di Ematologia Oncologica - Società Italiana di Ematologia
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di Ematologia Oncologica - Società Italiana di Ematologia
Editor in chief Giorgio Lambertenghi Deliliers Anno 5 Numero 1-3 2008 Seminari di Ematologia Oncologica NEL PROSSIMO NUMERO MIELOMA MULTIPLO Fisiopatologia • Clinica e terapia nel giovane • Clinica e terapia nell’anziano • Complicanze: aspetti clinici • e terapeutici Neoplasie Megacariocitiche EDIZIONI INTERNAZIONALI srl Edizioni Medico Scientifiche - Pavia Neoplasie Megacariocitiche Diagnosi Istologica della Trombocitemia Essenziale Vol. 5 - n. 1-3 - 2008 5 UMBERTO GIANELLI, ALESSIA MORO, FEDERICA SAVI, LEONARDO BOIOCCHI, EMANUELA BONOLDI Editor in Chief Giorgio Lambertenghi Deliliers Università degli Studi, Milano Editorial Board Sergio Amadori Università degli Studi Tor Vergata, Roma Mario Boccadoro Università degli Studi, Torino Citogenetica e Biologia Molecolare della Trombocitemia Essenziale Alberto Bosi Università degli Studi, Firenze Federico Caligaris Cappio Università Vita e Salute, Istituto San Raffaele, Milano 17 PAOLO BERNASCONI Antonio Cuneo Università degli Studi, Ferrara Marco Gobbi Università degli Studi, Genova Mario Petrini Università degli Studi, Pisa Giovanni Pizzolo Università degli Studi, Verona Leucemie Megacariocitiche 37 FRANCESCO ALBANO Giorgina Specchia Università degli Studi, Bari Direttore Responsabile Paolo E. Zoncada Registrazione Trib. di Milano n. 532 del 6 settembre 2007 Clinica e Terapia della Trombocitemia Essenziale LUIGI GUGLIOTTA EDIZIONI 55 INTERNAZIONALI SRL Edizioni Medico Scientifiche - Pavia Edizioni Internazionali srl Divisione EDIMES Edizioni Medico-Scientifiche - Pavia Via Riviera, 39 - 27100 Pavia Tel. +39 0382 526253 r.a. - Fax +39 0382 423120 E-mail: [email protected] Seminari 2 Periodicità Quadrimestrale Scopi Seminari di Ematologia Oncologica è un periodico di aggiornamento che nasce come servizio per i medici con l’intenzione di rendere più facilmente e rapidamente disponibili informazioni su argomenti pertinenti l’ematologia oncologica. Lo scopo della rivista è quello di assistere il lettore fornendogli in maniera esaustiva: a) opinioni di esperti qualificati sui più recenti progressi in forma chiara, aggiornata e concisa; b) revisioni critiche di argomenti di grande rilevanza pertinenti gli interessi culturali degli specialisti interessati; NORME REDAZIONALI 1) Il testo dell’articolo deve essere editato utilizzando il programma Microsoft Word per Windows o Macintosh. Agli AA. è riservata la correzione ed il rinvio (entro e non oltre 5 gg. dal ricevimento) delle sole prime bozze del lavoro. 2) L’Autore è tenuto ad ottenere l’autorizzazione di «Copyright» qualora riproduca nel testo tabelle, figure, microfotografie od altro materiale iconografico già pubblicato altrove. Tale materiale illustrativo dovrà essere riprodotto con la dicitura «per concessione di …» seguito dalla citazione della fonte di provenienza. 3) Il manoscritto dovrebbe seguire nelle linee generali la seguente traccia: Titolo Conciso, ma informativo ed esauriente. Nome, Cognome degli AA., Istituzione di appartenenza senza abbreviazioni. Nome, Cognome, Foto a colori, Indirizzo, Telefono, Fax, E-mail del 1° Autore cui andrà indirizzata la corrispondenza. Introduzione Concisa ed essenziale, comunque tale da rendere in maniera chiara ed esaustiva lo scopo dell’articolo. Parole chiave Si richiedono 3/5 parole. Corpo dell’articolo Il contenuto non deve essere inferiore alle 30 cartelle dattiloscritte (2.000 battute cad.) compresa la bibliografia e dovrà rendere lo stato dell’arte aggiornato dell’argomento trattato. L’articolo deve essere corredato di illustrazioni/fotografie, possibilmente a colori, in file ad alta risoluzione (salvati in formato .tif, .eps, .jpg). Le citazioni bibliografiche nel testo devono essere essenziali, ma aggiornate (non con i nomi degli AA. ma con la numerazione corrispondente alle voci della bibliografia), dovranno essere numerate con il numero arabo (1) secondo l’ordine di comparsa nel testo e comunque in numero non superiore a 100÷120. di Ematologia Oncologica Periodico di aggiornamento sulla clinica e terapia delle emopatie neoplastiche Bibliografia Per lo stile nella stesura seguire le seguenti indicazioni o consultare il sito “International Committee of Medical Journal Editors Uniform Requirements for Manuscripts Submitted to Biomedical Journals: Sample References”. Es. 1 - Articolo standard 1. Bianchi AG, Rossi EV. Immunologic effect of donor lymphocytes in bone marrow transplantation. N Engl J Med. 2004; 232: 284-7. Es. 2 - Articolo con più di 6 autori (dopo il 6° autore et al.) 1. Bianchi AG, Rossi EV, Rose ME, Huerbin MB, Melick J, Marion DW, et al. Immunologic effect of donor lymphocytes in bone marrow transplantation. N Engl J Med. 2004; 232: 284-7. Es. 3 - Letter 1. Bianchi AG, Rossi AV. Immunologic effect of donor lymphocytes [Letter]. N Engl J Med. 2004; 232: 284-7. Es. 4 - Capitoli di libri 1. Bianchi AG, Rossi AV. Immunologic effect of donor lymphocytes. In: Caplan RS, Vigna AB, editors. Immunology. Milano: MacGraw-Hill; 2002; p. 93-113. Es. 5 - Abstract congressi (non più di 6 autori) 1. Bianchi AG, Rossi AV. Immunologic effect of donor lymphocytes in bone marrow transplantation [Abstract]. Haematologica. 2002; 19: (Suppl. 1): S178. Ringraziamenti Riguarda persone e/o gruppi che, pur non avendo dignità di AA., meritano comunque di essere citati per il loro apporto alla realizzazione dell’articolo. EDIZIONI INTERNAZIONALI SRL Edizioni Medico Scientifiche - Pavia Edizioni Internazionali Srl Divisione EDIMES EDIZIONI MEDICO SCIENTIFICHE - PAVIA Via Riviera, 39 • 27100 Pavia Tel. 0382526253 r.a. • Fax 0382423120 E-mail: [email protected] 3 Editoriale GIORGIO LAMBERTENGHI DELILIERS Università degli Studi di Milano U.O. Ematologia 1 - Centro Trapianti di Midollo Fondazione IRCCS Ospedale Maggiore Policlinico, Mangiagalli e Regina Elena Seminari di Ematologia Oncologica si ripresenta, dopo una breve pausa e con una nuova veste editoriale, con l’obiettivo di riportare opinioni e revisioni critiche aggiornate sui più recenti progressi nella clinica e nella terapia delle emopatie neoplastiche. L’Editorial Board desidera ringraziare Celgene, azienda farmaceutica multinazionale leader nel campo della ricerca farmacologica, per il supporto determinante e per la sensibilità dimostrata alla diffusione di una rivista in lingua italiana, il cui scopo è essenzialmente educativo. Il numero che viene presentato per l’annata 2008 è dedicato alla patologia neoplastica della linea megacariocitaria, che nel passato ha suscitato incertezze e interrogativi per carenza di conoscenze biologiche. Negli ultimi anni il quadro è sostanzialmente mutato grazie alla diffusione della biopsia osteomidollare che nella tromboci- temia essenziale ha contribuito ad una revisione dei criteri diagnostici e alla differenziazione con altre sindromi mieloproliferative. Analogamente il recente riscontro di alterazioni citogenetiche ha in parte chiarito la sua patogenesi e nello stesso tempo ha permesso di identificare quelle mutazioni fisiopatologicamente più rilevanti che, insieme ai fattori prognostici ormai consolidati e condivisi, permettono di valutare il rischio clinico in senso trombotico o emorragico, nonché di comprendere i meccanismi genetici della sua evoluzione in leucemia megacariocitica, emersi dai recenti studi sui giovani pazienti affetti da sindrome di Down. L’acquisizione di tutte queste nuove informazioni ha avuto importanti riflessi nella formulazione di linee guida volte a modificare l’approccio terapeutico delle neoplasie megacariocitiche, anche con l’ausilio dei nuovi farmaci molecolarmente mirati. 5 Diagnosi Istologica della Trombocitemia Essenziale Umberto Gianelli UMBERTO GIANELLI, ALESSIA MORO, FEDERICA SAVI, LEONARDO BOIOCCHI, EMANUELA BONOLDI Cattedra di Anatomia Patologica, Dipartimento di Medicina, Chirurgia e Odontoiatria, Università degli Studi di Milano, A.O. San Paolo, Milano e IRCCS Fondazione Ospedale Maggiore Policlinico, Mangiagalli e Regina Elena, Milano ■ INTRODUZIONE La Trombocitemia Essenziale (TE) è un disordine mieloproliferativo clonale che interessa principalmente la linea megacariocitaria, con piastrinosi persistente e manifestazioni cliniche di tipo trombotico-emorragico. Storicamente la TE è stata indicata con diversi nomi: Trombocitemia/Trombocitosi Emorragica, Trombocitemia primitiva o Trombocitemia idiopatica. La malattia venne descritta per la prima volta nel 1934 da Epstein e Goedel come “una Trombocitemia Emorragica in un caso di atrofia vascolare splenica indotta da trombosi”. Venti anni più tardi, grazie al contributo di Dameshek (1), la TE venne inclusa nell’ambito delle sindromi mieloproliferative, insieme alla Leucemia Mieloide Cronica (LMC), alla Policitemia Vera (PV) ed alla Mielofibrosi Idiopatica Cronica (MFIC). Un primo inquadramento diagnostico della malattia si ebbe tuttavia solo nel 1986: il Polycythemia Vera Study Group (PVSG) (2-4) Indirizzo per la corrispondenza Umberto Gianelli Cattedra di Anatomia Patologica, DMCO, A. O. San Paolo Via Di Rudinì, 8 - 20142 Milano E-mail: [email protected] definì la TE come un disordine mieloproliferativo, la cui principale manifestazione clinica era un marcato incremento della conta piastrinica. I criteri indispensabili per la diagnosi erano principalmente clinici e le alterazioni istologiche del midollo osseo venivano considerate solo marginalmente. Con la diffusione della biopsia osteomidollare (BOM) nella diagnostica ematologica, grazie principalmente ai lavori di Georgii et al. (5, 6) e di Thiele et al. (7, 8), negli anni Novanta vennero identificate le alterazioni istologiche caratteristiche della TE. Tali lavori rappresentano le basi istologiche della classificazione delle malattie mieloproliferative croniche proposta dalla Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel 2001 (9) e recentemente aggiornata (10). ■ DIAGNOSI ISTOLOGICA DI TE: DAI CRITERI DEL PVSG ALLA CLASSIFICAZIONE OMS (2001) Poichè i criteri diagnostici utilizzati dal PVSG (Tabella 1) erano sostanzialmente criteri di esclusione, che consideravano solo marginalmente l’istologia del midollo osseo, diversi ematopatologi hanno tentato di identificare eventuali parametri morfologici “positivi” per la diagnosi di TE. 6 Seminari di Ematologia Oncologica 1. Piastrine >600x109/L 2. Emoglobina <13 g/dL o valori normali di massa eritrocitaria 3. Depositi di ferro identificabili nel midollo osseo o assenza di risposta alla terapia marziale 4. Assenza del cromosoma Philadephia e assenza molecolare del gene ibrido bcr/abl 5. Fibrosi collagene nel midollo osseo: a) Assente b) Inferiore ad 1/3 della BOM in assenza di splenomegalia e di reazione leuco-eritroblastica 6. Assenza di dimostrabili cause di piastrinosi TABELLA 1 - Criteri diagnostici per la diagnosi di Trombocitemia Essenziale secondo il PVSG. I principali contributi in questo senso derivano dal gruppo di Cologne (11-13). Ad esempio, in un lavoro retrospettivo del 2003 (14), condotto su di una serie di 272 casi di TE classificati secondo i criteri del PVSG, sono state studiate le caratteristiche morfologiche del midollo osseo, analizzando la distribuzione in cieco di 16 variabili considerate utili nella diagnosi di malattia mieloproliferativa cronica, tra cui la cellularità midollare in relazione all’età del paziente, la quantità e le caratteristiche delle tre serie emopoietiche e la fibrosi reticolinica. Delle serie eritropoietica e granulopoietica è stato valutato principalmente il grado di maturità, mentre per i megacariociti la modalità di aggregazione (formazione e tipologia dei clusters), le dimensioni cellulari e la morfologia nucleare (nuclei iperlobati, nuclei vescicolosi, nuclei nudi). Sulla base delle caratteristiche considerate, sono stati identificati tre principali patterns istologici definiti dagli Autori: TE vera (98 pazienti), fase prefibrotica della MFIC (136 pazienti) e fase fibrotica iniziale della MFIC (38 pazienti). I criteri istologici utili per differenziare i tre patterns morfologici sono risultati la quantità e le caratteristiche morfologiche dei megacariociti (in particolare la presenza di forme giganti e di nuclei vescicolosi o iperlobati) e la fibrosi reticolinica. La rivalutazione dei dati clinici in considerazione di questi tre patterns ha dimostrato la coerenza di tale distinzione istologica: in particolare sono risultate significative le differenze nella evoluzione della fibrosi midollare e nella sopravvivenza dei pazienti. Sulla base di questo e di altri lavori sono stati pertanto definiti dall’OMS i criteri diagnostici per la diagnosi di Trombocitemia essenziale. ■ DIAGNOSI ISTOLOGICA DI TE SECONDO LA CLASSIFICAZIONE OMS (2001) L’OMS definisce la TE (15) come una malattia mieloproliferativa clonale che interessa principalmente la linea megacariocitaria, caratterizzata da piastrinosi persistente, incremento della quota di megacariociti giganti nel midollo osseo e da manifestazioni cliniche di tipo trombotico emorragico. In accordo con questa definizione, l’OMS propone i criteri positivi ed i criteri di esclusione per la diagnosi di TE (Tabella 2). Criteri positivi 1. Piastrinosi >600x109/L 2. Biopsia osteomidollare: proliferazione principalmente a carico della serie piastrinopoietica, con incremento del numero di megacariociti giganti, maturi. Criteri di esclusione 1. Nessuna evidenza di Policitemia Vera a) Normale massa eritrocitaria; Hb <18.5 g/dL (uomo) e 16.5 g /dL (donna) b) Depositi di ferro identificabili nel midollo osseo, ferritina sierica normale, MCV normale