sviluppa un esperimento mentale rigorosamente controllato. Limitando drasticamente i fattori che hanno un effetto sui suoi protagonisti, può elaborare in dettaglio
le conseguenze di quei pochi che rimangono29.
Catherine Elgin, a mio avviso, mette in luce un aspetto molto importante: per capire meglio qual è il valore cognitivo della letteratura, dobbiamo in primo luogo riflettere sulla nostra concezione del progresso cognitivo (e, vorrei aggiungere, anche su quella del linguaggio). Se adottiamo in
modo acritico le nozioni tradizionali, ci troveremo improvvisamente a fianco degli anticognitivisti e rischieremo, quindi, di non comprendere il valore
della letteratura. Ciò non significa, tuttavia, che condivido la posizione di
Elgin in tutti i dettagli. Sono incline a pensare che la sua concezione del
progresso cognitivo sia leggermente esagerata: non è vero che tutte le volte
che leggiamo un testo letterario di alto valore cognitivo siamo costretti a riflettere su o a riconfigurare i nostri schemi di rappresentazione. Allo stesso
modo non penso che tutti i testi letterari siano esperimenti mentali. Per
quanto l’analisi di Elgin possa essere adatta ai romanzi di Jane Austen, dubito che sia possibile applicarla a tutti i romanzi oppure a tutti i testi letterari.
27
Devo questo esempio a C. Elgin, The Laboratory of the Mind, in J. Gibson, W. Huemer, L. Pocci, a
cura di, op. cit., pp. 43-54, qui p. 48.
28
Ibidem, p. 47.
29
Ibidem, pp. 49-50.
19
La letteratura è un campo molto vasto ed eterogeneo in cui troviamo testi di generi diversi, di stili diversi, scritti con scopi molto diversi, il che
rende molto difficile proporre una teoria unificata del suo valore cognitivo.
Se proprio vogliamo farlo, dobbiamo partire da una definizione di letteratura basata su un aspetto che tutti i testi letterari – o almeno la maggior parte
di essi – hanno in comune. I tentativi più promettenti in questa direzione
mi sembrano quelli di coloro i quali mettono in luce che nella letteratura –
di solito – non importa solo ciò che viene detto, ma anche il come viene
detto. Secondo questa concezione non conta tanto il contenuto, quanto
piuttosto la forma letteraria del testo. Per dirlo con le parole dello scrittore
Peter Bichsel: «Il necessario contenuto è il veicolo del racconto, non è il
racconto che è il veicolo del contenuto»30. Un testo letterario tematizza
sempre anche il linguaggio stesso. Lubomír Doležel ha espresso questo
aspetto nel modo seguente: «Nella sua semantica, l’obiettivo della letteratura (poesia) si trova nella direzione opposta di quello delle scienze: è un
sistema comunicativo per attivare e utilizzare al massimo le risorse dell’intensionalità del linguaggio»31.
Doležel, dunque, sfrutta la nozione di intensionalità – che denota i contesti in cui i termini non possono essere sostituiti con altri termini coreferenziali salva veritate e in cui non si può operare alcuna generalizzazione
esistenziale. Doležel, ovviamente, cambia leggermente il significato di «intensionalità», in quanto non parla dell’impossibilità della sostituzione di
termini coreferenziali salva veritate – il che si spiega con il fatto che la letteratura non mira alla verità. Perciò Doležel insiste nel sostenere che nella
letteratura il significato del testo dipende anche dalla texture, dal materiale
linguistico usato e non si può sostituire nessuna parola del testo con un
termine coreferenziale senza cambiare il significato del testo stesso.
Questo aspetto ci permette di vedere che il valore cognitivo della letteratura è legato anche alla forma del testo. La letteratura ci induce a dirigere
l’attenzione (anche) sulla texture del linguaggio e così facendo ci svela il
funzionamento del linguaggio stesso. In questo modo essa può arricchire,
approfondire o rafforzare le nostre capacità linguistiche, mostrandoci non
solo le regole della grammatica, ma anche quali siano le espressioni adeguate per descrivere una determinata situazione – in altre parole, come le
espressioni linguistiche siano collegate con il mondo (fittizio) del testo – e
come queste espressioni siano collegate ad altre espressioni e alle azioni
(fittizie) dei protagonisti.
