1969.03.28 - Comunità dell`Isolotto

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1969.03.28 - Comunità dell`Isolotto
28.03.69 assemblea con André Laurentin sacerdote francese
BA022
(Interventi di: Enzo Mazzi, d. André Laurentin, Mira Furlani, Sergio Gomiti, Vittorio Tabacchini,
Urbano Cipriani, altre voci non identificate)
Enzo M.:Chi sono questi due sacerdoti francesi e anche la cosa che ci devono dire perché forse che
cos'è l'Isolotto più o meno un po' lo sanno. Che cosa sono loro noi non lo sappiamo. Allora bisogna
che ce lo dicano loro. Allora si aspetta che ci diciate chi siete. Capito?
André L.: Allora bisogna che io dica cosa faccio e chi sono. Non parlo bene la vostra bellissima
lingua ma faccio ciò che posso. Se non si capisce bisogna ridire di nuovo. Allora, la nostra
parrocchia è conosciuta attraverso il mondo adesso ma io non sono conosciuto e allora mi chiamo
Andrea, lavoro in una piccola fabbrica industriale. In questa fabbrica si lavorano pezzi di metallo
che poi vengono assemblati. Dall'altra parte sono sacerdote. Per me il mio sacerdozio e il mio
mestiere non sono la stessa cosa. Non faccio l'uno dopo l'altro ma faccio i due lavori nel medesimo
tempo. La mia vita è il mio sacerdozio. Il mio amico che non parla l'italiano, mi dispiace, lui si
occupa di problemi di agricoltura, ha vissuto parecchi anni in Algeria con il segretariato di una
cooperativa agricola in una città che si chiama Annaba in Algeria. Dopo questi anni è venuto in
Francia per uno stage di studi su problemi dell'economia, dello sviluppo delle cooperative agricole,
tutti problemi del Terzo Mondo. Mi ha detto che ha lavorato per un certo tempo in una realtà
francese per aiutare gli impiegati e i dirigenti delle cooperative in Algeria. Non so se sarete a
conoscenza della questione del nostro lavoro in Francia, nella maniera nella quale viviamo. Ci
possiamo esprimere rispondendo alle vostre domande.
Enzo M.: La gente esattamente non sa. Una cosa che noi vorremmo conoscere approfonditamente è
il movimento dei sacerdoti francesi. C'è qualche centinaio di sacerdoti in Francia che hanno fatto
qualche cosa di importante e che hanno espresso in un loro documento anche la loro solidarietà con
noi. Che senso ha questa solidarietà con noi?
André L.: E' vero che adesso in Francia abbiamo un certo movimento del clero. Il problema per noi
è non essere legati a tutto l'universo clericale che è una barriera fra il Cristo e gli uomini. Tutti i
sacerdoti che hanno vissuto come me per tanto tempo nelle parrocchie sanno che il viso della
Chiesa è molto cattivo, quando si vede come l'istituzione vive e parla e si impegna nel mondo. Per
esempio mi arriva di sentire amici che mi dicono: tu va bene, ma la Chiesa non se ne parla. E questo
in Francia per noi è un problema importante. La prima cosa sappiamo che questa grossa macchina
di burocrazia della Chiesa non la possiamo cambiare noi in fretta. Sappiamo che tutti i legamenti
economici del Vaticano, della Chiesa di Francia non li posiamo mettere a zero quest'anno. Allora
ciò che per noi è essenziale immediatamente è essere nel mondo liberi di vivere i valori del mondo e
il Vangelo. Abbiamo voluto distruggere quello che chiamiamo lo statuto clericale. Per vivere ciò
che è essenziale alla nostra vocazione di sacerdoti, non abbiamo bisogno di certe cose: vivere chiusi
nel presbiterio, in un vestito clericale, essere chiusi nelle leggi della Chiesa che dicono che non
bisogna fare politica, che non dobbiamo sposarci, che non dobbiamo fare questo, dire questo. Ogni
volta che dobbiamo pensare, agire bisogna dire: signore, posso fare questo? Si chiede di vivere una
trilogia: il politico, il lavoro, l'amore umano. Allora bisogna spiegare su questi problemi che sono
della vita di tutti gli uomini e che sono molto importanti per noi. Adesso la giustizia del mondo è
legata al politico. Diversi sacerdoti francesi, non ancora tutti ma spero che sarà vicino che tutti lo
pensiamo, i sacerdoti hanno l'abitudine di dire ai cristiani, ala gente che incontrano che bisogna
essere impegnati nella politica, nel sindacato, nelle associazioni in difesa di questo, di quello ma noi
sacerdoti non lo facciamo. Siamo i preti cattolici dell'impegno e non siamo impegnati. Adesso i
problemi degli uomini, quelli della classe operaia francese, quelli del Terzo Mondo sono problemi
di politica. L'uomo che oggi vuole veramente essere un uomo deve essere un uomo politico perché
deve partecipare alla giustizia del mondo, alla costruzione del mondo. E questo non si fa
dall'esterno ma dal di dentro, legati alla società nella quale viviamo. E per questa ragione non
vogliamo essere quello che dà i consigli, vogliamo essere al medesimo piano degli altri uomini. Al
mese di maggio scorso, quando tutta la Francia era in sciopero, io nella mia fabbrica ero come gli
altri in sciopero e con gli operai della mia fabbrica abbiamo occupato la fabbrica. Abbiamo fatto tre
settimane. Questa era una cosa politica ma dobbiamo più di questo essere impegnati per tutti i
problemi che sono importanti per la società e non solo per la piccola società di Francia e d'Europa
ma del mondo. La parola che il papa dice sulla guerra del Vietnam mi pare a me e ai miei amici di
lavoro veramente niente, nel vento, meno di niente perché questa veramente non è per nulla politica.
Allora bisogna che la nostra coscienza sacerdotale dica che certe parole del Vaticano sono politiche
in quanto danno un appoggio all'imperialismo e noi vogliamo appoggiare tutt'altro. Quello che dice
che non fa politica fa la più cattiva politica. Allora c'è una liberazione che vogliamo adesso per il
sacerdote: che non sia più il clero ma il sacerdote. Secondo: il lavoro. Perché è difficile per un uomo
che è troppo dipendente dal punto di vista economico essere un animale politico adulto. Abbiamo
bisogno di essere situati nella umana ed essere legati alla società che si costruisce con il lavoro.
