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Anna Magnani si è sempre sentita abbandonata sin da quando bambina viveva a Roma con la nonna “tra una lacrima di troppo e una carezza in meno”, quella carezza che avrebbe voluto ricevere dalla mamma lontana. Proprio dal desiderio di quell’amore negato nasce la sua vocazione artistica che la spinge a cercarlo nell’applauso del pubblico. Dalle tavole del palcoscenico dove si rivela interprete di dolente drammaticità all’affermazione comica nelle riviste accanto a Totò, dalle particine nei film degli esordi al grande riconoscimento internazionale con Roma città aperta, fino a La rosa tatuata che, prima attrice italiana, le fa conquistare l’Oscar. Nei suoi ricordi, in quelli del figlio Luca, nelle lettere degli amici e dei compagni di lavoro rivivono i retroscena drammatici e irresistibili del cinema tra Cinecittà e Hollywood sullo sfondo della società italiana e dei suoi cambiamenti. Il volto irregolare segnato dalle esperienze della vita, i grandi occhi luminosi, i capelli scarmigliati, la voce roca, la risata improvvisa, Anna vive il profondo bisogno di libertà che la porta a cercare l’indipendenza. Le sue appassionate storie d’amore, le tempestose litigate, le polemiche e le provocazioni ne fanno l’interprete-personaggio che sullo schermo si alimenta della propria fragilità, delle insicurezze e delle contraddizioni di un carattere forte, sempre sul punto di esplodere. La donna e l’attrice non sanno separarsi l’una dall’altra nelle figure femminili a cui dà vita con tutta se stessa, con la partecipazione totale di chi non si allontana mai dalla propria autobiografia. Nei personaggi indimenticabili dei suoi film – la leader di L’onorevole Angelina , l’amante di Una voce umana, la mamma di Bellissima, la dark lady di Nella città l’inferno, la comparsa di Risate di gioia, la prostituta di Mamma Roma – Anna ci viene incontro con le braccia aperte in una richiesta di aiuto, di complicità, d’amore. MATILDE HOCHKOFLER è nata a Verona e vive a Roma. Segue da molti anni il cinema italiano a cui ha dedicato ricerche, libri, mostre, programmi televisivi. Ha pubblicato tra l’altro le biografie Massimo Troisi. Comico per amore (1996) e Marcello Mastroianni. Il gioco del cinema (2001). Ha raccolto i suoi scritti sulla fotografia in Flash rubati (2003) e Le regole del gioco (2006). Si è occupata a più riprese di Anna Magnani, di cui nel 2004 ha curato con Luca Magnani la mostra Ciao Anna ai Musei Capitolini di Roma. ANNA MAGNANI MATILDE HOCHKOFLER ANNA MAGNANI LA BIOGRAFIA Con la collaborazione di Luca Magnani BOMPIANI OVERLOOK L’Editore dichiara la propria disponibilità ad adempiere agli obblighi di legge verso gli eventuali aventi diritto delle immagini pubblicate. ISBN 978-88-58-76378-0 © 2013 Bompiani / RCS Libri S.p.A. Via Angelo Rizzoli, 8 – 20132 Milano Per le lettere di Tennesse Williams Copyright © 2004 The University of the South. Prima edizione digitale 2013 da edizione Bompiani novembre 2013 In copertina: Anna Magnani. Archivio Luca Magnani. Progetto grafico: Polystudio. Copertina: Carla Moroni. Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. LA LUNGA VIGILIA Palazzo Altieri sorge a Roma a cento metri da piazza Venezia. La sua costruzione, iniziata nella seconda metà del Seicento, riprenderà solo più tardi con Emilio Altieri, il cardinale di famiglia destinato a diventare papa con il nome di Clemente X. Per raggiungerlo si passa davanti a vari negozi nell’affollata via del Plebiscito. Il portone principale si apre su piazza del Gesù mentre l’altro ingresso non meno imponente è sul lato destro. Attraverso il pesante cancello si entra nel cortile dove a sinistra l’acqua di una fontana di pietra sgorga dalla bocca di due leoni. Oggi il cortile è ingombro di auto. Una volta sugli antichi blocchi di basalto, tra le cui fessure spuntavano ciuffi di verde, i gatti dormivano al sole. Qui in via degli Astalli 19, all’ultimo piano del palazzo, al centro di venticinque secoli di storia e allo stesso tempo così vicino al cuore della città, viveva Anna Magnani. Nella sua casa, accanto ai ritratti dipinti da Renato Guttuso, Renzo Vespignani, Leonor Fini, Carlo Levi, spicca quello di Giorgio Tabet che la ritrae in abito rosso seduta su una poltrona, una gamba ripiegata davanti, l’altra a cavalcioni sul bracciolo. Nel quadro l’attrice appare giovanissima, una leggera frangia sulla fronte, i capelli lisci ai lati del viso in ordine come non sono mai stati. Accanto, l’omaggio di Fabrizio Bruschi che la immagina con una tigre ai piedi e una falce di luna alle spalle. Al buio, per effetto della colorazione fosforescente, la luna e la tigre si accendono di una luce irreale. Fra i suoi gatti, il Bechstein a coda, la fotografia di Tennessee Williams, quella di Bette Davis con la dedica, l’immagine di Eleonora Duse, i trofei cinematografici allineati sul caminetto dagli alari di ottone, i mobili settecenteschi, i tappeti orientali, le collane girate intorno alle statue giavanesi, le lampadine colorate dell’abat-jour liberty, il pupo siciliano appeso a una scala a chiocciola che porta sulla terrazza più alta, le librerie colme di libri, Anna si aggira scalza in pantaloni nascondendo anche a se stessa la propria ansia. Il 21 marzo 1956, alla vigilia dell’assegnazione degli Aca-demy Awards, attende l’esito delle votazioni circondata dagli amici più cari. È infastidita dall’atmosfera da Lascia o raddoppia? che le si sta creando attorno. Dopo la nomination per La rosa tatuata tutta la città partecipa all’attesa dell’Oscar, considerato quasi un evento nazionale. Per allentare la tensione, esce di casa sotto la pioggia e fa una lunga passeggiata con i suoi cani. Quando ritorna è più serena, ma solo alle quattro di mattina decide finalmente di andare a dormire. Appena due ore dopo viene svegliata dalla telefonata di un giornalista che cerca inutilmente di darle la notizia della vittoria. Gli butta giù il telefono perché crede che sia uno scherzo. Ma l’ostinato informatore la richiama e a questo punto deve convincersi. Da quel momento non ha più pace. In vestaglia e pantofole, spettinata più del solito, parla ai giornalisti di dieci radio europee e americane, si intrattiene con i reporter della televisione italiana e delle agenzie di stampa. La sua segretaria Valeria è sommersa di telefonate, telegrammi, fiori, richieste di ogni genere. Le domande le piovono addosso da ogni parte. Ogni tanto esce a guardare le cupole delle chiese dalla terrazza e poi si avvicina alla tribù dei cani e dei gatti che, disturbati dalla confusione, la vengono a cercare in mezzo alla folla. Verso l’una ha un po’ di respiro e può restare sola tra i cesti di rose che riempiono il salotto. Si mette al telefono e chiede la comunicazione urgentissima per Losanna. Dopo pochi minuti le risponde Cellino, così chiama suo figlio Luca, la prima persona a cui dà la notizia. “Cellino, amore, lo sai che la mamma ha vinto l’Oscar?” “Nooo.” “Come no? Sì, ti dico.” “Mamma, bravissima, sei contenta?” “Molto e anche perché mi hai detto brava, finalmente. Lo sai che è la prima volta che me lo dici? A te non piacciono i miei film.” “Be’, che c’entra, non parliamo di questo. Guarda che arrivo a Roma martedì.” “Ti aspetto, Cellino, amore mio.” “Arrivooo.” Il primo telegramma di rallegramenti lo riceve da Tennessee Williams: “La verità è che ieri sera è stato il tuo trionfo. Io lo sapevo bene, eppure ho dovuto faticare a convincerti. Nessuna tranne te sarebbe stata capace di impersonare Serafina così come l’ho vista, perché Serafina sei tu. Non so se riuscirò mai a smettere di scrivere personaggi per te, anche se tu li rifiuti.” Luchino Visconti le scrive con entusiasmo: “Anna cara, ti sono teneramente vicino prendendo parte alla tua grande, meritatissima gioia che premia ancora una volta e nel modo più clamoroso la tua vita di grande artista e il tuo generoso, autentico talento. Tutti i tuoi veri amici si stringono oggi attorno a te commossi e soddisfatti per ripeterti il loro caldo compiacimento. Brava, brava, brava. Ti abbraccio.” Burt Lancaster, suo partner nel film, le manda un mazzo di rose. Jean Renoir si congratula: “Bravò. Sono pieno di gioia.” Bette Davis le telegrafa in un italiano approssimativo: “Anna carissima, io lavoro con uno italiano, Ernest Borgnine, lui vencutto. Io competo con una italiana, Anna Magnani, lei vince. Voi italiani meglio se state a casa. Seriamente. Ernest e io mandiamo tutto la nostra amore e nostri congratulazione.” Anna le risponde: “Sono felice