il margine 1 gennaio 2004

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il margine 1 gennaio 2004
IL MARGINE
avete rinnovato l’abbonamento?…
1 GENNAIO 2004
IL MARGINE
anno 2004
Paolo Ghezzi
3 Né estremisti, né moderati
Carla Pessina
7 Quindici milioni di mine.
Il “dopoguerra” in Afghanistan
Walter Nardon
14 I copisti ed il libro del mondo.
Bouvard e Pécuchet di Flaubert
Andrea Gallo
25 Il vangelo secondo Fabrizio
Maila Cappello
29 Il Cristo e la Chiesa degli “eretici”.
Hans Ehrenberg e il pensiero del dialogo
Eugen Galasso
36 Han Ryner: un simbolo e un sintomo
Mentre andiamo in stampa...
Chi è stato a Roma, all’assemblea di metà febbraio che ha dato il via alla “lista unitaria” in vista delle elezioni europee, ci racconta di un appuntamento affascinante, di
un’atmosfera convinta e convincente, di un momento nel quale i vertici dei partiti hanno (finalmente) superato una linea rispetto alla quale non potranno più tornare indietro.
L’evento può dunque essere considerato storico: un “contagio” che ha messo a contatto e fatto comunicare famiglie politiche diverse. Ciò avrà anche un risvolto “pragmatico”: ora il voto che intende semplicemente dichiarare la propria insofferenza nei confronti del secondo governo Berlusconi sa quale direzione prendere. In tutto ciò, forse
inevitabilmente, rimane una quota di ambiguità, in quanto l’operazione può apparire di
tipo ingegneristico, condotta dall’alto e da “neoconvertiti” che negli anni passati avevano avversato proprio quell’Ulivo che ora dicono entusiasti di sostenere. Speriamo che
possano nascere comitati di cittadini che diano profondità all’operazione (per ora non si
vede molto); speriamo che venga finalmente spiegato cosa significa essere “riformisti”;
e speriamo che si prenda una posizione chiara e netta su quella che è la questione veramente seria: l’uscita dell’Italia dalla guerra di George Bush.
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«Alta sui naufragi
dai belvedere delle torri
china e distante sugli elementi del disastro
dalle cose che accadono al disopra delle parole
celebrative del nulla
lungo un facile vento
di sazietà di impunità
sullo scandalo metallico
di armi in uso e in disuso
a guidare la colonna
di dolore e di fumo
che lascia le infinite battaglie al calar della sera
la maggioranza sta la maggioranza sta
recitando un rosario
di ambizioni meschine
di millenarie paure
di inesauribili astuzie».
2004 NUMERO 1
(Fabrizio De André, Smisurata preghiera, 1996)
Periodico mensile - Anno XXIV, n. 1, gennaio 2004 - sped. in a.p. - art. 2 comma 20/c Legge 662/96 - Fil. di TN.
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EDITORIALE
Né estremisti,
né moderati
Mensile
dell’associazione
culturale
Oscar A. Romero
Anno XXIV
OLTREFRONTIERA
Quindici milioni di mine
RILETTURE
I copisti e il libro del mondo
LIBRI
Il vangelo secondo Fabrizio
TESTIMONI
Il Cristo
e la Chiesa degli “eretici”
APPUNTI
Han Ryner:
un simbolo e un sintomo
Editoriale
Né estremisti, né moderati
PAOLO GHEZZI
l giorno di San Valentino, al Palalottomatica, è stata ritrovata l’euforia
(“il Manifesto” di domenica 15 febbraio ha titolato brillantemente “L’impero Romano”; sopra, la foto del tripudio ulivista intorno al faccione videoingigantito di Prodi in versione Grande Fratello [quello di Orwell, non quello di Mediaset]). Ma la questione che si pone ora all’elettore democratico può
essere riassunta in alcune domande: la Repubblica fondata dalla Costituzione
sta per essere (o è già stata) sloggiata de facto se non ancora de iure, da una Repubblica “premieristica” in cui il capo del governo ha poteri debordanti e scardinatori degli equilibri istituzionali? L’Italia rischia la deriva plebiscitaria?
Quello di Berlusconi è già un “regime” (nel senso forte del termine) o lo sta per
diventare? La società civile italiana non berlusconizzata (non solo gli apparati
del centro-sinistra, quindi) deve dunque mobilitarsi in una nuova resistenza?
I
“Democratici costituzionali”
Il dibattito, nella sinistra italiana, è aperto, ma rischia di scivolare in questioni nominalistiche (di “regime” si può parlare se e solo se...) poco proficue.
Più interessante del “come chiamarlo”, mi pare la discussione sul “che fare”, a
cui tra gli altri si sta dedicando con intensità, negli ultimi mesi, il quotidiano
“l’Unità”. Nell’editoriale di domenica 25 gennaio (“Estremisti e moderati”), il
direttore Furio Colombo – raffinato intellettuale-giornalista, ex uomo Fiat, ex
parlamentare diessino, ora guru della sinistra hard, odiato dai berluscones e
osannato dai girotondisti – ha evidenziato la trappola. E io – dalla lontana e non
sottomessa periferia dell’impero, l’ulivista Trentino-Alto Adige – la vedrei
così.
Il primo estremista è S.B. e la risposta all’estremismo non può essere il
moderatismo, ma un’opposizione radicale.
Se S.B. cita Goebbels per insultare la sinistra, è perché l’ha studiato, sa di
che cosa parla. Goebbels è stato il primo regista di comunicazioni politiche di
massa. Il dialogo tra il Leader e la Folla, come quell’altro sabato a un altro
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“pala” dell’Eur, era una specialità di Goebbels. Nei giorni della Memoria, può
essere utilmente ricordato che il 18 febbraio 1943 – mentre a Monaco di Baviera arrestavano i fratelli Scholl della Rosa Bianca per un volantino antinazista – al palazzo dello sport di Berlino Goebbels chiedeva all’orda di camicie
brune là schierate: «Wollt ihr den totalen Krieg?» [Volete la guerra totale?].
«Jaaaaaaa!» fu la tonante, unanime risposta. All’Eur, S.B. ha interpellato la folla, dopo avere nuovamente dichiarato guerra (d’amore, s’intende) ai fantasmi
del comunismo, più o meno allo stesso modo: «Vale la pena di proseguire
nel nostro cammino?» «Sìììììììììììììì», ha tuonato il popolo azzurro del Palaeur.
S.B. si presenta come un rivoluzionario estremista: come fa l’opposizione ad
essere “moderata”, e non “radicale”?
E dunque, è legittima e preziosa la linea di un giornale come “l’Unità” che,
grazie alla sua direzione, ai suoi giornalisti e ai suoi commentatori (incluse le
“Bananas” di Travaglio, che ci alimentano quotidianamente con la fatica e con
il fastidio della memoria), fa il controcanto “radicale” alle televisioni e ai giornali allineati al Premier nel promuovere campagne di intolleranza contro
chiunque osi opporsi al Verbo del Leader.
Attenzione: S.B. è un condottiero, in tedesco “Führer”, ma non il
“Führer”. La storia non concede reincarnazioni, e l’Italia del 2004 non è la Germania del 1933. S.B. è semmai un “Verführer”, un “Seduttore”, e la parola tedesca ci fa intuire una perigliosa parentela, non solo lessicale. Anche il Duce
seduceva.
Il regime non c’è ma il capo del governo progetta, con uno stile da regime, la revisione della Repubblica nata dalla Costituzione.
Penso che abbia ragione Sandro Viola: il regime (se per regime si intende
la dittatura e la sospensione dei diritti democratici e civili) non c’è, oggi, in Italia, perché alle opposizioni non è precluso il Parlamento, perché la magistratura – nonostante tutto – è ancora libera e indipendente, perché S.B. ha in mano
quasi tutte le televisioni, ma – obiettivamente – non dispone della maggioranza
della stampa quotidiana (anzi, bisogna ammettere che solo una percentuale inferiore al 20% della tiratura complessiva nazionale è esplicitamente filoberlusconiana). Il regime non c’è, ma S.B. sta cercando di costruire qualcosa che ci
assomiglia: non è un golpista dittatoriale, ma sta facendo di tutto per trasformare questa democrazia nata dall’antitotalitarismo in una Repubblica plebiscitaria
fondata sulla mistica dell’Uomo Nuovo, e del Mercato Liberato, e della Libertà
Restituita, e sulla sconfitta dell’immaginario Nemico Comunista. E se fosse solo
la mistica alla Baget Bozzo! Il progetto di S.B., l’abbiamo visto, è una scorciatoia carismatica verso un sistema fatto di leggi ad personas, di giustizia sotto tu-
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tela, di strapotere televisivo, di propaganda falsificatrice. Il regime non c’è, ma
per la salute della democrazia c’è da preoccuparsi lo stesso.
Né riformisti né rivoluzionari: democratici costituzionali.
Se S.B. è un rivoluzionario estremista camuffato talvolta da moderato, e se
la risposta all’estremismo forzista non può essere il moderatismo, anche la categoria del riformismo appare usurata e inadatta. Anche Tremonti e perfino Bossi si proclamano riformisti e propongono grandi riforme. Il problema è che le
riforme possono essere eversive dei valori costituzionali ad oggi vigenti e fondanti la nostra democrazia. E allora, mi piacerebbe che l’opposizione non si qualificasse come moderata-riformista, ma semplicemente come “democratica”.
Si potrebbe poi aggettivare: democratici anti-autoritari, anti-plebiscitari,
anti-nazionalisti (sia Forza Italia che Alleanza Nazionale il virus ce l’hanno
perfino nel nome), anti-berlusconiani come conseguenza logica. “Democratici
costituzionali”: ecco, se riferita alla nostra Carta repubblicana, mi sembra una
definizione più precisa, che identifica i non-berlusconidi senza neanche bisogno di un “anti”.
Spirito inflessibile e cuore tenero: un’opposizione “amorevole”.
Opporsi radicalmente al berlusconismo non significa affatto odiare istericamente, detestare visceralmente S.B. (e lo dice uno che ne percepisce in pieno la diversità “antropologica” rispetto ai propri maestri, modelli, punti di riferimento e compagni di strada), né i suoi amici, né i suoi elettori: anzi, una sana
opposizione non indulge in alcun modo al razzismo politico, e deve essere
umanamente rispettosa, o addirittura solidale con i milioni di fans che ripongono una commovente fiducia nel leader forzista, tanto quanto è politicamente
determinata nello svelare, anche ai loro occhi, i trucchi e gli inganni del berlusconismo. Detta con i vecchi catechismi, si può odiare il peccato (la tentazione
autoritaria, del regime teleplebiscitario), non quelli che, secondo l’opposizione, appaiono come i peccatori: né S.B. né alcuno dei suoi.
Sarà che sono appena trascorsi i giorni della Memoria, sarà che della Rosa
Bianca siamo innamorati, ma mi viene in mente il motto maritainiano che
Sophie Scholl, una di quegli studenti antinazisti di Monaco (ghigliottinata a 21
anni) tanto amava: «Bisogna avere uno spirito inflessibile e un cuore tenero».
Sì, proprio così: teneri, compassionevoli con l’uomo S.B. che sente il bisogno
di un lifting per resuscitare (e per sentirsi – come ha detto il suo dietologo –
“tecnicamente immortale”), ma altrettanto inflessibili nel denunciare il premier
che per quel lifting sparisce per un mese dal suo posto di comando istituzionale e con quel lifting sancisce il primato della politica dell’immagine sulla so-
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Oltrefrontiera
stanza della politica, dell’ipertrofia carismatica e degli interessi privati sul bene
della res publica. Affettuosi, teneri con i berlusconiani “che non sanno quel che
fanno”. Duri, inflessibili con le poco democratiche inclinazioni del berlusconismo.
Un Ulivo tenero e inflessibile
Se è così, la contrapposizione analizzata da Furio Colombo, forse, si può
aggirare. L’opposizione non dev’essere né moderata né estremista: può essere
anche moderata nei toni ma implacabile nella sostanza. Un Ulivo tenero e inflessibile, insomma: e forse così riuscirebbe a ricucire le sue rissose anime non
solo in vista e ad uso dei prossimi confronti elettorali; forse così potrebbe allargarsi “culturalmente” anche al di là delle liste e dei tricicli che sono gioiosamente confluiti nell’europrodianesimo, chissà se davvero coesivo, coerente e
coeso. Forse così i “democratici costituzionali” dovrebbero porsi (e non spaccarsi) anche sui grandi temi internazionali, a cominciare da quello della guerra. Dovrebbero riuscire a combinare un’attenzione com-passionevole, ma non
episodico-emotiva, bensì strutturale-permanente, nei confronti delle aree del
mondo dove la dignità umana è calpestata, insieme con una dura contestazione
del privilegiato strumento dell’ingerenza umanitaria che è ormai la guerra (preventiva o meno). Le menzogne di Bush e Blair rispetto all’Iraq svelano ancora
una volta l’intreccio perverso tra potere politico, industria militare, interessi
economici internazionali, servizi di intelligence, consenso interno e apparato
propagandistico. Il “dopoguerra” (in realtà, la seminagione e l’endemizzazione della guerra civile) in Iraq, con il suo altissimo prezzo di sangue e con tutte
le contraddizioni di un progetto democratico-occidentale inoculato nelle vene
di un Paese non democratico e non occidentale con la siringa dell’intervento armato, è lì a chiedere un superamento dei vecchi schemi, e una rifondazione
“costituzionale” a livello planetario, cominciando con ciò che resta dell’ONU.