Abbiamo una certa esperienza della trasformazione che il lavoro fa del sacerdote. In Francia già da
trent'anni vi sono sacerdoti operai. Ogni settimana vado ad una piccola riunione con un gruppetto di
sacerdoti. Siamo in cinque e quattro di loro lavorano da più di vent'anni. Allora sono veramente
operai: due sono muratori, uno montatore nella meccanica, l'altro è più intellettuale, è uno
specialista dei problemi dell'informatica, grosse macchine elettroniche. E' diverso questo gruppo di
sacerdoti: certi lavorano con la testa, altri con le mani ma si vede che questi sacerdoti hanno
esperienza del lavoro, sono anche legati alla Società dei lavoratori. Questo impegno è una
condizione della maturazione umana dell'uomo e del suo impegno politico. Nella misura nella quale
possiamo lavorare normalmente come gli altri uomini abbiamo una certa tendenza di fronte a tutte
le istituzioni di Chiesa. E io l'ho esperimentato. Le istituzioni di Chiesa sono fuori della mia vita.
Sono nella Chiesa io, si profondamente ma è piuttosto avere un tessuto di legamenti umani coi
sacerdoti, coi cristiani, con tutti i credenti più che con questa organizzazione che non ho l'occasione
di incontrare. Allora nella misura in cui il sacerdote diviene un uomo troviamo un terzo problema:
l'amore. Per il sacerdote questa legge che proibisce il matrimonio è veramente troppo assoluta.
Penso che questa decisione che è chiesta ai sacerdoti si trova ad essere risolta (scelta) in un periodo
nel quale il sacerdote non è ancora veramente un uomo. E' chiuso nell'istituzione, non è ancora
maturo nella sua personalità, non è maturo perché non ha lavorato, non è legato agli altri uomini,
non ha veramente vissuto i problemi della vita, non sa se potrà vivere ancora cinque, dieci anni
dopo la sua ordinazione. Io sono un po' una eccezione perché ho vissuto lavorando fino a
venticinque anni e poi ho ricevuto l'ordinazione sacerdotale a trentadue anni. A questo momento
sapevo già quello che facevo a differenza di quelli che sono stati molto giovani in seminario, Dal
punto di vista personale, se vogliamo, io sono molto risoluto nel mio celibato. L'ho scelto libero,
non ho cambiato idea, ho quarantasei anni e sarebbe un pochino troppo tardi per cambiare idea. Non
voglio male alle donne e non voglio che maritino un piccolo vecchio. Ci sono i sacerdoti giovani e
penso che la loro realtà umana può essere vissuta da questo obbligo assoluto del celibato. Abbiamo
certe amicizie nel nostro gruppo di sacerdoti che sono maritati e certi che sono fidanzati. E troviamo
che questa parola del matrimonio nella vita del sacerdote non è una rovina del suo sacerdozio.
Questo valore può essere ancora valore terreno del sacerdozio. Allora quando l'autorità della Chiesa
vuole vietare a questi sacerdoti il matrimonio non vediamo quali sono le ragioni che possono
avvalorare questa volontà assoluta. D'atra parte si vede nella storia della Chiesa, nella Chiesa
cattolica d'Oriente che i sacerdoti sono sposati e sono buoni sacerdoti. Allora abbiamo il sentimento
che abbiamo vissuto in un ambiente troppo stretto e così come dice la lettera agli ebrei nel Nuovo
Testamento: il sacerdote deve essere preso, tirato di fra gli uomini, ma non soltanto da una mezza
parte d'uomo ma da un uomo completo. E' nell'uomo completo che il sacerdozio deve essere vissuto
e più oggi che in passato perché lo sviluppo dell'uomo chiede al sacerdozio di essere lui di una
umanità più sviluppata. Ecco la figura del nostro movimento e i tre scopi che abbiamo presentato
adesso alla Chiesa e che vogliamo non soltanto chiedere ma cose che vogliamo fare e che facciamo
insieme. Siamo più di seicento in Francia ad avere firmato un testo di base. Sono migliaia che sono
d'accordo con noi e che abbiamo cominciato questo movimento per situare il sacerdozio in un
terreno più umano.
Altro sacerdote francese [non parla italiano, traduce André L]: Voglio presentare la figura del
sacerdote in un quadro più generale. Vorrei parlare dell’autorità della Chiesa perché i problemi che
abbiamo voluto definire per il sacerdote sono anche i problemi del popolo cristiano. Tutto il sistema
ecclesiastico per cominciare pare bloccato: dai vescovi al papa, ma vi è una autorità superiore al
papa che è la fede e l’espressione della fede. Ma la maniera concreta nella quale la fede è stata
espressa che si trova nei dogmi, nelle encicliche, eccetera, blocca il papa. Prendiamo l’esempio dell’
“Humanae vitae”, l’enciclica recente. I predecessori del papa hanno già formulato molte cose su
questo problema e il papa non poteva dire altro di quel che hanno detto i predecessori. Era bloccato
da quelli che avevano parlato prima di lui. Allora quando il papa è bloccato bisogna rompere il
sistema e questa soluzione è inventare una nuova formulazione della fede nella nostra vita e tutto il
popolo insieme. E’ la vita della Chiesa che deve aprire questa porta che è bloccata. Sono venuto
all’Isolotto per vedere come la Comunità vuole inventare un nuovo modo di essere cristiana. E’ ciò
che vogliamo fare anche noi a Parigi, in Francia, in Algeria un giorno: cercare di vivere col popolo
una nuova maniera di vivere praticamente la fede in Cristo. Perché l’espressione della fede
appartiene a tutta la Chiesa intera.
Enzo M.: Vi si domandava il senso della vostra solidarietà.
André L.: Don Mazzi diceva l’attitudine del nostro gruppo nel guardare gli avvenimenti
dell’Isolotto. L’abbiamo vissuto giorno per giorno con voi insieme a tutti i nostri amici.
Enzo M.: Il significato della vostra solidarietà. In che modo pensate di essere solidali.
André L.: La solidarietà con voi. La prima ragione è quella che diceva il mio amico pochi minuti fa.