e orgogliosa che tu abbia voluto per un momento chiamarmi tua rivale e sono fiera di essere amica dell’attrice e della donna più adorabile del mondo. Ho un solo desiderio, rivederti e abbracciarti presto. Con tanto amore. Grazie.” Più tardi si reca in macchina all’Hotel Excelsior alla conferenza stampa organizzata dalla Paramount per la prima attrice italiana che ha conquistato l’Oscar. L’aria fredda e qualche spruzzo di pioggia entrano dal finestrino spalancato, ma Anna non se ne accorge neppure. Davanti all’albergo, dove una folla l’attende, esita un attimo, poi con un colpo di acceleratore si dirige su per la salita di via Veneto verso Porta Pinciana. Non può far aspettare Lillina, la bassotta che l’accompagna e deve fare la sua passeggiata. Quando arriva in ritardo nel grande salone dell’albergo, fra il lampo ininterrotto dei flash dice ai giornalisti: “Sono felice perché penso di aver fatto al pubblico del mio paese il regalo più bello che era in mio potere di fargli. Questo è il più gran giorno della mia carriera, la più bella sorpresa che potessi aspettarmi e che del resto non mi aspettavo. Sono soprattutto felice perché con me la cinematografia americana ha premiato l’Italia. Ma è soprattutto a Roma, alla mia città, che intendo riferirmi quando parlo dell’Italia. Devo aggiungere una cosa, devo esprimere la mia gratitudine verso il senso di democrazia del grande popolo americano che non ha esitato ad attribuire il massimo premio artistico dell’anno a un’attrice straniera.” Nella tarda serata festeggia con gli amici che sono rimasti con lei: la sceneggiatrice Suso Cecchi d’Amico, l’operatore Aldo Tonti, il radiocronista Lello Bersani, la giornalista Egle Monti, il suo compagno Gabriele Tinti. A casa improvvisa una cena con antipasto, vino rosso, spezzatino di pollo con patate, polpette e tre porzioni di crostata. Quando finiscono, Anna ride: “Le donne di servizio sono state proprio brave. Ci siamo mangiati tutti gli avanzi di ieri.” Due giorni dopo, nella pace del Circeo, trova finalmente il tempo di raccontare in una lunga lettera sovreccitata a Natalia Danesi – l’amica che aveva incontrato nei primi spettacoli teatrali e poi a New York, dove si era trasferita con il marito americano – la sua reazione al premio e il contraccolpo in Italia: “Natalia mia, che momenti. Dopo però, solo dopo! In novantasei ore ne avrò dormite sì e no dieci! Tutta la notte del 21 l’ho passata serenissima e calma, non ci pensavo proprio, credimi, come del resto ti ho scritto più di una volta. Perciò trovavo ingiustificata l’‘asmatica’ ansia di certi miei amici, e in particolar modo presi in giro Egle Monti fino alle tre di mattina svegliandola ogni tanto con false notizie sul ‘l’ho preso’, e ‘non l’ho preso’, fino all’ultima telefonata che si è svolta così: ‘Egle sai non lo posso prendere.’ ‘Ma perché, Anna mia, cosa è che te lo fa supporre, tu me fai morì!’ ‘Ma sì Egle, non lo posso prendere stasera, perché il Tinti (il mio Leone) è troppo stanco e domattina si deve alzare alle otto.’ Dall’altra parte del telefono mi è arrivato un bel ‘ma vammoriammazzata’. E così ci siamo addormentate ridendo! “Alle sei di mattina, quando mi hanno svegliato per dirmi che un giornalista straniero aveva da comunicarmi una notizia importante, ho creduto a una vendettina di Egle, e perciò ho sbattuto bellamente il telefono in faccia al poveretto, dicendogli piuttosto scocciata: ‘Voglio dormire, a quest’ora non mi piacciono gli scherzi!’ Questo assatanato richiamandomi con urla incomprensibili ha cercato di farmi capire che ero un’irresponsabile. Insomma dalle sei e mezzo è cominciata la processione. La mia casa è stata invasa letteralmente. Giornali, fotografi, radio inglese, americana, francese, televisione, Incom. Il pomeriggio conferenza stampa! Insomma il tutto è andato avanti fino al 23 notte, con gli ultimi giornalisti, e l’ultimo Giornale Radio. Burt Lancaster si è fatto vivo con un telegramma, è felice per il mio meritato Oscar, è sempre stato sicuro che lo avrei preso. Finiva così: ‘Love and kisses.’ Io gli ho risposto: ‘Anche tu lo avresti dovuto prendere.’ Frank Capra mi ha telegrafato: ‘Congratulations, viva noi.’ Borgnine, dopo le congratulazioni: ‘È questo un grande giorno per Roma.’ Io ho risposto che era un grande giorno per l’Italia!!! Poiché anche lui in fondo era italiano. Wallis, Ten, Audrey, Irene, Hazen, e l’operatore. Tutti, e centinaia di altri e poi migliaia di italiani a me sconosciuti. “Uno dei più carini è stato il telegramma di due ragazzi di sedici anni. Uno, il figlio di Suso, e l’altro un suo amico, che in un unico telegramma mi hanno detto: ‘Tutti i nostri complimenti e la nostra solidarietà. Abbasso le bone.’ E io a loro: ‘Alla vostra età ci vogliono anche le bone. Comunque grazie per la vostra solidarietà.’ Flora Volpini mi ha telegrafato: ‘Tuo Oscar ha finalmente messo un limite fra curve e arte. Brava brava.’ Tutte le giovani del nostro cinema, meno le bone, si sono fatte vive! Dovrei scriverti un memoriale di troppo lunghe dimensioni per descriverti tutto. Quello che posso dirti è che è stato per me il più bel giorno della mia vita come donna e come artista! Giulio Andreotti, Oscar Luigi Scalfaro, Giuseppe Saragat e tanti altri che ora non ricordo. Ti manderò tutti i ritagli dei giornali che ti prego di mostrare a Wallis e a Irene. Sono tanti e meravigliosi e Janet sta mettendoli in ordine. Una copia arriverà anche a Martin. Mostrali anche al mio adorato Ten, al quale devo la base del mio trionfo. Insomma Natalia mia, cosa è successo qui non ne hai la più pallida idea. Rose, rose di tutti i colori, la casa era completamente invasa. Insomma dopo non so quante ore di rincoglionimento stento a credere di essere così importante! Delle dive di Hollywood, e cioè fra le candidate all’Oscar, solo Jennifer Jones si è fatta viva con un cordialissimo telegramma. Il resto, meno Marisa Pavan che ha accettato per me il mio Oscar, silenzio. Ora mi viene in mente una cosa. “Ti ricordi che Hal mi disse: ‘Se il film ha successo ti regalerò una jeep!’ Dico, mi pare che oltre al successo del film già avuto alla prima di New York con i relativi premi della critica e della stampa estera, oggi è arrivato perfino l’Oscar. Non pensi che il nostro amato Hal dovrebbe tramutare la jeep in una bella macchina, una bella Cadillac decappottabile, per esempio? Che lo possino! È un po’ duro da quel lato, ma in fondo me la meriterei! Non fosse altro, pe’ fa’ schiattà un po’ tutti qua a Roma! Non ho davvero bisogno di macchine, ma l’idea che il mio produttore americano faccia questo gesto per me, sarebbe molto bello. Lunedì sarò a Roma e martedì riprendo il lavoro. Insomma Natalia mia che ti devo dire, vedi che sto scrivendo come un’analfabeta, perché le idee si affollano nella mia mente con una velocità irraggiungibile dalle mie mani, visto che per forza mi sono intestardita a scriverti a macchina. Mi illudo di far prima! Pensa, se te la scrivevo a penna questa lettera ci mettevo molto meno e la scrivevo meglio. È l’una e ti sto scrivendo dalle nove! Comunque adesso le ridò una guardata. Natalia, ti abbraccio. Scrivi presto, per favore, e dimmi tutto. Ti sarei molto grata se mi dessi ulteriori reazioni e informazioni.” Ma l’avventura di Anna è cominciata molti anni prima. UNA LACRIMA DI TROPPO E UNA CAREZZA IN MENO Marina, la mamma di Anna, è figlia di Ferdinando Magnani, che era nato a Ravenna come sua moglie Giovanna Casadio. Si sono sposati molto giovani, quando il mestiere di lui, usciere nel tribunale della città, gli permette appena di mantenere la famiglia. Nei primi sette anni di matrimonio nascono Maria, Marina, Venere chiamata Rina e Dorina, da subito Dora. Ferdinando viene trasferito a Cesena, dove nasce Olga. A Catania, dove vede la luce Romano, l’unico maschio. A L’Aquila nasce la più piccola, Italia. Quando da Forlì arrivano a Roma il 1° luglio 1905, la città è ancora un grosso borgo, ma sta estendendosi soprattutto nella vasta scacchiera dei Prati di Castello tra il Palazzo di Giustizia che i romani chiamano “Palazzaccio”, dove lavora Ferdinando, e il Vaticano. È proprio a pochi passi dalle mura della città del papa, in via Candia, che vanno ad abitare i Magnani. Dopo i vari trasferimenti, Ferdinando continuerà a ricoprire l’impiego di usciere fino alla pensione. Giovanna è una brava sarta che con il suo lavoro aiuta il bilancio familiare e avvia anche le figlie al suo mestiere. Da giovani la seguono un po’ tutte, ma l’unica che si mette in luce è Olga. Quando molti anni