Sembra chiedere troppo, ma in realtà è il minimo per immaginare un futuro sostenibile per il pianeta e vivibile per tutti i suoi abitanti. E anche su questo
macro-versante, oltre che sul micro-scenario della politica italiana, il pensiero,
le proposte, la prassi e lo stile dei “democratici costituzionali” dovrebbero esse■
re né estremisti né moderati: ma lucidi, radicali, coerenti e conseguenti.
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Quindici milioni di mine
Il “dopoguerra” in Afghanistan
CARLA PESSINA
Carla Pessina ha operato come medico anestesista a
Kabul in un ospedale di Emergency; questo è quanto ha
raccontato in un incontro organizzato da Pax Christi il 17
dicembre 2003 a Sesto San Giovanni, oratorio di San
Luigi della parrocchia di Santo Stefano. Revisione redazionale del testo a cura di Silvio Mengotto.
a pace ha un significato profondo, non significa solo assenza di guerra.
Il dopoguerra dovrebbe essere il periodo successivo alla guerra e che
precede la pace. Il dopoguerra che ho visto in Afghanistan è esattamente la guerra, che è stata ufficialmente dichiarata finita un anno fa. In realtà,
ciò che accade quotidianamente in Afghanistan è molto simile alla drammaticità irakena.
L
Kabul: macerie e tendopoli
Sono stata, con Emergency, in un ospedale di Kabul per circa tre mesi. A
nord della città c’è la base americana di Bogram, tristemente nota per la partenza dei suoi raid quotidiani di bombardieri ed elicotteri. Kabul è fatta solo di
macerie. Alcuni quartieri sono stati rigorosamente rasi al suolo. Il risultato finale è quello di avere circa due milioni di abitanti che vivono tra le macerie,
cioè in pezzi di casa dove mancano pareti, muri, tetti, pavimenti. In questa
realtà la popolazione viene aiutata con le tende fornite dall’ONU. La gente vive
in queste tende o in campi profughi costruiti fuori città e che raccolgono migliaia di migliaia di persone rientrate in Afghanistan e provenienti essenzialmente dal Pakistan. Tutte queste persone sono state richiamate dall’attuale governo con l’assicurazione del cessato conflitto e la promessa di lavoro e
ricostruzione del Paese.
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La realtà è che queste migliaia di persone rimpatriate si sono ritrovate senza una casa e alloggiate in questa splendida tendopoli, ma priva dei servizi essenziali. Non esistono bagni, non c’è acqua potabile, né esiste una rete fognaria, né alcun servizio di supporto, né assistenza sanitaria per i malati, né per i
bambini che hanno bisogno di andare a scuola. Il tasso di disoccupazione è del
100%. Mi aspettavo un dopoguerra con una situazione di ricostruzione, ho trovato una realtà di desolazione.
Dopoguerra? È una situazione priva di tutte le infrastrutture! L’Afghanistan, paese già molto povero, è stato ulteriormente impoverito da 25 anni
di guerre ininterrotte: occupazioni e bombardamenti internazionali, guerre
civili che si sono susseguite nel tempo. L’Afghanistan è una confederazione
di tribù tenute insieme in modo fittizio dopo la ritirata degli inglesi. Sono
state messe insieme tribù con storie diverse, culture e religioni diverse. Una
convivenza decisa dall’alto e a livello internazionale con lo scopo di edificare un unico Stato. Quando è stato necessario costruire uno Stato centrale
ogni tribù ha rivendicato l’egemonia esclusiva di comando e potere. Questo
non ha fatto altro che incrementare una serie di diatribe tra le varie tribù sfociate, a volte, in vere guerre civili. Venticinque anni di guerre hanno distrutto, in modo spaventoso, tutte le infrastrutture. In Afghanistan non è possibile fare i turisti. Spostarsi nel Paese è un’impresa difficilissima e pericolosa.
Emergency ci richiedeva di uscire solo, ed esclusivamente, per ragioni fondate. Tra i pericoli presenti, c’era anche quello di non ritornare a casa. Quello che ho potuto vedere è lo spaccato orientale del Paese, che corrisponde a
quello maggiormente massacrato dalle guerre e dove vive la popolazione più
povera.
Né strade, né elettricità, né telefoni, né scuole…
Tutto l’Afghanistan è privo di strade. Esiste un’unica strada asfaltata, da
Nord a Sud, ma cosparsa di buchi causati dai ripetuti bombardamenti susseguitisi nei vari conflitti. Questo produce una grande difficoltà di transito e un
spaventoso rallentamento della viabilità. I bombardamenti hanno distrutto tutti i ponti, poi ricostruiti utilizzando le carcasse dei carri armati coperti da lastre
di acciaio per poter transitarci sopra. Non esistono centrali elettriche. Una delle carenze maggiori del Paese è la mancanza di energia elettrica. Solo alcune
città, tra queste Kabul, sono dotate di corrente elettrica e solo in alcuni quartieri: ovviamente in quelli più ricchi o dove ci sono ospedali o dove risiedono
organizzazioni non governative, ma con un’erogazione di elettricità saltuaria,
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intermittente, mai regolare. Un fatto che condiziona la vita di tutti. Noi – come
questa sera – siamo abituati a stare in ambienti con la luce accesa, in Afghanistan
fuori città non esiste la luce elettrica. In ospedale più volte abbiamo dovuto arrangiarci con le torce d’emergenza perché, improvvisamente, cessava la corrente. Se non c’è corrente non c’è televisione, né si può ascoltare la radio. In
breve: non c’è comunicazione. Questo è un altro dramma del Paese. Nessuno
sa cosa succede in un altro paese, in un’altra regione o zona. Fuori Kabul non
arrivano notizie di alcun genere. Gli abitanti, quando si avvicinano a persone
che vengono da altre parti del pianeta sono piacevolissimamente sorpresi di sapere – per fare un esempio concreto – che nel mondo ci sono state migliaia di
persone che hanno manifestato contro la guerra in Afghanistan. Non esiste una
linea telefonica nazionale. I più fortunati possiedono telefoni cellulari, che funzionano a Kabul perché esiste un’antenna. Per chi è fuori città, sempre se è fortunato, deve usare quello satellitare.
L’80% degli afghani sono analfabeti perché, specie negli ultimi anni, le
scuole sono state chiuse, o distorte nelle loro capacità educative. Veniva selezionato un certo tipo di informazione. A tanti afghani non è stata insegnata né
la lettura, né la scrittura. A Kabul ci sono due quotidiani stampati: metà in lingua persiana – che è la lingua parlata nel Paese – e l’altra metà in inglese. Ma
sono giornali letti solo dagli occidentali perché la maggioranza della popolazione è analfabeta, non sa leggere. Una situazione che condiziona pesantemente l’informazione. Le persone fuori città non hanno neppure il “tam tam”
che li possa aiutare a capire ciò che sta succedendo in città, nel Governo, nel
Paese, nel mondo o, più semplicemente, nel paese vicino.
Quest’anno le scuole sono state riaperte. Ci sono stati programmi di aiuto
per gli studenti. In particolare, grazie ad una organizzazione di livello mondiale,
che ha deciso di aiutare i bambini regalando loro uno zainetto di plastica – molto carino – con un solo quaderno, una sola matita. Un corredo che deve servire
per l’intero anno scolastico! Si intuisce subito che, per bambini di seconda e terza elementare, sono quantità insufficienti per un intero anno scolastico.
… né sanità
Non esiste acqua potabile in nessuna parte del Paese, né in città, né fuori
città. Non esistono impianti fognari. Visitando la valle del Nord, una delle cose
che più mi hanno colpito è lo stato di denutrizione dei bambini. Pancioni gonfi che mi hanno ricordato quelli dei bambini africani. La spiegazione del fenomeno risiede nella disincentivazione dell’allattamento materno a favore di
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quello artificiale. È passato lo slogan: il latte artificiale occidentale è bello, è
buono, è “progresso”. Peccato che, insieme alla polverina del latte artificiale,
nessuno abbia detto alle mamme che l’acqua andava bollita, che nel latte artificiale non esistono gli anticorpi, né immuno-globine. In altri termini non esistono tutte quelle sostanze e difese che solo il latte materno contiene e può dare.
Le conseguenze sono state disastrose: denutrizione dei bambini per diarrea, parassiti intestinali, che hanno peggiorato ulteriormente la situazione. In Afghanistan la mortalità infantile è una delle più elevate del mondo insieme a quella
del Centro Africa.
Esiste un sistema sanitario pubblico con sei ospedali in tutto il Paese.
Tre sono a Kabul, uno nel Nord-Ovest confinante con l’Iran, un altro nella
zona di Kandahar, l’ultimo nel Sud-Ovest, verso il confine del Pakistan. Le
persone malate devono scegliere tra queste strutture dove farsi ricoverare.
Possono scegliere in base alla distanza, alla strada che devono percorrere o
in base alla struttura che li può accogliere. Ma gli ospedali afghani non hanno nulla. Mancano di medicine, di strutture diagnostiche, di farmaci che vengono importati tutti dal Pakistan (che vende prodotti di pessima qualità). Le
persone che non abitano in città per recarsi in ospedale ci impiegano da qualche ora sino a due o tre giorni. Questo significa che la maggioranza dei ricoverati hanno ferite da guerra, da arma da fuoco o sono ustionati. Chi sta genericamente male non usa andare in ospedale. Le patologie mediche del
cuore o dei polmoni sono le meno curate, perché gli afghani non se lo possono permettere!
L’ospedale di Emergency di Kabul ricovera solo feriti da guerra, quello
della valle del Nord del Panshir ricovera anche quella parte di popolazione che
necessita di una medicina di base. È stato aperto un centro di ostetricia e ginecologia per l’aiuto alle donne partorienti. Un altro dramma del Paese è che le
donne incinte non si fanno visitare e partoriscono in casa. Sotto certi aspetti
hanno ragione perché dovrebbero raggiungere questi ospedali dopo un cammino massacrante nelle mulattiere tra i dirupi delle montagne. La gente se sta
male non può raggiungere niente.
In questo contesto il governo sta tentando di privatizzare la sanità. L’obiettivo è alquanto ridicolo, si commenta da solo. Ci domandiamo: che cosa
vuole privatizzare, se non esiste nulla? Non esistono campagne di prevenzione.
Noi occidentali vacciniamo i nostri bambini, ma in Afghanistan non esiste questa mentalità, prospettiva o possibilità. In Occidente le donne incinte vanno a
fare l’ecografia, in Afghanistan la donna incinta non solo non si fa visitare, ma
molte volte partorisce in strada. Sul burka delle donne si sono fatte false aspettative: la realtà è che oggi tutte le donne afghane portano il burka.
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L’unico diritto: una mina a testa!
Altro grande problema sono le mine anti-uomo. In Afghanistan sono circa quindici milioni, e quindici milioni sono gli abitanti. Significa che ogni abitante ha la sua mina. Sul cammino se ne incontrano veramente tante. Nella mia
missione afghana ho passato tre mesi portando in sala operatoria bambini, nel
tentativo di riparare i danni provocati da un Paese che vive una situazione di
pace. Danni che sono fatti da un’arma assolutamente intelligente. Una cosa che
non stancherò mai di ripetere: ho capito il termine usato nel definire, ai tempi
della prima guerra contro l’Iraq, la guerra intelligente, i bombardamenti intelligenti o chirurgici. Le mine anti-uomo producono un elevatissimo numero di
persone handicappate. Sono disseminate sui campi dagli aerei, quando toccano il terreno non esplodono, ma solo quando vengono calpestate. Le mine hanno una durata di centinaia di anni, cioè non si deteriorano.