E’ quella che siamo insieme a definire come oggi un popolo deve vivere la fede, vivere il mistero
del Cristo perché non abbiamo solamente bisogno di parole e di leggi che vengono dall’alto ma
abbiamo bisogno di Cristo vivente. Vogliamo trovare questo nuovo modo di vivere la fede e di
rendere Cristo vivente oggi. Una seconda ragione della nostra solidarietà è che vediamo in questa
Comunità una Comunità di gente che sono tutti partecipanti, che non sono soltanto un gregge di
questa parrocchia, ma un gregge che si prepara ad annunziare, non un gregge che vada alla
domenica alla messa perché la Chiesa l’ha voluto, per seguire una legge. Siamo gente che hanno
coscienza di quel che fanno, un popolo di gente che non sono i potenti dell’occidente, quelli che
hanno denaro, la potenza. E questo per noi è importante perché nel nostro gruppo di sacerdoti
francesi vogliamo essere legati a quelli che portano la loro passione nel mondo. Abbiamo detto
stamattina in diversi gruppi di sacerdoti a Firenze (che noi) pensiamo che la situazione del sacerdote
deve essere legata a quelli che sono oppressi e il cristiano deve essere legato a Cristo negli oppressi
perché insieme cerchiamo questa liberazione della quale Cristo ci ha parlato. Allora trovando una
comunità che corrisponde a questo ritratto siamo legati perché siamo tutti insieme, voi e noi, nella
lotta degli oppressi per un mondo liberato. Un’altra ragione della nostra solidarietà è trovare nella
vostra Comunità un sacerdozio che ha operato in una maniera differente da quella di capo non in
maniera gerarchica, ma in una maniera selvaggia, perché noi vogliamo essere non gente di autorità
nel mondo ma vogliamo essere come tutti gli altri con una relazione di lavoro, come Paolo che ho
visto stasera alle sei quando è tornato dal lavoro. E tutto questo è vicino a tutto ciò che noi
cerchiamo. La solidarietà viene anche dalla maniera con cui avete voluto vivere l’eucaristia che per
noi è il centro della nostra vita e l’aver fatto uscire l’eucaristia da una modalità artificiale. Anche
questa è una ragione della nostra solidarietà. Se loro verranno alla mia casa quando celebro il
mistero del Cristo è un pochino medesima a quando loro la celebrano nella loro chiesa quando era
aperta.
Enrico M.: In Francia - io non posso girare tanto perché sono un operaio - voi siete molto
cosmopoliti. Avete bianchi, neri, tutte le razze. Vorrei sapere come si comporta la Chiesa cattolica
verso questi negri, questi stranieri, se in diverse maniere o in una maniera sola.
André L.: La Chiesa è ciò che è un popolo. Non vuole partorire un’autorità che sta al di sopra di
tutti e che si comporta dall’alto al basso ma partire dalla base. Ogni Chiesa, come popolo, deve
esprimere i suoi geni propri. E’ un po’ quello che si fa qua all’Isolotto. Ogni popolo deve esprimere
il suo genio e dare un aspetto della fede nella maniera di incontrare il Cristo nel suo modo di vivere,
di impegnarsi, di combattere, eccetera.
Enzo M.: Non hai capito la domanda che era questa: In Francia ci sono molti stranieri, gente di tutto
il mondo. Ci sono algerini, si sono gente di colore. Come tratta la Chiesa ufficialmente, come
vengono trattati dal resto del popolo francese.
André L.: La Chiesa è lontana da questo problema. Per quanto riguarda il popolo nessuno vuole
passare per razzista però moltissimi sono contrari e non sopportano gli stranieri, gli algerini: che
tornino a casa loro. E’ una mentalità che deriva da una mentalità politica: questa superiorità del
popolo francese, questa coscienza di essere una nazione grande come De Gaul e questo modo di De
Gaul di dare l’orgoglio nazionale favorisce molto questo razzismo. E’ la politica internazionale
dell’Occidente che impunemente può fare la spoliazione, l’oppressione di tutti i popoli di colore. E’
un orientamento che influisce molto nella mentalità della gente perché hanno l’idea di essere questa
razza superiore e non vogliono perdere questa situazione eletta, superiore, ricca, essere un pochino
un padrone mentre al di sotto si trova una massa enorme: io non sono come gli altri, sono più ricco,
più intelligente, eccetera. Vogliono con questo essere razzisti nel loro orgoglio personale.
Voce maschile: Lei ha detto bene. Allora come si fa, come fanno loro a porre tutti i problemi che ha
posto lei? Non pensa che, prima di porre codesti problemi, di cercare di abolire il razzismo, di
lavorare in questo senso come sacerdote? Io penso che il problema qui all’Isolotto sia quello di fare
questa parificazione. Fatta questa base, cioè parificare tutti, tutti figli di Dio, che siano neri o che
siano gialli e poi ulteriormente cercare di migliorare le condizioni. Ma per prima la Chiesa cattolica
è l’unica cosa che dovrebbe fare: quello di pianificare cioè di portare tutti i popoli di Dio ad un
unico livello. Fate qualcosa voi per questo qui, voi sacerdoti?
André L:: Allora vorrei rispondere che ci sono diversi livelli per trattare questo problema. Un livello
quotidiano, anche se di secondo piano, è quello di essere gentili con tutti. Secondo piano è il piano
degli impegni pratici. Per esempio, nella mia fabbrica vi sono algerini e spagnoli e vorrei ottenere
dal sindacato uno statuto e una organizzazione che permetta veramente agli stranieri di poter
prendere nelle loro mani i loro problemi. Questo non è ancora fatto. Non so se possiamo dire che
nel nostro sindacato ci sia una situazione ottima per ottenere questo da parte degli stranieri.
Attualmente sono in una situazione inferiore per prendere nelle loro mani il loro problema. Questo
perché hanno problemi propri che non sono sempre i nostri. Se vogliamo una certa unità che
assimili tutti i problemi degli stranieri ai nostri sarà ancora razzismo. Allora bisognerà arrivare a
dare agli stranieri una esistenza reale nel Sindacato e arrivare a una contestazione fra gli interessi
degli stranieri e quelli dei francesi per arrivare a mettere il loro posto al livello del nostro e arrivare,
all’interno ella fabbrica, a difendere i loro interessi come i nostri. Allora il terzo piano più generale
della politica: abbiamo la volontà di impegnarci politicamente per un cambio totale, un socialismo.
Se stiamo in queste strutture occidentali razziste i nostri sforzi saranno vani. Bisogna impegnarsi
per un cambio profondo di statuto del mondo e rendere ai popoli neri, gialli, a tutti quelli più o
meno sviluppati dell’America, dell’Italia, della Francia egalità (uguaglianza) con gli altri uomini, la
possibilità di arrivare come noi. Siccome non abbiamo una comunità parrocchiale, la comunità nella
quale possiamo celebrare la messa, non siamo a questo livello.
