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«Concerto per mio padre è un racconto
senza età, una storia con domande universali
portate soltanto dal vento per le
sabbiose pianure dell’Iran.»
Lire
«Yasmine Ghata conduce l’analisi dei suoi
personaggi a un livello di finezza stilistica
raramente raggiunto tra i suoi contemporanei.»
Le Magazine Littéraire
«Un romanzo iniziatico dal soffio mistico.»
L’Express
«Yasmine Ghata parla di assenza,
di silenzio, e del potere della scrittura. E lo fa
riuscendo a dare un peso e una sensualità
sorprendenti alle parole.»
Il Venerdì di Repubblica
hanno scritto
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Yasmine Ghata, Concerto per mio padre
Titolo originale: Le târ de mon père
Il presente progetto è finanziato con il sostegno della Commissione Europea
EACEA (Education, Audiovisual and Culture Executive Agency). L’autore è
il solo responsabile di questa pubblicazione e la Commissione declina ogni
responsabilità sull’uso che potrà essere fatto delle informazioni in essa contenute
Opera pubblicata con il sostegno dei Programmi di aiuto alla
pubblicazione dell’Institut français
Cet ouvrage a bénéficié du soutien des Programmes d’aide à la publication de l’Institut
français
Copyright © Librairie Arthème Fayard, 2007
Copyright © Del Vecchio Editore, 2013
Editing: Silvia Scialanca
Redazione: Vittoria Rosati Tarulli
Design. Illustrazioni. Logo: Maurizio Ceccato | IFIX
www.delvecchioeditore.it
www.twitter.com/DelVecchioEd
ISBN: 9788861100527
«Ai miei occhi, scrivere nel terzo
millennio è rallentare il mondo,
prendersi il tempo necessario
per guardarlo in faccia.»
— YASMINE
GHATA
A mia madre
PARTE PRIMA
IO, NUR, FIGLIO DI BARBE BLANCHE.
Barbe Blanche era mio padre.
Non si era mai separato dal suo târ1 prima di morire:
uno strumento dal lungo manico che custodiva l’anima
dei suoi antenati. E come una bussola aveva indicato a mio
padre la via per l’Aldilà. Le palpebre di Barbe Blanche si
erano chiuse quel giorno come due barche attirate al largo
da una spuma lucente, e si era spento suonando. Il tremito delle corde catturò gli ultimi palpiti del suo cuore; il
plettro d’ottone, caduto nella cassa armonica, emise un
rintocco insidioso quasi a sfidarci ad andare a riprenderlo.
Mio fratello Hossein tentò invano di rianimare il vecchio
padre, io facevo lo stesso con quel târ che scuotevo come
se lì dentro fosse prigioniera la sua vita. Fu la rassegnazione di nostra madre a farci accettare l’inammissibile: stese
la spoglia sul divano e baciò la fronte del defunto. L’indice
di mio padre era ancora ricurvo, e io chiusi il suo palmo
dopo avervi fatto scivolare il plettro che, intanto, era risuscitato alla luce del sole.
Fu Hossein che si occupò della toeletta mortuaria, mia
madre mi reputava troppo giovane. Tagliò tutti i vestiti
lungo le cuciture, effettuò la lavanda funebre2 per tre vol-
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te, cosparse il corpo di acqua, henné, olio canforato ed essenza di mirto. Bianco era il sudario del padre, una nuvola
lattea sotto la luce che andava declinando. Hossein gettò
l’acqua sporca lontano dalle nostre mura e mio padre fu seppellito in prossimità del lago di Orumiyeh3. Barbe Blanche aveva varcato la soglia della morte, lasciando dietro di
sé la porta dell’Aldilà momentaneamente accostata, in attesa che si richiudesse da sola, dopo qualche tempo.
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Avevo diciannove anni, una barba fiorente e la magrezza
di mio padre. Mia madre aveva appeso il târ allo stipite
della porta e lo spolverava ogni settimana con quello sguardo sempre uguale, di penitenza. Hossein si esercitava convinto che l’anima di Barbe Blanche fosse rimasta lì, intatta, a guidarlo. Quando nostro padre era ancora vivo, Hossein lo staccava spesso dal suo gancio nonostante i divieti di nostra madre e, una volta impugnato, le sue dita improvvisavano degli autentici assolo il cui ritmo sapeva mutare come un cavallo che baratti rapido la sua andatura
con la marcia lenta di un cammello. E note simili al ronzio di un calabrone, prolungate a seconda dell’estro. Non
poteva immaginare che lei piangeva a ogni suono, a ogni
vibrazione. Forough – la madre, la prima – aveva compreso che quelle dita cominciavano a impigliarsi nella scala
simbolica della sua discendenza per non lasciarla mai più.