Un paese come l’Afghanistan, disseminato di mine, potenzialmente continua uno stato di guerra per altri centinaia di anni, sino a quando non verranno
tolte tutte le mine presenti. Chiunque cammini su un campo minato lo fa a suo
rischio e pericolo. Ci sono gli sminatori ufficiali e una serie infinita di sminatori “volontari”, che sono gli abitanti del paese. Questo perché gli abitanti cercano, in tutti i modi, di coltivare piccoli campi per un minimo di sussistenza e di
pastorizia. Molti sono coscienti dei rischi che corrono. Ho chiesto agli anziani
perché rischiavano così tanto la loro vita. La risposta è stata ovunque unanime:
«dobbiamo pur in qualche modo ricominciare da qualche parte». La gente sta
tentando di riprendersi pezzetti della propria terra, della propria vita e storia
camminando sopra i campi minati. In Afghanistan i bambini lavorano e quindi
anche loro seguono il padre, il nonno, nei campi minati, oppure vanno sui campi perché, come tutti i bambini del mondo, desiderano giocare e correre.
In Afghanistan ci sono grandi aree segnate da sassi rossi e bianchi, che indicano la presenza di campi minati. Queste segnalazioni sono lunghe chilometri e chilometri. La mina colpisce essenzialmente gli arti inferiori: piedi, gambe, organi genitali o le mani e il viso, se vengono sollevate dal terreno. Sono
molte le persone che perdono anche la vista. Tra questi feriti qualcuno muore,
ma tantissimi diventano handicappati, economicamente improduttivi. Una persona priva di gambe, vista, mani è una persona non produttiva. In Occidente un
handicappato, pur ricevendo una pensione, un sussidio, fa fatica a vivere. Pensate in Afghanistan dove non c’è nulla: non c’è economia, assistenza, sussidi.
C’è una popolazione di mutilati, cioè una popolazione di non produttori economici. In fondo è una pulizia etnica strisciante. È un popolo di handicappati e
ignoranti perché non aiutati a migliorare le loro capacità di conoscere, di mi-
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gliorare la loro cultura, la loro scolarizzazione. È un popolo di malati perché
metà della popolazione, vivendo in tende, ha compromessa la salute.
Nel mondo ci sono circa 110 milioni di mine, il 30% sono state fabbricate in Italia. Una cosa di cui ci dobbiamo vergognare! Mi sono rinfrancata un
poco sapendo che l’Italia, avendo aderito al trattato di Ottawa, ha smesso di
produrre mine anti-uomo l’anno scorso, distruggendo completamente tutte
quelle prodotte negli anni precedenti. Ma nei depositi mondiali si parla di una
giacenza di 200 milioni di mine. Nel 2001 sono stati spesi circa 140 miliardi di
dollari per produrre armi. Senza contare le guerre, che hanno incrementato ulteriormente la produzione. Questo significa che la cifra data è sottostimata. Per
costruire una mina anti-uomo, secondo il tipo, si spende da 3 ai 30 dollari. Per
rimuovere una mina anti-uomo si spende dai 300 ai 1000 dollari. Una recente
stima dice che, per rimuovere tutte le mine sparse nel pianeta, occorreranno
mille anni. Non esiste un’anagrafe delle mine. In alcuni Paesi, dopo la posa con
bombardamento aereo delle mine, sono state realizzate delle piantine indicando solo il numero complessivo delle mine gettate. In altri Paesi questo non è
stato fatto, si sono susseguiti nuovi passaggi legati a guerre diverse, il risultato
è quello di avere zone minate a strati.
Persone, bambini, aquiloni
Una delle cose più belle che ho incontrato sono state le persone, oltre ai
panorami, che l’Afghanistan offre come uno degli spettacoli della natura tra i
più fantastici. Ogni volta che sento parlare di questi paesi musulmani mi arrabbio perché il commento è sempre negativo. Questo non è giusto. Hanno una
religione, una storia, una cultura diverse dalle nostre, ma è una popolazione di
persone assolutamente uguali a noi. Gli estremismi religiosi, con i loro fondamentalismi, non hanno nulla in comune con la religione islamica e la popolazione musulmana. L’afghano è un popolo estremamente accogliente. Sono stata accolta da donne che non sapevano neanche chi fossi. Potevo essere una
terrorista, ma loro hanno accolto una straniera così come si è presentata. Ho incontrato persone che avevano voglia di stare con gli altri, di imparare. Sono
persone felici di incontrare altre persone che desiderano aiutarle.
I bambini sono fantastici! La gioia con la quale i bambini afghani riescono a vivere, in mezzo a questa miseria e devastazione, è incredibile. Bambini
che giocano con una sola cosa: gli aquiloni. Uno dei pochi divertimenti che ho
visto in Afghanistan. Gli aquiloni erano stati proibiti dai talebani (la polizia religiosa), non si capisce bene il motivo. Gli aquiloni che volavano nell’altopia-
12
no di Kabul dove, all’aurora e al tramonto, soffia un vento spaventoso: era uno
spettacolo meraviglioso vederli librare nel cielo terso e azzurro. Un’espressione di gioia fantastica. In ospedale i bambini ci regalavano le arance, che noi davamo loro come pasto, quale gesto di riconoscenza per le cure ricevute. I bambini avevano solo arance! Pensate quanto è grande la gioia, la voglia di
ringraziare.
Progresso frustrante
Con Emergency abbiamo aperto un reparto di terapia intensiva a Kabul,
un’impresa molto faticosa. Noi siamo abituati a vedere i nostri ospedali e molti pensano che il mondo sanitario nel pianeta sia fatto così. Immaginatevi invece un posto dove non c’è luce, fognatura, acqua potabile, né ossigeno – in
Afghanistan la fabbrica che produce ossigeno ha riaperto a maggio – dove non
esiste un’apparecchiatura per fare una TAC. Gli unici ad avere queste attrezzature erano le forze internazionali di pace le quali, purtroppo, non hanno dato la
possibilità di usare queste attrezzature a nessuno, né alle organizzazioni non
governative, né agli ospedali di Kabul. Abbiamo fatto fatica perché culturalmente ti trovi in un passato di cinquant’anni fa.
Abbiamo portato in Afghanistan innovazioni fantastiche, che finalmente
possono curare pazienti gravi, ma gli afghani non sono in grado di usare queste nuove tecnologie perché non le conoscono. Questo succede perché ci dimentichiamo che ciò che la tecnologia avanzata offre nei nostri Paesi occidentali non sempre è utilizzabile in quelli del terzo mondo ai quali mancano le
infrastrutture. Mancano la mentalità, la capacità, la cultura scientifica e l’educazione per poter usare queste attrezzature moderne. Tutto questo significa frustrare una popolazione due volte: non diamo queste attrezzature, se le diamo
non sono in grado di poterle usare. Perché, come Occidente, abbiamo tenuto i
Paesi del Sud del mondo nell’ignoranza e abbiamo regalato agli afghani quin■
dici milioni di mine?
13
Riletture
I copisti ed il libro del mondo
Bouvard e Pécuchet di Flaubert
WALTER NARDON
ell’agosto del 1874, cominciando a scrivere l’odissea di due copisti
attraverso le varie discipline del sapere, Flaubert si era proposto di redigere l’inventario della stupidità umana, un tema che – come è noto
– lo accompagnava come un’ossessione fin dalla giovinezza, dalla redazione de
Una lezione di storia naturale: genere commesso, del 1837 1. Il romanzo doveva seguire l’apprendimento di due sciocchi impiegati a riposo, due scolari fuori stagione che cominciano a studiare animati da un’improvvisa passione enciclopedica, simile per molti aspetti a quella di don Chisciotte per i libri di
cavalleria. Quel che però nello sviluppo del progetto si sarebbe rivelato paradossale è che, mentre i due avanzano per i campi vestiti da archeologi o da botanici in erba, manifestando quindi tutto il ridicolo che li copre, le loro guide, i
manuali cui attribuiscono la massima autorevolezza si mostrano sempre più lacunosi, incompleti, privi di fondamento. Sembra quasi che questi testi, cui è deputata la trasmissione del sapere, rappresentino non tanto la memoria culturale di un’epoca, quanto il suo contrario, il residuo inutilizzabile, quel che
andrebbe scartato. I due copisti passano così di delusione in delusione.
Nel suo celebre studio su Flaubert, Albert Thibaudet faceva risalire i motivi
ispiratori di Bouvard e Pécuchet alla giovinezza dello scrittore, quando questi si
arrampicava con la sorella minore sul balcone della casa per guardare attraverso
il vetro quel che succedeva nella sala di dissezione dove operava il loro padre, il
famoso chirurgo. In questo modo – secondo il critico – con lo stesso sguardo molti anni dopo lo scrittore sarebbe andato ad osservare le varie scienze, esaminate
una dopo l’altra nel loro residuo inservibile, posto sopra il tavolo di dissezione.
N
«La prima frase, che si affretta ad inviare alla nipote, viene scritta il 1° agosto 1874»,
B. NACCI, Introduzione, in Bouvard e Pécuchet, Milano, Garzanti, 1991, p. XIV. Per le origini del
romanzo, cfr. LEA CAMINITI PENNAROLA, Nota ai testi in G. Flaubert, Dizionario dei luoghi comuni. Catalogo delle idee chic, Milano, Rizzoli, 1996, p. 10; A. THIBAUDET, Gustave Flaubert, Paris,
Gallimard, 1935, pp. 218-219.
1
14
La scrittura e la memoria del sapere
La concezione della scrittura quale principale mezzo di trasmissione del
sapere viene ad imporsi nel periodo compreso fra la Sofistica e Platone, dopo
aver superato numerose diffidenze e opposizioni che testimoniano la difficoltà,
il disagio che caratterizza il passaggio dalla cultura orale a quella scritta 2.
Come gli specialisti hanno ricordato, benché lo stesso Platone sia il primo filosofo del quale ci sia pervenuto il corpus delle opere pressoché completo, nel
suo pensiero l’atto di trasmissione orale, le dottrine non scritte rappresentano
ancora una parte determinante dell’insegnamento.
A partire da quest’epoca la parola scritta si afferma con eccezionale forza,
senza incontrare ostacoli, come supporto indispensabile per la memorizzazione della tradizione culturale, tanto che per così dire dall’altra parte, quella di
chi scrive, essa viene progressivamente ad essere concepita non più quale supporto mnemonico, ma quale vero e proprio “distillato del pensiero”, come arriverà a dire Milton 3. La forma di dialogo fra generazioni che si svolge per mezzo dei testi, questo “fatto spirituale” attraverso il quale il lettore interpreta il
presente – come scrive la Assmann, citando Gadamer – non è stato però e non
è privo di incertezze, di pericoli, di aspetti che suscitano una profonda disillusione riguardo la stessa possibilità di trasmissione della conoscenza.
Una forte perplessità trova spazio nella riflessione culturale a due secoli
dall’invenzione della stampa, proprio l’invenzione che doveva decretare il
trionfo della parola scritta. Se infatti, prima del suo avvento, la fragilità costitutiva della scrittura riguardava soprattutto il supporto materiale sulla quale
essa veniva fissata, ed il numero, relativamente esiguo, di manoscritti che testimoniavano la stabilità di un testo, con la diffusione dell’attività editoriale la
minaccia prende un’altra forma, forse non meno insidiosa, quella della dispersione, della caduta del testo nell’indifferenziato fluire dei fogli che escono sempre più copiosi dalle stamperie dei tipografi.
Robert Burton nel 1621 avvertiva l’insorgere di un processo per cui «non
si scrive più per amore della sapienza e della cultura, ma per vanagloria, necessità e sete di guadagno e per bassa adulazione» per cui «quelle che si pubblicano sono sciocchezze, futilità e insulsaggini (“trifles, trash, nonsense”) 4».
2
A. ASSMANN, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, Bologna, Il Mulino,
2002. L’oralità conserva a lungo uno spazio di rilievo: fino all’età di S. Agostino, la lettura sarà un
atto da compiersi ad alta voce. Cfr. G. CAVALLO, R. CHARTIER, Storia della lettura nel mondo occidentale, Roma-Bari, Laterza, 1995.
3
Cfr., A. ASSMANN, Ricordare, p. 218.
4
Cfr. R. BURTON, Anatomia della melanconia, citato da A. Assmann, Ricordare, p. 223.
15
Questo processo di crescita esponenziale della produzione libraria, che nell’epoca successiva non avrebbe conosciuto tregua, porta nel corso del Settecento
a spostare il centro dell’attenzione dalla tecnica di registrazione della parola, o
dal supporto materiale che la conserva, al rapporto fra i due soggetti che mettono fisicamente in atto la comunicazione scritta, la trasmissione del sapere,
ovvero, al rapporto fra l’autore e il lettore.