c) Se la precedente condizione non è rispettata, assenza di incremento della terapia marziale ad incrementare la massa eritrocitaria o l’Hb ai livelli della PV 2. Nessuna evidenza di Leucemia Mieloide Cronica: non evidenza di cromosoma Philadelphia; non evidenza di gene di fusione BCR-ABL 3. Nessuna evidenza di Mielofibrosi Idiopatica Cronica a) Fibrosi collagene assente b) Fibrosi reticolinica minima o assente 4. Nessuna evidenza di Sindrome Mielodisplastica a) No del(5q), t(3;3)(q21;q26), inv(3)(q21;q26) b) No significativa displasia dei granulociti, assenza o presenza di solo pochi micromegacariociti 5. Nessuna evidenza di piastrinosi secondaria a: a) infiammazione o infezione b) neoplasia c) precedente splenectomia TABELLA 2 - Criteri diagnostici per la diagnosi di Trombocitemia Essenziale secondo l’OMS (2001). Diagnosi Istologica della Trombocitemia Essenziale FIGURA 1 - Trombocitemia Essenziale: la freccia indica un nucleo iperlobato e la tendenza dei megacariociti a formare aggregati lassi. FIGURA 2 - Trombocitemia Essenziale: megacariociti giganti con nuclei iperlobati. Questo aspetto morfologico dei megacariociti consente di distinguere la TE dai casi di piastrinosi secondaria. In circa la metà dei casi di TE i pazienti sono asintomatici nel momento in cui si riscontra casualmente, durante controlli di routine, l’incremento della conta piastrinica. Al contrario, dal 20% al 50% dei pazienti manifesta fenomeni trombotici od emorragici alla diagnosi. L’aumento della conta piastrinica si associa a valori di globuli bianchi nei limiti della norma, o solo lievemente aumentati, ed a valori di emoglobina nei limiti per età. Lo striscio di sangue periferico evidenzia una marcata piastrinosi, con frequente anisocitosi e forme da molto piccole ad elementi grandi e giganti. Non è presente leuco-eritroblastosi. La BOM mostra midollo normocellulare per età o cellularità solo modicamente aumentata. Il più importante aspetto morfologico è rappresentato dalla marcata proliferazione di megacariociti di dimensioni grandi e giganti, sparsi o in clusters lassi (n.d.a.: aggregati di almeno 3 megacariociti raggruppati, senza che i contorni cellulari siano direttamente in contatto, con interposte cellule emopoietiche), con citoplasma abbondante, maturo e nuclei iperlobati (Figura 1 e 2). Le serie eritropoietica e granulopoietica sono di solito prive di alterazioni. Non si osserva un incremento del numero di mieloblasti. I midolli di pazienti che hanno manifestato fenomeni emorragici possono mostrare un lieve incremento della quota di precursori eritroidi. La trama reticolinica appare norma- le o solo lievemente aumentata. In proposito, va sottolineato che ogni incremento significativo della trama reticolare esclude la diagnosi di TE. Dal punto di vista citogenetico, non esistono anomalie cromosomiche specifiche per la TE ed alterazioni del cariotipo sono poco frequenti (510%) e consistono in del (13q22), +8 e +9. ■ REAZIONI DEI CLINICI E DEGLI ANATOMO-PATOLOGI ALLA CLASSIFICAZIONE DELL’OMS (2001) Diversi gruppi hanno pubblicato, negli ultimi anni, lavori di revisione casistica, comparando i criteri diagnostici del PVSG con quelli dell’OMS, al fine di definire meglio gli aspetti morfologici, le categorie diagnostiche ed i fattori prognostici. Uno studio multicentrico osservazionale è stato condotto dal gruppo di Cologne nel 2003 (16) su 839 pazienti adulti, affetti da malattia mieloproliferativa cronica con conta piastrinica superiore a 600x109/L. Di questa serie di pazienti, 439 potevano essere classificati come affetti da TE applicando strettamente i criteri del PVSG. Al contrario, utilizzando i criteri OMS, gli stessi venivano classificati come affetti da TE (162 pazienti), da MFIC in fase prefibrotica (184 pazienti) e da MFIC in fase fibrotica (137 pazienti). 7 8 Seminari di Ematologia Oncologica Allorchè si applicavano i criteri del PVSG, la perdita di aspettativa di vita specifica per malattia dei pazienti affetti da TE era del 16,5%, mentre si riduceva significativamente all’8,9% applicando i criteri dell’OMS. In un lavoro successivo di Florena et al. del 2004 (17), le BOM di 142 pazienti con diagnosi di TE (sec. PVSG) sono state riclassificate in base ai criteri OMS come TE (21%), MFIC grado-0 (30%), MFIC grado-1 (34%), MFIC grado-2 (10%) e sono stati identificati i parametri biologici con differente espressione nei casi di TE e MFIC, quali il clustering index dei megacariociti (indice che valuta la tendenza dei megacariociti ad aggregarsi), la densità microvascolare, la quota di precursori CD34 (+) e l’indice di proliferazione dei megacariociti. Risultati sovrapponibili a quelli di Florena et al. sono stati ottenuti dal nostro gruppo, in un lavoro clinico-patologico retrospettivo condotto su 116 pazienti affetti da TE secondo i criteri PVSG, rivalutati alla luce delle indicazioni OMS (18). La conseguenza principale dell’applicazione dei criteri istologici OMS, e probabilmente un motivo di iniziale resistenza ad essa, è stata la necessità da parte degli ematologi di dovere riconsiderare le proprie casistiche, riclassificando parte dei loro pazienti come affetti da MFIC (seppure in fase iniziale) al posto che da TE, con ovvie conseguenze sulla prognosi e sulla aspettativa di vita. In particolare, era di difficile acquisizione il concetto, introdotto dalla classificazione OMS, di una fase pre-fibrotica (fase cellulare) della MFIC, con caratteristiche cliniche non chiaramente distinguibili da quelle della TE e con un decorso clinico indolente. Un importante lavoro molto recente di Wilkins BS et al. (19) riesamina l’approccio diagnostico OMS. Secondo gli Autori, i lavori pubblicati a supporto dei criteri OMS provengono principalmente da un unico gruppo, sono di tipo retrospettivo, con parziale sovrapposizione delle casistiche, senza significativi dati clinici e di follow-up e giungono a conclusioni simili. Inoltre mancano della valutazione della riproducibilità interosservatore dei criteri diagnostici proposti. Pertanto in questo studio vengono rivalutate secondo l’OMS, da tre esperti emopatologi, le caratteristiche istologiche di 370 BOM di pazienti affetti da TE (sec. PVSG), arruolati prospetticamente in tre importanti trials clinici. I risultati dimostrano una significativa variabilità inter-osservatore, in particolare per quanto riguarda la diagnosi. La concordanza maggiore si ottiene valutando parametri generali come la cellularità complessiva del midollo osseo, il numero di clusters di megacariociti ed il grado di fibrosi. Al contrario, la valutazione di parametri individuali quali le caratteristiche morfologiche dei megacariociti e la tipologia dei clusters risulta eccessivamente variabile tra gli osservatori. Infine, non è stata riscontrata nessuna differenza statisticamente significativa tra i casi che, dopo la rivalutazione, sono stati classificati come TE o come fase pre-fibrotica (fase cellulare) della MFIC, in termini di quadro clinico e di laboratorio alla diagnosi, di stato mutazionale di JAK2, di sopravvivenza, di fenomeni tromboemorragici maggiori, di eventuale evoluzione mielofibrotica. ■ RAZIONALE PER LA REVISIONE DEI CRITERI DIAGNOSTICI DELLA TE I membri del comitato per la revisione della Classificazione OMS delle Neoplasie Emopoietiche e Linfoidi, insieme ai colleghi dell’International Working Group for Myelofibrosis Research and Treatment (IWG-MRT), del Myeloproliferative Diseases-Research Consortium (MPD-RC) e dell’European Collaboration on Low-Dose Aspirin in Polycythemia Vera (ECLAP), in un meeting che si è svolto a Chicago a marzo del 2007, hanno presentato al Clinical Advisory Committee per la revisione della classificazione OMS delle neoplasie mieloidi un documento contenente i propositi ed il razionale per la revisione della classificazione (20). La spinta maggiore alla revisione dei criteri diagnostici deriva dalle recenti scoperte riguardanti la patogenesi molecolare delle malattie mieloproliferative croniche BCR-ABL-negative (21). Agli inizi del 2005 diversi gruppi hanno evidenziato che una mutazione somatica a carico del gene Janus kinase 2 (JAK2617V >F, esone 14) Diagnosi Istologica della Trombocitemia Essenziale è riscontrabile nel 95% dei casi di PV e nel 50% circa dei casi di TE e di MFIC (21-25). Più recentemente è stato riportato che una mutazione a carico del gene MPL (MPL515W >L7K) è riscontrabile in <5% dei pazienti affetti da MFIC o da ET (26) e che nei pazienti affetti da PV JAK2617V >F-negativi si possono riscontrare mutazioni di JAK2 a carico dell’esone 12 (27). Da ultimo, la frequenza di associazione tra le mutazioni di JAK2 e le malattie mieloproliferative croniche BCR-ABL-negative, unitamente alla osservazione che non si ritrovano mutazioni di questo gene in condizioni reattive, ha portato ad ipotizzare una classificazione molecolare di queste malattie (28). Inoltre, una problematica di tipo clinico che ha indotto a modificare i criteri diagnostici OMS riguarda la conta piastrinica. Diversi Autori hanno riconosciuto che, utilizzando come soglia per la diagnosi di TE un valore di conta piastrinica superiore a 600x109/L piastrine, si corre il rischio di non diagnosticare le fasi precoci della malattia, quando il livello piastrinico è inferiore ma i pazienti sono pur sempre a rischio di manifestazioni trombotico-emorragiche. Pertanto, considerando che il 95° percentile relativo ai valori normali di conta piastrinica correlati al sesso e all’età del paziente è inferiore alle 400 x 109/L piastrine, si è proposto di ridurre il livello soglia per la diagnosi di TE ad un valore di 450x109/L piastrine (criterio n. 1). È stato inoltre proposto di eliminare dalla lista dei criteri diagnostici di TE il concetto di “criteri di esclusione” presenti nella versione OMS 2001 (Tabella 2) e di sostituirli con criteri positivi. ■ DIAGNOSI DI TE SECONDO LA CLASSIFICAZIONE OMS (2008) La classificazione OMS (2008) definisce la TE (29) una neoplasia mieloproliferativa cronica che interessa in maniera primaria la serie megacariocitica, caratterizzata da una piastrinosi persistente con conta piastrinica superiore a 450x109/L piastrine, da un incremento del numero di megacariociti maturi di dimensioni giganti nel midollo osseo e dalla presenza di manifestazioni cliniche di tipo trombotico-emorragico. La 1. Piastrinosi >450x109/L 2. Biopsia osteomidollare: proliferazione principalmente a carico della serie piastrinopoietica; incremento del numero di megacariociti giganti, maturi; no significativo incremento o “left-shift” delle serie granulopoietica o eritropoietica. 3. Non adesione ai criteri diagnostici OMS per la diagnosi di Policitemia Vera, di Mielofibrosi primaria, di Leucemia Mieloide Cronica BCR-ABL-positiva, di Sindrome Mielodisplastica o di altra Neoplasia mieloide. 4. Presenza della mutazione JAK2V617F o di un altro indicatore di clonalità o, in assenza di JAK2V617F, nessuna evidenza di piastrinosi reattiva. TABELLA 3 - Criteri diagnostici per la diagnosi di Trombocitemia Essenziale secondo l’OMS (2008): la diagnosi richiede il rispetto di tutti e quattro i criteri. malattia mostra due picchi di incidenza: uno nella 3a decade di vita, con predilezione per il sesso femminile e l’altro, maggiore, nella 5a-6a decade di vita, senza alcuna predilezione di sesso. Circa la metà dei pazienti risulta asintomatica alla diagnosi. Nei restanti casi la malattia viene diagnosticata a seguito di manifestazioni trombotico-emorragiche: attacchi ischemici transitori, ischemie dei piccoli vasi superficiali con parestesie e/o gangrene, trombosi venose profonde a livello delle vene spleniche ed epatiche con manifestazioni cliniche tipo sindrome di BuddChiari (30), manifestazioni emorragiche a carico delle mucose del tratto gastro-enterico e respiratorio. Tra i criteri indispensabili per la diagnosi di TE viene inclusa l’analisi morfologica del midollo osseo, che presenta caratteristiche analoghe a quelle descritte nella precedente classificazione. Vengono inoltre introdotti come elementi diagnostici positivi l’assenza di criteri WHO per la diagnosi delle altre neoplasie mieloidi (criterio n. 3), la dimostrazione di mutazioni di JAK2 o di altri marcatori di clonalità e, in assenza di essi, l’esclusione delle cause di piastrinosi secondaria (criterio n. 4) (Tabella 3). Le caratteristiche descritte consentono di distinguere la TE dalle altre neoplasie mieloproliferative, dalle condizioni reattive e dalle Sindromi Mielodisplastiche. Infatti, la presenza di diseritropoiesi o disgranulopoiesi significative orienta per una Sindrome 9 10 Seminari di Ematologia Oncologica Criteri necessari 1. Documentazione di una precedente diagnosi di Trombocitemia Essenziale, definita secondo i criteri OMS. 2. Fibrosi midollare di grado 2-3 (su una scala da 0 a 3) o di grado 3-4 (su una scala tra 0 e 4). Criteri aggiuntivi (necessari almeno 2) 1. Anemia* o una diminuzione dell’emoglobina ³2 g/dL rispetto ai valori basali. 