Mira F.: Riguardo a questo problema mi pare che la situazione italiana non sia diversa da quella
della Francia quando noi ci comportiamo nello stesso modo con i meridionali d’Italia perché non
abbiamo gli algerini ma più o meno è lo stesso modo. Vado un po’ indietro: mi ha fatto pensare la
domanda che ha fatto il suo amico. Partendo dal problema dell’ubbidienza e dalle encicliche,
l’ultima l’Humanae vitae, ma ne possiamo citare altre, ha detto che il papa non può dire di più di
quello che ha detto, cioè dire di meno, perché è chiuso in una tradizione storica, è chiuso in una
istituzione che ha una storia e che non gli permette di essere diverso da quello che è. Quindi noi
siamo di fronte a una Chiesa come istituzione che è quella che è perché c’è tutta una storia che la
chiude, è una struttura avulsa dal mondo, una struttura che ha determinate leggi. Noi le abbiamo
sperimentate. Il Popolo di Dio esiste come parola, come fatto no, come fatto esiste il Diritto
Canonico, esistono i dogmi, esiste l’ubbidienza che è anche quella ubbidienza da gregge, da suddito
che obbedisce a un re. Noi siamo nell’ultima espressione di monarchia assoluta come diceva
Urbano alcune domeniche fa. Stiamo combattendo una lotta con tre-quatrocento anni di ritardo. E il
tuo amico ha detto: sono venuto all’Isolotto per vedere cosa si fa per esprimere come Chiesa, il
modo nuovo di vivere la nostra vera fede. Mentre diceva questo ci viene voglia di rispondere: allora
questa gente viene all’Isolotto per vedere se noi abbiamo inventato la nuova formula. Io non ho
pensato questo perché il vostro linguaggio è il nostro linguaggio. L’esperienza che voi avete
presentato è la nostra esperienza. Abbiamo riconosciuto come fratelli delle persone che abitano
migliaia di chilometri lontano tipo Gonzalez Ruiz. Ci ha parlato una sera e abbiamo detto: noi
abbiamo vissuto sempre insieme. E così succede stasera con voi: questi sentono le cose come le
sentiamo noi. Quindi come e perché ha posto questa domanda? Penso che ci sia un perché. Io non
sto rispondendo alla sua domanda. Solo dico quello che mi è passato dentro al cuore quando ha
posto questa domanda. In fondo la situazione di duemila anni fa. Cristo mi pare che si è trovato –
leggendo il Vangelo, vivendo in questa Comunità io ho capito questo – davanti un po’ alla stessa
situazione nostra e forse un po’ più tragica ancora. Lui era di fronte a una istituzione, alla grande
istituzione ebraica, alle leggi ebraiche, alla chiesa ebraica, che era alleata poi con le potenze
economiche e politiche di quel tempo, la stessa cosa che si svolge oggi. Ecco perché noi diciamo
vogliamo essere nella Chiesa ma non vogliamo creare uno scisma, una nuova Chiesa. Noi vogliamo
essere fedeli al Vangelo ma non per questo vogliamo fare i protestanti. Noi crediamo a questa forma
di rinnovamento. Noi pensiamo che l’unica forma di essere Chiesa è quella di essere come Cristo
duemila anni fa, cioè fare come lui, rompere con quella istituzione che opprime come lui ha rotto
con la istituzione ebraica di quel tempo e si è fatto povero coi poveri, si è messo dalla parte degli
oppressi, lui stesso il più oppresso di tutti, è andato in croce. Noi sentiamo che questo è vivere la
vera fede e non c’è la minima disubbidienza in questo atteggiamento interiore che poi si concretizza
perché è l’espressione veramente come Popolo di Dio, il sacerdote più vero di Cristo. E se voi preti
sentite altrettanto siete pienamente i nostri rappresentanti perché siete effettivamente Cristo in
mezzo a noi. Questa è la nostra esperienza. Non so se è una risposta.
Sergio G.: Prima di tutto in che rapporto vi trovate con la Gerarchia, se l’essere al di fuori in un
certo modo, come mi pare che dicevi tu, della struttura ecclesiastica deriva da una vostra scelta
personale perché lo decidete voi o perché invece per certe scelte che fate siete di fuori. Terza cosa: a
questo punto sia che sia per scelta fatta da voi o perché vi troviate messi fuori dalla struttura
ecclesiastica in quale rapporto rimanete con la struttura ecclesiastica tipo le parrocchie. Come vi
muovete all’interno del Popolo di Dio in relazione alla massa dei cattolici che frequentano ancora
più o meno la messa, la liturgia ufficiale. Poi, quali canali avete voi per rimanere in contatto col
Popolo di Dio inteso in una maniera un po’ di massa. Io non so se la mia idea è giusta o no. Noi ci
troviamo in una difficoltà, mi sembra, non so se è giusto questo, maggiore che non da voi perché ho
l’impressione che la massa da voi, nei vostri quartieri della periferia sia una massa quasi totalmente
assente da quella che è la vita ecclesiastica, di partecipazione, eccetera. Per cui anche la presenza di
preti che vivono al di fuori della struttura ecclesiastica ha ancora possibilità di movimento. Mentre
in un quartiere come il nostro, per esempio, cosa succede il giorno che la struttura ecclesiastica è
guidata per esempio, in un certo modo, secondo i criteri della struttura, a un prete, due prete, tre
preti che si trovano inseriti là dentro. In quale rapporto voi vedete che si fonda la presenza nel
popolo di Dio di un sacerdote di questo genere. Avete la stessa esperienza o le condizioni sono
diverse?
André L.: Allora, primo: relazione con le autorità; secondo: il nostro rapporto con le strutture.