Nell’Epistola dedicatoria a Sua Altezza Reale il Principe Posterità che
compare nella Favola della botte del 1710, Jonathan Swift lascia intendere che
la sopravvivenza di un testo si realizza, oltre che con una lotta contro il tempo,
in un’alleanza con i futuri lettori (almeno finché la lingua in cui si scrive non
avrà subito grandi alterazioni). Le produzioni librarie, infatti, si succedono senza posa:
«Quando iniziai a progettare questa dedica, avevo preparato una copiosa lista di titoli da presentare a Vostra Altezza, quale prova incontestabile di quanto affermo.
Gli originali delle opere erano esposti, freschi di stampa, sulle soglie e agli angoli
di strada; ma tornando poche ore dopo, per passarli in rassegna, trovai che tutti erano già stati spazzati via, ed altri nuovi messi al loro posto. M’informai su di essi
presso lettori e librai, ma invano: la loro memoria era andata persa tra gli uomini;
i loro luoghi d’origine erano introvabili» 5.
Il continuo proliferare di testi minaccia, più di quanto il tempo non possa
sulla stessa materia della scrittura, sia la trasmissione del sapere, sia l’aspirazione all’immortalità, illusione che i poeti hanno sempre coltivato – con l’ammirevole fiducia del motto oraziano – fin dall’antichità. Solo una forma di rispetto, di solidarietà culturale fra generazioni, può per Swift sottrarre la
scrittura all’oblio.
In uno dei primi, grandi paradossi dell’epoca moderna, la sovrabbondanza della scrittura rende quindi illeggibile il Libro del mondo verso il quale essa
era stata rivolta, o torna a renderlo parzialmente inaccessibile, in modo diverso
ma in misura simile a quella delle sententiae delle Auctoritates che lo sottraevano allo sguardo dell’indagine sperimentale.
A partire dal Settecento la sopravvivenza della memoria culturale deve
fare i conti con la consapevolezza della dispersione delle parole, dei dati, del
lavoro dell’oblio, con la convinzione – nuova in quest’epoca – che i testi non
hanno potere immanente se non a patto di una rilettura continua.
Certo, per non eccedere in parzialità nell’analisi va ricordato che, pur incontrando alcune difficoltà, in quest’epoca è diffusa la fiducia nella possibilità
5
16
J. SWIFT, La favola della botte, Torino, Einaudi, 1990, p. 26. Cfr. A. Assmann, Ricordare, p. 224.
della trasmissione del sapere e nell’intelletto quale misura e giudice di questa
sovrabbondanza; ma non è un caso che l’età dell’Encyclopédie, quella del sunto essenziale delle conoscenze dell’uomo, sia la stessa in cui si avverte tanto
pesantemente la loro dispersione.
In Bouvard e Pécuchet, poco più di un secolo dopo, non solo questi parametri di trasmissione della cultura appaiono compromessi, ma viene posto in
questione lo stesso procedere della conoscenza 6. I due poveri copisti, intraprendendo un’educazione intellettuale dagli esiti non meno sconfortanti di
quella sentimentale di Frédéric Moreau sperimentano, senza davvero scoprirlo
fino in fondo, che nella sovrabbondanza di testi non esiste più una scrittura comune (che tutti leggono), e che non sopravvive neppure un linguaggio comune
nel sapere. Il loro continuo, ossessivo passaggio da una disciplina all’altra
esprime non solo questo disagio, ma anche il desiderio di qualcosa che si opponga ad una conoscenza imperfetta, progressiva, stratificata.
Per questo la memoria dei personaggi dell’ultimo romanzo di Flaubert
sembra ridursi, di avventura in avventura, alla memoria del loro fallimento.
I linguaggi, l’apprendimento, la delusione
L’inizio del romanzo, in apparenza ordinario, ma già venato d’assurdo, è
fra i più noti. Lungo il Viale Bourdon, a Parigi, in un pomeriggio domenicale
particolarmente afoso, due uomini di mezza età camminano lentamente, l’uno
proveniente dalla Bastiglia, l’altro dall’Orto botanico; giunti a metà della via si
siedono, nello stesso istante, sulla medesima panchina. Qui, dopo essersi scoperti il capo per il gran caldo, ciascuno scorge una singolare coincidenza nel
vedere il nome del vicino scritto all’interno del suo cappello.
«To’!» disse, «abbiamo avuto la stessa idea, quella di scrivere il nome nel copricapo».
«Si capisce. Potrebbero prendermelo in ufficio!»
«Pure a me, anch’io sono un impiegato» 7.
Questo primo discorso diretto, che confonde i soggetti (non è infatti indicato chi dei due pronunci l’una frase e chi l’altra), questo suggello di un’amicizia può forse suggerire il segno di una comica diffidenza nei confronti del
6
«Con la sua disperazione per l’impossibilità di portare a termine checchessia, Bouvard et
Pécuchet è la negazione della fiducia mattutina e della speranza esposte nell’Encyclopédie»: L. TRILLING, Il testamento di Flaubert, in G. FLAUBERT, Bouvard e Pécuchet, Torino, Einaudi, 1964, p. XII.
7
G. FLAUBERT, Bouvard e Pécuchet, Milano, Garzanti, 1991, p. 3.
17
mondo, un appello alla scrittura quale estrema risorsa per appropriarsi delle
cose. Proprio la fede nelle facoltà della scrittura, la fede nella possibilità che
essa conduca ad un’interpretazione definitiva dei fenomeni avvicina i due copisti, tanto da rivelarne un’affinità che andrà a condurli attraverso una gigantesca ed involontaria impresa di verifica del sapere umano. Non tanto un’impresa enciclopedica, come invece si rivelerà, se vista a posteriori, ma la ricerca
deludente ed inesauribile di una posizione fondata, incontrovertibile, in qualsiasi campo ne indichi la via. La situazione storica dell’espansione editoriale,
come detto, non può che rendere questo itinerario più accidentato.
Ritiratisi in campagna grazie ad un’inattesa eredità che tocca a Bouvard, i
due amici intraprendono lo studio dilettantesco – tanto accanito, quanto più approssimativo – di varie discipline. Borges le ha elencate sommariamente:
«Agronomia, giardinaggio, la preparazione di conserve, l’anatomia, l’archeologia, la storia, la mnemotecnica, la letteratura, l’idroterapia, lo spiritismo, la
ginnastica, la pedagogia, la veterinaria, la filosofia, la religione».8 Si potrebbe
rivedere l’elenco inserendovi pure la politica, la concezione dell’amore, la
grammatica, l’ipnosi, la rabdomanzia, il diritto, l’urbanistica.
I due copisti affrontano questi studi in un modo che non cambia nel corso
del libro e che potrebbe essere descritto attraverso alcune fasi. Nell’affrontarle
riprendo, modificandolo in buona parte, lo schema proposto da Bruno Nacci 9:
entrambi non possono soffrire che una scienza sia, fatte delle rapide verifiche,
priva di fondamento, che non descriva un insieme chiuso, come avrebbe ben dimostrato Gödel nel corso del Novecento, formulando questa insufficienza in un
teorema.
La grande importanza di Bouvard e Pécuchet, dal punto di vista della storia del romanzo, è quella di aver mostrato con evidenza che l’espressione di una
totalità chiusa in se stessa non è possibile, né a partire dall’interiorità, come voleva la stagione romantica, né volgendosi verso l’esterno, verso l’universo della conoscenza, cui si riferiva con eccessiva fiducia la tendenza naturalista. L’arte del romanzo, l’immaginazione letteraria, a partire da quest’epoca avrà
sempre maggior bisogno di documentarsi, di accogliere elementi extraletterari
– di ritornare, in fondo, ad alcune celebri prove del Settecento o del Cinquecento – non potrà più confidare nell’illusione di un fondamento scientifico applicato al suo operare.
Per dare un saggio del testo, vale la pena di seguire l’episodio dello studio
della chimica, nel quale sopravvive ancora, come in tutta la prima parte, un forte accento comico, che nei capitoli seguenti lascerà il posto al tono sconcertante della parodia, o per meglio dire, del “grottesco triste”, come lo aveva definito Thibaudet 10. Qui il processo si può facilmente scandire nelle fasi esposte
poco sopra.
1. i due amici avvicinano con fervore una disciplina;
2. si documentano: cercano opere di carattere generale, poi manuali specialistici;
3. in un primo momento l’esperienza li conduce a registrare alcune regolarità, già incontrate nello studio teorico; poi, nel momento in cui si tratta di verificare le prime eccezioni, non potendo operare una sintesi cercano soccorso nei
testi, ma nessun manuale li conforta: nessuno interpreta il dato concordemente,
ciascuno fonda la disciplina a modo suo (in un ambito extradisciplinare);
4. Non riuscendo a trovare un fondamento, esasperati dall’incompiutezza
di una disciplina, ne ricercano una più salda.
«Per conoscere la chimica si procurarono il trattato di Regnault, e per prima cosa
impararono che “i corpi semplici forse sono composti”.
Si dividono in metalloidi e metalli, una differenza, come dice l’autore, che non è
“per niente assoluta”. Così per gli acidi e le basi, “potendo un corpo, a seconda delle circostanze, comportarsi come un acido o come una base”. I simboli della chimica parvero loro bizzarri. Le polivalenze turbarono Pécuchet.
“Dal momento che la molecola A si combina, suppongo, con diverse parti di B, mi
sembra che questa molecola debba dividersi in altrettanti parti; ma se si divide, non
è più un’unità, la molecola primitiva. Dunque, non capisco”.
“Neppure io!”, diceva Bouvard.
Fecero ricorso a un’opera meno difficile, quella del Girardin, da cui ricavarono la
certezza che dieci litri d’acqua pesano cento grammi, che nelle matite non c’è
piombo, che un diamante non è altro che carbone.
Ma ciò che li stupì maggiormente fu che la terra, come elemento, non esiste.
Impararono a usare la fiamma ossidrica, l’oro, l’argento, la liscivia del bucato, la
stagnatura dei tegami; quindi, senza la minima esitazione, Bouvard e Pécuchet si
lanciarono nella chimica organica.
Quel che sconcerta i due copisti è che il momento normale della scienza
sia quello critico, quello in cui il paradigma viene contestato, il momento in cui
una teoria si scopre insufficiente, ma non ancora al punto da essere soppiantata da un’altra. Bonariamente scettico Bouvard, incline al fanatismo Pécuchet,
8
9
18
J. L. BORGES, Difesa di Bouvard e Pécuchet, in Discussione, Milano, Adelphi, 2001, p. 131.
B. NACCI, Introduzione, in Bouvard e Pécuchet, p. XV.
10
A. THIBAUDET, Gustave Flaubert, p. 215.
19
Quale sorpresa nel ritrovare presso gli esseri viventi le medesime sostanze che
compongono i minerali. E tuttavia avvertirono una specie di umiliazione all’idea
che il loro corpo conteneva fosforo come i fiammiferi, albumina come il bianco
dell’uovo, idrogeno come i lampioni del gas.
Dopo i coloranti e i corpi grassi, toccò alla fermentazione.
Questa li riportò agli acidi, e la legge delle polivalenze, ancora una volta, li mise
in difficoltà. Tentarono di spiegarla con la teoria degli atomi, dove si persero definitivamente.
Per venire a capo di tutto ciò, secondo Bouvard, ci sarebbero voluti degli strumenti. Occorrevano molti soldi, e ne avevano spesi anche troppi.
Il dottor Vaucourbeil li avrebbe certo consigliati.
Si presentarono all’ora delle visite.
“Avanti, signori, vi ascolto! Di cosa soffrite?”.
Pécuchet rispose che non erano malati, e spiegò il motivo della loro visita:
“In primo luogo, noi vorremmo conoscere la teoria atomica superiore”.
Dopo essere arrossito violentemente, il medico biasimò il loro desiderio di apprendere la chimica.
“Non nego la sua importanza, credetemi! Ma oggi la ficcano dovunque! Essa esercita sulla medicina un’azione deplorevole”. La vista di tutto ciò che lo circondava
sembrava accrescere l’autorità delle sue parole.
Dal camino pendevano bende e impiastri. In mezzo alla scrivania l’astuccio dei ferri.
In un angolo una bacinella piena di sonde, e sul muro l’immagine di uno scorticato.
Pécuchet si complimentò con il dottore.
“L’anatomia deve essere un gran bello studio!”» 11.
In un saggio su questo episodio uno studioso giapponese, Mitsumasa
Wada, ha mostrato come i due copisti ignorino la garanzia di scientificità della
chimica e di tutte le discipline metodologicamente impostate, vale a dire il carattere ipotetico delle conoscenze acquisite 12. Il critico ha messo in luce che ciò
che trattiene Bouvard e Pécuchet dall’abbandonarsi alla scienza è l’ambiguità
del linguaggio, che loro intendono nel registro quotidiano, tanto che la divisibilità di una molecola ai loro occhi ne annullerebbe la stessa nozione. Lo studioso giapponese (come pure Alberto Cento, citato in questo contributo) riportando poi l’indagine sull’insufficiente livello di competenza chimica dello
stesso Flaubert, sembra seguire una ricerca che tutt’al più riguarda la genesi
dell’opera, non il suo risultato. Certo è che il problema della concezione del linguaggio scientifico si rivela centrale.