2. Screzio leuco-eritroblastico nel sangue periferico 3. Splenomegalia ingravescente: aumento della splenomegalia palpabile oltre i 5 cm rispetto ai valori basali (distanza dal margine costale di sinistra) o comparsa di una splenomegalia palpabile 4. Aumento del LDH (al di sopra dei valori di riferimento) 5. Comparsa >1 di 3 sintomi costituzionali: perdita di più del 10% del peso corporeo in 6 mesi, sudorazione notturna, febbre (>37,5°C). *Anemia al di sotto dei valori di riferimento per età, sesso ed altitudine. TABELLA 4 - Criteri diagnostici per la diagnosi di Mielofibrosi postTrombocitemia secondo l’OMS (2008). Mielodisplastica; Megacariociti di media taglia, a nucleo Monolobato, per Sindrome Mielodisplastica con del(5q) e megacariociti di piccole dimensioni per una Leucemia Mieloide Cronica. Nella TE non sono state identificate anomalie citogenetiche specifiche: il 40-50% dei casi risulta JAK2V617F-mutato e circa l’1% è MPLW515K/L mutato. Nessuna di queste mutazioni è stata identificata in casi di trombocitosi reattiva. Sono state inoltre riportate anomalie citogenetiche isolate: +8, anomalie 9q e del(20q). L’evoluzione della malattia è indolente, con lunghi periodi asintomatici. La sopravvivenza media è valutata intorno ai 1015 anni e, considerando che la diagnosi è di solito posta in età adulta o avanzata, l’aspettativa di vita dei pazienti è paragonabile a quella della popolazione generale. Si ammette che una strettissima minoranza di pazienti possa sviluppare una mielofibrosi posttrombocitemica, la cui diagnosi viene rigorosamente definita dall’OMS (Tabella 4), per evitare errori diagnostici con la MFP. La progressione in Sindrome Mielodisplastica o in Leucemia Mieloide Acuta è descritta in meno del 5% dei pazienti e viene di solito correlata alle terapie eseguite. ■ DIAGNOSI DIFFERENZIALE CON LA FASE CELLULARE DELLA MIELOFIBROSI IDIOPATICA CRONICA Uno dei problemi maggiori nella diagnostica istologica delle malattie mieloproliferative croniche, e certamente una delle fonti maggiori di discussione, è la diagnosi differenziale tra TE e MFIC. Prima della classificazione OMS, i criteri per la diagnosi di MFIC erano ben codificati e condivisi (31), ma consentivano di porre diagnosi quando la malattia era già in fase avanzata, in presenza di fibrosi collagene e praticamente in uno stadio irreversibile. Il concetto di “stadio iniziale (pre-fibrotico)” della MFIC è stato introdotto da Thiele et al. nel 1999, che ne ha descritto le principali caratteristiche (32, 33). I pazienti possono mostrare una modesta leucocitosi e/o una lieve anemia refrattaria alla terapia, eventualmente associate a modesta splenomegalia. Lo striscio di sangue periferico evidenzia qualche eritrocita a goccia, con presenza di rari precursori eritroidi e mieloidi, senza un vero screzio leuco-eritroblastico. La BOM è caratterizzata da un midollo modicamente o chiaramente ipercellulare, con iperplasia della serie granulopoietica, con incremento dei precursori immaturi, una serie eritropoietica modicamente ridotta e megacariociti aumentati di numero, con tendenza a formare clusters densi (aggregati di almeno 3 megacariociti con contorni cellulari direttamente in contatto), con frequenti aspetti displastici (asincronia nucleocitoplasmatica), forme a nucleo vescicoloso (cloud-like) e nuclei nudi (Figura 3 e 4). La trama reticolinica è normale o solo modicamente aumentata. La classificazione OMS ha fatto proprie le indicazioni del gruppo tedesco definendo i criteri per la diagnosi di fase pre-fibrotica (fase cellulare) della MFIC (34) (Tabella 5). Come ricordato precedentemente, abbiamo condotto (18) un lavoro clinico-patologico retrospettivo monocentrico su 116 pazienti affetti da TE (secondo i criteri PVSG) con lo scopo di revisionare le BOM alla luce delle indica- Diagnosi Istologica della Trombocitemia Essenziale FIGURA 3 - Mielofibrosi Idiopatica Cronica: aggregato denso di megacariociti, di cui alcuni mostrano i caratteristici nuclei vescicolosi ed ipolobati. Criteri clinici Criteri Morfologici Milza e fegato: - assenza o lieve epato-splenomegalia Sangue periferico: - assente o lieve leuco-eritroblastosi - assente o minima poichilocitosi - assenza o ridotto numero di dacriociti Parametri ematologici: - lieve anemia - lieve - moderata leucocitosi - lieve - moderata piastrinosi Midollo osseo: - ipercellularità - proliferazione della serie granulopoietica - proliferazione ed atipia dei megacariociti (clustering, lobulazione nucleare anomala, nuclei nudi) - assente o minima fibrosi reticolinica TABELLA 5 - Criteri diagnostici per la diagnosi di fase pre-fibrotica (fase cellulare) della Mielofibrosi Idiopatica Cronica secondo l’OMS (2001). zioni OMS, esaminare la distribuzione delle principali caratteristiche morfologiche utili per la diagnosi ed identificare patterns morfologici (insieme di più caratteristiche morfologiche) utili nella diagnosi differenziale con la fase cellulare della MFIC. La revisione dei preparati istologici ha permesso di riclassificare i pazienti come: TE (19%), MFIC-0 (21%), MFIC-1 (37%), MFIC-2 (12%), PV in fase latente (8%) e malattia mieloproliferativa cronica non ulteriormente classificabile (3%). Sulla base di questa rivalutazione, è stata rile- FIGURA 4 - Mielofibrosi Idiopatica Cronica: “cluster” denso di megacariociti, disposto in sede paratrabecolare, associato a marcata proliferazione granulocitaria. vata una differenza statisticamente significativa tra l’età media dei pazienti affetti da TE e quelli affetti da MFIC (54,7 vs 59,13, p=0,03). La valutazione semiquantitativa dei parametri morfologici che caratterizzano le diverse CMPD ha evidenziato differenze significative tra TE e MFIC. In particolare, nella MFIC la cellularità midollare è lievemente o moderatamente aumentata, a causa dell’incremento della granulopoiesi e della megacariopoiesi; i megacariociti tendono ad essere di taglia variabile, da piccoli a grandi/giganti, con difetti di maturazione, nuclei vescicolosi e nuclei nudi, sono aggregati in clusters densi ed il trabecolato osseo risulta rimaneggiato. Nella TE invece la cellularità midollare risulta nei limiti per età o solo lievemente aumentata; i megacariociti hanno nuclei iperlobati e sono aggregati in clusters lassi. Nella MFIC in fase fibrotica le alterazioni che caratterizzano la fase prefibrotica sono ulteriormente accentuate, il numero dei megacariociti aumenta, come anche le alterazioni displastiche e l’entità della fibrosi reticolinica, mentre si riduce la serie eritropoietica. Successivamente, allo scopo di identificare patterns istologici utili nella diagnosi differenziale tra le due malattie, abbiamo esaminato l’associazione di diversi parametri morfologici. La presenza di clusters lassi di megacariociti, prevalentemente grandi e giganti, con nuclei iperlobati caratterizza la TE. 11 12 Seminari di Ematologia Oncologica Cellularità midollare Serie eritropoietica Serie granulopoietica Serie megacariopoietica - clusters: Lassi Densi - forme grandi/giganti Nuclei iperlobati Nuclei vescicolosi Difetti di maturazione Trama reticolare TE MFIC fase prefibrotica n/+ n n ++ / +++ + / ++ -/n + /++ ++ / +++ caratteristici assenti ++ / +++ ++ / +++ occasionali occasionali n presenti caratteristici ++ / +++ + / ++ + / ++ + / ++ + Legenda: (-) ridotto, (n) normale, (+) incremento lieve, (++) incremento moderato, (+++) incremento marcato. TABELLA 6 - Criteri istologici per la diagnosi differenziale tra la Trombocitemia Essenziale e la fase prefibrotica della Mielofibrosi Idiopatica Cronica. Al contrario, la presenza di clusters densi di megacariociti, con difetti di maturazione e nuclei vescicolosi distingue la fase prefibrotica della MFIC dalla TE. Nell’ambito della MFIC, l’ipercellularità del midollo osseo, la proliferazione di granulociti e l’incremento della fibrosi reticolinica caratterizzano la fase fibrotica della MFIC e la distinguono dalla fase prefibrotica (Tabella 6). ■ LA DIAGNOSI DIFFERENZIALE CON LA FASE PRE-POLICITEMICA DELLA POLICITEMIA VERA In circa il 10-15% dei casi la PV in fase precoce può manifestarsi con una piastrinosi importante, tale da mimare la TE. L’identificazione di questa fase della malattia si deve a Thiele et al. (35) che nel 2005 ha descritto 23 pazienti con piastrinosi e lieve incremento della conta eritrocitaria, associate ad incremento della cellularità midollare, proliferazione delle serie eritro- e granulopoietica ed incremento del numero di megacariociti, con aspetto tipicamente pleomorfo. In accordo con tale osservazione, l’OMS definisce la Policitemia Vera (36) come una neopla- sia mieloproliferativa caratterizzata dall’incremento patologico del numero di globuli rossi, in cui si possono distinguere tre fasi: a) una fase prodromica (fase pre-policitemica), caratterizzata da una incremento lieve, borderline del numero di globuli rossi; b) una fase di stato della malattia (fase policitemica) in cui si ha il maggiore incremento della massa eritrocitaria; c) una fase terminale (mielofibrosi post-policitemica) in cui si possono avere anemia, eritropoiesi inefficace, ipersplenismo ed metaplasia mieloide, legate al progressivo incremento della fibrosi midollare. Il midollo osseo nelle fasi pre-policitemica e policitemica è caratterizzato da una ipercellularità complessiva, dovuto alla proliferazione delle tre serie emopoietiche (panmielosi). In particolare, i megacariociti sono aumentati e formano clusters lassi tipicamente di aspetto pleomorfo (presenza di elementi che mostrano nell’ambito dello stesso aggregato variabilità dimensionale e morfologica) (Figura 5 e 6). Dal momento che alla prima descrizione della fase iniziale della PV da parte di Thiele et al. non sono stati seguiti altri lavori inerenti questa problematica, molto recentemente abbiamo voluto studiare i criteri diagnostico-differenziali per distinguere la fase pre-policitemica della PV (prePV) dalla TE (37). Abbiamo esaminato 17 pazienti che si presentavano alla diagnosi con una piastrinosi superiore a 600x109/L piastrine e livelli di emoglobina ai limiti superiori della norma o solo lievemente aumentati, ma non diagnostici per PV, che hanno sviluppato nel corso del follow-up (mediamente dopo 9 anni) una PV in fase policitemica. Abbiamo confrontato i parametri clinici, le caratteristiche morfologiche e molecolari dei casi con quelle di due gruppi di controllo rappresentati da PV in fase policitemica (n=19) e da TE (n=14) diagnosticate secondo i criteri OMS. Dal punto di vista clinico, una splenomegalia palpabile e/o l’epatomegalia sono risultate più frequenti nei pazienti con pre-PV “precoce” e PV rispetto ai pazienti con TE. Dal punto di vista morfologico i casi di pre-PV Diagnosi Istologica della Trombocitemia Essenziale FIGURA 5 - Patterns morfologici che contribuiscono alla diagnosi differenziale tra Trombocitemia Essenziale e fase prefibrotica della Mielofibrosi Idiopatica Cronica e tra Trombocitemia Essenziale e fase pre-policitemica della Policitemia Vera. FIGURA 6 - Fase pre-policitemica della Policitemia Vera. Si riconosce un aggregato lasso di megacariociti di aspetto pleomorfo, in un contesto di iperplasia trilineare (panmielosi). Cellularità midollare Serie eritropoietica - “left shifting” Serie granulopoietica - “left shifting” Serie megacariopoietica - clusters: - monomorfi - polimorfi - forme grandi/giganti - forme piccole / medie Nuclei iperlobati Nuclei vescicolosi Difetti di maturazione Trama reticolare TE Pre-PV n/+ n a n a ++/+++ +/++ +/++ + / ++ +/++ + / ++ ++/+++ caratteristici assenti ++/+++ a ++/+++ occasionali occasionali n presenti caratteristici ++/+++ +/++ +/++ +/++ +/++ + Legenda: (a) assente, (-) ridotto, (n) normale, (+) incremento lieve, (++) incremento moderato, (+++) incremento marcato. TABELLA 7 - Criteri istologici per la diagnosi differenziale tra la Trombocitemia Essenziale e la fase pre-policitemica (iniziale) della Policitemia Vera. sono caratterizzati da una cellularità midollare aumentata, con incremento della eritropoiesi e della granulopoiesi complessive, del numero di proeritroblasti e delle forme mieloidi immature. I megacariociti risultano maggiormente pleomorfi, con iperlobulazione nucleare, difetti di maturazione, nuclei vescicolosi e nuclei nudi (Tabella 7). La mutazione JAK2V617F è stata riscontrata in tutti i pazienti con pre-PV, in 18 dei 19 casi di PV (95%), e in 7 di 13 casi di TE (54%). Alla luce di tali risultati, abbiamo proposto un algoritmo diagnostico (Figura 7) utile per differenziare la pre-PV dalla TE. Secondo tale algoritmo, tutti i casi di piastrinosi (>450 x 109/L) persistente devono essere esaminati per valutare lo stato mutazionale di JAK2. I pazienti JAK2 (+) possono poi essere classificati valutando la conta eritrocitaria e le caratteristiche morfologiche del midollo osseo. Infatti, i casi con conta eritrocitaria superiore alla norma, con un midollo ipercellulare per proliferazione tri-lineare e pleomorfismo dei megacariociti posso essere classificati come “pre-PV probabile”. I casi con conta eritrocitaria nei limiti e midollo osseo con caratteristiche della TE possono essere classificati come TE JAK2 (+). I casi con caratteristiche intermedie, semplicemente come malattie mieloproliferative croniche non ulteriormente classificabili. Analogamente, i pazienti JAK 2 (-) possono essere classificati sulla base della conta eritrocitaria e delle caratteristiche del midollo osseo come “verosimili pre-PV”, TE JAK2 (-) e casi inclassificabili, tra i quali si devono escludere le piastrinosi secondarie. 13 14 Seminari di Ematologia Oncologica FIGURA 7 - Algoritmo diagnostico per la diagnosi differenziale tra la Trombocitemia Essenziale e la fase pre-policitemica della Policitemia vera. ■ BIBLIOGRAFIA 1. Dameshek W. Some speculations on the myeloproliferative sindrome. Blood. 1951; 6: 372-5. 2. Murphy S, Iland H, Rosenthal D, Laszlo J. Essential thrombocythaemia: an interim report from the Polycythaemia Vera Study Group. Semin Hematol. 1986; 23: 177-82. 3. 