Rapporti con l’autorità. Vorrei fare un’osservazione generale. Questo non ha nella mia
preoccupazione di fede il primo piano, ma l’autorità è un problema di secondo piano. Primo piano
per me è la fede, Cristo, gli uomini, eccetera. Detto questo la relazione è personalmente buona ma
non c’è nessun dialogo. E’ stato moto gentile, mi ha chiesto come stavo al lavoro, la salute di mio
fratello e di mia sorella ma quanto al problema centrale non c’è più intesa. Quando sono partito è
stato molto gentile. Col mio arcivescovo il rapporto è personale, lo posso vedere quando voglio, è
gentile. Sa che ci lavoro nella fabbrica. Non c’è nessuna condanna per noi. Noi pensiamo che questa
situazione non è cattiva. Per quel che riguarda l’istituzione, come ci siamo posti fuori
dell’istituzione. E’ quella la questione. Prima di lavorare io ero nell’istituzione. Sono stato
viceparroco nella periferia poi in paesi. Sono stato cappellano di un liceo importante un anno e sono
stato al catecumenato di Parigi. Il catecumenato è una comunità di quelli che vogliono conoscere
Cristo e che non sono battezzati. Stanno in comunità due, tre, quattro, cinque anni. Avevamo fatto
qualcosa di simpatico, di familiare, ma quando ho cominciato a lavorare ero ancora assistente al
catecumenato e ero membro di certe commissioni di studi sul catecumentato, sulla liturgia. Ero
professore in una scuola che si occupa, nel Belgio, del Terzo Mondo. Quando ho cominciato a
lavorare ho sentito che era un po’ troppo stare in tutte quelle assemblee. I capi di queste istituzioni
mi hanno fatto capire con la loro mentalità antiquata e ho visto il momento al quale era tempo di
andare via. Non sono potuto stare in questi gruppi, in queste istituzioni di Chiesa. Mi avevano
detto, quando ho cominciato a lavorare, che era utile rimanere con loro ma sei mesi, un anno dopo
la cosa era un pochino diversa. Allora mi sono trovato fuori di queste istituzioni. Attualmente ho un
legame non troppo grosso con l'istituzione perché sono riconosciuto come sacerdote che lavora e
come membro del gruppo operaio di sacerdoti del quale ho già parlato. Questi sacerdoti operai si
riuniscono come vogliono, abbiamo incontri a livello diocesano ma la decisione la prendiamo noi.
E' rarissimo che una autorità sia invitata. Può darsi che capitino ma sono molto discreti perché non
sanno che dire quando si parla dei problemi della vita, del lavoro, del sindacato. Non è il loro
terreno. A questo punto è l'autorità che si trova fuori. Vuoi formulare di nuovo la terza domanda?
Sergio G.: Domandavo quali sono i canali attraverso il quali voi recuperate un contatto con la
massa.
Mira F.: Non siete un gruppo di intellettuali e basta, insomma.
André L.: No, no, perché tutta la giornata è fuori dall'intellettualismo perché nel lavoro, se siamo
intellettuali, staremo presto fuori. Abbiamo già un contato importante con la massa che lavora, nella
fabbrica. Questo è il contatto di massa. Di fatto non si può mettere una targa, una etichetta
all'esterno: questo è religioso, questo non è religioso. In questa situazione di lavoro abbiamo una
missione se volete: di provare con altri uomini le soluzioni per il mondo d'oggi. Abbiamo una
missione per provare il senso della vita dell'uomo, per trovare un modo per cui gli uomini possano
mangiare, perché possano essere più uomini. Abbiamo il sentimento che il lavoratore si trova, nella
propria fabbrica di fronte al padrone e le istituzioni di lavoro, come un pochino schiavo, che non
può camminare in piedi ma come strisciare in terra. Questa liberazione del suo valore, della sua
dignità fa parte della nostra missione. E' una liberazione che portiamo insieme a tutti quelli che
lavorano: già in questo abbiamo un contato di massa. Da un altro punto di vista ciò che viviamo è
percepito da tutto un movimento di gente che abita con noi, che per esempio si trova a Parigi e che
viene dall'Algeria, da ogni parte, da non so dove. Se qualcuno di voi viene a casa mia vedrà che c'è
gente che viene a mangiare per discutere sul problema centrale. Non c'è il popolo locale, se vuoi ma
il popolo col quale siamo in contatto è un popolo in movimento, un popolo che trova una spinta nel
cammino del mio lavoro e che in certi momenti si trova a passare dalla mia casa, nella mia vita,
nella mia attività di sindacalista, nel mio lavoro. C'è anche gente che fa il mio stesso lavoro e
abbiamo incontri per trovare la soluzione del problema dell'uomo di oggi, per discutere dei
problemi specialmente religiosi che ci sono in questa vita. Si trova anche gente che non trova il suo
posto nelle chiese di Parigi. Si capisce. Se alcuni di voi erano nel centro di Firenze non certo si
ritrovavano nelle chiese davanti a casa loro. A Parigi sono tanti che non vogliono vivere più nelle
chiese. Allora cercano qualcosa che per loro abbia il significato di Chiesa. E abbiamo una certa
presenza in un movimento di cristiani che cercano di trovare la loro espressione cristiana. Abbiamo
certi gruppi, per esempio, che si chiamano "le lien", "collegamento" in italiano, e facciamo una
ricerca per gruppo attraverso tutta la Francia. Questi fanno una ricerca religiosa sui problemi della
loro vita, problemi politici, cristiani, eccetera. E lì ci sono sacerdoti che così sono dispersi e
sarebbero un pochino isolati. Hanno l'idea che la Chiesa li ha un po' abbandonati. In questi
movimenti che sono diversi, numerosi in Francia e che nascono anche in altri paesi, abbiamo il
nostro posto. Gli altri sacerdoti che sono nelle parrocchie di paesi non possono adesso avere il
dialogo con questa gente. Sono troppo chiusi nei loro problemi. Allora attraverso questi gruppi
organizzati, occasionali abbiamo questo contatto con la massa che cerca Dio e una certa liberazione
dell'uomo.
Sergio G.: Voi attuate anche la liturgia con questi gruppi?
André L.: La liturgia la celebro a casa ogni giovedì. Ho altri amici che la celebrano altri giorni. La
domenica generalmente vado da un altro sacerdote operaio che celebra la domenica. Alcuni giorni
vado a una parrocchia di Parigi ma è piuttosto raro. Sono due cose diverse: questi movimenti di
ricerca, di lotta e la celebrazione dell'eucarestia. Al giovedì non so mai chi viene e quanti saremo.
Generalmente facciamo la cena insieme a casa. Non so mai se ci sarà (cibo) sufficiente per dare da
mangiare a tutti. Ogni giovedì c'è la moltiplicazione dei pani.
Sergio G.: Questo ve lo permettono? L'autorità non interviene o fa finta di non saperlo?
André L.: No, no. Si fa finta di non sapere. E' veramente impossibile vietare ai sacerdoti di
celebrare la messa a casa. Tutti lo sanno.
Sergio G.: Allora voi siete considerati sacerdoti operai dal punto di vista giuridico? Un altro
sacerdote che non fosse sacerdote operaio può ugualmente fare codesto lavoro? Cioè il legame
giuridico passa attraverso codesto istituto "preti operai"?