più tardi si trasferisce ad Alessandria d’Egitto, apre un atelier con cui diventa famosa. La più irrequieta della famiglia è Marina. Ha un temperamento forte, insofferente a ogni costrizione. Due anni dopo essere arrivata a Roma non esita a infrangere la regola per cui viene prima il matrimonio e poi i figli. Ha solo vent’anni, non è sposata, ma rimane incinta. Partorisce all’Asilo Materno di via Salaria 126, l’istituzione benefica sorta solo cinque anni prima per “ricoverare, mantenere, curare e assistere le madri nubili, minorenni o giovani, al fine di riabilitarle e restituirle al lavoro e alla famiglia.” Il 12 marzo 1908 denuncia all’ufficiale di stato civile la nascita della figlia avvenuta il 7 marzo alle 13.30 e sceglie per la bambina i nomi di Anna e Maria. La figlia è nata dalla sua unione con un uomo “non coniugato, non parente né affine con lei nei gradi che ostano al riconoscimento”, come si legge sul certificato di nascita. Pochi mesi dopo parte per Alessandria d’Egitto dove abiterà nel quartiere El Attarine, in cui vivono molti italiani che si sono trasferiti lì. Il papà di Anna non si presenterà mai per riconoscerla. Si sa solo quel poco che lei ha voluto rivelare in numerose interviste: “Ma quante volte ve lo devo spiegà che non sono stata raccattata per strada, che ho fatto fino alla seconda liceo, che ho studiato pianoforte otto anni, che ho frequentato l’Accademia di Santa Cecilia? O come quando sostengono che sono nata da padre egiziano in Egitto. Ma io so’ nata a Roma da madre romagnola e padre calabrese, come dice il certificato di nascita. In Egitto mia madre ci andò dopo che mi ebbe avuta. Aveva vent’anni, non era sposata e a quell’epoca era uno scandalo, così andò in Egitto e io restai con la nonna qui a Roma. Perché non c’è nessuna vergogna, sia chiaro, a ripetere che io non ho il nome di mio padre. Ho quello di mia madre. Mio padre non l’ho conosciuto, di lui so soltanto che è calabrese, che si chiama Del Duce. E allora perché mi vogliono a tutti i costi egiziana?” Forse perché l’Egitto ha una parte importante nella sua vita. È il luogo lontano, al di là del mare, che le porta via la madre quando è in fasce. Dove vanno ad abitare anche le zie Olga e Italia. Dove il 13 ottobre 1913, al Cairo, nasce sua sorella Yvonne, chiamata in famiglia Mina. Dove è nato il suo futuro marito Goffredo Alessandrini, che in un memoriale degli anni sessanta ricordava come Anna gli avesse confessato che suo padre era in realtà egiziano. Dove nel 1923 si reca a incontrare la mamma. Come rievocherà con l’incantata nostalgia della memoria: “Ero molto fiera, era la prima volta che facevo un viaggio così lungo. A Napoli mi imbarcai sull’Esperia, la più bella nave che allora collegava Napoli con Alessandria d’Egitto. Sulla nave sognavo, ah come sognavo. Quando vidi l’Egitto, mi sembrò un mondo appena uscito dalle pagine di un libro. Avevo letto L’Atlantide e quello che vedevo era proprio l’Atlantide. Poi vidi mia madre. Lei rise e io risi. Indossavo un ridicolo cappello che la divertiva e io mi divertivo a vederla ridere. E pensare che me l’ero messo per essere bella e farle buona impressione. Da quel giorno non ho più messo in testa un cappello. Mamma mi piacque subito. Adoravo il suo modo di parlare, di raccontare le cose. Ha un senso fantastico dell’umorismo, mia madre. Se vuole è capace di farti ridere fino alle lacrime per ore intere. E che temperamento! È una donna nobile e coraggiosa. Conobbi anche mia sorella. Aveva cinque anni meno di me e andava a scuola. Per me invece era l’eterna vacanza. Andavamo al ristorante, al cinema. Mamma viveva con un ricco austriaco in una casa splendida. Ogni giorno andavamo a mangiare in palazzi lussuosi. Purtroppo non riuscii a conquistarla veramente nonostante la gioia di essere con lei e il lusso che mi circondava. Mi venne presto il desiderio di ritornare a Roma. Di colpo sentivo la mancanza della mia povera casa con le zie che la sera, al ritorno dal lavoro, raccontavano le loro cose, i piatti da lavare. Qui, circondata com’ero da domestici, l’atmosfera era completamente diversa, non c’erano più i gerani, i polli, la mia camera e soprattutto mia nonna. Adesso mi rendo conto che a quindici anni non potevo pretendere da mia madre le coccole che mi aveva fatto mia nonna quando ero piccola. La nonna mi prendeva sulle sue ginocchia, mi metteva a letto, mi pettinava, mi raccontava le favole. Io ero dispettosa. Qualche volta, mentre per farmi addormentare mi raccontava una favola, io facevo finta di dormire e poi, mentre lei si allontanava, gridavo: ‘Ancora una, ancora una favola.’ In Egitto era tutto diverso. Ero troppo grande, ormai, per pretendere di essere ancora una bambina.” Sua madre vive con il padre di Mina, una bambina bionda, minuta, con gli occhi azzurri che non le assomiglia per niente e che la madre le preferisce per il carattere docile, sottomesso. Anna non può che sentirsi ancora più sola. Al ritorno a Roma trova di nuovo rifugio nell’affetto della nonna. Marina, quando torna in Italia per un breve soggiorno, acquista a Fano una piccola casa accanto a quella dei genitori del padre, originari della città marchigiana. Ma, dopo appena cinque mesi, ritorna a Roma e di nuovo in Egitto. Il resto della famiglia cambia spesso abitazione. Anna, che non parla mai dell’appartamento di piazza Costaguti 34, molti anni più tardi ricorderà invece la casa di via San Teodoro nello stesso quartiere, con il grande soggiorno dal pavimento di mattonelle marroni a fiori e una cucina economica a carbone, blu e bianca. Sopra, un ripiano dove erano appoggiate le lampade a petrolio, le scatole delle spezie, il calendario. D’inverno, sulla piastra centrale c’era sempre una cuccuma che bolliva. La portafinestra dava su una grande terrazza piena di vasi di gerani e di polli che la nonna aveva deciso di allevare. Anna li amava molto: “Ricordo che avevo una gallina. Era piccola, tutta nera, con un ciuffetto di piume sulla testa. Forse non era intelligente, ma a me piaceva così. Una sera, dal fondo della mia stanza, sentii che mia nonna la voleva ammazzare. La nascosi nel mio letto e dormii con lei tutta la notte.” A tavola era sempre seduta tra la nonna e lo zio Romano. Come unica bambina della famiglia, se ne stava muta con la testa tra le mani e ascoltava le conversazioni dei grandi. La zia sarta parlava di stoffe con la zia modista, la zia impiegata raccontava del suo lavoro o prendeva in giro Romano, il solo maschio della famiglia. Era il beniamino della nonna, che aveva fatto molti sacrifici per lui. “Era tutto molto bello e allegro, nove persone che si amano e vanno d’accordo non si trovano tutti i giorni.” Le piaceva ripensare a quella casa che l’aveva vista bambina: “Spesso, quando sono a Roma, passo sotto le finestre e la guardo. Ho voglia di salire quattro piani, di bussare alla porta e dire: ‘Buongiorno, sono vissuta qui, posso entrare?’ Avrei una voglia matta di comprarla, lo farò. Sarà come entrare nuovamente nel grembo di mia madre. Una così bella casa sul Campidoglio con vista sul Palatino. Sì, sarà come ricominciare a vivere. La mia stanza era là, alla seconda finestra a destra, che bella la mia cameretta. Era tutta per me. Così semplice, così ordinata. La pulivo tutti i giorni, volevo che fosse come un castello. In quella stanza ero sola al mondo, imparavo cosa significa la solitudine. Allungata sul letto, gli occhi chiusi, sognavo. Era il mio gioco preferito. ‘Sono al mare, c’è il sole, ci sono le onde, la sabbia è calda. Adesso piove e la terra emana il suo inconfondibile odore di terra.’ Viaggiavo molto lontano con la mia fantasia. Attraversavo muri, scalavo montagne, camminavo, camminavo, senza che nessuno potesse fermarmi. Leggevo molti romanzi di cappa e spada, I tre moschettieri, Il ponte dei sospiri, La congiura di San Marco.” Quando muore, nel 1930, il nonno Ferdinando abita a piazza Cenci. Sua moglie Giovanna era scomparsa a sessantasette anni il 10 novembre 1929 in via Giacinto Mompiani 7, nel quartiere Prati. Anna ricorderà così la nonna: “Che personaggio fantastico! Un angelo. Una forza. Il fuoco. La dolcezza. Il velluto. Amavo, adoravo mia nonna. Era bellissima con quel viso dai lineamenti finissimi. Era una donnina minuta e fragile e al tempo stesso mi sembrava enorme. Sì, perché rideva sempre, e parlava, parlava, parlava di tutto e di niente, e soprattutto dei suoi capelli bianchi. Spesso andavamo a passeggio per le strade di Roma. Lei mi teneva per mano e mi diceva: ‘Anna cara, te ne prego, cantami qualcosa.’ Sorrideva e allora io cantavo: T’aggio vuluto bene a te! Tu mm’hê vuluto bene a me! Mo nun ce amammo cchiù, ma ê vvote tu, distrattamente, pienze a me! Reginè’, quanno stive cu mico, nun magnave ca pane e cerase nuje campávamo ’e vase, e che vase! “Chi si ricorda di Reginella, questa vecchia canzone napoletana? La cantavo a voce bassa e la nonna si chinava su di me per sentirla meglio e mi diceva: ‘Canta, canta ancora.’ Era così felice la mia nonna quando cantavo. A volte la sua voce si univa alla mia e cantavamo tutt’e due affrettando il passo, come se il nostro cuore si fosse messo a danzare. Quando arrivavamo davanti a una pasticceria frugava nella sua borsa alla ricerca di qualche soldo e mi comprava una pasta. Mentre la divoravo, i suoi occhi mi seguivano felici.” Le poche foto che rimangono di Anna da piccola la mostrano mingherlina, le gambette lievemente storte. Nella pastosità di un bianco e nero poco definito il viso spicca pallido con una serietà da adulta, i grandi occhi infossati guardano con una domanda muta, trasmettendo una sensazione di tristezza. In posa tra le zie Dora e Italia, vestita di sangallo bianco, la frangetta nerissima che le copre la fronte, tiene tra le mani un cerchio di legno, il gioco preferito dei bambini della sua epoca. Il nasino, già importante, è identico in miniatura a quello delle zie che stanno in piedi dietro di lei. Sono molte le ricostruzioni romanzate della sua vita infantile, delle scuole che avrebbe frequentato, tratte fantasiosamente dalle dichiarazioni spesso contraddittorie che ha rilasciato in età adulta, quando era già famosa. Ma ha preferito tenere gelosamente nascosta questa parte della sua vita nel tentativo, non sempre riuscito, di rimuoverla. “Ho detto che ero allegra? Davvero? Non è vero. Non ero allegra, non potevo esserlo, perché mi mancava mia madre. Forse è questa mancanza che mi ha riempita di complessi,” ricorderà in un’intervista. “A casa sentivo spesso parlare di mia madre. Guardavo l’album delle fotografie e ne ero molto orgogliosa. Mamma era bellissima, bruna, con gli occhi color dell’acciaio. Avrei tanto voluto assomigliarle. Purtroppo, però, io vivevo con la nonna, non con la mamma, e quando ero allungata sul letto non potevo parlarle dei miei sogni e delle mie fantasticherie, non potevo sentire la sua voce, il calore del suo affetto. Le scrivevo spesso in Egitto, dove mamma viveva con la mia sorellastra. Io le scrivevo e lei mi mandava dei bei vestiti di seta, molto raffinati. Strano, vero? Appartenevo a una famiglia, diciamolo pure, povera e ricevevo vestiti da principessa. Eravamo dunque così diverse io e mia madre? Avevo l’impressione che lei non mi amasse come l’amavo io.” Quasi a conferma dei suoi dubbi, quando Marina torna un giorno dall’Egitto per far visita alla famiglia a Roma, scopre che Anna, ormai in terza elementare, non sa ancora le tabelline, anche se suona bene il pianoforte. Decide allora di mandarla in collegio. La nonna non dice niente, le zie rimangono mute con la testa nei rispettivi piatti: “Ai miei occhi la mamma apparve improvvisamente come un mostro di ingiustizia. Entrai in collegio con la morte nel cuore. Era un collegio di suore francesi. Ero talmente triste che avrei voluto che piovesse, così almeno anche l’atmosfera sarebbe stata più adatta al mio stato d’animo. Era estate o inverno? Poco importa, nella mia piccola testa tutto era nero. A ogni modo, il primo pensiero che mi venne alla mente fu quello di andarmene, di evadere. Una domenica, io e due mie amiche ci nascondemmo all’ultimo piano, nella sala delle docce, e aprimmo tutti i rubinetti, poi serene e angeliche andammo a messa. Un’ora dopo, al nostro ritorno, tutto l’edificio era inondato e le suore correvano di qua e di là come impazzite. Avevo vinto il primo round. Non contenta, due settimane dopo, con le stesse amiche ci mettemmo a recitare in classe una pantomima durante l’ora riservata allo studio. La suora che ci sorvegliava era molto miope e non riusciva a capire perché tutta la classe si rotolasse dalle risate. Lo capì, però, la madre superiora che, dopo aver rischiato un infarto, ci punì privandoci della frutta e della libera uscita e facendoci balenare lo spettro delle fiamme dell’inferno per l’eternità.” Per fortuna la nonna la riporta a casa quando la zia Dora si sposa. L’incubo è finito. “Non appena fummo in strada ci mettemmo a cantare Reginella.” Ma sia pure malvolentieri deve continuare gli studi: “Come io sia riuscita a frequentare la scuola rimarrà sempre un mistero. Non facevo i compiti, non studiavo le lezioni, eppure riuscivo sempre grazie alla mia straordinaria memoria. Mia nonna non si chiedeva come mai, sola fra tutti i ragazzi di sua conoscenza, non facessi i compiti. A lei tutto sembrava normale.” Non raggiunge il metro e sessanta, è ancora molto magra, ha le mani e i piedi piccoli, ma la vivacità dei suoi occhi verdi colpisce chi la incontra, come l’energia e la determinazione che ha ereditato dalla nonna. Lascia il ginnasio per studiare pianoforte all’Accademia di Santa Cecilia di via Vittoria. Quando scopre che al quinto piano dello stesso palazzo ha sede anche la Reale Scuola di Recitazione Eleonora Duse, decide di partecipare agli esami di ammissione che cominciano all’inizio di ottobre. Tra gli esaminatori c’è Silvio d’Amico, il grande critico che insegna Storia del teatro. Una sera, tornando stanco a casa, dice al figlio Lele: “Oggi è venuta da noi una ragazza. È bravissima, è un vero talento, ma io non riesco a prenderla sul serio perché è uno sgorbietto, assomiglia pari pari al patriarca di Gerusalemme.” Però alla fine le sue innate doti di attrice lo convincono. È così che Anna, nell’autunno del 1926, comincia a studiare recitazione. Solo qualche settimana dopo entra in funzione il nuovo, moderno ed elegante teatro di cui la scuola è stata finalmente dotata. Si tratta della piccola cappella sconsacrata delle Orsoline proprio adiacente all’Accademia che, dopo molte insistenze, d’Amico è riuscito a farsi concedere dalla curia romana. Sarà in questo teatrino settecentesco che l’anno successivo avverrà il primissimo debutto teatrale di Anna, costituito dai saggi della Eleonora Duse nel marzo e nel dicembre 1927. La sua insegnante preferita è Ida Carloni Talli, che si è ritirata dalle scene continuando la carriera nel cinema. Dalla sua vivace comunicativa di prima attrice, Anna impara ad apprezzare sia il drammatico che il comico. Entusiasma i compagni per il suo brio, per le canzoni arabe imparate nel soggiorno ad Alessandria, che canta in lingua originale, nonostante stia sempre a punzecchiarli con la sua ironia. Lo stesso d’Amico ricordava quanto fosse svogliata alle lezioni, mentre il suo talento si manifestava completamente nelle esercitazioni pratiche di recitazione. Dirà più tardi: “Ho scelto questo mestiere perché non ho mai voluto dipendere da nessuno. Ma no, cosa dico? Le cose non stanno proprio così. Ho scelto questo mestiere perché avevo voglia di essere amata, di ricevere tutto l’amore che avevo sempre mendicato. Ecco, ci risiamo, è il solito dannato complesso materno. Ho anche capito che non ero nata attrice. Avevo solo deciso di diventarlo nella culla tra una lacrima di troppo e una carezza in meno. Per tutta la vita ho urlato con tutta me stessa per quella lacrima, ho implorato quella carezza.” Nel saggio del primo corso interpreta, incredibilmente magra, Le donne curiose di Carlo Goldoni e Barberina di Alfred de Musset, in cui è accanto all’amico Paolo Stoppa con una buffa zazzeretta. Nel saggio del secondo corso si esibisce in alcuni brani di La facciata di Fausto M. Martini, di Caccia al lupo di Giovanni Verga e di Il poeta fanatico di Carlo Goldoni. Della sua prima apparizione sul palcoscenico rimane una piccola foto. Con un abito settecentesco, la parrucca argentata, fa la vezzosa. Il viso rivolto al cavaliere che le sta vicino, gli lancia un sorriso ammiccante, mentre un’altra dama la scruta con l’occhialino. La scuola prevede un terzo anno, ma se ne va a metà del secondo perché entra come generica nella Compagnia Drammatica Italiana di Dario Niccodemi, una delle formazioni più importanti dell’epoca. È l’affascinante Vera Vergani, prima attrice della compagnia, a insistere con Niccodemi perché la scritturi. Anche lui l’ha notata, ma esita perché gli sembra bruttina. Anna ricordava: “Devo tutto a Vera Vergani, la più bella signora del mondo, un esempio di disciplina e di correttezza. Mi guidò nei primi passi sul palcoscenico, mi faceva coraggio