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Le MMC vengono classificate a seconda della linea cellulare che più intensamente prolifera ed in base ad un insieme di caratteristiche biologiche e cliniche. Tra le MMC solo la leucemia mieloide cronica (LMC) è considerata un’entità a sé stante dato che preIndirizzo per la corrispondenza Paolo Bernasconi Divisione di Ematologia IRCCS Policlinico San Matteo Università degli Studi di Pavia Piazzale Golgi, 2 - 27100 Pavia E-mail: [email protected] senta una particolare anomalia citogenetica, il cromosoma Ph1 prodotto dalla traslocazione t(9;22)(q34;q11) con conseguente anomalia molecolare consistente nel riarrangiamento BCR-ABL (3, 4). Caratteristiche cardini delle altre tre classiche MMC, per anni identificate dal termine di “malattie mieloproliferative croniche Ph1 negative sono una massa eritrocitaria aumentata nella policitemia vera (PV), un’elevata conta piastrinica nella TE ed una fibrosi midollare nella mielofibrosi idiopatica (MI) (5). Le caratteristiche biologiche condivise dalle tre MMC sono: eccessiva sensibilità della popolazione clonale a varie citochine (Eritropoietina, GM-CSF e Trombopoietina), sviluppo di colonie eritroidi endogene, eccessiva produzione di PRV-1 (“polycythemia rubra vera1”) da parte dei granulociti, bassi livelli di espressione del recettore della trombopoietina (MPL) da parte dei megacariociti e delle piastrine, assenza di specifici marcatori cromosomici. Dal punto di vista clinico trombosi ed emorragie sono frequenti nella PV e nella TE. Inoltre, TE e PV possono evolvere in MI e tutte le MMC possono progredire in leucemia acuta mieloide (LAM). Il rischio di evoluzione a dieci anni è 1% nella TE, 6.3% nella PV e 8-23% nella MI (5). Sino a qualche anno fa la diagnosi di questi tre disordini mieloproliferativi si basava principalmente su un insieme di dati di clinici, di laboratorio e 18 Seminari di Ematologia Oncologica soprattutto sull’esame istologico del midollo osseo. L’assenza della traslocazione (9, 22) e del riarrangiamento BCR-ABL erano e rimangono fondamentali per escludere una diagnosi di LMC, mentre l’identificazione di un’anomalia cromosomica, dimostrando il carattere clonale della proliferazione cellulare, permette una diagnosi differenziale nei confronti di una trombocitosi, di un’eritrocitosi o di una fibrosi midollare reattive. Tuttavia nessuna anomalia citogenetica presente nella popolazione neoplastica è patognomonica di MMC. Pertanto, la recente dimostrazione che la maggior parte di questi pazienti presenta una singola mutazione somatica acquisita a carico del gene JAK2 e che una minor percentuale di pazienti presenta mutazioni acquisite del gene MPL ha in parte chiarito la patogenesi di tali disordini, ma ha soprattutto identificato un marcatore molecolare indispensabile per una corretta diagnosi e responsabile delle modifiche dei criteri diagnostici adottati dalla WHO (6). Inoltre, studi ancor più recenti indicano che mutazioni diverse di JAK2 sottendono fenotipi diversi di MMC e che la percentuale di alleli mutati e lo stato di eterozigosi/ omozigosi per la mutazione di JAK2 non solo si correlano ad una diversa diagnosi ma determinano anche un diverso decorso clinico. In questa breve trattazione verranno descritte le alterazioni citogenetiche in corso di TE e le mutazioni molecolari osservate in tale disordine mieloproliferativo. ■ ANOMALIE CITOGENETICHE Le anomalie cromosomiche osservate nella TE non sono patognomoniche della malattia poten- do essere riscontrate anche nella PV e nella MI ed in altri disordini mieloproliferativi. Inoltre, solo il 5-6% dei pazienti con TE presenta difetti citogenetici clonali che invece si osservano nel 35% dei pazienti affetti da PV e nel 40% di quelli affetti da MI (7) (Tabella 1). Queste incidenze sono state confermate da un recente studio (8) che ha anche sottolineato la rilevanza dell’analisi cromosomica convenzionale nella diagnosi di MMC. Infatti, difetti clonali del cariotipo erano stati identificati nel 10% dei pazienti con diagnosi di sospetta MMC ed erano stati quindi assolutamente necessari per un corretto inquadramento diagnostico di tali pazienti. Le alterazioni citogenetiche di più frequente riscontro nella TE consistono in una delezione delle braccia lunghe dei cromosomi 13 e 20 (13q-, 20q-), in una trisomia 8 (+8), in una duplicazione delle braccia lunghe del cromosoma 1 ed in anomalie del cromosoma 9. Siccome questi difetti cromosomici sono di solito presenti come singole anomalie e si sviluppano in pazienti che non hanno ricevuto chemioterapia, si ritiene che individuino regioni cromosomiche contenenti geni necessari per la patogenesi della TE. Questa ipotesi è anche corroborata dai dati di citogenetica molecolare (FISH). Infatti, la FISH in interfase sembra suggerire che la frequenza delle anomalie cromosomiche, soprattutto di delezioni, possa essere decisamente superiore rispetto a quella determinata dalla citogenetica convenzionale. Altre anomalie del cariotipo, come la monosomia o la delezione delle braccia lunghe dei cromosomi 5 e 7 si osservano invece in pazienti sottoposti a chemioterapia e fanno spesso parte di un cariotipo complesso. Pertanto, si ritiene che tali difetti non svolgano alcun ruolo nella patogenesi della TE. Difetto cromosomico TE PV MI Incidenza complessiva di cariotipi anomali Delezione 20q Delezione 13q Trisomia 8 Trisomia 9 Trisomia 1q Delezione 7q/monosomia 7 Delezione 5q/Monosomia 5 5.0 0.2 0.7 0.9 0.2 0 0 0 33.7 8.4 3.0 6.9 6.6 3.6 0.9 3.2 39.5 7.1 6.3 5.0 1.0 3.5 3.8 1.5 TABELLA 1 - Incidenza di anomalie cromosomiche a confronto: TE rispetto a PV e MI secondo Bench et al. (7). Citogenetica e Biologia Molecolare della Trombocitemia Essenziale L’evoluzione della TE verso un quadro di MI o di LAM comporta lo sviluppo di nuove anomalie cromosomiche, tra questa quella senz’altro più comune è una traslocazione sbilanciata tra i cromosomi 1 e 7 con perdita delle braccia corte del cromosoma 1, delle braccia lunghe del cromosoma 7 e sviluppo di trisomia 1q. Delezione 20q La delezione 20q è un’anomalia strutturale di frequente riscontro nella TE come in tutte le MMC. Questa delezione può essere però osservata anche nelle sindromi mielodisplastiche (SMD), nelle LAM, nelle crisi blastiche della LMC, nella sindrome ipereosinofila e nella leucemia cronica neutrofilica, mentre si osserva raramente nelle malattie linfoproliferative. Questi dati fanno ipotizzare che la delezione possa svilupparsi in un progenitore ematopoietico molto precoce capace di differenziarsi sia in senso mielode che linfoide e confermano che l’anomalia non è patognomonica di TE. Nei pazienti con TE la delezione non sembra possedere alcun impatto prognostico (Tabella 2). La delezione 20q è più spesso interstiziale che terminale e la regione di minima comune delezione (“common deleted region”, CDR) è compresa tra le bande 20q11.2 e 20q13.1. L’analisi molecolare, dimostrando che i punti di rottura prossimale e distale hanno sede assolutamente variabile, ha suggerito che la regione di cromosoma 20 coinvolta nella delezione possa contenere uno o più geni onco-soppressori (“tumor suppressor genes”, TSG). È possibile che nelle MMC e nelle SMD con 20q- le regioni di minima comune delezione siano di diversa ampiezza. A questo proposito è stato proposto che nelle MMC la CDR abbia un’estensione di 3Mb, mentre nelle SMD vi sarebbero due distinte CDR, la più estesa delle dimensioni di circa 700kb. Tra i possibili TSG, mappati nelle due regioni grazie all’impiego di “yeast arti- ficial chromosomes” (YAC) e di “bacterial artificial chromosomes” (BAC), quello che potrebbe avere un ruolo più rilevante nella patogenesi delle MMC potrebbe essere L3MBTL che codifica per una proteina capace di reprimere la trascrizione. Sino ad oggi però nessun paziente con 20q- ha presentato una mutazione acquisita di tale gene. In altri pazienti il 20q- è invece prodotto da un riarrangiamento criptico, di solito una traslocazione che viene identificata dalla sola FISH. Tale riarrangiamento può essere o non essere associato a delezione e di solito presenta punti di rottura che si localizzano al di fuori dei punti di rottura della classica delezione. La definizione di tali riarrangiamenti criptici potrebbe permettere di individuare nuovi importanti TSG. In realtà dati recenti sembrano indicare che nei pazienti con questi riarrangiamenti criptici del cromosoma ed in quelli con monosomia 20, oltre alla delezione sia sempre presente l’amplificazione di una regione di braccia lunghe del cromosoma molto prossimale al centromero. Tale regione potrebbe contenere geni o sequenze cruciali per la vitalità della popolazione leucemica. Delezione 13q Si tratta di un’anomalia strutturale più comune nelle MI successive a PV che nella PV e nella TE. La delezione 13q si osserva anche in vari disordini linfoproliferativi come la leucemia linfatica cronica a cellule B (LLC), la leucemia acuta linfoblastica, i linfomi non-Hodgkin ed il mieloma multiplo. La delezione determina una cattiva prognosi in molte malattie linfoproliferative, una prognosi favorevole nella LLC, ma tuttora possiede un incerto significato prognostico nelle MMC. La FISH sembra dimostrare che l’incidenza di 13qè superiore a quella determinata dalla citogenetica convenzionale. Infatti, è stato osservato che una perdita di eterozigosi per il locus Rb1 map- Difetto citogenetico Gene coinvolto Caratteristiche cliniche e prognosi Delezione 20q Delezione 13q Trisomia 8 Trisomia 9 e anomalie 9p Anomalie 1q/1p Sconosciuto Sconosciuto Sconosciuto JAK2 Sconosciuto/MPL Prognosi favorevole se singola anomalia Prognosi favorevole se singola anomalia Prognosi favorevole Prognosi dipendente dal carico di alleli JAK2 mutati Prognosi indefinita TABELLA 2 - Impatto prognostico delle anomalie citogenetiche nella TE. 19 20 Seminari di Ematologia Oncologica pato in 13q14, non dimostrata dalla citogenetica convenzionale, si verifica nel 43% dei pazienti con MMC e che la regione di minima comune delezione lungo il cromosoma 13q sia di circa 4 CM. Studi successivi hanno ulteriormente ridotto l’estensione della CDR a 1.8Mb. Le dimensioni del segmento di cromosoma 13 deleto nelle MMC corrisponderebbe a quella del segmento deleto nelle malattie linfoproliferative. I geni che potrebbero funzionare come potenziali TSG potrebbero essere gli stessi delle malattie linoproliferative: Rb1, CHCIL e RFP2. Tuttavia, ad oggi non vi sono conferme che tali geni svolgano un reale ruolo nella patogenesi della TE. Trisomia 8 Si osserva nel 10% dei pazienti con diverse malattie mieloproliferative ed è pertanto l’anomalia cromosomica numerica che viene più frequentemente riscontrata. La trisomia 8 si osserva nel 10-15% dei pazienti con SMD, nel 5% dei pazienti con LAM e nel 35% dei pazienti con LMC in crisi blastica. Alcune casistiche hanno riportato che l’incidenza di +8 nelle MMC sarebbe del 25-30%, ma tale incidenza non è stata confermata da casistiche più ampie. La FISH ha però dimostrato che l’incidenza di +8 potrebbe essere superiore a quella determinata dalla citogenetica convenzionale. Inoltre, siccome la FICTION ha dimostrato che nelle LAM la trisomia è presente nelle cellule CD34 positive del midollo osseo e nelle cellule della serie mieloide del sangue periferico ma assente dai linfociti B del sangue periferico, è stato proposto che tale aneuploidia possa svilupparsi nel compartimento staminale e possa determinare un’incapacità della popolazione cellulare a differenziarsi lungo la filiera linfoide. Non vi sono dati molecolari riguardanti un possibile gene dosage effect svolto dalla trisomia. Duplicazione delle braccia lunghe del cromosoma 1, Dup(1q) Una duplicazione di parte dell’1q è stata riportata non solo nella TE ma anche in altri disordini mieloproliferativi. L’alterazione citogenetica può essere presente alla diagnosi, ma più spesso si sviluppa al momento della progressione clinica. La FISH, dimostrando che i precursori eritroidi e mieloidi contengono la dup(1q), ha indicato che l’ano- malia si sviluppa in un progenitore multipotente. Nella maggior parte dei pazienti la parte di cromosoma 1q duplicata corrisponde alle bande 1q23-q32, mentre in altri sono le intere braccia lunghe del cromosoma 1 ad essere duplicate a causa di una traslocazione cromosomica sbilanciata tra il cromosoma 1 ed i numeri 7 o 9. Non vi sono analisi molecolari che abbiano tentato di definire quali siano i geni possibilmente coinvolti nella duplicazione 1q. Tuttavia, nei pazienti con anemia refrattaria con sideroblasti ad anello e trombocitosi (ARRS-T) è stata recentemente riportata una “uniparental disomy” (UDP) della regione 1p, simile a quella descritta qui di seguito a carico delle braccia corte del cromosoma 9 (9). Tutti i pazienti con UDP dell’1p presentano la mutazione W515L del gene MPL, che si associa a TE e MI e che verrà descritta in seguito. Inoltre, tutti presentano megacariociti che all’immuno-istochimica mostrano una caratteristica positività nucleare per la fosfo-STAT5. Anomalie del cromosoma 9 La trisomia 9 è una delle più comuni alterazioni numeriche osservate nella TE e nelle MMC in generale. In alcuni pazienti, specialmente in quelli affetti da PV, si osserva una trisomia 9p o una trisomia 9q. La trisomia 9p può essere prodotta da varie traslocazioni sbilanciate specialmente tra braccia corte del cromosoma 9 e braccia corte o lunghe del cromosoma 1. Di solito la traslocazione sbilanciata t(1;9) determina una trisomia 1q e 9p e si sviluppa nelle MMC al momento dell’evoluzione in LAM. La t(9;18) è un’altra traslocazione sbilanciata ricorrente. Bacher et al (10) ha descritto questo riarrangiamento del cariotipo in un paziente con PV ed in due con TE. La traslocazione, identificata anche dalla FISH, determina una trisomia 9p ed una monosomia 18p. Dato l’esiguo numero di pazienti, lo studio non è riuscito a correlare la traslocazione a particolari caratteristiche cliniche ed ematologiche. Una trisomia 9p può essere anche causata dalla formazione di un isocromosoma per le braccia