André L.: A parte che tutti lo possono fare, generalmente i sacerdoti di parrocchia non lo fanno
perché sono più chiusi nelle loro istituzioni. Hanno la loro messa organizzata e questa celebrazione
selvaggia non è nel loro bagaglio.
Mira F.: Quasi una messa clandestina. In tante parrocchie si dicono messe. Non riesco a capire io.
Preferirei non dirla la messa se porto avanti una messa vitale con tutti gli operai con cui soffro tutto
il giorno lavorando. E quella gente penso che il giovedì non viene alla messa a casa tua. Verranno
pochissimi, quelli che sono legati da amicizia o hanno delle remore religiose. Io non riesco a capire.
André L.: Meglio una messa vivente in questo quadro familiare che volere essere sotto la ricerca di
un universalismo troppo astratta. Per esempio, il Cristo, lui non ha celebrato l'eucaristia la prima
volta nel tempio di Gerusalemme. Ha celebrato con quelli che conosceva, che avevano creduto in
lui, che poi erano molto più numerosi di quelli che hanno fatto la cena con lui ma ha fatto questa
celebrazione a casa come si faceva nel popolo di Israele. Corrispondeva alla maniera antica di fare.
Non sono persuaso che la messa nella chiesa sia la sola espressione. Credo che per rinnovare la
celebrazione collettiva in una grande chiesa, queste riunioni più intime sono un fermento
importante. Queste celebrazioni a casa non clandestine non sono in opposizione all'eucaristia
ufficiale, ma questa eucaristia, più vivente per noi, credo che sia una necessità.
Enzo M.: In che senso è una necessità?
André L.: Un necessità perché non possiamo vivere la nostra fede nell'eucaristia abitualmente nelle
chiese. Quelli che vengono a casa sono quelli che non possono andare più nelle chiese.
Mira F.: Un rinnovamento di vita cristiana, una coerenza della propria fede oggi che sente tutto il
popolo cristiano deve avvenire un rinnovamento simile anche nella vita liturgica. Oggi noi abbiamo
una vita liturgica formale, astratta, priva di contenuto e di significato. Questo si esprime in tutte le
parrocchie. Se noi fuggiamo da questa realtà e diciamo la messa nelle nostre case io vedo in questo
una grande tentazione perché non si fa un rinnovamento liturgico, non si rinnova una vita cristiana
se noi fuggiamo dalla realtà che è quella di una liturgia espressa in modo vuoto, formale, farisaico,
eccetera. Noi dobbiamo, secondo me, e secondo molti dell'Isolotto - perché questa cosa l'ho
maturata nell'esperienza dell'Isolotto. Dobbiamo portare avanti la nostra ansia di rinnovamento di
vita cristiana anche nelle espressioni più profonde come la liturgia ma là dove la liturgia si esprime
come popolo. Domani se verrà all'Isolotto un nuovo parroco, che non sarà un don Mazzi, un don
Sergio e un don Paolo, ma sarà un parroco che risponde al sistema e alla mentalità del nostro
cardinale e di tutti i cardinali che si comportano così, noi cosa facciamo? Perché lì non ci troviamo
più bene perderemo quel po' di fede, quella fede che ora abbiamo, che non è un po' ma per me è
tanta, andiamo nelle nostre case a celebrare la messa col nostro don Mazzi e col nostro don Sergio?
Io sento che tradisco i miei fratelli a fare così, quelli che non hanno questa possibilità e credo e
sentiamo che noi dobbiamo andare lì, nella nostra chiesa, e lì affrontare il problema di una vita
liturgica più vera, più coerente con una fede vissuta e non formale e vuota come è oggi. Riscoprire
il significato della liturgia, della messa, dei sacramenti lì dove si esprimono farisaicamente. Noi,
come popolo di Dio che sente queste cose, dobbiamo denunciare questo fariseismo, questa
ingiustizia che viene perpetrata proprio in nome di Cristo. Io non vedo la possibilità di un
rinnovamento della vita cristiana e delle sue espressioni più vive, quindi la liturgia, fuggendo e
rinchiudendosi in casa. Le esperienze storiche sono valide. Io vedo in un padre De Fucault che si
rifugia nel Sahara e che là celebra la sua messa, vedo una testimonianza valida in quanto come
persona, in una determinata situazione, ha portato avanti dei valori genuini, ha portato avanti una
rivoluzione in fondo. Ma oggi, oggi no. Non possiamo più ripetere quella esperienza lì. Oggi è il
popolo che deve prendere coscienza, insieme ai suoi pastori se ci sono, e in Francia ci sono, e
portare avanti questo discorso laddove si continua a celebrare delle messe come importanti
esposizioni di modelli, di cappelli e di gioielli e non sono veramente la vita cristiana vissuta. Per
questo non capisco la vostra esperienza.
Andrè L.: Sono d'accordo sulla ricerca vostra, sulla linea della vostra Comunità. Ma non è
l'opposizione che vedete tra la liturgia, l'eucaristia nella casa e la liturgia nella parrocchia. A parere
mio è una cattiva cosa di avere vietato nella Chiesa la liturgia a casa. Cristo l'ha fatto. Perché noi
fuggiremo facendo come Cristo? Non vedo la difficoltà in questo. A mio parere restituire nella
Chiesa la liturgia a casa è una realtà importante per lo sviluppo della liturgia nel suo insieme, per il
rinnovamento della liturgia nelle parrocchie. Il modo di fare nella mia casa permette ricerche più
umane e più profonde di quello che si può fare dove c'è tanta gente come in una parrocchia. Però di
fatto l'assemblea di una grande parrocchia, che è veramente una comunità, sarebbe importante per la
celebrazione che faccio io a casa. Non sono cose opposte. Non sono fuggito affatto facendo questo.
Voce maschile: Fra il cerchio che si realizza in casa e il fuori che rapporto c'è? Per voi, celebrando
in casa c'è il pericolo di un certo rinchiudimento, di una certa chiusura che può anche cambiare (la
liturgia) come ha detto lei, però c'è questo pericolo di chiusura. Che rapporto avete poi con gli altri?
André L.: Non è un problema. Dal momento che per noi, per voi è importante celebrare l'eucaristia,
perché non volete che la celebri a casa? Non ho capito.