30
P. Bichsel, Il lettore, il narrare, in op. cit., p. 63.
L. Doležel, Heterocosmica: Fiction and Possibile Worlds, John Hopkins University Press,
Baltimore 1998, p. 138.
31
20
Tutto questo può sembrare banale in quanto pare suggerire solo che un
adolescente o uno straniero potrebbero approfondire le loro conoscenze
dell’italiano leggendo con attenzione le opere di Dante, Manzoni o Calvino. Ciò che vorrei sostenere, però, va ben oltre questo aspetto. Il lettore vede anche come il linguaggio sia intrecciato con altre pratiche sociali e con
il mondo – in questo caso, con il mondo finzionale del testo. Le implicazioni di questa tesi vengono alla luce a condizione che si sia pronti ad ammettere che il linguaggio non è soltanto un sistema formale di simboli, ma
una prassi sociale intrecciata con altre pratiche sociali che costituiscono la
nostra forma di vita, la nostra società e il nostro rapporto con il mondo fisico.
Si può illustrare questo punto con l’affermazione che la letteratura approfondisce le nostre competenze linguistiche non solo riguardo al livello
sintattico o semantico, ma anche rispetto al livello pragmatico del linguaggio. Il livello semantico non va oltre il semplice riferimento delle parole;
stabilisce quale parola sia adatta a designare una determinata persona o
azione o un determinato evento. Il livello pragmatico, invece, ha a che fare
anche con il modo in cui queste parole sono collegate ad altre pratiche sociali; il modo in cui alcuni enunciati implicano determinate azioni. Se, per
esempio, sentiamo urlare «Al fuoco! Al fuoco!», le parole da noi udite significano che c’è un incendio nell’edificio in cui ci troviamo. Sul piano
pragmatico, però, queste parole comunicano anche che è opportuno agire: è
meglio uscire, cercare rifugio in un luogo sicuro e aspettare che arrivino i
pompieri. L’enunciato contiene queste informazioni non a livello semantico, ma a livello pragmatico.
Questa distinzione non è rilevante soltanto sul piano linguistico, però.
Stanley Cavell ha introdotto una distinzione analoga a livello gnoseologico, fra conoscenza e riconoscimento32. Immaginiamo Tizio che si trova a
essere testimone di un grave incidente di macchina su una strada poco frequentata. Indubbiamente, questa persona apprende qualcosa: apprende che
su questa strada c’è stato in questo momento un incidente grave. Magari si
avvicina alle macchine distrutte per guardare e raccogliere ulteriori informazioni su ciò che è accaduto. Vede, per esempio, che ci sono due persone
ferite gravemente – e aggiunge un’altra proposizione alla ‘banca dati’ delle
sue conoscenze. Analizzando la situazione può anche arrivare alla conclusione più generale che la curva dov’è accaduto l’incidente è particolarmente pericolosa. Se Tizio si accontentasse del fatto che ha appreso qualcosa,
32
Cfr. S. Cavell, Knowing and Acknowledging, in Must We Mean What We Say? A Book of Essays,
Charles Scribner’s Sons, New York 1969, pp. 238-266. Il saggio è tradotto in questo fascicolo: cfr.
infra, pp. 99-132.
21
che è stato in grado di aggiungere delle proposizioni vere alla ‘banca dati’
delle sue conoscenze, diremmo che non ha colto un aspetto cruciale: il fatto
cioè che la situazione gli richiede di agire in un certo modo, di chiamare
l’ambulanza e prestare prontamente soccorso fino a che non arrivino i
dottori. Magari Tizio sa tutto ciò che c’è da sapere sull’incidente accaduto.
Ma se non accorre per dare aiuto alle persone ferite non dimostra una comprensione completa di ciò che è accaduto.