corte del 9 o da altri meccanismi. L’impiego della FISH ha dimostrato che il cromosoma 9 oltre ad essere coinvolto in anomalie numeriche può essere coinvolto in anomalie strutturali con una frequenza superiore rispetto a quel- Citogenetica e Biologia Molecolare della Trombocitemia Essenziale la determinata dalla citogenetica convenzionale. Un recente studio di “Comparative Genomic Hybridization” (CGH) ha identificato una trisomia 9p nel 50% dei pazienti affetti da MI ed ha suggerito che tale porzione di cromosoma possa contenere geni importanti per la patogenesi della malattia (11), ipotesi già formulata in precedenza da studi condotti in pazienti con PV (12-14). L’importanza di tale porzione cromosomica è stata corroborata dall’identificazione nel suo interno di una regione di perdita di eterozigosi (“Loss of heterozygosity”, LOH). Questa area di LOH, presente nel 33% dei pazienti con PV, si sviluppa per errori nel processo di ricombinazione mitotica che creano una disomia uniparentale (“Uniparental Disomy”, UDP). L’importante ruolo svolto da tale regione nella patogenesi delle MMC è stato ulteriormente confermato dal fatto che al suo interno risiede il gene JAK2, mappato in 9p24. La regione di cromosoma 9 compresa tra il telomero 9p ed il gene JAK2 è quella sempre colpita da LOH, mentre la regione compresa tra JAK2 ed il centromero è quella variabilmente interessata da LOH. Infatti, il suo coinvolgimento nella LOH dipende dalla localizzazione del punto di rottura della ricombinazione mitotica. Comunque sia la UDP per la regione 9p può interessare il cromosoma 9 materno o paterno e vi è quindi una probabilità del 50% che geni “imprinted” e geni che casualmente presentano un’espressione non vengano o vengano espressi dal clone con UDP del 9p (15). Nei pazienti con TE bisogna però sottolineare che la frequenza di UDP a carico del 9p è più bassa rispetto a quella osservata nei pazienti con PV e MI e la presenza di UDP si correla, come vedremo, ad un basso carico di mutazione V617F (16). Per spiegare questo evento sono state fatte due ipotesi: nella TE la mutazione preesistente a JAK2 non aumenta o addirittura ridu- ce la frequenza di ricombinazione mitotica a carico del 9p o, alternativamente, la mutazione V617F si comporta in modo autosomico dominante e quindi la UDP in 9p non determina alcun vantaggio per le cellule omozigoti che presentano la mutazione. Quest’ultima ipotesi si basa sul concetto che il microambiente nella TE sia sostanzialmente diverso da quello della PV e MI dove vi è una selettiva pressione per acquisire la UDP del 9p (15). JAK2 oltre ad essere bersaglio, come vedremo, di mutazioni puntiformi nelle malattie mieloproliferative croniche è anche coinvolto in varie traslocazioni cromosomiche. Tra queste bisogna ricordare la traslocazione t(8;9)(p22;p24) osservata nella leucemia mieloide cronica atipica, nella leucemia cronica eosinofilica e nelle LAM. La FISH ha stabilito che questo riarrangiamento interessa una regione di cromosoma 8 che si trova in posizione più telomerica rispetto al gene FGFR1. Inoltre, la FISH e la PCR hanno dimostrato che i geni interessati dal riarrangiamento sono PCM1, mappato in 8p22 e già coinvolto nella formazione di varie proteine di fusione associate a vari tumori solidi, ed il gene JAK2, mappato in 9p24 (17). Il gene PCM1 codifica per una lunga proteina ubiquitaria di 228kDa che presenta diversi motivi “coil-coiled” a livello della sua porzione aminoterminale. Questi motivi vengono mantenuti nonostante la traslocazione e probabilmente causano una dimerizzazione della proteina di fusione PCM1-JAK2 con conseguente attivazione costitutiva di JAK2. Altre traslocazioni che coinvolgono JAK2 sono la t(9;22)(p24;q11.2), la t(9;12)(p24;p13) e la t(9;15;12)(p24;q15;p13) (18, 19, 20). La prima, osservata un paziente con una LMC atipica, codifica per la proteina di fusione BCR-JAK2; la seconda e la terza, osservate in un paziente con una leucemia acuta linfoblastica a Difetto cromosomico Geni coinvolti Tipo di MMC Der(1)t(1;9) con trisomia 9p T(9;18) con trisomia 9p T(8;9)(p22;p24) T(9;22)(p24;q11.2) T(9;12)(p24;p13) T(9;15;12)(p24;q15;p13) JAK2 JAK2 PCM1-JAK2 JAK2-BCR JAK2-ETV6 BCR-JAK2 MMC, SMD PV, TE LAM LMC atipica LAL a cellule T LMC atipica TABELLA 3 - Traslocazioni delle braccia corte del cromosoma 9 nelle MMC e nelle leucemie acute. 21 22 Seminari di Ematologia Oncologica ni e codifica per proteine di 1100 aminoacidi del peso molecolare di 120kDa a struttura tridimensionale tuttora mal definita. Ad eccezione di JAK3 espresso solo dal tessuto ematopoietiche, tutti gli altri geni hanno un’espressione ubiquitaria. Modelli sperimentali murini basati sulla riduzione o sulla mancata espressione di un particolare gene JAK hanno permesso di dimostrare l’importante ruolo svolto da questi geni nell’ematopoiesi. In particolare, un blocco dell’espressione del gene JAK1 causa una difettosa funzionalità neuronale ed un alterato sviluppo del tessuto linfoide con morte perinatale; un blocco dell’espressione di JAK2 causa un blocco dell’eritropoiesi ma una normale linfopoiesi. Mutazioni di JAK3 determinano una “Severe Combined Immunodeficiency” (SCID), mentre quelle di TYK2 una sindrome caratterizzata da una eccessiva produzione di Ig E. Le proteine JAK partecipano alla trasduzione del segnale attraverso la via JAK/STAT (“Signal Transducers and Activators of Transcription”), determinano l’attivazione della fosfatidil-inositol 3 kinasi (PI3K), stimolano la via di Ras-“Mitogen Activated Protein Kinase” (MAPK) e dalle “Extracellular SignalRegulated Kinases” (ERK) e favoriscono l’espressione dei geni c-fos e c-myc (21). Tra le proteine Jak, Jak2 sembra essere quella più importante per la proliferazione e differenziazione mieloide essendo attivata in risposta a varie citochine: Eritropoietina (EPO), GM-CSF, trombopoietina (TPO), interleukina 3 (IL-3), IL-5, IL-12 e IFN-γ. La proteina JAK2 è costituita da sette regioni JH (Figura 1). La regione JH1, situata nelle vicinanze dell’estremità carbossi-terminale della proteina, è dotata di attività kinasica e contiene residui di tirosina che vengono fosforilati quando la proteina è attivata. La regione JH2 presenta un’importante omologia cellule T ed in uno con LMC atipica, codificano per la proteina di fusione ETV6/JAK2. In tutti i pazienti i geni BCR e ETV6 sono fusi alle regioni JH1 o JH2 di JAK2 e forniscono una superficie di dimerizzazione per la regione ad attività kinasica di JAK2 con conseguente attivazione costitutiva della proteina (Tabella 3). ■ ALTERAZIONI MOLECOLARI Come già riportato nessuna anomalia cromosomica e nessun marcatore molecolare sono sufficientemente specifici per poter formulare un’accurata diagnosi nell’ambito dei disordini mieloproliferativi cronici Ph1 negativi. La diagnosi di tali disordini sino ad ora si basava principalmente sull’istologia midollare e su diverse indagini di laboratorio (formazione di colonie eritroidi endogene, espressione di Mpl da parte dei megacariociti e delle piastrine, espressione di PRV1 da parte dei neutrofili ed espressione del fattore trascrizionale NF-E2). Quindi, la recente dimostrazione che la maggior parte dei pazienti con PV ed una frazione di quelli con MI e TE presenta la mutazione somatica V617F del gene JAK2 e che una frazione di pazienti con MMC V617F negativa presenta una mutazione di MPL ha migliorato la definizione diagnostica di questi disordini onco-ematologici (Tabella 4). JAK2 Il gene JAK2 (Janus Kinase 2) è uno dei quattro geni (JAK1, JAK2, JAK3, TYK2) che codificano per proteine citoplasmatiche ad attività tirosina kinasica ed appartiene alla famiglia delle Janus tirosine kinasi. JAK1 è mappato in 1p31.3, JAK2 in 9p24, JAK3 in 19p13.1 e TYK2 in 19p13.2. Ognuno di questi geni è formato da 20-25 eso- Lesione Molecolare Mutazione V617F eterozigote Mutazione V617 omozigote Mutazione esone 12 di JAK2 Mutazione W515K/L Incidenza (%) TE PV MI 50 3-4 Assente 5 90 24-27 3 Assente 50 6-18 Assente 11 TABELLA 4 - Incidenza delle lesioni molecolari a confronto: TE rispetto a PV e MI. Citogenetica e Biologia Molecolare della Trombocitemia Essenziale FIGURA 1 - Struttura della proteina Jak2 e sedi di mutazione. con la regione JH1 ma non possiede attività kinasica (regione pseudo-kinasica). Siccome la delezione di JH2 fa aumentare l’attività di JAK2, è stato proposto e poi confermato che tale regione pseudo-kinasica svolge un’azione inibitoria nei confronti di JH1. Le regioni JH3-JH4 contengono un motivo chiamato “Src Homology Region 2” (SH2) ad attività ancora mal definita, mentre le regioni JH5-JH7 comprendono la regione amino-terminale della proteina che a sua volta contiene la regione di omologia FERM (F per proteina 4.1, E per ezrina, R per radixina e M per moesina), altra regione critica per JAK2. Infatti, tramite questa regione la proteina JAK2 si attacca in modo non covalente alla regione iuxta-membrana citoplasmati- FIGURA 2 - signaling di JAK2 per attivazione dei recettori di tipo I delle citochine. ca del recettore delle citokine di tipo I (EPO, GMCSF, TPO). Questi recettori che formano omodimeri non possiedono attività tirosino kinasica intrinseca, ma una volta avvenuto il legame alla citochina cambiano la propria conformazione. Due molecole della proteina Jak2 si avvicinano abbastanza in modo tale da potersi fosforilare vicendevolmente. La proteina Jak2 fosforilata si comporta come una tirosina kinasi e fosforila la regione citoplasmatica del recettore della citokina di tipo I che diviene sede di accumulo delle proteine STAT. Una volta legate al recettore le proteine STAT sono fosforilate dalla proteina Jak2 attivata a livello del residuo di tirosina situato alla loro estremità carbossi-terminale (Figura 2). Le sette possibili proteine STAT una volta fosforilate formano omo- ed etero-dimeri tra loro poiché si creano legami tra la regione SH2 di una proteina STAT e la fosfotirosina di un’altra proteina STAT. Tali dimeri entrano nel nucleo della cellula ed attivano la trascrizione di vari geni. Pertanto le proteine STAT si comportano da attivatori della trascrizione legandosi a sequenze che regolano l’espressione di specifici geni. Il tipo di complessi STAT attivati determina quindi il tipo di risposta cellulare a quella particolare citochina. Perciò, le proteine JAK e STAT attivate variano in funzione della cellula bersaglio, del grado di differenziazione della cellula e della possibilità che si verifichi un “cross-talk” tra recettori diversi. Tra i geni regolati da STAT bisogna ricordare Bcl-X che codifica per una proteina ad attività anti-apoptotica espressa dai progenitori eritroidi (21). Sedi di mutazione Nel 2005 vari Autori, pur impiegando approcci metodologici diversi, hanno contemporanea- 23 24 Seminari di Ematologia Oncologica mente e per la prima volta identificato la mutazione puntiforme V617F in pazienti con MMC. Kravolics et al. (16) e Baxter et al. (22) erano partiti dalle seguenti osservazioni: nella PV il più comune difetto cromosomico consiste in una LOH a carico del cromosoma 9, le tirosine kinasi svolgono un ruolo importante nella patogenesi delle leucemie, JAK2, una tirosina kinasi mappata in 9p24, è frequentemente attivata in risposta all’eritropoietina, le diverse MMC presentano caratteristiche cliniche comuni. Inizialmente Kravolics et al. (12, 13) aveva identificato la mutazione V617F allo stato omozigote in pazienti con MMC e LOH in 9p, ma estendendo l’analisi anche a pazienti con MMC privi di LOH in 9p aveva individuato la mutazione anche allo stato eterozigote. Baxter et al (22) aveva individuato la stessa mutazione dopo aver analizzato con metodiche diverse la sequenza degli esoni di JAK2. Levine et al. (23) e Zhao et al. (24) erano partiti dall’ipotesi che fosforilazione e defosforilazione delle tirosine kinasi siano tappe fondamentali nel processo di regolazione della crescita cellulare e nei processi di cancerogenesi ed avevano perciò ricercato possibili mutazioni a carico di varie tirosine kinasi e fosfatasi. Entrambi gli studi avevano identificato la mutazione V617F di JAK2 come unica mutazione. James et al. (25) aveva utilizzato un “interfering RNA” per ridurre o spegnere l’espressione di JAK2 e aveva osservato che nei pazienti con PV una riduzione dell’espressione di JAK2 si associava ad una riduzione del numero di colonie eritroidi endogene. Il sequenziamento dei 23 esoni e delle giunzioni tra esoni ed introni del gene permise di individuare la mutazione V617F. Tutti questi studi hanno dimostrato che la mutazione V617F è una mutazione somatica presente nei granulociti, ma assente dalle cellule della mucosa orale, dai linfociti T e dalle cellule non appartenenti alla serie granulocitaria. Si tratta di una mutazione acquisita e non germ-line dal momento che non si osserva nei soggetti sani e nei soggetti con eritrocitosi, trombocitosi reattive. Tale mutazione colpisce l’esone 14 di JAK2 causando la sostituzione della guanina in posizione 1849 con una timina (G→T). Tale evento determina la sostituzione della valina in posizione 617 con una fenilalanina nella regione JH2 della proteina Jak2. Sul piano funzionale la valina 617, come pure i residui aminoacidici adiacenti, svolge un ruolo molto importante perchè consente alla regione JH2 di inibire l’attività tirosina kinasica di JH1. La mutazione V617F fa sì che la regione JH2 non possa più svolgere tale azione e quindi la regione JH1 viene mantenuta in conformazione attiva e può svolgere la propria attività tirosina kinasica. Un dato sorprendente è che ad oggi la mutazione V617F è l’unica a colpire il codone 617, nonostante sia stato dimostrato che anche altre sostituzioni aminoacidiche