con una profezia che doveva mutarsi in una splendente realtà. ‘Tu diverrai una grande attrice,’ mi diceva.” La loro amicizia continuerà anche negli anni successivi. Vera le scriverà spesso, affettuosa e materna come allora. Inizia la professione di attrice con la paga giornaliera di venticinque lire al Teatro Manzoni di Milano, dove la compagnia si esibisce alla fine di dicembre di quello stesso anno. Ha appena diciannove anni e le sue prime partecipazioni consistono in poche battute pronunciate da una piccola cameriera: “La signora è servita”, o da un paggio impacciato nella Partita a scacchi di Giuseppe Giacosa in cui annuncia: “Il conte di Fombrone sollecita la visita del mio nobil padrone.” Ne avrà un ricordo amaro: “Come mi avevano ridotta! I pantaloncini con lo sbuffo, le calze di due colori, in testa un berretto con le piume. Ero magrissima e timidissima. Mi guardavo le gambe così buffe, una gialla, l’altra grigia e mi sentivo terribilmente infelice. Dovevo entrare in scena e annunciare l’arrivo di un barone. Aveva un nome difficile o almeno così mi sembrava, lungo e strampalato, chi se lo ricorda, è passato ormai tanto tempo. So che cercai inutilmente di pronunciarlo, e più mi sforzavo, più consonanti e vocali mi si ingarbugliavano sulle labbra. Scappai tra le quinte piangendo, convinta che le mie ambizioni teatrali fossero per sempre stroncate.” Solo pochi mesi dopo aver calcato per la prima volta le tavole del palcoscenico partecipa già a una tournée sudamericana. La Compagnia Niccodemi parte da Genova il 26 luglio 1928. Durante il viaggio, conosce il giovane pianista Carlo Zecchi, diretto anche lui in Sud America per una tournée. È un breve flirt che dura il tempo della traversata e pochi giorni a Buenos Aires. Ma Anna conserverà per anni una sua foto con dedica. Reduce dal Sud America, sbarca a Genova con il Conte Rosso il 30 novembre e ricomincia subito a recitare al Teatro Paganini della città ligure. Mentre l’anno dopo si trova a Milano, muore la nonna che era stata per lei una seconda madre e l’unico punto di riferimento della sua infanzia. L’aveva vista solo pochi giorni prima, tra un treno e l’altro: “Conosco l’Italia e tutte le stazioni ferroviarie. Ma quella che non potrò mai dimenticare è la Stazione Termini di Roma. Era inverno, non pioveva, ma faceva freddo e tutti avevano fretta di andare a casa. La nonna mi accompagnò fino al treno. Partivo per una nuova tournée. I facchini ci spingevano, le locomotive fischiavano come bestie impazzite. Salii sul treno e dal finestrino salutai la nonna. Non potevamo più parlarci. Guardavo il suo viso piccolo, i suoi capelli nascosti nello scialle nero, così belli. E in quel momento capii che non l’avrei più rivista. Mia nonna morì sei mesi dopo. Tornai di corsa. Mi chiesero se volevo vederla sul letto di morte, ma dissi di no. Credo che anche lei avrebbe preferito che il mio ricordo fosse quello di Reginella. Da quel giorno ebbi il coraggio di ribellarmi, di fare uscire da me stessa quello che prima era sempre rimasto nascosto, di gridare quando ne sentivo il bisogno, di tacere quando ne avevo voglia. Sì, quel giorno era nata la Magnani.” Supera il dolore buttandosi nel lavoro. Continua a recitare nella compagnia di Niccodemi, in cui Elsa Merlini sostituisce Vera Vergani, che lascia le scene per sposare il capitano di marina Leonardo Pescarolo. Il 18 gennaio 1930 Anna appare nella sua prima rivista, che prefigura il felice incontro che avrà con il teatro leggero. Triangoli di Dino Falconi e Oreste Biancoli è una fantasia musicale che inaugura in Italia la stagione della rivista senza ballerine. Nel quadro Alla corte del Re Sole i personaggi rappresentano i fiori che hanno il sole per re. A lei tocca la parte di Gardenia, che canta e danza un balletto parodistico con Nino Besozzi, Tulipano. Il costumista aveva inventato per lei un bolerino di raso bianco cosparso di strass e dei calzoni di chiffon verde molto bassi sui fianchi che lasciano scoperto l’ombelico. I binocoli degli spettatori più maliziosi si appuntano su quell’ombelico che, assieme al brio, contribuisce a fare apprezzare la giovane attrice. Nella sua tournée la compagnia in maggio tocca Roma, dove si esibisce prima al Valle con nuove commedie e poi all’Argentina con Triangoli, replicandolo per dieci sere. Resta fino all’estate del 1930 con la formazione di Niccodemi, che in luglio è all’Olimpia di Milano con l’intero repertorio della stagione, per passare poi al Teatro Arcimboldi di via Unione. La compagnia è formata da un gruppo di giovani attori. Il programma comprende, accanto a qualche commedia straniera, molte novità italiane dei più noti scrittori del momento. La Fiera Lampionaria, sottotitolo Segnalazioni di attualità con musica, prende di mira gli avvenimenti cinematografici e sportivi dell’epoca, le recenti innovazioni urbanistiche, i nuovi semafori luminosi, le catenelle degli incroci e i guantoni bianchi dei vigili. Anna resta all’Arcimboldi fino al 3 maggio 1931. Quando è a Roma abita in via Alessandria 192, non lontano da dove è nata. Nel luglio dello stesso anno partecipa a 800-900-1000, la rivista di Carlo Veneziani messa in scena dall’autore all’Odeon di Milano con la compagnia estiva di Anna Fontana. Nella stagione 1931-1932 entra nella compagnia di Antonio Gandusio, uno dei mattatori dell’epoca, che aveva raggiunto larga popolarità come attore brillante. Il periodo con Gandusio è fondamentale nella maturazione dell’attrice, che fino allora non aveva mai avuto occasioni da protagonista. È alla scuola di un attore versatile e comunicativo come lui che perfeziona la sua naturale disposizione per il teatro brillante o addirittura comico, confermando la sua antica e già sperimentata vocazione per la rivista. Anna ha ventitrè anni, Gandusio cinquantotto. La sua precoce disinvoltura le fa superare la differenza d’età: inizia una relazione con il maturo capocomico sostituendo Lola Braccini, che è diventata l’amante di Paolo Stoppa. Cappello bianco a larga tesa, abito di seta a fiorellini minuti con ampia gonna, guanti bianchi e borsetta sotto il braccio, al guinzaglio un volpino nero, in una foto d’epoca passeggia compiaciuta per le vie di Milano a fianco dell’attore. Dopo alcune città minori, la compagnia approda al Teatro Carignano di Torino. Accanto all’esuberante comicità di Gandusio in Bourrachon si mette in luce come Genovieffa, moglie del protagonista. La sua affermazione prosegue con Tifo!, che ha l’onore della copertina di “Il Dramma” del 1° luglio 1932. Vestita di un lungo abito bianco con le maniche bordate di pelliccia scura, i capelli a caschetto tagliati corti sulla nuca, tiene in alto la mano di Gandusio in tenuta da calciatore, il piede destro sul pallone. Sorridente, con il braccio teso, indica l’attore all’applauso del pubblico. In ottobre è in un’altra formazione che comincia a operare a Roma. La Compagnia di Spettacoli Comici e Musicali diretta da Aristide Baghetti ed Ermete Liberati debutta al Teatro Argentina il 15 ottobre con Amore mascherato di Sacha Guitry. Non è un caso che, dopo l’esperienza con Gandusio, continui a scegliere un repertorio leggero, con commedie brillanti, spesso comiche, che mettono in luce la verve naturale che ha scoperto di avere, oltre al gusto musicale e alla voce che sa modulare con abilità dopo i lunghi anni di pianoforte. In quel periodo il suo nuovo amore è Giorgio Nunes, un giovane che si trasferirà in America, dove farà fortuna con l’import-export di olio. In una affettuosa lettera di molti anni dopo, quando lei è già diventata celebre, Giorgio ricorderà con nostalgia la piccola Anna che si disperava perché il suo cagnolino era rimasto schiacciato da un fondale dell’Argentina. Le commedie che interpreta nella stagione 1932-1933 sono spesso di autori francesi, molto rappresentati in quegli anni. Già da qualche giorno il suo nome campeggia sulle locandine subito dopo quello dei direttori: “Prima attrice: Anna Magnani.” Ben presto è la sua serata d’onore. In una foto scattata a Milano, all’interno della Taverna degli artisti Penna d’oca club, è seduta a un tavolo coperto da un’ampia tovaglia candida attorniata dagli attori della compagnia. Accanto a lei, sorridente nel suo bistrato look d’epoca che la fa sembrare più matura, c’è Aristide Baghetti. Gli altri, seduti o in piedi, fanno corona all’unica donna presente, un’ape regina in mezzo a un harem tutto al maschile. È in questa compagnia che conosce Natalia Danesi, in arte Niny. Dopo aver recitato per qualche tempo sulle