In un libro recente John Gibson sfrutta questa distinzione di Cavell per
suggerire che il valore cognitivo della letteratura consiste nel fatto che essa
può arricchire la nostra comprensione al livello del riconoscimento. Anche
se non può insegnarci niente su eventi realmente accaduti nel mondo attuale, può tuttavia mettere in evidenza quali corsi d’azione debbano essere
messi in atto in una situazione di un certo tipo, e quali implicazioni possa
avere un determinato corso d’azione. Ogni situazione, anche quella meno
drammatica, ci chiede di reagire in un certo modo. Conoscere una situazione in tutti i suoi dettagli non implica sapere che cosa si deve fare. La situazione è intrecciata con le nostre pratiche sociali, ci chiede di (re-)agire in
un certo modo. Una persona che non comprende questo aspetto può avere
tutte le conoscenze possibili sulla situazione in questione, ma ciò che le
manca è il livello del riconoscimento.
Romanzi che descrivono situazioni centrali della vita umana in modo
molto dettagliato non si limitano a dare una lista di fatti, ma mostrano anche come questi fatti siano intrecciati con le nostre pratiche sociali. Ci fanno capire che una certa situazione richiede un determinato comportamento.
A volte questo accade anche per via negativa, cioè descrivendo ciò che accade se tali richieste sono disattese da parte di qualcuno.
Il riconoscimento richiede proprio ciò che la letteratura può dare: una narrazione, una storia dell’attività umana […]. Il dono di Otello alla mente non consiste nel
fornirci conoscenza circa la parola gelosia, ma circa i modi in cui egli può incarnare questa parola, in cui la rende viva, e le dà forma, struttura, vitalità. Otello è
solo una finzione. Ma una finzione […] è capace, nondimeno, di darci una visione
del mondo. E […] nel darci questa visione, l’Otello non ci offre soltanto un riflesso del nostro mondo nella stessa forma in cui si presuppone ciò che già conosciamo. Otello ci restituisce questa conoscenza attraverso il teatro delle pratiche culturali e del comportamento umano33.
La letteratura ha il pregio di indagare in modo molto dettagliato casi esemplari di situazioni centrali nella vita umana. Grazie a essa anche un lettore che ha già vissuto l’esperienza della gelosia può vedere quali siano i
33
J. Gibson, Fiction and the Weave of Life, Oxford University Press, Oxford 2007, p. 114 s.
22
modi in cui si può reagire a una certa situazione e quali effetti derivino da
un determinato corso d’azione. Un manuale di psicologia può fornirci tutti
i dati scientifici connessi al fenomeno della gelosia che abbiamo a disposizione, citando statistiche sul comportamento delle persone in preda a questa emozione, descrivendo le loro reazioni corporee, e così via. Un testo
letterario questo non lo fa. Anziché fornire statistiche e presentare fatti generali collegati al fenomeno, un testo letterario analizza un singolo caso
particolare. In questo modo, però, riesce a dare vita al fenomeno, a coinvolgere il lettore e, così facendo, a dargli modelli di azione, che prima non
aveva, su come comportarsi in questo tipo di situazione.
L’approccio di Gibson sottolinea un punto cruciale: comprendere una
situazione significa andare al di là della mera conoscenza dei dettagli. Si
deve anche capire come si può e come si dovrebbe reagire se si ci trovasse
di fronte a una tale situazione. Si deve sapere quali sono i comportamenti
che la situazione richiede. Questo approccio è particolarmente adatto per
una certa categoria di testi: i testi narrativi, i romanzi, i racconti ecc. Esso
dovrebbe essere generalizzato (e lievemente modificato), però, se lo applicassimo non solo al contenuto, ma anche alla forma dei testi letterari. In
questo modo potremmo mostrare in modo più esplicito che anche testi non
narrativi hanno un valore cognitivo per il fatto che mostrano il funzionamento del linguaggio. Anche i testi non narrativi attirano l’attenzione del
lettore (anche) sul linguaggio stesso e allargano e approfondiscono così le
sue capacità linguistiche. I testi non narrativi realizzano questo compito in
modo più conciso. Una poesia sperimentale, per esempio, che trasgredisce
le regole della grammatica o della semantica, attira la nostra attenzione sulle regole stesse. Una metafora che unisce due espressioni che di solito non
possono essere coniugate invita il lettore a riflettere sul significato ordinario delle parole usate e sulle implicazioni legate a parole di uso quotidiano che spesso non notiamo più perché sono sempre sotto i nostri occhi.