Vittorio T.: Che cosa fate voi, secondo il vostro punto di vista, vedendo il mondo com'è realmente,
cioè a dire quelli che hanno più bisogno della fede, dell'amore verso Cristo, di imparare questo
amore: in questo caso noi vediamo che i più lontani da questo amore è la gerarchia ufficiale cioè a
dire i cardinali. Non ritenete necessario una missione di conversione nei confronti di quella gente
piuttosto che nei confronti degli operai che vivono la vita assomigliando a quella di Cristo? Perché
se oggi vediamo un malato, in questo caso, noi oggi lo vediamo in quella categoria. Oggi, viceversa,
nella categoria degli operai, pur rimanendo tale, non vediamo che si discosta dalla morale cristiana.
Se c'è un immorale nel cristianesimo si trova in quelle branche. Che cosa fate come missione?
Vedete che bisogna fare questo tipo di missione?
André L.: Perché (il mondo operaio) non è un problema di missione? Oggi in Francia vediamo
fabbriche dove la fede non esiste più. Nella mia fabbrica io non conosco nessun cristiano. Quelli
che vengono a casa mia non sono quelli con i quali io lavoro. Questa convocazione universale che
la Chiesa fa nella parrocchia io non sono ancora al punto al quale lo posso fare. Vado, come dicevo
quattro o cinque volta all'anno nella parrocchia vicina a celebrare con i sacerdoti e non è che la loro
eucaristia sia meno vivente della vostra. Adesso sono situato nel mondo, nella realtà in cui Dio
manifesta la rivelazione della sua presenza. E non sta a me di volere operare prima dell'ora scelta da
Dio. Penso che, nel mondo delle fabbriche di Francia dove non vedo l'avvenimento di una fede in
questo popolo che l'ha totalmente perduta, il tempo sarà lungo e io accetto volentieri di vivere tutta
la mia vita, se necessario, senza vedere niente. Quello che è al centro della missione è cercare di
vivere qualcosa che permetta all'uomo di riconoscere il dito di Dio. Ma non sono io quello che dà la
conversione, quello che fa veramente scoprire il Cristo. Io sono impegnato a vivere nelle migliori
condizioni perché il Vangelo sia presente, perché l'uomo sia capace di leggere. Ma bisogna
aspettare il momento. Prima io cerco di vivere qualche cosa che non sia in contraddizione con la
mia missione. Se in questa missione vado a celebrare una eucaristia che non è una preparazione a
quelle che forse un giorno potrò celebrare con questo popolo convertito la mia coscienza si troverà
in contraddizione. Preferisco questo modo provvisorio di celebrazione che è nella logica del mio
impegno sacerdotale. [parole in francese del sacerdote che lo accompagna]. Il mio amico dice che
una assemblea popolare operaia di fede come quella di stasera, e che non sia dei capi di questo
mondo, non l'abbiamo mai vista in Francia. In queste comunità artificiali in Francia c'è un altro
problema. La divisione di classe è tale che la classe che ha l'oppressione nelle mani si trova nelle
chiese. Ma non qua all'Isolotto, è vero.
Vittorio T.: Nella nostra chiesa, la chiesa dell'Isolotto, è logico che coloro che dovevano impegnarsi
a un cristianesimo che di fatto non praticavano non potevano rimanere come uomini indifferenti alle
parole dell'Isolotto perché venivano smascherati, venivamo svergognati. O loro si assoggettavano a
questo tipo di credere oppure si allontanavano. Infatti si allontanavano e andavano nelle chiese dove
la chiesa gli rimaneva comoda per discolparsi dei loro peccati. Perché in sostanza loro prendevano
la chiesa non come servizio nei confronti degli altri ma per servirsi nei propri interessi cioè a dire
nel proprio interesse per discolpare la propria coscienza. La nostra scoperta è stata proprio questa: la
Chiesa deve essere di servizio non per servirsene se no non è la Chiesa. E questo è quello che
maggiormente ci preoccupa: portare avanti questo tipo di discorso. Noi non rifiutiamo il vescovo e
neppure il papa, però lo rifiutiamo quando il vescovo non si trova nella posizione di vescovo
secondo la morale cristiana, cioè, come il Cristo ha detto, al servizio. E' questa la grande
contraddizione che noi vediamo.
Enzo M.: Quando tu hai parlato della tua fabbrica hai detto che non ci sono cristiani nella tua
fabbrica e che tu aspetti che Dio si manifesti e sei disposto ad aspettare fino alla fine della vita
senza vederlo manifestarsi. Ecco, noi abbiamo un'esperienza forse un po' diversa. A noi sembra che
le fabbriche, nei quartieri popolari, in mezzo alla gente, il cristianesimo ci sia e profondo, profondo
nell'anima proprio, e che Dio si manifesti anche. Si manifesta attraverso la sofferenza, si manifesta
attraverso la ricerca di una vita migliore, la ricerca del pane. La ricerca del pane per noi è già ricerca
di Dio perché nel pane c'è Dio. Non per nulla Gesù Cristo si è messo in forma di pane
nell'eucaristia. E credo che sia importante rendersi conto di questo perché altrimenti si rischia
ancora di compiere un gesto clericale andando nelle fabbriche, andando in mezzo al popolo. Io
credo che il popolo, gli operai delle fabbriche per esempio, non dimostrino esteriormente di essere
cristiani ma perché da parte delle gerarchie ecclesiastiche, da parte dei cristiani praticanti si è rubato
loro il cristianesimo, si è rubato loro il Vangelo vivo che è nelle loro mani. Si è portata via
l'etichetta di cristiani. Allora loro hanno l'impressione di non essere cristiani. Siamo noi che
pensiamo che loro non siano cristiani e Dio stesso, l'immagine di Dio che noi cristiani abbiamo
formato attraverso la storia è una immagine che non permette agli operai di esprimere se stessi. In
pratica il Dio, il Dio carabiniere, il Dio padrone, il Dio che manda all'inferno i cattivi e in paradiso i
buoni, ma intendo per cattivi quelli che per mangiare a volte sono costretti a rubare e per buoni
quelli che fanno molte elemosine, non so se mi sono spiegato, quindi che fanno dire molte messe
per salvarsi l'anima, allora dico che questa immagine di Dio non permette agli operai, alla gente del
popolo di riconoscersi in questa immagine, non permette loro di sentirsi a loro agio con questo Dio,
non si sentono dalla parte di questo Dio. Sentono questo Dio lontano, lo sentono assente, lo sentono