scene italiane, Natalia incontra l’americano William B. Murray Sr., lo sposa e va a vivere a New York. Quando le due amiche si ritroveranno negli anni cinquanta, Natalia lavora per l’editore Mondadori come redattrice e responsabile per la scelta e la traduzione di romanzi italiani. Un personaggio delle commedie di questo periodo sembra già anticipare le future interpretazioni cinematografiche di Anna. È Youki, la maliziosa diva del varietà che fa perdere la testa a uno studente deciso ad abbandonare gli studi. La sua sfrontatezza e la sua eleganza saranno tra poco sfruttate dai registi, che però non avranno da offrirle copioni altrettanto brillanti di quelli che ha interpretato a teatro. *** Mia madre non amava ricordare. La sua famiglia era formata da sei sorelle e un fratello, ma non si frequentavano. Una volta, mentre ero al Circeo con una nuova bambinaia, mia madre disse a mia nonna Marina di venire a controllare la situazione. La nonna era autoritaria e, visto che avevo sempre i capelli lunghi, decise di portarmi dal barbiere di San Felice, che me li tagliò in maniera assurda. Quando la mamma tornò da Roma, successe una tragedia. La nonna sapeva che mia madre non voleva che avessi i capelli tagliati alla sanfeliciana, ma lo fece lo stesso. Litigarono in maniera violenta, ma tutto finì lì. Era una romagnola tosta e credo che avesse un rapporto difficile con mia madre. Andava invece d’accordo con la seconda figlia, Yvonne detta Mina, che era attaccatissima a lei, si può dire che vivessero in simbiosi. Mina era buona, tranquilla, remissiva. Aveva sposato François Bekhyt, un ricco agente di borsa libanese. Hanno vissuto in Libano e poi si sono trasferiti ad Alessandria d’Egitto. Quando è rimasta vedova è venuta a Roma a prendere la nonna per tenerla con sé. Prima di ritornare in Egitto, Marina viveva da sola nel quartiere di San Giovanni a pochi passi dalle sorelle Olga e Venere detta Rina. Avevano scelto il quartiere forse perché la speculazione edilizia di quegli anni aveva costruito molto nella zona. Ognuna delle zie viveva per conto suo e non riuscivano a stare insieme. Mia madre fece un tentativo di prendere un grande appartamento dove Olga, Marina e Rina potessero organizzarsi meglio. Ma non ci fu niente da fare. Rina andava da zia Olga quando io ero a pranzo da lei, come bambino piccolo fungevo da catalizzatore. Zia Olga non si era sposata e da giovane faceva la sarta. In Egitto aveva aperto un grande laboratorio. Tornata in Italia, vi ha vissuto fino alla morte. Zia Dora abitava a Roma, si è sposata e ha avuto due figlie, Lilla e Lauretta. Zia Rina era una signora che teneva molto al suo aspetto, non aveva figli e viveva nella memoria del marito francese che era stato in diplomazia. È morta a Roma. Zia Maria era la più anziana delle sorelle, ma l’ho conosciuta poco. Italia, la minore, si è sposata ad Alessandria d’Egitto con un medico da cui ha avuto la figlia Marcella e, in seconde nozze, Marisa e Janot. Zio Romano era sposato con tre figli, Sergio, Giovanna e Maurizio. A Fano il padre della nonna aveva una casetta in cui tutte le figlie andavano durante l’estate. Negli anni venti Marina aveva acquistato una piccola casa tutta per sé vicino a quella del padre. Ci sono stato a sei anni nel 1948 e anche l’anno dopo. Fano era molto povera, mezzo diroccata. Dalla casa della nonna si andava direttamente alla spiaggia. Rimasi impressionato dai manifesti di Pietro Nenni che tappezzavano tutti i muri perché c’erano appena state le elezioni. Andavo a trascorrere sempre le vacanze in Italia, la prima volta a Fano, poi a Ladispoli. A Fregene, nell’albergo Villa Schipa, ho trascorso un mese per tre o quattro estati. Andavo anche in montagna a Monte Cavo con zia Dora e al Terminillo con Nina, la tata con cui vivevo in Svizzera. LITIGAVA CON VIOLENTA DIGNITÀ Anna incontra Goffredo Alessandrini per la prima volta a Milano nel novembre 1931, quando è nella compagnia Gandusio. Il regista siede con alcuni amici a un tavolo del Bar Savini in Galleria. Mentre sta parlando, si interrompe e si volta verso il tavolo vicino dove vede una giovane bruna, magra, di una bellezza particolare. Chiede agli amici chi è quella ragazza. È un’attricetta, gli rispondono, una certa Anna Magnani, di cui nell’ambiente si dice che abbia un temperamento vulcanico. Gli viene presentata come una sua compatriota. La bella ragazza, dai capelli nerissimi con la frangetta, ha sotto la poltrona un grazioso ma scorbutico Pomerania nero che ringhia. Goffredo le chiede perché sono compatrioti. Lei gli risponde che ha vissuto per qualche tempo in Egitto. Scambiano così alcune battute in arabo. Quando l’anno seguente, insieme a Giorgio Bianchi, assiste a una recita della compagnia Baghetti, tra le attrici vede una ragazza bruna che gli sembra di aver già incontrato e chiede all’amico se la conosce. “Sì, certo, si tratta di Anna Magnani.” Alessandrini si ricorda di quella sera al Savini e si presenta in camerino. “Cerco una voce per doppiare Greta Garbo,” le dice, “e ho pensato a lei.” Anna è sorpresa: “La Garbo, non so se rendo l’idea. E lui aveva pensato a me. I casi erano due, o era matto lui o ero matta io. Due mesi dopo seppi che aveva inventato la storia per rivedermi. Potevo serbargli rancore? No di certo, ne ero già troppo innamorata.” Accetta di essere riaccompagnata in automobile al suo albergo. Incomincia così il primo grande amore della sua vita. Goffredo Alessandrini, figlio di Laura Pizzagalli e dell’ingegner Ermete che aveva diretto i lavori delle due prime dighe costruite dagli italiani ad Assuan in Egitto, è nato al Cairo il 20 novembre 1904, ma si allontana dalla famiglia per andare prima in Sudan e poi a Cambridge, dove studia ingegneria. Tornato in Italia, si iscrive ad architettura. Debutta con successo nella regia con la commedia La segretaria privata, brillante rifacimento di un film tedesco. Subito dopo il rappresentante della MetroGoldwyn- Mayer a Roma lo fa chiamare a Hollywood per dirigere il doppiaggio italiano dei film americani. Goffredo è un personaggio che non passa inosservato. Che entri in un bar di via Veneto o in un teatro di posa berlinese, il pittoresco regista è immediatamente riconosciuto. La figura agile e allampanata, l’eleganza vistosa, la trascinante vitalità sono inconfondibili come il suo ossessivo interesse per le donne. Tutta presa dall’appassionata storia d’amore con Goffredo, quando il regista sta girando Seconda B negli stabilimenti della Cines di via Veio a Roma, Anna per stargli vicino rinuncia a ogni tournée che la porterebbe in giro per l’Italia. È in questo momento che comincia a pensare al cinema. Attiva in teatro da quasi dieci anni, è solo nel 1934 che appare per la prima volta sullo schermo in La cieca di Sorrento, il mélo di Nunzio Malasomma ambientato a Sorrento all’epoca del borbonico Regno delle Due Sicilie. Truccata in modo pesante, le labbra accentuate dal rossetto, le procaci scollature, ingoffita nei lunghi e stratificati abiti ottocenteschi, è pur sempre una presenza forte, la passionale antagonista della diafana e bamboleggiante Dria Paola, attorno a cui ruota la vicenda. Prima della fine, Anna esplode in uno dei suoi proverbiali scatti di irruenta generosità e con gli occhi spiritati irrompe tra le belle statuine della festa di fidanzamento per smascherare il colpevole. La sua relazione con Goffredo è ormai nota a tutti. “Il Dramma” dedica loro la copertina del 15 marzo 1934. Fotografati uno accanto all’altro con alle spalle il busto di Molière hanno l’aria felice. Dopo il successo del suo ultimo film Seconda B, il regista ne inizierà un altro con Anna come protagonista. Ma il progetto sarà sostituito da Don Bosco, scritto con Sergio Amidei, il futuro sceneggiatore di Roma città aperta che ricordava così il suo primo incontro con l’attrice: “La conobbi a Torino nel 1934. Lavoravo insieme a Goffredo Alessandrini. Facevamo Don Bosco. E Alessandrini, allora non erano ancora sposati, mi parlava sempre di questa Anna. Anna qui, Anna là, Anna su, Anna giù. E un giorno nei corridoi del trucco sentii una gran risata, come non ne avevo sentito mai, e vidi passare, come una folata, una donna bruna con un incredibile vestito verde e una pelliccia di leopardo. Una scena indimenticabile. Questa era Anna. Una presenza che sentivi, fortissima. E, in fondo, io adatterei a lei quello che José Bergamín Gutiérrez disse di García Lorca: ‘Si sentiva che stava per arrivare e quando era andato via era ancora presente.’” Nello stesso anno interpreta un piccolo