Avrebbe trascorso la vita, Hossein, a salire quei gradini, aggrappandosi con vigore a ogni montante.
Quello strumento non mi è mai stato destinato. Gli occhi di mio padre non puntavano che Hossein, le sue pupille lo fissavano, tenaci. Io, Nur, non ho mai saputo attrarre il suo sguardo allo stesso modo. È a mio fratello che
raccontava tutte le sue avventure, improvvisazioni e sco-
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perte dopo aver attraversato il Paese con il suo sèguito: i
suoi taqsîm4 esploravano nuovi territori. Solo il richiamo
alla preghiera della moschea di Azam interrompeva il suo
monologo, metteva da parte fogli, appunti, spartiti musicali. E subito lo accoglieva il suo tappeto per la preghiera,
quello spazio ridotto che ospitava tutto intero un corpo
insicuro e accovacciato. Sovrapponendo la sua figura e il
târ, mi succedeva di credere che il manico in noce fosse un
paio d’ossa mal saldate tra loro.
Quello strumento era solo un cadavere. Non era tra l’altro così che il vecchio Lamech aveva inventato l’‘ūd 5 , scolpendo nel legno una riproduzione del corpo in decomposizione del figlio? La cassa di risonanza è il petto, il manico
è la gamba, il cavigliere per i piroli è il piede e le corde sono l’immagine stessa delle sue vene.
La favola di Lamech infestava i miei sogni con dettagli
macabri.
Un odore di putrido impregnava il târ. La lunga barba
di mio padre aveva da sempre ispirato numerose leggende:
ci raccontava che quel crine bianco diviso in due punte
sfioccate ospitava un raro volatile dalla testa umana. I nostri occhi di bambini vi cercavano invano un qualche battito d’ali, ma la barba del vecchio rimaneva ostinata, e ieratica. Hossein non aveva mai creduto a quella storia, ma
si sentiva irresistibilmente attratto dallo strumento musicale. A mia madre piaceva raccontare che i primi vagiti
di Hossein erano stati accompagnati da alcune note: secondo lei nostro padre nella stanza accanto, le ginocchia
raccolte al petto, cercava di soffocare le grida di dolore; e
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per molto tempo mio fratello pensò che in realtà la voce
di Barbe Blanche provenisse dal târ.
Era scritto che mio fratello sarebbe diventato musicista
come suo padre, e io un uditore ridotto al silenzio. Ma ancora ignoravamo che quella musica ci avrebbe condotto al
di là dei confini della nostra città, ormai feudo – e certezza
– di Barbe Blanche da più di mezzo secolo.
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«Un bravo suonatore di târ sottrae al vento il suo respiro.»
È così che Mir Ahmad cominciò la formazione di Hossein. Quel vecchio musicista senza progenie e fedele compagno di Barbe Blanche venne incaricato di far sbocciare
il talento di mio fratello.
Hossein gli ricordava la figura del suo caro amico agli
inizi, il corpo magro e gli occhi famelici di scoperta. Entrambi erano stati allievi del grande Aqâ Hossein Qoli,
al tempo in cui Barbe Blanche si chiamava ancora Arslan.
Mir Ahmad votava a nostro padre un’ammirazione senza
limiti – “un principe delle corde” che sapeva distinguersi
anche nello zurkhaneh 6 – e seminava nel solco del nostro
lutto i racconti di un’altra vita. Le sue mani disegnavano
nell’aria il corpo atletico di nostro padre adolescente che
si allenava con pesi in legno: movimenti legati e slegati
insieme di un corpo magro interamente votato alla disciplina. A sentir parlare Mir Ahmad, mi sembrava di non
aver mai conosciuto mio padre, quella barba aveva finito
per truccare la sua giovinezza.
Ci raccontò anche la storia di quel grande maestro di târ,
Aqâ Hossein Qoli che suonava a occhi chiusi e le cui dita
si spostavano sulle corde con l’andatura leggera del vento.