In un’intervista su questo libro concessa a “Magazine littéraire” nel 1976,
Roland Barthes parlava di Bouvard e Pécuchet come di un romanzo in cui l’Enciclopedia è considerata sotto la luce della derisione, della farsa, una farsa che
però nasconde qualcosa di molto serio, ossia il fatto che in quest’epoca «all’enciclopedia dei saperi succede un’enciclopedia dei linguaggi» 13. Per questo
– proseguiva il saggista francese – il tono del libro rimane incerto: «non si sa
mai se è serio o se non lo è».
La comicità del libro nella seconda parte si fa sempre più ambigua, tanto
che non si intende più in che misura i due si comportino davvero come degli
sciocchi (in particolare quando la loro povera velleità finisce per smascherare
in modo drammatico i limiti della condizione umana).
Il rovesciamento che spesso nella seconda parte ha luogo fra i due copisti
ed i loro rari “interlocutori” – dove sono questi a mostrarsi campioni di stupidità – si esprime in scene memorabili. Nel confronto teologico e dottrinale con
l’abate Jeufroy, in questa parodia del dialogo che ha luogo nel bel mezzo dello
studio della religione, ad un certo punto Pécuchet sbotta, con grande padronanza retorica: «Se il valore del martirio dipende dalla dottrina professata,
come può servire per dimostrarne l’eccellenza?» 14.
I successi dei due sono però del tutto precari. Non potendo contare su una
disciplina che riconoscono fondata, il passaggio da una scienza all’altra non lascia loro alcuna memoria positiva, sicché – come detto – si ricordano soltanto
dei loro errori, delle loro sconfitte. D’un tratto, un atteggiamento del tutto inatteso si impadronisce di loro: non tollerano più la stupidità. «Si rattristavano per
cose insignificanti: la pubblicità su un giornale, il profilo di un borghese, un’osservazione sciocca che ascoltavano per caso» 15.
Tornando verso i campi, forse l’unico luogo che li vede davvero felici, nel
corso di una lunga passeggiata scorgono la carogna di un cane. È uno dei rari
momenti in cui la morte fa capolino in un romanzo nel quale, apparentemente,
non accade nulla di rilevante, un romanzo in cui le avventure sono per lo più di
carattere intellettuale. Da questo punto in poi la comicità che all’inizio poteva
ancora interessarli lascia del tutto il posto al grottesco.
G. FLAUBERT, Bouvard e Pécuchet, Milano, Garzanti, pp. 54-55.
Cfr. M. WADA, L’épisode de la chimie dans Bouvard et Pécuchet de Flaubert, ou comment
narrativiser une ambiguité scientifique, “Etudes de langue et littérature françaises”, n. 70, Societé
Japonaise de langue et littérature francçaises, Tokyo, 1997 (reperibile in formato pdf al sito del
Centro Flaubert dell’Università di Rouen: www.univ-rouen.fr/flaubert, p. 4 del testo).
13
R. BARTHES, La crise de la vérité. Entretien avec Roland Barthes, Propos recueilles par
Jacques Brochier, “Magazine littéraire”, n. 108, Janvier 1976 (p. 1 del testo riprodotto nel sito web
www.magazine-litteraire.com).
14
G. FLAUBERT, Bouvard e Pécuchet, p. 238.
15
G. FLAUBERT, Bouvard e Pécuchet, p. 211.
11
12
20
21
Il dialogo mancato. Memoria ed oblio
Nel corso dell’intervista a “Magazine littéraire” già citata, Roland Barthes
evidenziava come uno degli elementi principali del romanzo sia quello di non
avere “un piano allocutorio”. Nel romanzo non si sa, infatti, da dove parta e
dove si indirizzi il messaggio. I due copisti raramente si rivolgono la parola.
Quando questo succede, potremmo dire che più che di dialogo si tratta di un’equa ripartizione del tempo del discorso in due monologhi: è raro che si verifichi un tentativo di persuasione dell’uno nei confronti dell’altro. Questo potrebbe valere anche per quanto riguarda l’apprendimento. Bouvard e Pécuchet
non imparano che per un desiderio di gloria da soddisfarsi al più presto di fronte agli altri, più che mettendone a conoscenza gli altri. Quel che ai due sembra
importare, più che la conoscenza, è il teatro della conoscenza, la messa in scena del progresso del sapere. Del resto, i tentativi concreti di espressione delle
competenze acquisite finiscono male, dall’agronomia, alla medicina, alla pedagogia, che si conclude col fallimento clamoroso dell’educazione di Victor e
Victorine, un’educazione troppo fiduciosa nei propri mezzi, troppo determinata, astratta.
Bouvard e Pécuchet cercano di conservare tutto ciò che imparano, di fare
in modo che nulla vada sprecato. Nelle parole di Barthes il loro è un mondo
senza dispendio, senza eco, folle 16. Cercano di riutilizzare pienamente anche i
rifiuti, svuotano le latrine nei campi per usarne il contenuto come fertilizzante,
ma la fattoria va in rovina.
L’incapacità di intervenire su ciò che apprendono, di operare una selezione fra le informazioni, i dati, segna la loro impossibilità di procedere, ma anche di aver memoria del cammino percorso. L’immagine del passaggio dei due
da un sapere ad un altro, da una pila di libri ad un’altra, mentre accatastano ferraglie, statue, vasi di creta, trasformando la loro dimora in una devastata Wunderkammer potrebbe in qualche modo porsi ad emblema della perdita di memoria. Tutto viene riprodotto sull’istante, al momento presente: perfino le
rovine, con tardo gusto preromantico, vengono prodotte ad hoc facendo scempio del giardino. Non c’è nulla che si stratifichi, nulla su cui contare.
Ciò rende del tutto evidente quello cui si riferiva la Assmann quando, parlando del Settecento, scriveva che per quanto si cerchi di conservare, non c’è
memoria senza dispendio, senza il lavoro dell’oblio 17. D’altra parte la presen-
16
17
22
R. BARTHES, La crise de la vérité, p. 2.
A. ASSMANN, Ricordare, p. 231.
za contemporanea di tutto ciò che abbiamo sperimentato annullerebbe (costitutivamente) le possibilità della memoria: la renderebbe inutile, poiché la memoria è, in buona parte, specie nei suoi residui involontari, memoria di quel che
si perde.
La più singolare forma di conservazione alla quale i copisti dovevano arrivare, secondo il disegno incompiuto di Flaubert, è quella del Dizionario, del
Catalogo, dell’Album (lo Sciocchezzaio) che potrebbero essere intese quali variazioni sulla parodia del lavoro enciclopedico e che dovevano comporre, per
così dire – nel secondo volume – l’apparato documentale del romanzo.
Il progetto prevedeva infatti che il romanzo – rimasto incompiuto alla
morte dell’autore, nel 1880 – proseguisse in una forma che alle parti narrative
avrebbe alternato una raccolta di sciocchezze scelte da Bouvard e Pécuchet nel
corso del loro studio, un Dizionario dei luoghi comuni, un Catalogo delle idee
chic e dei Pezzi inventati. Il Dizionario di frasi fatte da pronunciarsi in società,
parte integrante del progetto, è stato conservato in un manoscritto rimasto inedito fino al 1911. Benché oggi sia universalmente riconosciuto come parte integrante dell’opera, non sempre le edizioni attuali del romanzo lo includono 18.
Come valutare il contenuto del Dizionario, come prendere in considerazione questo elenco di osservazioni di “buon gusto” che abbraccia tutti i saperi? Come ha scritto Lea Caminiti Pennarola, «il Dizionario sovverte ciò che lo
costituisce». Le voci del dizionario non sono ciò che si deve ricordare, ma un
avviso sul processo di funzionamento della memoria pronta all’uso, la memoria della moda, l’informazione che nella sua sovrabbondanza rende inaccessibile il libro del mondo e inattingibile il libro della propria memoria. Eccone alcuni saggi:
“Freddo: più sano del caldo”
“Cartesio: Cogito ergo sum”
“Immaginazione: sempre fervida. Diffidarne – e denigrarla quando ce l’hanno gli
altri. Per scrivere romanzi, basta avere immaginazione!”
“Mosaico: se n’è perso il segreto”
“Minuto: ‘Non si ha idea di quanto sia lungo un minuto’”
I luoghi comuni sono modalità di sospensione del dialogo: entimemi, false o frettolose generalizzazioni che conducono la conversazione verso l’indistinto.
Eppure, Bouvard e Pécuchet anche sotto questo profilo non si risolve, si
18
Cfr. L. CAMINITI PENNAROLA, Nota ai testi, in G. FLAUBERT, Dizionario dei luoghi comuni.
Catalogo delle idee chic, Milano, Rizzoli, 1996. Le citazioni del testo sono tratte da questa edizione.
23
Libri
mantiene supremamente ambiguo. Come è noto dalla retorica, e come è stato
scritto riguardo a questo romanzo, i luoghi comuni, queste tracce banali del discorso, sono anche il residuo linguistico di decisioni ricorrenti che ciascuno di
fronte ad un dilemma quotidiano è costretto a prendere, valutando di volta in
volta discipline che non conosce: quale principio seguire per educare i figli,
quale medico consultare 19.
In questo senso l’opera ripercorre l’itinerario dei fondamenti dell’esperienza comune, mostrandone l’irriducibile precarietà.
■
Il vangelo secondo Fabrizio
ANDREA GALLO
Don Andrea Gallo è coordinatore della Comunità di San Benedetto al Porto (Genova); ha presentato il libro di Paolo
Ghezzi Il Vangelo secondo De André (ed. Ancora 2003) al
Centro Culturale “Fabrizio De André” di Marcon (Venezia)
l’8 febbraio 2004.
Bibliografia
ALEIDA ASSMANN, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, Bologna, Il Mulino, 2002.
ROLAND BARTHES, La crise de la vérité. Entretien avec Roland Barthes, Propos recueilles par
Jacques Brochier, “Magazine littéraire”, n. 108, Janvier 1976 (reperibile al sito www.magazine-litteraire.com).
JORGE LUIS BORGES, Difesa di Bouvard e Pécuchet, in Discussione, Milano, Adelphi, 2002.
GUGLIELMO CAVALLO, ROGER CHARTIER, Storia della lettura nel mondo occidentale, RomaBari, Laterza, 1995.
GIANNI CELATI, Introduzione, in J. Swift, La favola della botte, Torino, Einaudi, 1990.
DANILO KIS, Deux variations sur Flaubert, in Homo poeticus, Paris, Fayard, 1993, pp. 137-141.
GUSTAVE FLAUBERT, Bouvard e Pécuchet, tr. it. Bruno Nacci, Milano, Garzanti, 1991.
GUSTAVE FLAUBERT, Dizionario dei luoghi comuni. Catalogo delle idee chic, Milano, Rizzoli,
1996.
MILAN KUNDERA, I testamenti traditi, Milano, Adelphi, 1994.
BRUNO NACCI, Introduzione, in G. Flaubert, Bouvard e Pécuchet, Milano, Garzanti, 1991.
LEA CAMINITI PENNAROLA, Nota ai testi, in G. Flaubert, Dizionario dei luoghi comuni. Catalogo delle idee chic, Milano, Rizzoli, 1996, pp. 10-20.
JONATHAN SWIFT, La favola della botte. Scritta per l’universale progresso dell’umanità, tr. it.,
Torino, Einaudi, 1990.
ALBERT THIBAUDET, Gustave Flaubert, Paris, Gallimard, 1935.
LIONEL TRILLING, Il testamento di Flaubert, in G. Flaubert, Bouvard e Pécuchet, Torino, Einaudi, 1964.
MITSUMASA WADA, L’épisode de la chimie dans Bouvard et Pécuchet de Flaubert, ou comment
narrativiser une ambiguité scientifique, “Etudes de langue et littérature françaises”, n. 70, Societé Japonaise de langue et littérature françaises, Tokyo, 1997 (reperibile al sito del Centro Flaubert dell’Università di Rouen: www.univ-rouen.fr/flaubert).
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L. TRILLING, Il testamento di Flaubert, p. XI.
abrizio De André mi ha coinvolto evangelicamente con la sua poesia, la
sua musica e tutta la sua opera. Sintetizzando il suo annuncio, userei il
latinorum: Per Crucem ad Lucem.