in tale posizione potrebbero mantenere JH1 in conformazione attiva (21). La mutazione può essere presente allo stato omo- o eterozigote. L’omozigosi per la mutazione si verifica per un processo di ricombinazione mitotica a livello delle braccia corte del cromosoma 9 e viene definita dalla presenza di livelli di allele mutato nel campione in studio superiori al 51% dei livelli totali di espressione di JAK2 (valore dell’allele mutato e dell’allele wild type), indipendentemente dalla presenza di singole colonie cellulari che esprimano il solo allele mutato (26). Ovviamente la presenza dell’allele mutato in forma omozigote determina una maggiore attivazione dell’asse JAK-STAT rispetto a quanto si verifica nella cellula che presenta l’allele mutato e l’allele wild type. In entrambi gli stati mutazionali però l’espressione di STAT5 in forma attivata e l’espressione di Bcl-X da parte dei progenitori ematopoietici sono necessarie per lo sviluppo di colonie eritroidi endogene. Si ritiene però che i livelli di espressione dell’allele mutato possano influenzare i livelli di espressione dei geni controllati da JAK2 (soprattutto PRV-1, NF-E2, il gene per la fosfatasi alcalina leucocitaria, e HMGA2). Pertanto la cellula omozigote per l’allele mutato esprimerebbe tali geni a livelli sicuramente inferiori rispetto a quelli espressi dalla cellula eterozigote nella quale si verifica una competizione tra allele wild type ed allele mutato. Inoltre, la cellula omozigote per la mutazione presenterebbe una maggiore attivazione/deregolazione dell’interazione tra proteina Jak2 mutata e substrati, evento che potrebbe ulteriormente contribuire alla perdita del controllo delle normali funzioni cellulari (27). Recentemente, sono state identificate nuove mutazioni di JAK2. Scott et al. (28) hanno individuato mutazioni dell’esone 12 in pazienti affetti da PV negativa per la mutazione V617F. Si tratta Citogenetica e Biologia Molecolare della Trombocitemia Essenziale Mutazione Fenotipo V617F Esone 12 TE, PV, MI Eritrocitosi idiopatica con bassi livelli di eritropoietina e sviluppo di colonie eritroidi endogene C2624A ΔIREED LAL-B in sindrome di Down LAL-B Codone 683 LAL-B in sindrome di Down R541L e N542-E543del Trombosi mesenterica e portale; sindrome di Budd-Chiari TABELLA 5 - Mutazioni di JAK2 e fenotipi leucemici. di quattro nuove mutazioni presenti allo stato eterozigote. Nella mutazione F537-K539 il tratto di proteina compreso tra il residuo di fenilalanina in posizione 537 ed il residuo di istidina in posizione 539 viene sostituito da una leucina, nella mutazione H538OK539L la glutamina sostituisce la lisina in posizione 538 e la leucina sostituisce la lisina in posizione 539, nella mutazione K539L la leucina sostituisce la lisina in posizione 539 e nella mutazione N542-E543del si verifica la delezione dell’asparagina in posizione 542 e dell’acido glutammico in posizione 543. Queste quattro mutazioni erano presenti solo in pochi granulociti del sangue periferico, ma erano invece presenti in molte cellule del midollo osseo e nelle colonie eritroidi endogene. Questa osservazione potrebbe spiegare perché nessuna delle quattro nutazioni era stata precedentemente identificata dai molti studi che avevano analizzato il sangue periferico di pazienti con MMC. Sul piano molecolare tali mutazioni sono localizzate tra le regioni SH2 e JH2 di JAK2 e determinano rispetto alla mutazione V617F un signaling di JAK meno dipendente dal ligando, mentre sul piano funzionale aumentano la sensibilità verso i vari fattori di crescita ed un’attivazione delle vie di segnale presiedute dall’EPO. Un altro studio, condotto su linee cellulari di leucemia acuta megacarioblastica, ha dimostrato una sostituzione C→A in posizione 2624 cui corrisponde nella proteina Jak2Δ la sostituzione della treonina in posizione 875 con una asparagina (29); un altro, condotto in un paziente con sindrome di Down e leucemia acuta linfoblastica a cellule B, ha individuato una delezione di 5 aminoacidi all’interno della regione JH2 della proteina (mutazione JAK2 IREED) (LAL-B) (30) ed un altro, condotto in un paziente con sindrome di Down e LAL- B, una mutazione centrata sul codone 683 (31). Un recente studio italiano ha poi riportato una nuova mutazione dell’esone 12 in due giovani pazienti con PV che alla diagnosi avevano rispettivamente presentato una trombosi della porta e della mesenterica ed una sindrome di Budd-Chiari (32). In conclusione, questi dati suggeriscono che ad una variazione della sede di mutazione all’interno di JAK2 corrisponde una variazione del fenotipo leucemico (Tabella 5). Mutazioni e patogenesi delle MMC L’introduzione della mutazione V617F nel tessuto ematopoietico del topo mediante vettori retrovirali determina un disordine mieloproliferativo del tutto sovrapponibile alla PV, ma non alla TE. Infatti, la trombocitosi non è una caratteristica riproducibile in questi topi forse perché tale approccio sperimentale determina alti livelli di espressione dell’allele mutato con conseguente blocco nella differenziazione dei megacariociti (33). Pertanto, queste osservazioni non riescono a definire correttamente il reale impatto della mutazione V617F sulla patogenesi delle MMC Ph1 negative, TE inclusa, e nemmeno a spiegare come una singola mutazione possa generare tre fenotipi diversi di una stessa malattia. Per stabilire il ruolo della mutazione nella patogenesi delle MMC Ph1 negative sono state fatte due ipotesi: la mutazione V617F di JAK2 sarebbe responsabile dell’ematopoiesi clonale e della MMC (ipotesi single hit) mentre variazioni nel dosaggio del gene mutato sarebbero responsabili dei diversi fenotipi cellulari (gene dosage effect), alternativamente, mutazioni somatiche acquisite insorte prima della mutazione V617F sarebbero responsabili dell’emato- 25 26 Seminari di Ematologia Oncologica FIGURA 3 - Mutazioni di JAK2 e possibile patogenesi delle MMC (15). poiesi clonale e faciliterebbero la comparsa della mutazione stessa (ipotesi multi-hit) mentre una loro influenza sull’impatto della mutazione V516F nei confronti del tessuto ematopoietico sarebbe responsabile dei diversi fenotipi cellulari (Figura 3) (21, 34). La prima ipotesi sembra essere suffragata dalle seguenti osservazioni: - topi con bassi livelli di espressione di JAK2 mutato sviluppano una trombocitosi ed una minima eritrocitosi; - l’allele mutato di JAK2 è poco espresso nei granulociti e nel sangue midollare di pazienti con TE, mentre è molto espresso nei granulociti e nel sangue midollare di pazienti con PV e MI; - molti pazienti con PV nonostante i bassi livelli di espressione dell’allele mutato sono omozigoti per la mutazione, mentre la totalità dei pazienti con TE presenta bassi livelli di espressione dell’allele mutato ed è sempre eterozigote per la mutazione. Questo dato fa ritenere che nella PV l’omozigosi per la mutazione sia un evento precoce nella patogenesi della malattia ed il progressivo aumento della percentuale di alleli mutati durante il decorso clinico sia causato dalla selezione della preesistente popolazione clonale; - sul piano clinico è frequente una progressione della TE in PV o in MI e della PV in MI. Bisogna però sottolineare che il gene dosage effect non riesce a spiegare completamente l’eterogeneità delle MMC con mutazione di JAK2. Infatti, considerando i modelli murini è stato riportato che l’estrema variabilità nel fenotipo della malattia sia determinata anche dal “background” genetico del topo. L’espressione della mutazione V617F nel topo Balb/c determina un’importante leucocitosi ed una fibrosi midollare, mentre nel topo C57Bl/6 una minima leucocitosi ed una fibrosi limitata alla milza. La seconda ipotesi, basata sulla possibilità che la mutazione di JAK2 possa cooperare con mutazioni somatiche preesistenti, sembra suffragata dalle seguenti osservazioni: - nella popolazione di granulociti clonali ottenuti da sangue periferico la percentuale di cellu- Citogenetica e Biologia Molecolare della Trombocitemia Essenziale - - - - le con la mutazione di JAK2 varia tra lo 0% ed il 95%; nelle MMC 20q- positive tutte le cellule ematopoietiche presentano il 20q-, ma solo una frazione contiene la mutazione di JAK2 (35); la presenza della mutazione di JAK2 in pazienti con TE policlonale suggerisce che le cellule con la mutazione non necessariamente subiscono un processo di selezione clonale (36, 37); nelle famiglie con predisposizione allo sviluppo di una MMC Ph1 negativa la mutazione di JAK2 sembra cooperare con alleli ancora sconosciuti ereditabili ed a bassa penetranza (38). La maggior parte di queste famiglie eredita la predisposizione alla MMC come carattere autosomico dominante a penetranza incompleta, mentre un piccolo numero come carattere a ereditarietà meno evidente, forse autosomica recessiva. Siccome, indipendentemente dal tipo di ereditarietà, in tutte le famiglie la mutazione V617F è somatica ed acquisita, gli alleli che predispongono alla MMC potrebbero amplificare direttamente o indirettamente il signaling di JAK2 con vantaggio selettivo dei progenitori ematopoietici che hanno acquisito la mutazione. Un’altra prova a favore dell’esistenza dell’esistenza di alleli ereditabili ed a bassa penetranza è fornita dalla recente osservazione di famiglie che presentano individui a rischio di sviluppare una mutazione V617F ed individui a rischio di sviluppare una mutazione dell’esone 12 e dal fatto che il 5-10% dei pazienti con PV, TE e MI presenta parenti di primo grado con MMC (39, 40). Queste osservazioni spiegano come tali alleli, non essendo da soli sufficienti a causare una MMC, sono responsabili di un fenotipo a penetranza incompleta nei casi famigliari di MMC. Quindi, l’unica differenza tra casi famigliari e casi sporadici di MMC potrebbe consistere nel fatto che la mutazione preesistente a JAK2 (alleli predisponenti a MMC) è ereditata in forma germ-line nei primi mentre in forma somatica acquisita nei secondi. Inoltre, la mancanza di mutazioni germ-line di JAK2 potrebbe essere semplicemente dovuta al fatto che tali mutazioni sarebbero incompatibili con l’embriogenesi (15); la presenza di “single nucleotide polymorphisms” (SNPs) all’interno dei geni JAK2, MPL e del gene che codifica per il recettore dell’eritropoietina sembra essere strettamente correlata a TE e PV anche se non sembra predisporre ad una particolare MMC (41). Tuttavia, tali SNPs contribuiscono piuttosto a generare il fenotipo MMC cooperando con JAK2; - solo la metà dei pazienti con LAM evoluta da PV JAK2+ mantiene la mutazione di JAK2 (42, 43). Sono stati riportati due pazienti con LAM evoluta da PV JAK2 positiva con blasti leucemici JAK2 negativi e neutrofili JAK2 positivi nello stesso campione di sangue midollare ed è stato proposto che le due popolazioni cellulari avessero una diversa origine clonale o fossero derivate da un progenitore ancestrale comune (15). Qualunque sia il ruolo della mutazione di JAK2 nella patogenesi delle MMC Ph1 negative, la reazione polimerasica a catena di tipo quantitativo realtime ha dimostrato che le cellule staminali ematopoietiche, i progenitori mieloidi, quelli granulocito-macrofagici, quelli megacariocitari ed eritroidi purificati al citofluorimetro (44), i linfociti B, T, e le cellule natural killer di pazienti con MMC presentano la mutazione (45). Pertanto si ritiene che la mutazione insorga in una cellula staminale capace di differenziarsi sia in senso linfoide che mieloide. Cooperazione con altre mutazioni Studi iniziali hanno riportato che la mutazione di JAK2, seppure frequentemente associata a delezione 20q e 9p, è sempre presente come singola anomalia (46) e mai associata alla mutazione di altre tirosin kinasi. Però, sono stati recentemente descritti pazienti che oltre alla mutazione di JAK2 presentavano il cromosoma Ph1 e quindi il gene di fusione BCR-ABL. Si trattava di un paziente con iniziale diagnosi di MI, di un paziente con LMC che era evoluto in MI durante la terapia con imatinib e di un paziente con LMC evoluta a PV durante la terapia con imatinib (21). Alla diagnosi il primo paziente non aveva presentato un quadro compatibile con una LMC o con una PV, le indagini molecolari avevano mostrato un basso numero di copie di trascritto BCR-ABL e la mutazione di JAK2 era presente allo stato eterozigote. Negli altri due pazienti la diagnosi iniziale era stata quella di LMC Ph1 positiva e la muta- 27 28 Seminari di Ematologia Oncologica zione di JAK2 era stata identificata al momento dell’evoluzione in MI ed in PV rispettivamente anche se non si poteva escludere che già alla diagnosi i due pazienti potessero presentare bassi livelli di mutazione. In questi due pazienti l’imatinib aveva quindi bloccato il clone Ph1 positivo permettendo l’espansione della popolazione JAK2 mutata (21). Incidenza delle mutazioni La mutazione di JAK2 è stata identificata nel 90% dei pazienti con PV e in circa la metà dei pazienti con TE e MI. La mutazione allo stato omozigote è presente nel 24-27% dei pazienti con PV, nel 3-4% di quelli con TE e nel 6-18% di quelli con MI (21) (Tabella 4). La mutazione è stata osservata, sebbene con un’incidenza più bassa, anche nel 20% circa dei pazienti con LMC atipica, nel 5% di quelli con leucemia mielomonocitica cronica (LMMC), nel 2% di quelli con forma giovanile di LMMC, nel 2% di quelli con Sindrome Mielodisplastica (SMD) ed in una percentuale ancora inferiore di quelli con mastocitosi. La maggior parte dei pazienti con SMD e mutazione era stata classificata come anemia refrattaria con sideroblasti ad anello e trombocitosi (ARRS-T), entità provvisoria che rientra nel gruppo delle SMD/MMC. In questo sottogruppo di SMD l’incidenza della mutazione