Quando la sua mano ricopriva le corde per fermarle, gli al-
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lievi sapevano che aveva raggiunto il grado più alto della
sua arte, quello che egli stesso descriveva come “crescita
dell’anima”. Tutti loro seguivano il viaggio dei suoni. Erano
cinque allievi a immagine delle cinque corde tese. Il grande
maestro guidava i suoi discepoli come accordava uno strumento: uno stretto parallelismo, la stessa tensione.
– Dei cinque allievi, vostro padre e il giovane Mohsen
erano i più talentuosi. Vostro padre suonava come un leone, le dita partivano all’assalto di note raddoppiate, attacchi mordaci e trilli inquieti, mentre il giovane Mohsen
regalava note delicate che germogliavano in steli flessuosi
e morbidi. Aqâ Hossein Qoli meglio di chiunque altro sapeva come far fiorire le rispettive personalità; non aveva mai
visto, però, una simile differenza tra due allievi.
Mir Ahmad tentò di scacciar via le memorie con un gesto della mano e disegnò su un foglio i cinque righi del pentagramma musicale. Vi inscrisse cinque note, alcune negli
spazi e altre su un rigo. Sfregandosi le dita, fece piovere
una manciata di zafferano sul foglio da poco manoscritto cospargendolo interamente di quella polvere bruna. Le
note nude si vestirono di fregi e le abbellì con ornamenti
e profumo, un odore amaro di inchiostro e spezie. E suonò. Sentivo mia madre spazzare l’ingresso di casa e, con la
stessa cadenza, la mano di Hossein carezzava il foglio. Con
la coda dell’occhio lei ci guardava di sfuggita mentre controllava il târ appeso allo stipite della porta.
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Il târ racchiudeva i peccati di mio padre. La cassa di risonanza non ci rivelava nulla del suo secreto. Hossein trovava che le corde non vibravano più allo stesso modo dopo
la sua morte, l’aria sembrava quasi frustare le pareti interne: una cavità beante scossa da venti contrari. Molte volte
mio fratello aveva tentato di stringere il cavigliere, ma le
corde sembravano divincolarsi lentamente dai piroli. Vibrazioni secche di uno strumento a lutto.
Hossein si lamentava per un fischio continuo che udiva
nell’orecchio, e un solco deciso, ma appena accennato, gli
increspava il viso. Mia madre rimproverava quell’oggetto
appeso allo stipite, non aveva dubbi che il timpano di mio
fratello subisse il castigo di quello strumento infausto: le
superstizioni rinvigorivano il male.
Hossein si aggrappava alle mie spalle per riuscire a camminare, i suoi passi evitavano dei cumuli immaginari che
a fatica cercava di superare senza inciamparvi. Per lui avevamo imparato a ridurre i rumori, mia madre anticipava
il minimo inconveniente sonoro e cercava sortilegi e stratagemmi per guarirlo. Avvicinando all’orecchio un frammento di specchio, tentava di ingannare, di catturare il nemico invisibile. Sfinito da quel fischio, Hossein staccava
il târ dallo stipite e suonava dei brani ispirati a nostro pa-
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dre. I polpastrelli portavano i segni delle scanalature e mia
madre li massaggiava con rabbia, animata com’era dal voler cancellare ogni traccia di sofferenza con le sue vane
abluzioni. Io non mi avvicinavo mai allo strumento ed evitavo di fissarlo troppo a lungo, quel suo occhio vuoto e stretto sembrava studiarmi. Hossein mi osservava mentre distoglievo lo sguardo e leggeva nella mia fuga continua una
paura ancorata all’infanzia.
– Non averne paura, Nur. Il fischio nelle mie orecchie
è l’eco delle suppliche paterne. Devo solo liberarlo dalla
sua vita terrena. Questo târ non sopporta la scomparsa di
nostro padre e vuole raggiungere la continuità del suo spirito. Ancora l’odore di Barbe Blanche impregna il legno di
cui è fatto, ancora il suo polso batte nelle nervature aride,
ancora il suo sangue scorre nelle corde. Nur, aiutami a togliere quelle corde che assillano le mie orecchie. – Reclamando il mio aiuto, Hossein mi rendeva complice di un atto di eresia.