L’apice di questa umana-cristiana verità lo trovo nel brano “Il Pescatore”. Questa canzone è un concentrato di valori che sono patrimonio comune
di solidarietà: la vita come cammino e incontro, un attimo di luce tra due
oscurità; la scoperta della precarietà della vita che fa sì che ogni uomo possa
diventare veramente persona solo attraverso una serie di esperienze e di incontri che gli fanno scoprire l’importanza dell’Altro; la scoperta dell’Amore;
la capacità di accettare la morte e la Risurrezione; e quindi questa attesa “dell’ultimo sole”, senza disperazione, che mi ha reso capace di “spezzare il
pane”, dando senso alla vita e liberandomi dalle mie paure. La vita come servizio, non importa se chi mi implora e tende la mano, per gli altri, è un assassino o una persona per bene! Infine la chiamata alla trascendenza, il “guardare oltre” del pescatore.
Vorrei sottolineare l’importanza delle citazioni bibliche ad ogni capitolo.
Si sente l’amorevole intreccio che passa dal filo d’oro evangelico alla lirica,
alle note e viceversa. Vangelo vuol dire buona notizia, sempre. Annunciare la
Buona Notizia… a chi? Agli ultimi!
“Faber e gli ultimi” fu definita la serata al teatro Carlo Felice di Genova.
Dori Ghezzi stessa mi chiese di portare proprio gli ultimi, senza riservare loro
una particolare zona del teatro, ma sparsi, mischiati tra la gente, per farsi “contaminare” tutti… La scelta di Fabrizio non accetta etichette, non è mai ideolo-
F
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gica. Fabrizio è modestamente un anarchico, perché l’anarchia, prima ancora
che una appartenenza, è un modo di essere.
Chi sceglie un’ideologia può anche sbagliare. Chi sceglie i poveracci, i
senza voce, i fragili, come uomo, non sbaglia mai. Basta scorrere il libro: donne, prostitute, suicidi, ultimi, zingari… l’autore, giustamente, cita: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio».
Il punto di Dio
Ce lo dicono le scienze avanzate, noi abbiamo tre tipi di intelligenza: il
quoziente intellettivo; il quoziente emotivo; il quoziente spirituale. Secondo
molti scienziati esiste in noi un tipo di intelligenza con la quale non captiamo
solo fatti, idee ed emozioni, ma percepiamo i contesti più grandi della nostra
vita, totalità significative con cui ci sentiamo inseriti in un tutto. Il nostro quoziente di spiritualità ci rende sensibili ai valori, a questioni legate a Dio e alla
trascendenza; questo quoziente spirituale è stato definito da dei neurobiologi
come il “punto di Dio”.
Caro Ghezzi, tu dici che questo libro non è un’analisi critica letteraria delle opere di De André (e sarà vero), tu dici che non è un commento musicale (e
sarà vero) ma aggiungo, contraddicendoti, non è una “piccola esplorazione
giornalistica”. È un piccolo trattato teologico. Non ti sottovalutare, forse neppure tu sai che ottimo lavoro tu abbia realizzato, almeno per me, come laico e
come prete. Tu hai evidenziato il “punto di Dio” in De André. L’essere umano,
al di là dell’appartenenza a qualche religione, può percepire la presenza di Dio,
e allora l’esistenza di questo “punto di Dio” rappresenta un vantaggio evolutivo di tutta la nostra specie umana. Anche questo è un messaggio universale.
In De André è palese, forte, profonda una voce che parte dal profondo dell’uomo, che grida giustizia radicalmente, entrando così in una cultura libertaria. Costituisce un riferimento di senso per la nostra vita. Si scopre che la spiritualità appartiene all’umano e non è “monopolio” delle religioni; piuttosto le
religioni sono una delle espressioni di questo “punto di Dio”. Quindi, al di là
di ogni obiezione o considerazione, Fabrizio è a pieno titolo un evangelista:
portavoce della profonda coscienza, dell’energia vitale umana: è questo il valore del libro!
La voce di Fabrizio è il sigillo autorevole di una coscienza, la possibilità
irripetibile, per la canzone, di diventare il più alto e penetrante strumento artistico della cultura popolare e universale. È anche questa una teologia della liberazione. Tanto è vero che, dopo cinque anni, nessuno sembra disposto a la-
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sciar cadere quelle canzoni, a dimenticarle, ad accettare che quella storia sia finita per sempre.
Tutti noi siamo attratti dalla bellezza, dalla profondità, dalla struggente ricerca di riscatto della condizione umana. Questo è l’annuncio di Fabrizio. È il
fulcro del cristianesimo, non c’è fanatismo. Questo, se si vuole, è annuncio
evangelico. Si è consapevoli di partecipare ad un importante rito laico, senza
“caste sacerdotali”. Nessuno si libera da solo. Nessuno libera un altro. Ci si libera tutti insieme.
C’è la condizione del privilegio, della poesia musicale, nel momento in cui
diventa coscienza civile, comprensione umana, preghiera, guerra alle ipocrisie,
amore per i derelitti e gli emarginati, per i “perdenti” che il mondo lascia sul
terreno nella sua inarrestabile corsa verso il trionfo materiale: mercato – tecnologie – deterrenza totale.
Ecco il Vangelo di De André: è un percorso di comunione, di vera metanoia, cambiamento di testa, di mentalità, cambiamento di rotta sui temi della
pace, della guerra.
Hai fatto bene, caro Ghezzi, a mettere sulla copertina, come sottotitolo, le
parole dell’ultimo album “Anime Salve”, del 1996. «Chi viaggia in direzione
ostinata e contraria» e poter continuare: «col suo marchio speciale, di speciale
disperazione e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi, per consegnare
alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità».
Evangelicamente, potremmo dire, Fabrizio non aveva la presunzione di
“indicare la strada”, di trasmettere una sua cultura. Casomai, l’unica presunzione che aveva era quella di riconoscere a se stesso e agli altri la “libertà di
scelta”. Gesù disse ai Discepoli: «Volete andarvene via anche voi?».
Anarchia non è un catechismo o un decalogo, tanto meno un dogma! È
uno stato d’animo, una categoria dello spirito. È vero, Faber aveva lo spirito
anarchico, lo spirito libertario. A volte, mi piace dirlo, rasentava anche il francescanesimo.
Per Faber, amico fragile, l’inquietudine dello spirito coincideva con l’aspirazione profonda alla libertà. “Signora Libertà, signorina Anarchia”: questo
libro fa vivere, a chi lo legge, quel sentimento, culturalmente unico, in grado di
accomunare in una medesima storia, vincitori e vinti, per una liberazione comune. Questo avviene, a volte, anche per un solo momento, riandando ad un
solo spazio di una sua canzone.
È vero: Fabrizio rimescola le categorie del bene e del male, fino a farne
emergere gli imprevisti: le puttane insegnano e i professori vanno a lezione. I
pubblicani e le prostitute vi precederanno nel Regno... I suoi personaggi appaiono ricchi di una fragilità che ce li rende cari (come nel Vangelo di Gesù),
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Testimoni
personaggi capaci di coinvolgerci e di indurci a cercarli fra i vicoli della Città
Vecchia e nelle periferie. Quanti Miché, Marinella, Bocca di Rosa... Assai più
tetra è la condizione di chi viene schiacciato e ottuso proprio da ciò che “non
gli manca”.
Il Verbo si è fatto uomo
Qualcuno potrebbe dire che è strano e intenso il rapporto di De André con
la religione. Non era strano il comportamento di Gesù con i Farisei? «Sepolcri
imbiancati!» «Razza di vipere!« Il Dio di cui parla viene continuamente invitato a presentarsi come “uomo”, forse l’unico modo in cui De André trova possibile e desiderabile l’incontro. L’intero album “La Buona Novella” ne è una
testimonianza; ma già precedentemente, in “Si chiamava Gesù”, era stato raccontato come un uomo fra gli uomini, senza riuscire a togliere il male dalla terra, accettando lacrime e spine. «Et verbum caro factum est». Il Verbo si è fatto
carne: UOMO. Alla RAI sembrò scandaloso e scattò la censura, la Radio Vaticana ne fu entusiasta.
Per De André non è da meno dell’amore e del sacrificio divino, l’ospitalità, l’accoglienza con cui il pescatore “sorride”, dopo aver offerto all’assassino quel vino e quel pane, che tanto rilievo hanno nella liturgia cristiana. Anch’io, quando presiedo l’Eucaristia, «verso il vino, spezzo il pane» perché
qualcuno dice:«ho sete e fame»! «Avevo fame e mi avete dato da mangiare…
avevo sete e mi avete dato da bere… ero prigioniero e mi avete liberato…».
Fabrizio contesta i comandamenti uno ad uno con il “Testamento di Tito”,
ma propone, per ognuno di essi, un suo personale, terreno e schiettamente imperfetto modo di appropriarsene, cioè prendere dentro allo sguardo dell’uomo
quanta più vita possibile, bonificando l’umana pietà dal rancore. «Ricorda Signore questi servi disobbedienti alle leggi del branco, non dimenticare il loro
volto…». Chi può contestare che «dai diamanti non nasce niente, dal letame
sbocciano i fiori»?
In questa attuale realtà complessa e triste, ubriachi di tecnologia e consumismo, sarà la poesia a salvarci, nel senso che ha detto Dostoevskij. Inoltre, dal
canto, come leggiamo in Vico e Ungaretti, ricomincerà forse la storia. Ha ra■
gione, allora, Dori Ghezzi: «Fabrizio, ora, è di tutti».
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Il Cristo e la Chiesa degli “eretici”
Hans Ehrenberg e il pensiero del dialogo
MAILA CAPPELLO
risto e Chiesa degli eretici”: una formulazione singolare, il cui elevato potere evocativo sottende, in realtà, una concezione straordinariamente attuale. Ideatore di tale definizione fu Hans Ehrenberg, filosofo e teologo tedesco, vissuto nella Germania della prima metà del Novecento. Un
autore che cercheremo di presentare, attraverso la brevità di questo percorso: un
viaggio tra le pieghe di un’esistenza tesa all’estremo, un itinerario verso il dialogo
ecumenico.
Hans Ehrenberg (1883-1958) nacque il quattro giugno 1883 ad Altona, una
piccola cittadina immersa nella valle dell’Elba, poco distante dall’industriosa Amburgo, in seno ad una famiglia in cui romanticismo ed idealismo tedesco avevano
attecchito meglio di quanto non avesse fatto la fede giudaica. L’atmosfera profondamente laica, quasi aconfessionale, che si respirava in casa Ehrenberg, fu avvertita dal primogenito (Hans fu il primo di tre figli) come una lacuna, che egli si sforzò
di colmare:
“C
«Nella casa dei miei genitori non si parlava di Chiesa ed io frequentavo la Sinagoga solo
in rare occasioni. Tuttavia ero molto interessato alla preghiera, e per parecchi anni ho
ripetuto le mie preghiere dozzine di volte prima di addormentarmi […]. A scuola avevo seguito lezioni di religione cristiana. Per molti anni ho frequentato anche il catechismo. Ma in cosa dovevo credere?».
Ehrenberg, parlando della propria educazione religiosa, non esita a definirla
“überkonfessionell” e “unkirchlich” (aconfessionale e non legata a chiesa di sorta):
«Ero vissuto sin dalla mia infanzia senza preghiera, ma non come ribelle a Dio. Al contrario, contrastavo appassionatamente ogni forma di ateismo. Qualcosa dello zelo per la
Casa di Dio, che aveva divorato i miei padri, era rimasto in me. […]
La mia grande difficoltà non era rappresentata da Cristo o da Dio, ma dalla Chiesa. In
quanto prodotto dell’individualismo e della filosofia del diciannovesimo secolo, io speravo di essere in grado di accettare il suo insegnamento. Eppure non riuscivo ancora a
capire che fede, dogma e cerimonia fossero un tutt’uno. Nel mio ereditato intellettuali-
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smo tedesco non potevo fare a meno di disprezzare le formalità […]. Quale battaglia
imperversò in me durante i tre o quattro anni precedenti la prima guerra mondiale! Quei
quattro anni, ora tanto lontani, furono i più carichi di tensione che avessi mai vissuto.
Lo riconosco ora, quando rammento l’intensità del mio stato d’animo. A volte il mio
sconvolgimento interiore era tanto grande da esserne fisicamente esaurito».