ruolo in Tempo massimo, scritto, prodotto e diretto da Mario Mattoli negli stabilimenti della Cines. L’impresario di teatro, qui al suo esordio nel cinema brillante, punta sulle doti buffonesche di Vittorio De Sica e sul talento canoro di Milly. Insieme cantano Dicevo al cuore e molte altre canzoni di successo. Anna impersona Emilia, la cameriera che tenta di sedurre il protagonista con aggressiva civetteria. All’inizio del 1935 esce Quei due di Gennaro Righelli, prodotto da Giuseppe Amato. Il nome di Anna non appare neppure nei titoli di testa. La sua è una scena brevissima, estranea alla vicenda principale di cui sono protagonisti Eduardo e Peppino De Filippo, che si contendono Assia Noris. Il sogno del cinema si rivela per il momento una grande delusione. La cieca di Sorrento, Tempo massimo, Quei due sembrano dar ragione a Goffredo. Il cinema non fa per lei, Anna non è fotogenica. Il futuro si incaricherà di dargli torto. Le soddisfazioni le vengono intanto dal teatro dove ritorna con successo. Il 7 marzo debutta con la nuova compagnia Spettacoli Eliseo, di cui fanno parte i fratelli Guido e Giorgio De Rege. La prima rivista che inaugura la stagione è Casanova non sei più tu! Gli appassionati di varietà non si lasciano sfuggire l’appuntamento con i due comici stralunati e irresistibili che si sono fatti notare già da qualche anno. Guido in tight e bombetta aggredisce verbalmente Giorgio che, naso enorme e baffoni spioventi, è perfetto nella parte dell’idiota. Anna viene molto applaudita nelle divertenti parodie di Francesca Bertini e di Paola Borboni con cui mette alla berlina le esagerazioni del divismo. Con la nuova rivista I milioni di Michele Galdieri e Arturo Milone, pseudonimo di Eduardo De Filippo, si inaugura il lungo sodalizio tra Anna e Galdieri, uno dei maggiori autori del teatro leggero. Lo spettacolo è pieno di riferimenti, diretti e indiretti, alla società italiana. Si prendono allegramente in giro la lotteria di Tripoli, l’arte novecento, la crisi teatrale, Villa Borghese aperta di notte. Nel “cosiddetto pacifismo tedesco” c’è persino un accenno di satira politica. Il pubblico applaude e richiede il bis. Già da qualche tempo è andata a convivere con Goffredo in via Margutta, nello studio che Alessandrini ha preso in affitto dal regista Carlo Ludovico Bragaglia. Nella stessa casa vive anche Bragaglia, che assiste spesso ai litigi dei due giovani e alle rimostranze di Anna che non si rassegna alle continue infedeltà del compagno. Molti anni dopo si lamenterà con gli amici dicendo che le donne come lei si attaccano solo agli uomini con una personalità superiore alla loro, ma che lei non aveva mai trovato un compagno con una personalità capace di sopraffare la sua. Ha sempre trovato uomini “carucci”, per i quali ha pianto, ma solo lacrime da mezza lira. L’unica eccezione è Goffredo. L’unico che anche negli anni successivi continuerà a stimare senza riserve restandogli sempre affezionata: “Ma quando l’avevo sposato ero una ragazzina e finché sono stata sua moglie ho avuto più corna di un canestro di lumache.” Il clima di questo momento irripetibile della vita di Anna, sospeso tra l’amore per Goffredo e l’ansia per le sue infedeltà, si ritrova nell’unica lettera rimasta di quel periodo: “Nannetto mio, ho ricevuto il tuo telegramma. Io e i bambini siamo molto contenti della tua premura, specialmente Spot che per tutto un giorno, dal momento in cui tu sei partito, s’è rintanato in un angolo e non ha voluto mangiare niente, neanche la carne. Se vedessi Nannì come è carino col suo faccino triste. Solo questa mattina s’è avvicinato a me come per farsi consolare. Non ti dico, Nannì, che guaio per quel mio pranzo di ieri. Pensa che la nuova donna non è venuta. Sista nemmeno, io ero in un mare di guai non sapevo come fare, insomma l’infermiera mi ha salvato, è la parola. Ha corso tutto il giorno, è andata a farmi la spesa, è andata a casa sua a prender tovaglie e posate. Poi ci siamo messe in cucina alle tre del pomeriggio e alle sette era tutto pronto. Ho dormito un’oretta e alle otto e mezza ho potuto ricevere alla meglio i miei amici. Però la sera sono andata a letto che avevo la febbre. Avrei potuto rimandare tutto ma siccome Donata era di passaggio a Roma e partiva stamane, ho pensato che non era il caso di rimandare. Ma che fatica, Nannì! Questa mattina poi c’era a colazione la mia zia campagnola col marito. Sono rimasti con me fino alle sei, poi ho preso i canini e sono andata a fare una lunga passeggiata a piedi. Stasera sono andata a teatro con la Giulietta e dei suoi amici. Poi siamo andati a cena alle Grotte del Piccione dove abbiamo trovato naturalmente Onorato, Ferrero, Bellini. Eccomi a casa e ti scrivo subito. Nannetto, quando torni? Non ti dispiace non avermi vicina, a me ha fatto molto male che tu potessi lasciarmi per dieci giorni con tanta indifferenza, invece io sono molto diversa da te. Magari litigare tutto il giorno, ma non posso restarti lontana per molto, e credo che dieci giorni saranno troppi! Sei in hotel? Ci sono belle donne? Nannì, ti prego fai il bravo bambino, pensa invece soltanto a curarti e scrivimi, dimmi se hai cominciato la cura, dimmi tutto. Immagino che la reazione di questa cura debba essere un po’ forte per te, ma pazienza se questo deve farti bene. Com’è il clima lassù? Se dovesse far molto freddo, telegrafami che ti spedisco ancora qualche maglia, per corriere ti arriverebbe da un giorno all’altro. Ciao, amore mio, vado a nanna, non spender molti soldi, ma soprattutto non far la corte a nessuna, pensa che dolore mi daresti, non ti basta che io ti voglio un bene matto? Tanti bacioni. Tanti tanti. Nanna tua. P.S. La luce di Bragaglia è già pagata e la tua giacca verde è già da Ciro.” Qualche altro frammento della vita sentimentale di Anna lo si può trovare nelle piccole foto che il fidanzato le scatta sulla spiaggia di Ostia commentandole con brevi frasi scherzose. Anna è in compagnia del suo setter maculato che sbadiglia: “Ostia! Che barba!” Quando tiene in braccio due piccoli cani, il commento è: “La madre dei Gracchi!” In costume e cappello a pagoda vicino al setter: “Le due dive!” Con a fianco la bassotta Lula con le zampette arcuate: “Le due storte!” Con un abito lungo guarda il mare riparandosi dal sole con la mano sinistra: “All’Ovest niente di nuovo!” Anna e Goffredo si sposano in Campidoglio il 3 ottobre 1935. I testimoni sono Rosina Iannone, l’infermiera di Anna, e Pasquale Pirro, suo marito, un centurione della Milizia in divisa. Goffredo, che all’anagrafe risulta residente a Cortina d’Ampezzo, dove abita spesso nella villa dei suoi, ha quasi trentun anni. Anna, che nel certificato dichiara di averne ventisei e non ventisette come nella realtà, risiede a Roma dalla nascita. “Secondo le cronache mondane, i matrimoni in genere sono una cosa grandiosa. Il mio non fu cosi,” ricordava. “Avvenne a Roma, in municipio. Rivedo gli uscieri, le scale con le ringhiere di ottone, i tappeti. Il sindaco, drappeggiato in una sciarpa tricolore che sembrava un pareo, doveva essere dimagrito di almeno trenta chili nella notte. Il suo povero collo, irritato dal rasoio, navigava nel colletto della camicia. La testa si muoveva di qua e di là, mentre il collo restava immobile. Il pover’uomo doveva pensare che fossimo matti da legare. Eravamo arrivati con mezz’ora di ritardo perché mio marito aveva dimenticato a casa le fedi e adesso, guardando il sindaco, non riuscivamo a trattenere le risate come scolaretti davanti al maestro. Alla fine della cerimonia la sua testa si fermò. ‘Ma lei è Anna Magnani,’ mi disse. ‘Come mai oggi non recita?’ Non potevo dirgli che non recitavo perché mi stavo sposando. Gli promisi che gli avrei procurato dei biglietti per lui, sua moglie, sua sorella, suo zio, sua nonna e tutti i nipotini. Quel giorno avrei promesso biglietti al mondo intero.” Si concedono un breve viaggio di nozze a Venezia dove posano nella classica foto d’epoca, attorniati dai piccioni. Lei, i capelli con la scriminatura centrale fissati da due fermagli, ha un abito scollato a v con la gonna svasata. Al collo un foulard annodato. Lui è in giacca sportiva a scacchetti dal perfetto aplomb, i pantaloni leggermente bombati come quelli del Signor Bonaventura. In un’altra foto è accovacciata con i colombi che le banchettano sulle ginocchia, ancora una conferma del suo amore incondizionato per gli animali. Sorride, gli occhi leggermente socchiusi al riflesso del sole. Goffredo avverte i genitori solo a nozze avvenute. Laura ed Ermete insistono perché il loro unico figlio si sposi anche in chiesa. La mattina dell’8 dicembre Anna e Goffredo, dopo aver ottenuto il permesso della Curia di Roma, si scambiano la promessa alla presenza del parroco della chiesa di San Roberto Bellarmino in piazza Ungheria ai Parioli. Il registro dei matrimoni conservato all’Archivio Storico Diocesano riporta i dati della coppia. Lui, regista, nato ad Alessandria d’Egitto, lei, attrice drammatica, nata a Roma, abitano in viale Parioli 48, mentre i genitori di Goffredo vengono da Alessandria d’Egitto. È presente anche Marina, che risulta risiedere a Roma. Testimoni i genitori di lui. È soltanto per mantenere la pace in famiglia che Goffredo le concede un’apparizione di pochi secondi in Cavalleria, di cui si batte il primo ciak il 15 maggio 1936 nella pianura di Centocelle, alla periferia di Roma, in una scena di massa? Abile cavallerizzo e appassionato di concorsi ippici, Alessandrini rievoca nel film le imprese della cavalleria sullo sfondo della vita mondana dell’alta società piemontese fin de siècle, tra feste e corteggiamenti. Su un palcoscenico ripreso in lontananza, con un abito aderente costellato di paillette, l’attrice si esibisce in una canzone applaudita dagli spettatori in platea. Nascosta sotto una parrucca bionda, è quasi irriconoscibile. La sciantosa di Cavalleria inaugura uno stereotipo che ricorrerà spesso nella sua carriera cinematografica. Se ne discosta la zitella asprigna e pettegola di 30 secondi d’amore, il film di Mario Bonnard che dimostra ancora una volta come Anna sia stata la grande occasione mancata del cinema italiano. Il personaggio, la frangia arrotolata sulla fronte, i capelli arricciati, gli occhi allungati dal trucco, l’abito di chiffon bianco a fiorellini con volant sulle spalle, può sembrare inconsistente, ma è in realtà uno dei pochissimi in cui si sottrae ai ruoli ricorrenti della canzonettista e della mondana. Dopo due anni di matrimonio, la sua vita familiare è più che mai burrascosa. Goffredo sperpera il denaro, continuando ad acquistare nuove automobili, tanto che il venditore Giggetto Pietravalle finirà con il diventare un amico di famiglia. Gli piacciono le donne e nel mondo del cinema non gli mancano certo le occasioni. Un giorno Anna si trova a Cinecittà dove Nunzio Malasomma sta girando Eravamo sette sorelle con Antonio Gandusio, Paola Barbara e Olivia Fried, un’attrice bionda, minuta, occhi azzurri, dal forte accento ungherese. Si affaccia per curiosità sul set e si trova davanti la nuova fiamma del marito, alla quale fa una scenata. Paola Barbara, che è una ragazza coraggiosa, dopo aver visto la sua amica Olivia in lacrime perché Anna l’ha insultata – “Mi, mi sento puttana,” dice nel suo italiano incerto – la va a cercare. La trova al bar, appoggiata al bancone con il suo cagnolino. Davanti all’attrice perde tutta la sua baldanza e sta zitta. Ma Anna capisce e con una gran risata le fa: “C’hai paura?” “No,” le risponde. Anna ascolta le sue rimostranze e poi con l’aria dolente le parla con una disperazione tale che dopo tanti anni l’attrice ricordava ancora le sue precise parole: “Ma stai zitta, piscialetto, non sai che la Fried è l’amante di mio marito?” Poi, come se niente fosse, si mette a chiacchierare e le offre un cappuccino. Non è l’unico incontro tra Anna e Olivia, almeno secondo la testimonianza di un cronista dell’epoca: “Anna Magnani non amava Olivia Fried, le avevano raccontato non so che storia di flirt tra lei e suo marito, fatto sta che trovandosela davanti vide rosso. Era la prima volta che vedevo Anna litigare. Devo dire che litigava con violenta dignità come se portasse a compimento un piano d’attacco, verbale e dimostrativo, meticolosamente studiato. Non era in lei la furia scomposta del rissante, ma la calma, precisa, calcolata scuola del pugilatore. Olivia ne era disorientata anche perché non era del tutto padrona della lingua e molti graziosi epiteti le sfuggivano. Anna ne aveva un assortimento, tutti pittoreschi, geniali, personalissimi, molti dei quali coinvolgevano nell’anatema intere generazioni di Fried e li sciorinava con la convincente grazia di un commesso che voglia a tutti i costi far vedere ciò che ha di meglio nel negozio.” “Accanto a mio marito ho conosciuto sette anni di felicità, di gelosia, di dubbi e di collera,” ricordava. “Volevo essere una brava moglie, occuparmi di lui, della mia casa, fargli da mangiare. Non avevo niente da fare tutto il giorno perché della casa si occupava una domestica. L’ho spesso invidiata. Avrei tanto voluto essere io a preparare la cena per poi gustare in tête-à-tête le mie creazioni gastronomiche. Quanto a lui, non pensava che a giocare con me. Mi trattava come un bebè. Tutto ciò che dicevo, tutto ciò che facevo, lo divertiva. Sorrideva sempre. Mi lasciava fare tutto quello che mi passava per la testa, e io continuavo a cambiare posto ai mobili. Era il mio modo di viaggiare. Una sera rientrai verso le otto. Lui era già a casa. Mi guardava con aria sorniona e stava zitto. ‘Cosa c’è, Goffredo?’ gli chiesi. Silenzio. Cominciai a guardarmi in giro alla ricerca di quello che poteva esserci di nuovo nel nostro appartamento. Un nuovo regalo? Un nuovo oggetto? Neanche. Quale diavoleria poteva avere inventato? Entrai in camera da letto. Fantastico! Aveva tappezzato il nostro letto di biglietti da diecimila lire, tutto il denaro che aveva guadagnato e messo da parte per me, per noi. Ecco com’era mio marito Goffredo Alessandrini. Da sposata non lavoravo, perché? Ma perché ero la moglie di mio marito, no? Non potevo essere contemporaneamente attrice e moglie. Però andavo a vedere recitare gli altri. Ed è stato in questo modo che ho imparato che niente è più vero che essere veri e che bisogna eliminare la barriera tra il pubblico e l’attore. Il pubblico! Bisogna farlo salire sul palcoscenico, strapparlo dalla sua poltrona, renderlo partecipe da vicino, il più vicino possibile.” Solo nel 1938 la sua presenza sulla scena diventa un appuntamento imperdibile per il pubblico. L’occasione le è offerta dalla compagnia del Teatro delle Arti di via Sicilia, diretta da Anton Giulio Bragaglia, uno dei più estrosi protagonisti della scena italiana del Novecento che con il fratello Carlo Ludovico era stato l’animatore del Teatro degli Indipendenti. Anna, protagonista femminile di La foresta pietrificata di Robert Emmet Sherwood, è Gaby Maples, una delle sue prime impegnative interpretazioni drammatiche, un punto d’arrivo nella sua vicenda di attrice. Nello stesso ruolo aveva ammirato sullo schermo la grande Bette Davis, desiderando fin da allora di conoscerla e diventarne amica. Fra luglio e agosto partecipa a un’estiva al Teatro Eliseo di Roma. Per la prima volta ha il nome in ditta nella Compagnia Spettacoli Elle di Annibale Betrone e Anna Magnani. Se a teatro si sta imponendo, il cinema continua a riservarle soltanto particine. Qualche mese prima aveva impersonato un’aggressiva cameriera nel film in costume La principessa Tarakanova di Fëdor Ozep e Mario Soldati. L’anno successivo Bragaglia la richiama e le dà l’opportunità di interpretare un personaggio che resterà memorabile nella sua carriera teatrale. Anna si innamora subito della giovane prostituta che cerca di uscire dal suo mondo senza gioia. Il 28 maggio 1939 debutta al Teatro delle Arti in Anna Christie di Eugene O’Neill, quasi sfidando il clamoroso successo del primo film sonoro di Greta Garbo di nove anni prima, ispirato allo stesso dramma. Una delle testimoni di quella serata è Paola Barbara, che ricordava: “Andai a vedere la Magnani alle Arti a fare Anna Christie, e dette un’Anna Christie stupenda. Nessuno ancora nel grosso pubblico si accorgeva di lei. Dopo un po’ fa una canzonettista nel film di De Sica Teresa Venerdì : ‘Qui sul cuor c’è il mio amor’, e tutti: ‘Anna Magnani!’. Ma se erano anni che lavorava e nessuno si accorgeva di lei! Era bravissima.” Nel dramma si immedesima nella parte della figlia che ritrova il padre. Un padre che accusa di averla abbandonata. Come se l’antica ferita potesse rimarginarsi nella finzione della scena. La collaborazione con Bragaglia non è per niente tranquilla. Fin da allora Anna ha idee precise sui personaggi che sceglie di interpretare e non accetta facilmente i suggerimenti del regista. Sono numerosi gli scontri tra i due, ma entrambi gli spettacoli dimostrano le capacità artistiche dell’attrice. Soprattutto il personaggio di Anna Christie rimane impresso in tutti gli spettatori come un’interpretazione stupenda.