Fu il dolore di mio fratello a farmi commettere l’irreparabile. Il târ giaceva sotto i nostri occhi colpevoli. Finché
Barbe Blanche era in vita, esso aveva goduto di tutti i privilegi, di tutte le attenzioni. Nostro padre se ne prendeva
cura come di una creatura vera e propria. Oggetto composito, quello, che non soffriva degli oltraggi del tempo e che,
per di più, non manifestava alcun segno di ribellione; Hossein veniva invece picchiato a sangue da nostro padre, e si
rifugiava dietro la casa sotto la tettoia, curando col silen-
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zio le sue ferite. Non voleva che mi avvicinassi a lui, accovacciato lì, ai piedi del muro vicino. Spalle poggiate alla
casa, parlavamo senza guardarci, immaginando irrealizzabili vendette. Odiavo mio padre, la sua rabbia trattenuta,
quelle grida che facevano tremare la lunga barba. La violenza del nostro focolare e il chiasso che vi regnava avevano conferito a quelle corde una risonanza sempre più acuminata e irascibile.
Lo strumento di Barbe Blanche si era nel tempo plasmato a sua immagine.
Hossein sperava nel mio aiuto, era troppo debole per agire da solo; e così aspettammo che nostra madre si allontanasse sul sentiero in mattoni della nostra casa. Regolate
all’altezza del cavigliere, le corde si staccarono dal ponticello e si arricciarono su loro stesse: la distensione di cinque corpi a riposo dopo anni di rigidità e contrazione. Le
avevamo sistemate su di un piatto in terracotta. Il târ lo
teneva stretto mio fratello, la cassa di risonanza era nuda
come una tomba profanata. Quel giorno ci sembrò di aver
perso nostro padre una seconda volta. Non ci rimase che
bruciarle per non sentire più la sua anima aggirarsi tra noi.
Io accesi il fuoco, e quelle corde disegnarono piroette, boccoli agonizzanti e bruciati, e poi furono solo cenere.
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– Perché distruggere le corde? – ci chiese Mir Ahmad, rivolgendosi in particolare a Hossein. – Quello strumento
si rifiutava di suonare tra le tue mani poiché le corde non
ti hanno riconosciuto come il loro proprietario. I târ riconoscono l’erede dei loro padroni. Se quelle corde non vibravano tra le tue mani, devi comprendere le ragioni della
loro ribellione.
Seduto a gambe incrociate, Mir Ahmad cercava invano lo sguardo di Hossein. Mio fratello, a testa bassa, aveva infranto una tradizione atavica, e io lo avevo aiutato a
compiere quel gesto sacrilego. Nostra madre non aveva disapprovato in quanto avvertiva che lo strumento era molto meno potente da quando le corde non velavano più
l’orifizio della cassa. Aveva seppellito il piatto in terracotta
ricoperto, ormai, di cenere come si inuma un essere umano: una morsa di terra aveva inghiottito quel deposito di
polvere. Inginocchiata, aveva implorato il cielo di venirle
in soccorso, ma non seppe leggere nessuna manifestazione
divina mentre le nuvole, impassibili nel seguire la propria
transumanza, disegnavano luci e ombre sul suo volto.
Sono andato a prenderla, i calzari sventrati calpestavano la terra. Mia madre ha appeso il târ allo stipite: anche
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nudo di corde, riguadagnava il suo posto originale. Mio
fratello lo baciò e posò la mano sulla cassa di risonanza,
quasi a pentirsi. Ma Hossein non aveva più quel frastuono
nelle orecchie, il fischio era sparito nel momento stesso in
cui noi avevamo gettato le corde nel fuoco: un rumore
secco, una porta che si chiude, e poi silenzio. Siamo andati a stenderci ognuno sul proprio letto e lui, raggomitolato di fianco e una mano tra le gambe, si addormentò per
primo. La luce della luna filtrava dalla finestra e gettava
un’ombra che percorreva il corridoio come una figura che
guardinga cerchi ansiosa la fuga. Io ero sveglio, ancora, e
riuscivo a sentire tutti i rumori familiari della vecchia casa, lo scricchiolio dei muri, le raffiche di vento sul pianerottolo e i bisbigli di mia madre che, nella stanza accanto,
parlava con se stessa. Suoni metallici venuti da chissà dove
riecheggiavano al piano inferiore: quegli accordi così famigliari di un brano suonato da nostro padre al tramonto,
quattro note che accompagnavano la dipartita del sole, chahâr–mezrâb 7, divenute con il tempo il segnale dell’ora del
sonno. I primi due strappi8 sulle corde bianche, note acute, un altro sulle corde gialle, nota grave, e l’ultimo utilizzando tutte le corde. Mia madre si alzò quando io ero
già in corridoio e con le mani che carezzavano il muro. Il
târ appeso allo stipite, anche nudo di corde, stava riproducendo le note precise di un brano feticcio di Barbe Blanche e vibrava sotto mani invisibili. Riecheggiava quel legno i cui suoni venivano attutiti dal muro. Siamo rimasti
lì senza dire nulla, ascoltando quella musica dell’altrove,
mentre io ritrovavo le note intimiste di mio padre, divisio-
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ni armoniche allungate, pause che gli erano proprie e che
lo avevano reso celebre in tutto il Paese. Quel modo così
suo di passare di strofa in strofa alzando gradualmente il
registro era immediatamente riconoscibile. Hossein ci aveva raggiunto. Il vento intanto schiaffeggiava i vetri, e due
raffiche portarono via quell’aria persistente.