L’inquietudine spirituale di quegli anni troverà sfogo nella meditazione filosofica e negli intensi colloqui con il cugino Rosenzweig, il quale incoraggiò la conversione del filosofo di Altona; sue sono, infatti, le seguenti parole:
«Su Hans la pensiamo proprio in maniera diversa. Ciò che voi scrivete a proposito delle tre visite che avete fatto a quel teologo ebreo, non è giusto. Non basterebbero nemmeno trecento di quelle visite. Noi siamo cristiani in ogni cosa, viviamo in uno Stato
cristiano, frequentiamo scuole cristiane, leggiamo libri cristiani, in breve tutta la nostra
“cultura” è fondamentalmente cristiana […]. Oggi in Germania ebrei non si “diventa”,
l’ebraismo è radicato nella circoncisione, nelle osservanze dietetiche, nel Bar-Mishwah. Il cristianesimo è infinitamente in vantaggio: sarebbe stato assolutamente impossibile per Hans diventare ebreo, può, invece, diventare cristiano. Ora sapete che io
non scherzo affatto: io stesso l’ho fortemente consigliato in questo senso, e lo rifarei
senz’altro».
Del 1909 è il battesimo cristiano: suggello formale ad un percorso di fede, che
giungerà a piena maturazione solo dopo l’intenso confronto spirituale con il cugino
Rosenzweig, deciso ormai a rimanere ebreo, e successivamente all’esperienza bellica al fronte, un itinerario tormentato che culminerà con la decisione di diventare
pastore e trasferirsi, nel 1924, nella cittadina di Bochum (ad ovest di Dortmund, nella zona della Ruhr, quella maggiormente interessata dagli sviluppi economici postbellici).
Il percorso tracciato da Ehrenberg è parallelo e contrario a quello di Franz Rosenzweig: dopo la conversione, l’uno sarà il “negativo teologico” dell’altro. In entrambi i casi si può parlare, comunque, di un “ritorno” alle fondamenta della propria fede, ma non solo, perché questo Rückkehr (rientro) e questo Heimkehr (ritorno
a casa) costituiranno addirittura i fondamenti di nuovo pensiero (ein neues Denken).
È il “ritorno” di due eretici alle proprie origini, al Dio della rivelazione cristiana ed
ebraica, una conversione che si configura come storicizzazione di tale rivelazione
nella vita dei due pensatori. Tale condivisione è uno degli elementi che accomunano Die Heimkehr des Ketzers, opera di Ehrenberg del 1920, al pressoché coevo, ma
ben più noto capolavoro del Rosenzweig, la Stella della redenzione (1921).
Al 1922 risalgono i primi contatti epistolari di Ehrenberg con Ebner, che aveva appena pubblicato i suoi Frammenti pneumatologici (1921). Di poco posteriore
è la pubblicazione dei tre volumi della Disputation (1923-1925), l’opera dialogica
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ehrenberghiana per eccellenza. Un breve, ma preciso quadro cronologico, cui corrisponde un fitto intreccio di scambi epistolari, che ci fanno comprendere la dimensione tutta “vissuta” del dialogismo di Ehrenberg, il quale si fece tessuto connettivo, teso tra la teologia giudaica di Rosenzweig e la pneumatologia di Ebner. L’opera
del nostro autore, anello di congiunzione metafisico tra il pensiero ebraico e quello
cristiano, fu anche, nel travaglio spirituale della conversione, coagulante concreto
tra una dimensione spirituale giudaica ed una cristiana, tra l’eterno ed il tempo. La
natura di Ehrenberg, una natura che potremmo definire “doppia”, di ebreo e di cristiano (in una parola: di Judenchrist), non poteva assolutamente evitare di riflettersi e riversarsi sia nella sua attività quotidiana di predicazione a Bochum, sia nell’elaborazione speculativa: la dialettica giudaico-cristiana interiore si tradurrà infatti
lentamente in incessante ed instancabile tensione al dialogo, interreligioso e non.
L’aconfessionalità ed il relativismo respirati nella casa dei genitori riveleranno, tra
le pagine della già citata opera Die Heimkehr des Ketzers (ovvero “Il ritorno degli
eretici”), tutta la loro carica dialogica ed interconfessionale, coronando così la scelta fondamentale di Ehrenberg: quella di farsi “uomo-dialogo”, copula interculturale ed interreligiosa, ponte tra ebraismo e cristianesimo.
La comunanza degli “eretici”
La cristologia di Ehrenberg chiama, infatti, a raccolta ai piedi della croce indistintamente, non solo tutti i cristiani, ma anche ebrei e pagani. Anzi, il cristianesimo
del filosofo-teologo di Altona è un «Cristianesimo degli altri», un invito esplicito,
rivolto a tutti i cristiani affinché, nella riscoperta delle proprie ascendenze ebraiche
e pagane, possano ritrovare l’afflato fraterno originario. Scrive Ehrenberg: «Solo la
coscienza può essere perciò pagana, ciò significa che c’è un paganesimo o qualcosa di pagano, ma non c’è alcun pagano in senso proprio».
Ebbene: si parla di pagani, ebrei e cristiani, ma perché il cristianesimo di
Ehrenberg è definito “Cristianesimo degli eretici” (Ketzerchristentum)? Qual è l’intimo significato di tale espressione? Chi sono questi “eretici”?
Non si deve pensare che questa formula sia semplicemente un’etichetta con cui
contrassegnare frettolosamente le meditazioni dottrinali di un pensatore: “Cristianesimo degli eretici” è, invece, la definizione più appropriata, escogitata dall’autore stesso, per enucleare l’essenza del proprio pensiero religioso. Il termine Ketzer
(eretico) ha del tutto perso quella connotazione negativa, particolarmente sgradita ai
“portatori di fede”: «La parola eretico diventa da parola ingiuriosa a parola di elogio». L’eretico è, per Ehrenberg, il portatore dell’amore di Cristo, è colui che, pur
senza vedere, ha creduto (cfr. Gv 20, 29: «Beati quelli che pur non avendo visto cre-
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deranno!»), colui che, dall’alto della propria sovraconfessionalità, potrà aiutare le
Chiese del mondo ad unirsi in Cristo. L’eretico, perciò, non è l’ateo, o il miscredente
della nostra cultura tradizionale, ma l’hairetikòs: letteralmente, “colui che ha scelto” di credere in Cristo al di là delle dottrine ufficialmente riconosciute. In lui si riconosce il laico, fondatore di una “Chiesa nuova”, l’Una Sancta: Ecclesia dell’unità
invisibile, che trascende le tre chiese visibili (quella cattolica, in cui si realizza un
cristianesimo petrino, dunque spirituale; quella orientale, la chiesa più verginale,
che conserva la purezza originaria; quella protestante, in cui si realizza l’aspetto
paolino del cristianesimo, perciò il lato più teologico e missionario). Non si tratta di
una nuova istituzione che si aggiunga, o si sovrapponga alle vecchie, ma di un nuovo atteggiamento cristiano, che lasci intatta l’autonomia dottrinale delle confessioni tradizionali. Quella degli eretici è una Chiesa spirituale, intesa nel significato più
profondo del termine (Ekklesía è una parola greca, che significa assemblea, adunanza, riunione e proviene da ekkaléo, che vuol dire “io chiamo”): un’assemblea
che risponda ad una vocazione d’amore. Il suo luogo, il luogo di tutti i cristiani, è il
meriggio dello Spirito Paraclito, quello che si trova tra la croce e la Parusia, tra la
croce e l’Apocalisse.
Ehrenberg ritiene che Giovanni sia il prototipo del vero eretico, perché egli, a
differenza di Pietro e Paolo, divenne apostolo senza bisogno di conversione: egli sapeva per amore. Il suo è il Vangelo della Rivelazione, dove i dialoghi diventano monologhi e parole nel mondo: «Nei sinottici troviamo il Gesù con la sua propria fede,
in Giovanni però abbiamo il Cristo al quale crediamo». Nel Vangelo di Giovanni il
grado di rivelazione è portato ad un livello estremo. Nella sua trasparenza si coglie
il mistero del Lógos incarnato, dell’Eternità storicizzata. Tale immediatezza è la
chiave per uscire dal dogmatismo e tornare all’uomo, all’anima cristiana, il luogo
«inabitato da Dio» (Marcello Farina). Come il cristianesimo giovanneo nasce dal riflesso immediato dell’Amore di Cristo, così l’Una Sancta sorge spontaneamente
“oltre” le Chiese degli uomini, per essere Chiesa dell’anima, santuario intangibile.
In questo disegno la religione mosaica trova una sua naturale collocazione all’interno del cristianesimo originario, conservato dalla Chiesa di Roma e da quella
orientale attraverso la lettura tipologica dei testi veterotestamentari.
La patria di tutti
Quello dell’eretico nobilitato di Ehrenberg è, come recita il titolo del libro, un
ritorno (Heimkehr) in patria, nella patria di tutti coloro che sperano in Dio; una riconciliazione con la vera fede, con la croce:
«Così la tragedia della croce è al centro del sentiero della vita dell’umanità; prima del
centro c’è la tragedia, dopo di esso la croce. Ma la croce non esiste senza tragedia, e l’u-
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nità della linea della vita dell’umanità, attraverso la croce sul Gòlgota, viene sì sospesa, ma non spezzata. Per questo il dolore del Figlio di Dio è il centro dell’intera creazione».
La tragedia inizia e finisce con la croce, le sue quattro braccia sono i punti cardinali dell’umanità, nel suo cuore sanguina la ferita di Dio. La cristologia di Ehrenberg è saldamente ancorata alla croce: non il simbolo della cupa disperazione e dell’aporia kierkegaardiana, ma il centro della scelta di Cristo, la scelta della
rivelazione. Nella triade storica e teologica di creazione, redenzione e rivelazione,
Ehrenberg conferisce assoluta rilevanza a quest’ultima, configurantesi sempre
come frutto di un’elezione divina. Eletto fu Israele nella figura di Mosè, eletto (anzi
pre-diletto: cfr Mc 1, 11: «Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto») fu Gesù e con lui la cristianità intera.
La rivelazione è, dunque, un fulmine divino che ci coglie in mezzo al cuore.
E l’elezione non è mai casuale, perché la teofania ha sempre tempi e luoghi ben
precisi. Nella rivelazione epifanica Dio si traveste di Parola e di carne e si dona all’uomo per redimerlo: «Così Gesù è il primo dato di fatto della redenzione», dice
Ehrenberg. Cristo, Dio spogliato della sua Gloria, è colui che porta a compimento
l’opera della rivelazione, iniziata con la creazione e l’alleanza sul Sinai. Nella sua
autoconsapevolezza messianica, Gesù è ponte tra la sua stessa fede mosaica e la
sua stessa realtà, tra la propria interiorità e la propria attività ministeriale, ponte tra
il suo essere “ultimo ebreo” ed il suo essere “primo cristiano”. L’accrescimento
dell’autocoscienza messianica è un processo graduale nella vita di Gesù, un percorso fatto di episodi significativi, a cominciare dall’agnizione battesimale, per poi
continuare nella professione di Simon Pietro: «Beato te, Simone figlio di Giona,
perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli» (Mt 16, 17).
La passione e la morte sono gli avvenimenti cruciali, attraverso i quali si completa la rivelazione messianica: il «Tutto è compiuto!» (Gv 19, 30) pone fine ad una
lunga parabola rivelativa iniziata con Mosè. Come Gesù fu “ultimo ebreo” e “primo
cristiano”, Mosè era stato “ultimo pagano” e “primo ebreo”: entrambi iniziatori di
una Nuova Alleanza, entrambi portatori di un’istanza redentiva. Si può dire che
Mosè sia al principio di quel lungo ed esteso piano del mezzogiorno rivelativo, mentre Gesù si trovi invece alla fine. Nella croce, centro ed estremità si sovrappongono,
in essa dimorano creazione, rivelazione e redenzione:
«Nel paganesimo la stazione della creazione ha il controllo su quella della rivelazione
e quella della redenzione, nell’ebraismo regna la stazione della rivelazione, nel cristianesimo, però, la stazione della redenzione si apre alle stazioni della creazione e della rivelazione. [...]. Con Cristo ha inizio il tempo della fine».
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Gesù è la svolta del tempo, Cristo è il nuovo inizio, l’anno zero, il tempo della Heimkehr (ritorno); una Heimkehr intesa, però, non hegelianamente come riconciliazione dello spirito con se stesso, ma come cammino verso il riscatto definitivo,
di cui la croce è evento e prefigurazione. Nell’enigma “Gesù-Cristo” il vecchio convive con il nuovo, l’Antico Testamento e la fede di Jahve non perdono la loro carica rivelativa.