In questo modo la letteratura ci può insegnare qualcosa di importante su
noi stessi. Il linguaggio è uno strumento che ci serve a descrivere il mondo
in un certo modo e ad interagire con gli altri. Una riflessione sul nostro uso
del linguaggio ordinario, quindi, ci permette non solo di capire come stanno le cose intorno a noi, ma anche di comprendere come vediamo il mondo, come lo rappresentiamo e quali aspetti di esso riteniamo rilevanti – e
quali trascuriamo. Impariamo, quindi, non solo come funziona questo strumento, ma anche come lo usiamo per rapportarci al mondo e di conseguenza comprendiamo meglio la nostra prospettiva sul mondo stesso. Vorrei, in
breve, suggerire che anche la letteratura non narrativa, specialmente la poesia, invita il lettore a fare ricerche grammaticali nel senso wittgensteiniano
del termine.
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Queste osservazioni mettono in luce un altro aspetto importante: se la
letteratura può insegnarci qualcosa, lo fa in un modo molto diverso dalle
scienze. Un trattato scientifico comunica delle proposizioni in modo diretto
e segue una struttura argomentativa: si presentano degli argomenti che portano il lettore ad accettare una determinata conclusione. Questa struttura argomentativa funziona, come ha notato Schopenhauer, come una trappola
per topi: se il lettore ‘mangia’ le premesse (e se l’argomento è valido), la
trappola si chiude in modo deduttivo – il lettore deve anche accettare la
conclusione34. La letteratura, invece, invita il lettore a riflettere. Uno scrittore può proporci una determinata prospettiva sul mondo, ma il lettore ha la
libertà di accettare o rifiutare l’offerta. Nessuno ci costringe a condividere
le opinioni espresse dall’autore, ma l’autore ci costringe a riflettere su ciò
che ha da dire. Questa riflessione porta il lettore ad acquisire una conoscenza più profonda, può trasformare pregiudizi vaghi che aveva già prima in
giudizi fondati. Così la lettura di testi letterari può rafforzare le nostre capacità di riflessione, allargare le nostre prospettive e aiutarci a comprendere meglio il punto di vista degli altri.
In questo articolo ho presentato vari argomenti volti a salvare l’intuizione che la letteratura ha un valore cognitivo. Ritengo questa strategia necessaria in quanto dimostra che non possiamo dare una sola risposta semplice
alla domanda concernente la rilevanza cognitiva della letteratura. Ogni testo comunica il suo messaggio a suo modo – e ci sono sicuramente testi in
cui il messaggio ha un valore trascurabile. La letteratura è un campo vasto
ed eterogeneo, e non dobbiamo aspettarci che esista un’unica strategia appropriata e applicabile a tutti i testi. Spero di aver mostrato, però, che la
letteratura non è un fenomeno di nicchia, un ornamento piacevole ma in
fondo inutile. Leggere testi letterari ci aiuta a riflettere, ci invita a vedere le
cose sotto una nuova luce, ci propone delucidazioni. Sta a noi accogliere o
meno queste offerte. Sono convinto, però, che il fatto stesso di prenderle in
considerazione, ci porti a fare un passo avanti mettendoci nella condizione
di affinare quella che Richard Eldridge chiama la nostra «libertà espressiva».
34
Devo questo riferimento a G. Gabriel, Zwischen Wissenschaft und Dichtung, “Deutsche Zeitschrift
für Philosophie”, 51, 2003, p. 421.
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