– Questa musica ti era stata destinata, Hossein. – Ma
mio fratello riguadagnò il letto in silenzio.
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La custodia vuota, mia madre la tirò fuori da sotto il letto. Abbiamo riposto lo strumento. Uno scrigno dalle pareti
imbottite imprigionava ormai il târ avvolto in un drappo.
Prima di richiuderlo, sentii un soffio, un pesante respiro
seguito da rantoli strozzati; poi mia madre bloccò con un
catenaccio i manici. Ci indicò sulla mappa la posizione di
una bottega situata non lontano dal santuario di Ardabil9.
Ci viveva un liutaio da più di quarant’anni, e sapeva sostituire le vecchie corde meglio di chiunque altro. Hossein
doveva portare la custodia e io il necessario per il viaggio.
Nostra madre ci baciò sulla fronte, ordinandoci di partire: non ebbe bisogno di parlare, lei, poiché sapeva usare
il linguaggio degli occhi, ed erano quelli a dirci addio.
Ho accolto e compreso il suo sguardo senza battere ciglio.
Sentii, poi, i suoi singhiozzi e la violenza dei suoi pugni
contro lo stipite della porta, contro quella colonna di legno che le aveva preso tutto.
Avevo diciannove anni, i miei passi disorientati seguivano quelli di mio fratello che mi guidava e mi incitava.
Non avevamo mai oltrepassato i confini della città e la riva orientale del lago era il limite del nostro mondo. Al di
là, secondo Barbe Blanche, gli strumenti a corde non vibravano più nello stesso modo. Quando usciva dai confi-
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ni della città natale, anche le sue stesse corde divenivano
ingenerose. Trovava il cielo cupo come cupo era il cuore
degli uomini e si lamentava delle condizioni del suo târ
dopo i lunghi viaggi. E uscendo dalla città a noi parve più
pesante da trasportare.
Legato alla schiena di mio fratello da una sapiente fasciatura, veniva sballottato dalle sue lunghe falcate e la testa del lungo manico sporgeva verso est. Abbiamo girato
intorno al lago, il riflesso di mio fratello sull’acqua si eclissava come un’ombra e al nostro passaggio la superficie stagnante si increspava. Ore di marcia accompagnate dall’intonazione vuota del legno che scandiva il ritmo del nostro
incedere segreto. Le nuvole si sistemarono come i gradi di
una scala e noi respiravamo l’aria dei primi giorni del mondo; Hossein avanzava senza sosta mentre il manico indicava ancora la direzione della nuvola che ci avrebbe guidato
fino ad Ardabil. La stessa nuvola che scortava i rilievi del
paesaggio in movimento. Il vento la risparmiava, e la lenta e ininterrotta sfilata di quella nube vaporosa mi faceva
pensare alla barba lattea di mio padre e a quell’uccello fantastico che diceva abitarvi dentro. Con gli occhi al cielo,
vidi un’aquila trafiggere la nuvola e squadrarci minacciosa
con il suo occhio destro.
Hossein non notò nulla, lui fissava il suolo accidentato.