era stata del 66% circa. La mutazione di JAK2 è stata osservata molto raramente nei pazienti con LAM. Solo l’1% delle forme de novo presenta la mutazione, presente invece nel 50% delle LAM secondarie a MMC. L’analisi di campioni ottenuti al momento della diagnosi di MMC ed al momento della trasformazione in LAM ha dimostrato, come già riportato, che più della metà dei pazienti con LAM secondaria a MMC JAK2 positiva presenta blasti JAK2 negativi. Sul piano clinico questi pazienti mostrano un intervallo tra diagnosi di MMC e trasformazione in LAM più breve rispetto a quello dei pazienti con LAM secondaria JAK2 positiva. Inoltre, il 50% dei pazienti con una sindrome di Budd-Chiari inspiegabile può presentare la mutazione V617F. Anzi, un recente studio ha dimostrato che la mutazione è presente nel 45% dei pazienti con sindrome di Budd-Chiari e nel 34% di quelli con trombosi della vena porta (47). Nessun paziente entrato nello studio presentava invece la mutazione dell’esone 12 di JAK2 e mutazioni del codone 515 del gene MPL. La mutazione V617F era presente nel 96.5% dei pazienti con un quadro midollare di MMC e colonie eritroidi endogene positive, ma anche nel 58% dei pazienti con uno solo dei due indici diagnostici e nel 7% dei pazienti con nessuno dei due indici diagnostici. Combinando la mutazione ed il quadro midollare l’incidenza di MMC era stata del 53% nei pazienti con sindrome di Budd-Chiari e del 37% in quelli con trombosi portale. Bisogna però notare che il 37% dei pazienti con MMC inclusi nello studio presentava altri fattori di rischio per eventi trombotici. Dal punto di vista clinico i pazienti con sindrome di Budd-Chiari erano più giovani, più frequentemente di sesso femminile e con normali valori ematici forse dovuti all’emodiluizione dato che tutti avevano una massa eritrocitaria aumentata. Il 14% dei pazienti con MMC non presentava la mutazione V617F, ma nemmeno altre mutazioni. Utilizzando la mutazione come primo parametro per la diagnosi di MMC, la biopsia ossea non sarebbe stata necessaria nel 40% dei pazienti. Tra i pazienti con sindrome di Budd-Chiari, quelli con MMC o mutazione V617F avevano una funzionalità epatica più alterata che però non influiva sulla probabilità di sopravvivenza a cinque anni forse perché questi pazienti erano stati più precocemente sottoposti a decompressione epatica. Mutazioni e caratteristiche cliniche La presenza o l’assenza della mutazione V617F ha permesso di distinguere due tipi di TE. È stato riportato che rispetto ai pazienti privi della mutazione quelli con mutazione presentano più alti livelli di emoglobina e di leucociti, più basse conte piastriniche, un midollo ipercellulato con mielopioesi stimolata ed un aumentato rischio di trombosi venose (Tabella 6) (48). L’associazione tra mutazione e trombosi era stata inizialmente riportata da due studi retrospettivi condotti subito dopo la descrizione della mutazione V617F (49, 50) ed è stata confermata da uno studio successivo condotto in 179 pazienti (51). Quest’ultimo aveva osservato che una trombosi venosa si era verificata nel 33% dei pazienti con TE V617F+, ma solo Citogenetica e Biologia Molecolare della Trombocitemia Essenziale Mutazione Caratteristiche cliniche Pazienti con mutazione V617F rispetto ai pazienti senza mutazione Alti livelli di leucociti Conte piastriniche più basse Midollo osseo ipercellulato Aumentato rischio di trombosi venose Pazienti con mutazione V617F allo stato omozigote rispetto ai pazienti con mutazione allo stato eterozigote Paziente più spesso di sesso maschile Più frequente splenomegalia Maggiore incidenza di trombosi Maggior rischio di eventi cardiovascolari maggiori Maggior rischio di evoluzione in MI Più alti livelli di cellule CD34+ Pazienti W515L/K positivi rispetto a pazienti V617F positivi Più bassi livelli di emoglobina Più alti valori piastrinici Più alti dosaggi di Eritropoietina Crescita di colonie megacariocitarie endogene ma non di colonie eroitroidi endogene Cellularità midollare ed eritroide ridotte Pazienti W515L/K positivi rispetto a pazienti V617F negativi Età più avanzata Cellularità midollare ridotta TABELLA 6 - Caratteri clinici associati alle mutazioni di JAK2 e di MPL. nel 17% dei pazienti con TE V617F–. Altri studi non avevano invece individuato alcuna correlazione tra mutazione e rischio di sviluppare eventi trombotico-emorragici (37). Queste differenze potevano dipendere dall’inadeguatezza dei criteri clinici impiegati per distinguere la TE dalla PV, dai criteri impiegati per la selezione dei pazienti e dal fatto che l’espressione dell’allele mutato veniva valutata da una reazione di PCR qualitativa e non quantitativa. Tutte queste caratteristiche sono state comunque ritenute suggestive per una forma frusta e biologicamente distinta di PV. Questa possibilità è tra l’altro supportata dal fatto che sino ad oggi nessun paziente con TE è passato da una forma con JAK2 wild type ad una con JAK2 mutato, dato che indica come la forma wild type di TE non debba essere considerata una fase pre-mutazione della malattia (35). Un altro parametro che sicuramente incide sul fenotipo cellulare, sulle caratteristiche biologiche e cliniche e sul decorso clinico della malattia è costituito dalla completa assenza dell’allele wild type di JAK2 e quindi dalla quantità di allele mutato espresso dal paziente. Come già riportato una quota di allele mutato superiore al 51% corrispon- de ad una mutazione presente allo stato omozigote, mentre una quota di allele mutato inferiore al 50% ad una mutazione presente allo stato eterozigote. Una mutazione allo stato omozigote è comunque evento raro nella TE essendo presente solo nel 3-4% dei pazienti. Molti degli studi retrospettivi iniziali che avevano analizzato e paragonato i pazienti con mutazione allo stato omozigote a quelli con mutazione allo stato eterozigote soffrono di due importanti limiti. La determinazione dei livelli di espressione dell’allele mutato era stata condotta utilizzando un approccio semiquantitativo (PCR allele specifica) che può fornire risultati poco attendibili specie quando le percentuali di espressione dell’allele mutato erano comprese tra il 45% ed il 60% (52). Inoltre, i campioni utilizzati per l’analisi erano stati collezionati in tempi diversi del decorso clinico, dato che non sembra influire sul numero totale di pazienti con o senza mutazione, ma che sicuramente influisce sulla quantità di allele mutato che può variare durante il decorso clinico specie nei pazienti con PV e MI. Comunque sia, nonostante i limiti sopra riportati, questi studi retrospettivi hanno dimostrato che i pazienti con TE e muta- 29 30 Seminari di Ematologia Oncologica zione JAK2V617F allo stato omozigote presentano un’eritropoiesi ed una mielopoiesi stimolate ed una conta piastrinica più bassa rispetto ai pazienti con mutazione allo stato eterozigote. Inoltre, i pazienti omozigoti per la mutazione mostrano una più frequente splenomegalia, una milza di più grosse dimensioni, più frequenti episodi trombotici e necessitano di una più precoce terapia citoriduttiva. Uno studio ha riportato che tra i pazienti con TE quelli con mutazione allo stato omozigote presentano un rischio di trombosi 3.97 volte quello dei pazienti con mutazione allo stato eterozigote e quello dei pazienti senza mutazione (52). Alla diagnosi erano più frequenti le trombosi arteriose, mentre durante il decorso clinico trombosi arteriose e venose erano ugualmente frequenti. Lo stato omozigote era anche associato in modo statisticamente significativo ad eventi cardiovascolari e manteneva la sua significatività anche quando l’analisi multivariata prendeva in considerazione fattori di rischio ben documentati quali età >60 anni, pregresse trombosi e leucocitosi. Lo stesso studio ha riportato che la trasformazione in MI avveniva nel 14% dei pazienti omozigoti, nel 4.7% di quelli eterozigoti e nell’1,6% di quelli privi della mutazione (52). Altri studi hanno osservato un’associazione tra alti livelli di cellule CD34+ e omozigosi per la mutazione V617F (45, 53). Ruggeri et al. (54) ha riportato che nelle pazienti con PV e TE in gravidanza la presenza della mutazione era un fattore predittivo indipendente di possibili complicanze in analisi multivariata. Infatti i pazienti con la mutazione presentavano un rischio di complicanze doppio rispetto a quello dei pazienti con allele wild type. In questo studio retrospettivo i nati vivi erano il 65% ed il 51% delle gravidanze decorreva senza complicanze. L’incidenza di eventi sfavorevoli per la madre era del 9% ed in queste pazienti la frequenza di complicanze fetali era del 40% circa. Nelle pazienti con TE la perdita del feto era stata 3.4 volte quella che si osservava nella popolazione generale (55). Questi dati ottenuti con l’approccio semiquantitativo hanno rappresentato il punto di partenza per la determinazione quantitativa del carico di allele mutato (allele burden), definito come misura continua del rapporto tra allele mutato ed alle- le wild type. Uno studio retrospettivo che ha analizzato il DNA ottenuto da pazienti con TE aveva osservato una stretta correlazione tra carico di allele mutato e valore di leucociti, conta piastrinica, sesso maschile, splenomegalia all’esame obiettivo e sviluppo di trombosi venosa durante il decorso clinico (56). Lo stesso studio aveva osservato che nei pazienti con TE il carico di allele mutato rimaneva stabile durante tutto il decorso clinico, osservazione confermata anche da Pemmaraju et al. (57). Quest’ultimo studio non aveva però osservato alcuna associazione tra allele burden ed eventi cardiovascolari. Viceversa, Antonioli et al. (58) aveva riportato che un carico di allele mutato >25% si associava ad un rischio relativo di trombosi arteriosa alla diagnosi tre volte più alto ed a un rischio di sviluppare disturbi del microcircolo 2.2 volte più alto. Siccome ognuno di questi studi ha impiegato un proprio approccio metodologico (vari tipi di tecnica analitica [real-time PCR, pyrosequencing, analisi delle curve di melting], primers diversamente disegnati e marcati, riferimenti per la quantificazione dell’allele mutato diversi), i risultati ottenuti non sono perfettamente confrontabili e fanno sorgere dubbi riguardo le possibili correlazioni cliniche osservate. Pertanto vari Autori hanno tentato di stabilire quale sia la miglior sorgente di DNA. Vannuchi et al. (52) ha riportato che i risultati ottenuti a partire da copy DNA (cDNA) o da DNA genomico sono perfettamente sovrapponibili, mentre Larsen et al. (45) ha dimostrato che granulociti del sangue periferico e cellule midollari conservate forniscono risultati assolutamente sovrapponibili. Recentemente, Moliterno et al. (59) ha dimostrato che nei pazienti con PV e TE i granulociti del sangue periferico presentano un allele burden più alto delle cellule CD34+, mentre nei pazienti con MI le due popolazioni cellulari mostrano un identico carico di alleli mutati. Moliterno et al (59) ha quindi introdotto il concetto di “dominanza clonale” per indicare quei pazienti che presentano una differenza nella percentuale di allele mutato tra granulociti del sangue periferico e cellule CD34+ ≤10. Una dominanza clonale si osserva nel 22% delle TE, nel 53% delle PV e nel 90% delle MI. Siccome lo stesso studio aveva dimo- Citogenetica e Biologia Molecolare della Trombocitemia Essenziale strato che il carico di allele mutato delle cellule CD34+ era strettamente correlato alle caratteristiche cliniche ed i pazienti con PV e dominanza clonale erano quelli con malattia più sintomatica, è stato proposto che il carico di allele mutato delle cellule CD34 positive sia più esatto di quello dei granulociti per stabilire eventuali correlazioni cliniche. Vannucchi et al. (26) ha riportato che i pazienti con TE e con MI post-TE sono quelli con più basso allele burden. La conclusione che possiamo trarre da tutti questi studi è che la mutazione V617F è probabilmente un marcatore di trombosi nelle TE. L’accurata definizione del significato prognostico della mutazione nella TE e nelle altre MMC può essere raggiunta solo attraverso la determinazione del carico di allele mutato con un approccio di tipo quantitativo e non giungendo semplicemente a definire una condizione di omozigosi o di eterozigosi. In tal modo la categoria di pazienti con un allele burden superiore al 75% (soprattutto pazienti con PV) sarebbe quella caratterizzata da un significativo aumento del rischio di sviluppare eventi cardiovascolari maggiori (48). ■ TE V617F NEGATIVA Si tratta di un sottogruppo di pazienti, soprattutto affetti da TE e MI, che non presenta la mutazione V617F. Siccome, paragonando i pazienti con mutazione di JAK2 a quelli senza mutazione sono state osservate minime differenze cliniche e nei parametri di laboratorio, è stato ipotizzato che nei pazienti V617F negativi si sviluppino mutazioni somatiche capaci di attivare il signaling presieduto da JAK2 e che tali mutazioni agiscano con un meccanismo simile a quello messo in atto dalla mutazione V617F (1). Tra le mutazioni identificate bisogna ricordare quella dell’esone 12 di JAK2 più sopra riportata. Tuttavia, si tratta di una mutazione mai osservata nei pazienti con TE ed invece presente nei pazienti con una diagnosi di eritrocitosi idiopatica senza tromobocitosi e leucocitosi. I pazienti con tale mutazione presentano livelli di emoglobina superiori a quelli dei pazienti con mutazione V617F e valori di globuli bianchi e di piastrine più bassi, mentre l’istologia midollare è simile. Il fatto che nei pazienti JAK2 negativi non siano state osservate altre mutazioni di JAK2 o di altri geni appartenenti alla famiglia delle Janus chinasi, ha