Il Gesù di Ehrenberg è il primo atto della redenzione, ma la sua essenza non si
esaurisce semplicemente come una parte di Dio, ma come atto d’amore del Creatore. La Erwählungschristologie (cristologia elettiva) dell’altonense, sottolineando la
dimensione relazionale intratrinitaria, si configura anche come una presa di posizione contro il riduzionismo della Logoschristologie (cristologia logica), che risolveva astrattamente la figura di Gesù in una proiezione di Dio (o parte di Dio), vanificandone così la profondità storica e sociale. In questo senso, il teologo del
Ketzerchristentum (cristianesimo degli eretici) si avvicina alla dimensione personalistica della concezione cristologica di Ludwig Feuerbach, in cui il Cristo, l’Incarnato, è visto come terminus medius tra divino e umano, simbolo della concreta unione tra Dio e uomo. Per questo motivo, la passione e la morte dolorosa acquistano un
rilievo straordinario, quali indizi dell’estrema tangibilità della rivelazione, della sofferenza, che ci fa avvertire empaticamente la comunione con Dio. Scrive Feuerbach: «Questo dolore dell’anima, alienato, è Dio. Dio è una lacrima d’amore nel più
profondo nascondimento, versata sulla miseria umana».
La crocifissione è, quindi, l’apice della comunione, in essa la Parola viene inchiodata al tempo, all’antico e al nuovo. La frase di Ehrenberg: «Cristo diventa Lógos; ma il Lógos non diventa contemporaneamente Cristo» è un altro atto d’accusa
alla cristologia logica che, lasciando trionfare il Lógos sul Cristo, distruggeva la forza oblativa dell’incarnazione. Gesù Cristo non cessa certo di essere Parola donata
all’uomo, ma Egli, in effetti, non è solo questo, è: «Parola e Amore» («Senza Cristo
Parola e Amore rimarrebbero presso Dio»). Dall’alto della croce il Verbo incarnato
ha insegnato l’amore e questo amore è un richiamo che deve irrorare il mondo, come
aveva fatto il sangue di Cristo. La “Parola-Amore” deve instancabilmente riecheggiare «da uomo a uomo», risuonare sulle labbra del mondo: «Dio stesso ha intonato la canzone, il nostro canto d’amore è solo risposta, solo eco al suo richiamo d’amore».
Parole, queste, che richiamano alla memoria altre analoghe espressioni sia di
Rosenzweig, sia di Ebner. Un pensiero, quello di Ehrenberg, che aiuta il cristiano a
far pace con le proprie radici ebraiche. Ed è, appunto, in tale riconciliazione interiore che si raccoglie tutta la forza della cristologia dell’autore. Alla luce di una considerazione tipologica, l’autore ritiene Israele la prefigurazione della Chiesa fondata da Cristo, sacerdoti della quale erano stati gli antichi profeti. In quest’ottica, la
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presenza della Sinagoga nel mondo cristiano ha l’intima funzione di rammentargli
le sue radici di popolo di Dio, di Ecclesia in cammino verso la Terra promessa.
L’Antico Testamento, dice Ehrenberg, è parola di Dio quanto il Nuovo Testamento:
Israele è il prototipo della Chiesa. La Ketzerkirche, dopo le difficili compenetrazioni dottrinali e scritturali tra i due testamenti, operate da Roma e Bisanzio e dopo l’esclusivismo neotestamentario della Chiesa di Wittenberg, è chiamata a ridefinire le
giuste proporzioni dello spazio riservato all’Antica Alleanza. Così Ehrenberg auspica, in armonia con un’esigenza di tipo sociale (l’antisemitismo aveva cominciato proprio agli inizi del Novecento la propria allarmante espansione in Germania),
il dissotterramento da parte della comunità riformata delle proprie basi semitiche e
la conciliazione spirituale con esse. L’istanza ecumenica del filosofo è, quindi, tutta tesa alla realizzazione di questo programma sovraecclesiastico, sovraconfessionale e filogiudaico, al quale cercò di mantenersi fedele anche nei momenti più critici della propria esistenza (la persecuzione, la deportazione e l’emigrazione); un
programma che era essenzialmente esternazione di qualcosa che nella sua anima
giudaico-cristiana era già giunto a compimento. Per questo Die Heimkehr des Ketzers è guida e testimonianza al tempo stesso: manuale per un percorso spirituale. Il
“ritorno degli eretici” è il ritorno dell’uomo all’Amore di Cristo, Parola circoncisa,
flagellata e crocifissa.
■
Nota bibliografica
Le citazioni sono tratte dalle seguenti opere:
HANS EHRENBERG, Die Heimkehr des Ketzers. Eine Wegweisung, Würzburg, Patmos-Verlag, 1920.
HANS EHRENBERG, Tragödie und Kreuz, Bd. 1: Die Tragödie unter dem Olymp, Bd. 2: Die Tragödie unter dem Kreuz, Würzburg, Patmos-Verlag, 1920.
HANS EHRENBERG, Disputation. Drei Bücher vom deutschen Idealismus; Fichte. Der Disputation erstes
Buch; Schelling. Der Disputation zweites Buch; Hegel. Der Disputation drittes Buch, München,
Drei Masken Verlag, 1923.
HANS EHRENBERG, Hiob – Der Existenzialist. Fünf Dialoge in zwei Teilen, Heidelberg, Lambert Schneider, 1952.
HANS EHRENBERG, Autobiography of a German Pastor, London, SCM Press LTD., 1943 (ed. ted. e rielaborazione a cura di Günter Brakelmann, Autobiographie eines deutschen Pfarrers: mit Selbstzeugnissen und einer Dokumentation seiner Amtsentlassung, Waltrop, Verlag Harmut Spenner, 1999).
FRANZ ROSENZWEIG, Der Mensch und sein Werk. Gesammelte Schriften, I. Abteilung: Briefe und Tagebücher, Bd. 1: 1900-1918; Bd. 2: 1918-1929, a cura di Rachel Rosenzweig e Edith RosenzweigScheinmann in collaborazione con Bernhard Casper, The Hague, Martinus Nijhoff Publishers,
1979.
LUDWIG FEUERBACH, Das Wesen des Christentums, ed. orig. 1841, Stuttgart, Reclam 1994 (tr. it. a cura
di Francesco Tomasoni, L’essenza del cristianesimo, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 139).
MARCELLO FARINA, Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher, Il Cristo archetipo perfetto dell’uomo inabitato da Dio, in Silvano Zucal (a cura di), Cristo nella filosofia contemporanea, vol. 1: Da Kant
a Nietzsche. Prefazione di Bruno Forte, Cinisello Balsamo [Milano], Edizioni San Paolo, 2000,
pp. 83-128.
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Appunti
Han Ryner: un simbolo e un sintomo
EUGEN GALASSO
ifficile da collocare, Han Ryner, in tutte le tradizioni. Dire “umanista”
va bene, ma dice poco; dire “anarchico-individualista”, come ha fatto
qualcuno, è sostanzialmente falso; “nonviolento” va meglio, ma anche
in questo caso si dovrebbero riesaminare tutte le catalogazioni relative. A noi
interessa qui come simbolo di un cristianesimo “gnostico” – dove però l’aggettivo andrebbe precisato e chiarito, perché la “gnosi” di Ryner ha connotazioni razionaliste che quella propriamente detta non ha (avendo quella storica
un carattere in primis mistico, dove la “ragione” arriva solo dopo l’intuizione
mistica) – e come sintomo di una tendenza che non è quella del/della new age
(sempre che non si voglia fare di tutta l’erba un fascio).
Ecco allora il “quinto vangelo” di Ryner, così riassunto in una lettera dell’autore stesso a un giornalista-recensore di suoi libri:
D
«Il primo movimento cristiano mi apparve la più bella sintesi tra il pensiero ellenico e quello israelita. Ve ne sono altri (Filone, tutti gli Alessandrini). Ma il primo
cristianesimo fu un’alleanza pratica di due pensieri contro Roma che, per la tirannia pratica, era la nemica d’ogni pensiero. Ora l’alleanza di Atene e di Gerusalemme vinse Roma (Roma, però, ha preso la sua rivincita, dopo, con l’inganno sottile, rimpiazzando la tirannia materiale con quella dogmatica)» 1.
Alcune precisazioni sono necessarie. La concezione storico-esegetica di
Ryner (anche se Ryner nasce e rimane studioso, non esegeta) è oggi condivisa
da quasi tutti gli studiosi; tranne chi vuole riproporre la contrapposizione tra
Gerusalemme e Atene (ma si tratta allora di posizioni teoriche, o teologiche,
più che storico-esegetiche). Nelle parole “Roma nemica d’ogni pensiero” risuonano pure note attuali, quali quelle di Alex Zanotelli nella sua interpretazione dell’Apocalisse (la Bestia identificata con Roma, potere imperiale e imperialista dell’epoca). Che poi sia Roma ad avere una rivincita con il suo
1
36
Lettera del 21 dicembre 1910, in “Cahiers des Amis de Han Ryner”, n. 148, pp. 2-3.
“imperialismo dogmatico” (è la sostanza del discorso di Ryner) ripugna ad un
cattolico, ma, almeno da quando parliamo di teologie “altre”, e non più solo romano- ed euro-centriche, credo che la polemica sia accettabile, oltre che naturalmente storicizzabile. Ryner viveva l’epoca del Modernismo e gli sforzi da
parte di questo (Loisy, Tyrrel, Bonaiuti, per fare solo alcuni nomi emblematici
che oggi trovano quasi una rivalutazione) per creare un cristianesimo capace di
riallacciarsi criticamente alle fonti bibliche, rivissute in un’esperienza “ecclesiale” (cioè comunitaria) e ricollegata ai tempi moderni. Certo è che Ryner non
fu mai un “antireligioso”, un razionalista “puro e duro”, a differenza di tanti
pensatori razionalisti e positivisti: positivista Ryner non lo era e non lo fu mai,
anche perché interessato ad una riscoperta del nocciolo della conoscenza interiore, che sfugge a ogni “sperimentazione” e ad ogni verifica sperimentale. Sicuramente fu sempre interessato alla religione, in specie cattolica, senza quell’acrimonia che si riscontra in altri autori. Tra l’altro Ryner si confrontò anche
con le apparizioni e il “segreto” di La Salette (accolto fino al 1923 come rivelazione privata, poi interdetto da Pio XI): esiste una nota in cui l’autore si chiede: “Il papa attuale realizza forse la profezia di La Salette: ‘Roma perderà la
fede e diventerà il seggio dell’Anticristo’?” 2. La nota si inserisce in un contesto in cui, citando elementi probanti, Ryner si pone la questione della Chiesa e
del suo potere finanziario. Altrove, come in Dialogues de la guerre (1914-15) 3,
dove a parlare sono don Quijote e Sancho Panza, si rimprovera lo scarso impegno papale ed ecclesiastico contro la guerra, al di là di dichiarazioni di principio; ma c’è anche l’appunto principale di Ryner (qui personificato da Sancho):
“Può essere che Cristo non abbia mai avuto dei preti”. Altrove 4 troviamo la polemica di Ryner contro la transustanziazione e quei dogmi che l’autore ritiene
i più irrazionali, ma anche e prattutto contro il “temporalismo” papale-ecclesiastico.
Ryner attuale, dunque? No, perché vive in un clima culturale totalmente
diverso (guerre mondiali, gallicanesimo, separazione anche politica tra Chiesa
francese e cattolicesimo vaticano, modernismo), che ormai appartiene alla storia. Ma alcune considerazioni sono da fare. 1) La critica alla ricchezza materiale della Chiesa rimane valida, così come ha ragion d’essere quella alla tentazione neo-temporalista. 2) Il fatto che “Cristo non abbia avuto preti” è
2
In “Cahiers des Amis de Han Ryner”, 163, fasc. 2, p. 11. L’appunto risale agli anni 193233, prima di La Suotane et le Veston, che sarà il romanzo di Ryner in cui verranno trattate soprattutto problematiche religiose.
3
Ivi, pp. 16-20.
4
H. Ryner, Creo quia absurdum, Aux éditions de l’idée libre, Herblay (Seine-et-Oise) 1932.
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storicamente vero, ma non si può eludere il tema della successione apostolica:
il problema è di leggere quest’ultima in forma nuova (e chiaramente diversa da
quella ryneriana), oltre una “Chiesa clericale” e oltre ogni anti-cattolicesimo.
3) Questioni come quelle dell’incarnazione e ancor di più della transustanziazione sono vexatae quaestiones: come dimostra un approccio sociologico serio, anche dal punto di vista quantitativo e statistico (per limitarsi all’Italia, si
vedano le opere di A. Nesti e R. Cipriani), moltissimi credenti, interrogati su
questi temi, o non sanno rispondere o rivelano dubbi di ogni tipo. Riparlarne,
oltre ogni steccato, è oggi necessario a livello teologico, culturale, ma anche
pastorale, pena l’affermazione strisciante di un movimento diffuso da new age.
Ecco allora che l’“inattuale” Ryner anticipa linee di tendenza dell’oggi, quindi
è un “sintomo” anche di quanto sta accadendo, e non solo da un punto di vista
■
elitario.
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