Battiti d’ali tutt’intorno nella vallata; avevo ereditato da
Barbe Blanche la capacità di ascoltare il mondo. La foresta inghiottiva i nostri passi, una terra scura e umida che
tratteneva le nostre impronte mentre la custodia picchiava
a intervalli regolari sulla nuca di mio fratello e la cassa di
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risonanza, nuda di corde, era diventata un ricettacolo intasato dei rumori attorno. Fu allora che alcune note si insinuarono tra i nostri passi: note metalliche, di un’aria tradizionale, note che facevano turbinare le foglie degli alberi
quasi a indicarci la loro provenienza. Hossein ascoltava
la melodia a occhi chiusi, convinto che il musicista fosse
solo a qualche metro, tuttavia più noi avanzavamo, più le
note ci sembravano lontane, come se il loro autore indietreggiasse di un passo per ogni pizzicamento di corda. Inseguivamo l’invisibile. Nessuna traccia di quell’uomo o del
suo strumento. Mio fratello guardò verso est e io lo imitai,
ho continuato a lungo a cercare intorno a me, convinto che
lo avremmo trovato e che c’era, ma lo sconosciuto si era volatilizzato. Gli alberi, testimoni di quell’apparizione, ci videro riguadagnare il sentiero delimitato da alcune pietre
come una catena discontinua che scortava i nostri passi per
ricondurci sulla retta via.
La notte abbiamo dormito in un caravanserraglio10 a metà strada tra Orumiyeh e Ardabil, un edificio quadrato con
attorno un vasto cortile che sapeva di pisé11. Per riscaldarci, Hossein utilizzò dei ciocchi già usati e rimasti lì; stesi a
terra contemplavamo i bagliori delle fiamme. Eravamo noi
tre quella sera, io, mio fratello e quello strumento, tre battiti, tre palpiti attorno al fuoco e proprio lui, il târ, rianimato dal calore rigurgitava fumo come faceva Barbe Blanche con la sua pipa: le volute scolpite del suo manico erano i suoi occhi vitrei. Ci colse il sonno, il fuoco si indebolì
rapidamente e mi sembrò di sentire un soffio seguito da
qualche passo.
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Fu il levarsi del sole a svegliarmi, e noi eravamo solo due;
Hossein frugò in ogni angolo, ma i pilastri di quel cortile
quadrato non celavano nient’altro che cumuli di rifiuti lasciati dagli altri viaggiatori. Avevamo perso il târ, lo stesso
târ ereditato dai nostri antenati che non aveva mai conosciuto altre mani, altri padroni. Hossein non credeva ai
suoi occhi. La notte prima c’era ancora la custodia accanto a noi. Chi era potuto entrare nella nostra stanza e rubarcelo senza svegliarci? Ricordai quei rumori strani – un
passo che calcava il suolo, un soffio a spegnere le fiamme
– e una presenza che però non aveva sconvolto il mio sonno. Hossein continuò a cercare in lungo e in largo per la
camera, aggrappandosi alle nicchie scavate nel muro, ma
non trovò nulla, si fermò sotto una volta, scelse l’angolo più rientrato e pianse. Convinto si trattasse di un castigo – la testa rannicchiata, tirata a forza dalle braccia come
per espiare le sue colpe – mio fratello invocava nostro padre e lo implorava di perdonarlo per aver bruciato le corde. Ho asciugato il suo volto, quelle guance sporche e imperlate di lacrime avevano lo stesso colore della pietra lucida appena scolpita. Il cortile quadrato esposto al vento
ci restituiva raffiche di polvere, schegge danzanti che luccicavano ancora un’ultima volta, immobili nell’aria, prima di addormentarsi.
In quel momento ripensai al giorno in cui Hossein a
soli dieci anni aveva nascosto il târ in una cavità del lago,
riparo di fortuna poco al di sopra dell’acqua, che accoglieva pietrisco e sassi. L’avevamo staccato dallo stipite all’al-
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ba per poi nasconderlo in quell’incavo sotto una spessa
coperta, poiché separare nostro padre dal suo strumento
rispondeva a un’intima convinzione: secondo noi aveva
deformato la sua personalità e riuscire a rubarlo avrebbe
infranto per sempre quel legame nefasto, e ce lo avrebbe
restituito puro. Ci sentivamo pronti a subire gli strali e i
castighi, ma in realtà avevamo solo sottovalutato il potere
di quel vincolo. Appena sveglio, le urla di Barbe Blanche
arrivarono al cielo, la casa vibrò sotto la sua collera; senza
saperlo, lo avevamo amputato di un membro, evirato di
una parte di sé.
Fu strano ma trovò d’un subito la pista del nascondiglio
ed era la sua pelle stessa – come sola intuizione a guidarlo – che gli indicava il luogo esatto in cui ritrovare il suo
gemello, la sua metà, quell’organo in legno che traduceva
in musica i battiti tutti del suo cuore. Arrivato a bordo del
lago, mi trascinò per un orecchio e mi spinse nella piccola
caverna poiché solo un bambino poteva penetrarvi.
