I Era un caldo ed assolato pomeriggio di fine luglio quando Anna

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I Era un caldo ed assolato pomeriggio di fine luglio quando Anna
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Era un caldo ed assolato pomeriggio di fine
luglio quando Anna, passeggiando per le vie della sua amata città, scorse, forse per la prima volta,
tutto il fascino e il mistero di quel suggestivo viale
che univa il sacro al profano e che tante volte aveva
percorso, non curante di tanta bellezza.
Anna si fermò, quasi di scatto, sul sagrato della Basilica della Vergine del Pilastrello, ignara che,
proprio da lì, sarebbe partito il suo lungo viaggio
della mente fra i dolorosi ricordi della sua ancor
giovane, ma tormentata ed intensa esistenza. Aveva sempre ammirato, con timida devozione, quel
maestoso portale che pareva ricoperto da aspettative di miracolo e di grazia da parte dei tanti suoi
concittadini lendinaresi che, proprio in quel luogo,
avrebbero innalzato chissà quante preghiere.
Indossava un vestitino leggero, quasi impalpabile, di seta verde acqua lungo fino ai polpacci,
ma con un’ampia scollatura, talmente “audace”
da renderlo poco consono a cotanto profumo di
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sacralità che il posto emanava. Così Anna estrasse
dalla sua capiente borsa, rigorosamente dello stesso colore dell’abito, un coprispalle bordato di frange che soleva portare sempre con sè per eventuali
emergenze: cambi bruschi di temperatura – quando entrava nei supermercati della città – o, semplicemente, per sbalzi d’umore di cui soffriva dalla
nascita. Si affrettò a coprirsi prima di compiere il
suo quasi trionfale ingresso, sì, perché Anna, ogni
volta che entrava in una chiesa, assumeva un portamento regale: postura eretta ed incedere sicuro.
Questo era quello che dava a vedere, osservandola
dal di fuori. Appena entrata, dovette subito compiere uno sforzo di adattamento a quella debole
e fioca luminosità che, al confronto con la sfacciata luce dell’esterno, pareva buio totale e i suoi
occhi ci misero un po’ di tempo a convincersi di
non essere improvvisamente diventati ciechi. Un
rapido inchino, seguìto da un altrettanto veloce
e quasi automatico segno di croce fecero sentire
ad Anna lo scricchiolìo delle sue articolazioni non
più abituate a tali gestualità, dopo l’improvvisa e
sconvolgente morte del fratello, che proprio lei
aveva voluto salutare con un sontuoso rito funebre, ripromettendosi che mai più avrebbe preso
parte ad altri funerali, quasi a voler conservare,
nella propria memoria, quel terribile ed inenarrabile momento, evitando il pericolo di contaminarlo, di inquinarlo con altri simili ricordi. Quello
avrebbe dovuto rimanere per sempre “il funerale”
per antonomasia, senza possibili confronti. Espletate così, frettolosamente, le “ritualità” d’ingresso
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di un luogo consacrato, Anna si diresse con passo
spedito e deciso verso la Cappella del Bagno, così
denominata perché in essa è situata una grande vasca marmorea di forma ottagonale, circondata da
quattro putti recanti ciascuno una solida e massiccia brocca dalla quale fuoriesce, con flusso regolare e ritmato, un’acqua cristallina e zampillante
che con la sua invitante trasparenza e freschezza
pare chiedere, a tutti quelli che l’ammirano estasiati, di essere bevuta. Sfilato un bicchiere di plastica
dall’apposito distributore, Anna si accinse a bere
con tutta l’avidità di chi pensa di essere in presenza
di un miraggio e teme che l’incantesimo possa improvvisamente svanire. La sua sete d’acqua si placò
subito, rimanevano ancora la sua sete di verità e,
ancor più, la sua insaziabile fame d’amore. Certo,
era indubbiamente una giovane donna alla continua ricerca di approvazione e di affetto, ma aveva imparato anche a godere della compagnia di se
stessa e la vita le aveva ormai insegnato che, anche
nei legami più forti, potevano nascondersi insidie e
pericoli ben peggiori della solitudine.
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