nemico, lo sentono padrone come i loro padroni, sfruttatore come gli sfruttatori, oppressore come
gli oppressori. Quindi non possono onorare, venerare, adorare questo Dio. Ma in realtà questo è
Dio? Iddio che tante volte noi preti rappresentiamo presso il popolo è Dio veramente? O non è una
deformazione di Dio? Questo è il problema. Allora penso che noi preti e anche i cristiani dobbiamo
stare vicini alla gente, dobbiamo essere presenti nelle fabbriche non tanto per aspettare la
manifestazione di Dio ma per aspettarla in noi la manifestazione di Dio, convertirci noi a una nuova
immagine di Dio, l'immagine di un Dio babbo, padre, l'immagine di Dio fratello, l'immagine di Dio
amico, l'immagine di Dio che lotta insieme, che cerca insieme il pane, che cerca insieme l'amore,
che cerca insieme la fraternità, che cerca insieme l'uguaglianza, che cammina insieme agli uomini
insomma. Allora penso che la prima conversione, la prima manifestazione di Dio dobbiamo cercarla
dentro di noi e se la troviamo dentro di noi immancabilmente la vediamo anche nella gente e la
gente la scopre in se stessa. Qui all'Isolotto, per esempio moltissime persone che avevano smesso di
credere perché non si può credere a un Dio carabiniere, a un Dio padrone, allora molta gente che
aveva cessato di credere ha rimesso in discussione questo loro ateismo, diciamo così, questa loro
non credenza, rimessa in discussione. Hanno detto: cerchiamo insieme perché effettivamente
dobbiamo cercare insieme una nuova immagine di Dio che sia aderente ai problemi della nostra
vita, della nostra esistenza. E penso che l'esperienza dei preti operai in questo senso debba andare
avanti e sia andata avanti. Credo che forse tu ti sia espresso, tu abbia espresso soltanto una parte del
tuo pensiero quando hai detto questo. Penso che veramente i preti operai da principio siano andati
veramente per portarci Dio, comunque sono andati perché le fabbriche erano scristianizzate, il
popolo era scristianizzato, ma poi vivendo dentro si sono resi conto che non era vero ma che il vero
cristianesimo era lì, nella fraternità magari che c'era fra gli operai, nella fraternità che c'era in mezzo
al popolo, era in quella lotta, in quella ricerca di un mondo più giusto, che c'era veramente un
cristianesimo profondo che doveva essere educato magari, che doveva essere portato alla luce,
insomma che doveva riconoscere se stesso magari e acquistare coscienza di essere veramente
Popolo di Dio.
André L.: Nel discorso don Mazzi quando dice che il cristianesimo è dentro questa vita, nella
fabbrica e che la gente intorno a noi vive questo cristianesimo meglio di noi, sono cristiani: questo è
vero. Ma non ho voluto dire il contrario. Ho voluto dire che il momento nel quale possiamo mettere
il nome del Cristo sul vangelo che è vissuto, questo momenti non mi appartiene. Non posso
anticipare il tempo di questo tipo di rivelazione, di manifestazione, ma riconosco nella mia vita il
mistero di Dio che viene prima che io arrivi dove vado. Ma di fatto, dopo tanti anni che i sacerdoti
vivono in fabbrica, nei cantieri, di fatto non abbiamo la possibilità di amici che credono nel Cristo
esplicitamente. Bisogna vedere in questi paesi nei quali il problema è veramente complesso per una
mentalità che ha una struttura umana che non ha nessun bisogno di Dio e lo dicono in una maniera
forte. Tu hai bisogno di Dio; io non ne ho bisogno: questo problema è un problema profondo. Mi
sembra di essere in un periodo tipo il Vecchio Testamento nel quale Dio ha fatto camminare il suo
popolo per un lungo tempo fino all’arrivo di Cristo. Allora è possibile che sia la mia debolezza che
non è capace di vedere ciò che bisogna fare per rispondere all’attesa dell'uomo per fare ciò che
Cristo vuole che io faccia, ma il nostro mondo moderno ha un problema enorme e non ha soluzione.
Enzo M.: E’ tardi, bisogna andare.
André L.: E’ tardi. Siamo molto contenti di avere incontrato la Comunità.
Enzo M.: Prima di andare via chi vuole prendere i foglietti, i notiziari con gli inviti per questa
manifestazione di domenica li prenda in segreteria. Io penso che sia aperta e che ci sia qualcuno che
li distribuisce per portarli alle case. Urbano voleva dire una parola.
Urbano C.: Io a nome di tutti direi a voi due che siete venuti qui stasera che questo incontro è molto
importante, molto importante per voi, e questo è chiaro perché siete venuti qui, e molto importante
per noi. Alla pari. Perché ogni volta che viene qui una persona, poi da tanto lontano, e poi ci si
ritrova così come se avessimo vissuto vent’anni insieme, con le stesse esigenze, questo è tutto
ossigeno, diciamo pure che è grazia di Dio che ci investe e che ci aiuta ad andare avanti perché
abbiamo una forza oppressiva addosso che è enorme. Noi vi si vorrebbe invitare tutti e settecento,
quanti siete. Non vi si potrà pagare il viaggio magari, ma quando siete qui vi si può assicurare a tutti
il vitto e l’alloggio per due, tre giorni la settimana se venite anche a turno. Io penso che questo si
farebbe volentieri perché è una cosa molto importante. Non so, voi domenica per esempio se siete
ancora a Firenze noi vi vorremmo qua in piazza a dire semplicemente due parole ma da una piazza e
un popolo che è la prima volta che si presenta in nome di Cristo. E sarebbe importante che ci foste
voi, ci fosse Gonzalez Ruiz. Sarebbe importante anche per tanti altri preti italiani, anche progressisti
che non sentono forse perché non hanno trovato il lavoro. Voi siete un po’ più avanti. Allora vi
aspettiamo domenica.André L.: Abbiamo un viaggio da più di un mese. C’è molta gente che aspetta a Milano. Dobbiamo
arrivare domani mattina. Se era possibile non dico no, ma mi pare veramente difficile. Lo lascio
sperare. Ma se non possiamo essere qua non è per un artificio per non essere solidali con voi.
Enzo M.: A Milano vi aspettano gli intellettuali.
Urbano C.: Dice Enzo che a Milano vi aspettano gli intellettuali mentre domenica in piazza è
un’altra cosa. In ogni modo ci rimettiamo a loro, è chiaro. Hanno degli impegni e non si può
pretendere la bilocazione. In ogni modo sarà per un’altra volta perché noi dobbiamo fare come il
Vietnam. Buona notte.