Le mani avide di Barbe Blanche cercavano solo il târ,
stringevano il vuoto nell’attesa di impossessarsene. Non
tentò di estrarmi dalla cavità rocciosa, afferrò il manico
che gli tendevo e si allontanò dal lago per riguadagnare la
terra ferma. Abbandonato nell’antro, mi sembrava di essere prigioniero in una cella di pietra che a poco a poco si rimarginava su di me, una parete tagliente a lacerare le mie
braccia e le mie caviglie. Fu Hossein che mi tese la mano,
il suo viso mi sollevò fuori dall’ombra e quel giorno ebbi
l’impressione di nascere dal târ di mio padre, dalla bocca
aperta della cassa di risonanza; ma quello che mi sembrò
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il manico rivolto verso il sole non era che il braccio di mio
fratello teso verso di me. Il târ riguadagnò il suo pilastro di
legno nella casa e mio padre lo sorvegliava notte e giorno
senza tregua. Io ero ricoperto di piaghe, di ferite lunghe
e profonde come note scordate suonate sul mio corpo di
bambino.
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LA SCATOLA NERA DEL TRADUTTORE
Sono dell’idea che meno si spiega di un lavoro e più rimane affascinante.
Però, visto che adesso mi viene chiesto, raccontiamo proprio com’è andata!
Riunione di redazione – Punto all’O.d.G.: Piano editoriale 2013
Del Vecchio Editore:
Direttrice Editoriale1: … e a settembre 2013 esce la Ghata…
Capo Redattrice2: Chi lo traduce?
Editor3: Lo stesso de La bambina4…
CR: Abbiamo già il titolo, così lo scrivo sul calendario?
E: Bella domanda…
CR: Non chiediamolo al traduttore5, che se ne esce con quelle
cose melense con la virgola… Vi ricordate per quell’altro libro… A lei virgola accanto?
DE: (ride)
E: A me piaceva…
CR: Figùrati…
Paola Del Zoppo
Vittoria Rosati Tarulli
3
Angelo Molica Franco
4
La bambina che imparò a non parlare, Del Vecchio Editore, 2010
5
Angelo Molica Franco
1
2
115
DE:
(torna seria a fatica) Qual è il titolo originale?
E: Le târ de mon père, “Il târ di mio padre”… non è proprio
bellissimo in italiano…
DE: Sembra un giudice del TAR.
CR: Eh già…
E: Il traduttore mi ha mandato una serie di titoli: “Nel nome del
padre”, “Nelle note del padre”, “Lo strumento del padre”…
DE e CR: (in coro e ridendo) No, lo strumento del padre no…
E: “Nelle note del padre” non mi dispiace…
DE: Neanche a me.
CR: (bofonchia) Mhmm…
E: Ce ne sono altri: “Assolo per padre”, “Solo per padre”, “Concerto per padre”.
DE: “Concerto per padre” mi piace!
CR: Anche a me, forse un po’ freddo…
E: Ci vorrebbe qualcosa che gli restituisca lo stesso calore della
scrittura di Yasmine, la stessa carnalità…
CR e DE: (ridendo) Già… Dicevamo?
E: Aspe’ ho appena ricevuto una mail dal traduttore: URGENTE
TITOLO GHATA
e DE: (in coro) Che dice?
E: Mi ha girato un carteggio tra lui e Yasmine:
CR
Chère Yasmine, que tu penses de ce titre? “Concerto pour père”…
Comme s’il s’agissait de “Concerto pour piano”?
Amitié
a.
Oh, mon cher Angelo… Je trouve cela si émouvant, come notre
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“bambina”. Je suis toujours d’accord avec toi!
Un petit mot: que dirais–tu d’ajouter un “mon”… “Concerto pour
mon père”?
Bisou
y.
Yasmine, c’est génial, superbe!
Bisou à toi
a.
E:
Concerto per mio padre…
DE, CR, E: (in coro) è bellissimo!
Più o meno, è andata così…
Angelo Molica Franco
117
INDICE
Concerto per mio padre
pag. 9
Parte prima
pag. 11
Parte seconda
pag. 63
Parte terza
pag. 95
Note
pag. 111
La scatola nera del traduttore
pag. 115
in uscita
«Per me, leggere e scrivere poesia è per lo più avere accesso
a un sapere connesso con i sensi, un sapere poetico,
si potrebbe dire, un sapere che ha a che fare con il linguaggio
e le sensazioni. E quando dico sapere, intendo un sapere
che può essere in sé sorprendente e vincolato al linguaggio,
quasi come le immagini sorprendenti che trovi nei sogni;
le prendi per date e le accetti come fatti.»
— MORTEN
SØNDERGAARD
poesia
Morten Søndergaard
A VINCI, DOPO – BLOG
traduzione di
Bruno Berni
nella stessa collana
1. Nato di sabato di Ray Banks
2. Confessioni di una giocatrice d’azzardo di Rayda Jacobs
3. L’ebbrezza degli dei di Laurent Martin
4. Un’indagine senza importanza di Robert Hültner
5. Sweet Sixteen di Birgit Vanderbeke
6. Sale e miele di Candy Miller
7. Senza via d’uscita di Val McDermid
8. Saloon di Aude Walker
9. Il trucco della morte di Astrid Paprotta
10. Fiamma abbagliante di Barry Levy
11. Alle spalle di Birgit Vanderbeke
12. Colazione con Mick Jagger di Nathalie Kuperman
13. La dea madrina di Robert Hültner
14. L’assassino di Banconi di Moussa Konaté
15. Quindici giorni di novembre di José Luis Correa
16. La bambina che imparò a non parlare di Yasmine Ghata
17. Morte in aprile di José Luis Correa
18. Il sole è una donna di Félix de Belloy
19. L’imperatore della Cina di Tilman Rammstedt
20. L’onore dei Kéita di Moussa Konaté
21. La straordinaria carriera della signora Choi
di Birgit Vanderbeke
22. Le sorelle Brelan di François Vallejo
23. Apostoloff di Sibylle Lewitscharoff
24. L’ispettore Kajetan e gli impostori di Robert Hültner
25. L’impronta della volpe di Moussa Konaté
26. A portata di mano di Tilman Rammstedt
27. Si può fare di Birgit Vanderbeke
28. La traccia della sirena di José Luis Correa
29. La tempesta di neve di Robert Hültner
30. Blumenberg di Sibylle Lewitscharoff
CONCERTO PER MIO PADRE
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Istruzioni per l’uso
DESCRIZIONE:
TIPOLOGIA: Letteratura a catena polinucleotidica spiralizzata non complementare e non informazionale.
FUNZIONE:
La macromolecola aperiodica è deputata alla conservazione e
al trasporto dell’informazione genetica e culturale ricodificata e rielaborata
in forte accento lirico.
INCIDENZA:
Nella cellula culturale e sociale questo tipo di macromolecole è presente in strutture a maggior densità nel nucleo e, in egual modo, in
ambiti periferici spesso poco frequentati. Concerto per mio padre fa parte della categoria delle opere letterarie coinvolgenti e stranianti: si tratta di
molecole deputate alla conservazione e trasmissione dell’informazione biologica negli esseri viventi e alla conservazione con possibile arricchimento
a livello macrobiologico.
FORMA MOLECOLARE: Concerto per mio padre è una molecola molto
complessa, è quindi probabile che risulti dall’evoluzione di molecole esistenti
precedentemente. Sebbene i suoi diretti ancestrali siano ormai scomparsi nella quotidianità delle attuali forme viventi e ormai anche da molti scaffali di
specialisti, è possibile ancora oggi creare in laboratorio diverse macromolecole che possiedono, per esempio, componenti diverse come scheletro della
molecola. Macromolecole già sperimentate e di simile origine e composizione sono: La bambina che imparò a non parlare e La notte dei calligrafi
sviluppate in diverso ambiente chimico nello stesso laboratorio.
SVILUPPO E DIFFUSIONE:
La molecola può giungere allo sviluppo per
annealing (appaiamento). Partendo da una singola catena, infatti, è possibile
che si crei una macromolecola a doppio filamento di lettura partendo da due
catene singole. Questo processo, se si innesca un meccanismo virtuoso, può
generare una reazione a catena che coinvolge molecole simili e induce movimento negli esseri viventi implicati, con riproduzione dell’evento senza più
necessità di intervento. In casi rari e fortunati, l’influenza della molecola si
può rivelare in mutamenti comportamentali degli esseri viventi coinvolti, con
livelli e sviluppi differenti in base al singolo soggetto.
Finito di stampare nel Settembre 2013
presso la tipografia Stampa Editoriale Srl
Manocalzati (Avellino)