suggerito che questi pazienti possano sviluppare mutazioni di altri alleli codificanti per proteine che interagiscono con la via di segnale JAK-STAT anche se non vi sono evidenze sperimentali a favore di un tale evento. Questa possibilità è stata però confermata da un recente studio condotto in pazienti con TE V6127F negativa. In questi pazienti si verificava una riduzione della fosforilazione di STAT3 e dei livelli di espressione dei geni controllati da JAK-STAT come PIM12 e SOCS-2 (60). Quindi, tenendo presente non solo l’importanza di JAK2 nella trasmissione del segnale prodotto dall’attivazione delle diverse citochine ma ricordando anche che pazienti con eritrocitosi e trombocitosi ereditarie mostrano mutazioni nei recettori per le diverse citochine, è stato ipotizzato che queste stesse mutazioni possano svilupparsi anche nei pazienti con TE sporadica V6127F negativa. Quest’approccio metodologico ha portato all’identificazione della mutazione del codone 515 del gene MPL (“myeloproliferative leukemia virus oncogene homology”), formato da 12 esoni e mappato in 1p34. Mutazioni germ-line di MPL erano state descritte nella trombocitosi ereditaria (mutazione della regione transmembrana, S505N) e nella trombocitopenia amegacariocitica congenita (mutazione LOF). Inoltre, il 7% degli africani d’America presenta il polimorfismo di un singolo nucleotide che determina la sostituzione K39N. I soggetti con questo poliformismo presentano conte piastriniche più alte e, come i pazienti con PV, TE e MI, una più bassa espressione di MPL. Staerk et al. (61) ha dimostrato che il codone 515 è incluso nella regione amfipatica KWQFP del recettore della trombopoietina, necessario al renewal delle cellule staminali, alla differenziazione dei megacariociti, ed alla formazione delle piastrine. La regione KWQFP, assente in altri recettori citochinici, è contenuta nella giunzione tra le porzioni transmembrana e citoplasmatica del recettore stesso e serve a mantenere MPL in conformazione inattiva. Staerk et al. (61) ha dimostrato che una mutazione del recettore dovuta alla perdita del dominio amfipatico determina l’attivazione del recettore stesso che 31 32 Seminari di Ematologia Oncologica viene mantenuto attivo in assenza del proprio ligando. Il recettore attivato attiva a sua volta Jak2, Tyk2, STAT5 e MAP kinasi, non riesce a fosforilare STAT3, causa una differenziazione mieloide in presenza di trombopoietina ed una differenziazione eritroide in assenza di trombopoietina. Staerk et al. (2006) ha poi dimostrato che mutazioni per sostituzione dei residui K e W del dominio amfipatico producono effetti analoghi a quelli prodotti dalla perdita dell’intero dominio ed ha quindi ipotizzato che si tratti di residui critici necessari a mantenere il recettore in stato inattivo in assenza di ligando. Nel 2006 fu per la prima volta descritta la mutazione W515L del gene MPL, che consiste nella sostituzione della guanina in posizione 1544 con una timina. Nella proteina questa mutazione produce la sostituzione del triptofano con una leucina (62). Successivamente venne identificata la mutazione MPLW515K a carico dello stesso codone e quindi altre quattro mutazioni a carico di altrettanti codoni (S505N, A506T, A519T) (63, 64). Più recentemente Beer et al. (65) ha dimostrato che i pazienti con la mutazione W515K presentano un carico di alleli mutati superiore a quello dei pazienti con la mutazione MPLW515L ed ha quindi suggerito una differenza funzionale tra i due alleli. Come la mutazione JAK2W617F anche le mutazioni di MPL si sviluppano in una cellula staminale ematopoietica che può differenziarsi sia in senso mieloide che linfoide (66), ma, a differenza della mutazione di JAK2, le mutazioni di MPL favoriscono il commissionamento e la differenziazione della cellula staminale in senso megacariocitario e mieloide. Il potere trasformante della mutazione MPLW515L è provato dalla sua capacità di rendere la crescita di varie linee cellulari indipendente dalla presenza di citochine, di aumentare la sensibilità alla trombopoietina e di attivare la via di segnale JAK-STAT/ERK/Akt. Inoltre, l’introduzione delle mutazioni nel genoma del topo determina lo sviluppo di una MI con trombocitosi, leucocitosi, imponente epatosplenomegalia, fibrosi midollare e decorso rapido, quasi sempre fatale (62). Le mutazioni di MPL non sono mai state osservate nei pazienti con PV, mentre sono presenti nel 5% dei pazienti con TE e nell’11% dei pazienti con MI (tab.4). Alcuni pazienti possono presentare più mutazioni di MPL contemporaneamente, altri sia la mutazione di MPL che quella di JAK2. Questa osservazione dimostra che la mutazione di MPL è un evento secondario e sottolinea la complessità dei meccanismi molecolari responsabili della patogenesi delle MMC, che hanno nell’attivazione della via di segnale presieduta da JAK2 il comune meccanismo patogenetico (15). Rispetto ai pazienti V617F positivi, quelli con le mutazioni di MPL presentano alla diagnosi più bassi livelli di emoglobina (67), più alti valori piastrinici, più alti dosaggi di eritropoietina, crescita di colonie endogene megacariocitarie ma assenza di crescita di colonie endogene eritroidi e riduzione della cellularità midollare specie eritroide (65) (Tabella 6). Invece rispetto ai pazienti V617F negativi, quelli con la mutazione di MPL presentano un’età più avanzata ed una riduzione della cellularità midollare ma non possono essere considerati un sottogruppo a sé stante. Le mutazioni di MPL non hanno alcuna rilevanza prognostica dal momento che non sembrano avere alcuna influenza sul rischio trombotico ed emorragico, sulla probabilità di trasformazione in MI e sulla sopravvivenza. ■ CONCLUSIONI I dati citogenetici e molecolari sopra elencati indicano che le MMC e la TE in particolare hanno una patogenesi complessa e suggeriscono un modello stocastico secondo il quale certi tipi di mutazione somatica a diversa espressione fenotipica vengono acquisiti in ordine assolutamente casuale. Le mutazioni di JAK2 e MPL sono chiaramente associate allo sviluppo di un fenotipo MMC, mentre le anomalie citogenetiche (specie 20q- e 13q-) non sembrano avere alcuna rilevanza a questo proposito (15). Rimane da chiarire il ruolo di JAK2 nella patogenesi delle MMC e come una singola mutazione possa generare fenotipi diversi. Sul piano clinico lo sviluppo di inibitori di JAK2 permetterà di stabilire se una terapia mirata al difetto molecolare potrà essere utile ai pazienti con TE, PV e MI (1). Citogenetica e Biologia Molecolare della Trombocitemia Essenziale ■ BIBLIOGRAFIA 1. Levine L, Gilliland GD. Myeloproliferative disorders. Blood. 2008; 112: 2190-8. 2. Dameshek W. Some speculations on the myeloproliferative syndromes. Blood. 1951; 6: 372-5. 3. Rowley JD. A new consistent chromosomal abnormality in chronic myelogenous leukaemia identified by quinacrine fluorescence and Giemsa staining. Nature. 1973; 243: 290-3. 4. Goldman JM, Melo J. Chronic myelogenous leukaemia - advances in biology and new approaches to treatment. New Engl J Med. 2003; 349: 1451-64. 5. Campbell PJ, Green AR. The myeloproliferative disorders. New Engl J Med. 2007; 355: 2452-66. 6. Spivak JL, Silver RT. 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In relazione all’età d’insorgenza possono essere individuate diverse LAMK che per le loro peculiarità biologiche, le caratteristiche cliniche e in ordine alla risposta al trattamento rappresentano delle entità nosologiche specifiche, tutte riconducibili alla trasformazione neoplastica del progenitore emopoietico dal quale ha poi origine la linea megacariocitaria (Tabella 1). ■ LEUCEMIE MEGACARIOCITICHE DELL’ETÀ PEDIATRICA La LAMK è una patologia poco frequente nella popolazione pediatrica, ma rappresenta il 62-82% delle rare leucemie acute mieloidi (LAM) associate ai pazienti affetti da sindrome di Down (SD) (1, 2). I bambini affetti da sindrome di Down (SD) e portatori della trisomia 21 hanno un rischio aumentato di circa 600 volte, rispetto alla popoIndirizzo per la corrispondenza Prof. Francesco Albano Università degli Studi di Bari Dipartimento di Ematologia P.zza G. Cesare, 11 70124 Bari E-mail: [email protected] Francesco Albano Leucemie Megacariocitiche - Leucemia transitoria del neonato associata a Sindrome di Down - Leucemia Acuta Megacariocitica pediatrica associata a Sindrome di Down - Leucemia Acuta Megacariocitica pediatrica non associata a Sindrome di Down - Leucemia Acuta Megacariocitica dell’Adulto - Leucemia Acuta Megacariocitica da evoluzione di disordine mieloproliferativo - Leucemia Acuta Megacariocitica associata a neoplasia mediastinica primitiva a cellule germinali TABELLA 1 - Disordini neoplastici megacariocitari. lazione normale, di sviluppare una LAMK. Inoltre, in questa categoria di pazienti, il rischio di sviluppare una leucemia acuta linfoblastica è circa 20 volte più alto (3). La SD non è una patologia caratterizzata da instabilità genomica (il rischio di sviluppare una neoplasia, confrontato con quello della popolazione normale, è molto basso in questi pazienti) (3); d’altro canto la più alta incidenza di leucemie in questi casi rende la trisomia 21 un probabile fattore leucemogeno. Circa il 10% dei bambini affetti da SD nascono con una megacariocitosi clonale che prende il nome di leucemia transitoria (LT), caratterizzata da una risoluzione spontanea che avviene nell’arco di tempo di alcuni mesi. Circa il 20% dei pazienti con SD e LT sviluppano una LAMK entro il quarto-quinto anno di vita; i fattori che promuovono la trasformazione della LT in LAMK sono ancora ignoti (3, 4) (Tabella 2). 38 Seminari di Ematologia Oncologica Tipo di disordine Descrizione Incidenza in non SD Incidenza in SD Leucemia Acuta Megacariocitica (LAMK) Citotipo di LAM definito da un fenotipo dei blasti leucemici riconducibile a precursori piastrinici 6% di tutti i casi di LAM 62% di tutti i casi di LAM Leucemia transitoria (LT) Quadro patologico specifico dei neonati affetti da SD. I blasti circolanti hanno un fenotipo simile a quello della LAMK. Non determinata 5-10% dei neonati Sindrome mielodisplastica (SMD) Disordine clonale acquisito caratterizzato da un difetto della differenziazione della emopoiesi. Nei casi con SD è caratteristica la piastrinopenia e la notevole displasia megacariocitaria 8% dei casi di LAM 20-62% dei casi di LAMK TABELLA 2 - Disordini neoplastici megacariocitari in età pediatrica. Le neoplasie megacariocitiche che riguardano la SD rappresentano il modello genetico di un processo leucemogeno multistep lineage-specifico, dal momento che sia la LT che la LAMK sono caratterizzate da un difetto di differenziazione della linea megacariocitaria. Un contributo alla comprensione di questo processo deriva dalla scoperta che il gene GATA1, localizzato sul cromosoma X, risulta essere mutato nei megacarioblasti dei pazienti affetti da SD associata a LT o LAMK (5, 6). Queste mutazioni sono state riscontrate anche nelle cellule emopoietiche del fegato dei feti abortiti affetti da SD (7). Inoltre le mutazioni di GATA1 risultavano essere acquisite dal momento che non si riscontravano nei campioni dei pazienti in remissione della malattia megacariocitaria ed erano associate in maniera specifica ai disordini megacariocitari dei pazienti con SD. Pertanto è probabile che nei pazienti affetti da SD, già nella vita intrauterina, siano selezionate delle mutazioni a carico del gene GATA1, responsabili dell’interruzione del processo di differenziazione e dell’inizio della proliferazione clonale dei megacarioblasti immaturi. Ad ogni modo le mutazioni di GATA1 sono necessarie ma da sole insufficienti a promuovere l’evoluzione della LT in LAMK. Il gene GATA1 codifica per un fattore di trascrizione zinc-finger che regola lo sviluppo fisiologico della linea eritroide, megacariocitica, basofila e mastcellulare. Il modello murino che ha il deficit di espressione di GATA1 nella linea megacariocitica mostra piastrinopenia e una esuberante proliferazione a carico dei megacarioblasti immaturi (8). Recentemente è stata descritta una fami- glia con un’alterazione germline del gene GATA1 simile a quella riportata nella LAMK-DS. I maschi che ne erano affetti generavano solo l’isoforma GATA1s e presentavano anemia e displasia trilineare senza sviluppare mai leucemia (9). Le mutazioni del gene GATA1 sono state riscontrate anche nell’anemia diseritropoietica familiare con trombocitopenia (10), nella X-linked trombocitopenia (11, 12) e nella X-linked talassemia con piastrinopenia (13). In tutti questi casi le mutazioni non senso erano a carico delle regioni codificanti il dominio zinc finger di GATA1, determinando l’abrogazione (10) o l’indebolimento (11, 12) dell’interazione con FOG-1 e impedendo a GATA1 di legare il DNA (13). La conseguenza funzionale di questa alterazione è un difetto della differenziazione megacariocitaria ed eritroide in assenza di trasformazione neoplastica. Appare dunque chiaro che il gene GATA1 normalmente promuove la differenziazione, inibendo la proliferazione, della linea eritroide e megacariocitica. Questi dati confermano che la mutazione di GATA1, in assenza della trisomia 21, è da sola insufficiente a promuovere la leucemogenesi. Fisiologicamente sono presenti due isoforme del gene GATA1: a) una forma lunga tradotta a partire dalla prima tripletta ATG dell’esone 2; b) una forma corta (GATA1s) che inizia dalla tripletta ATG dell’esone 3. La funzione fisiologica di GATA1s non è nota. È probabile che il bilanciamento tra le due isoforme svolga un ruolo importante nella regolazione fisiologica dello sviluppo della linea megacariocitaria. Tutte le mutazioni acquisite a carico del Leucemie Megacariocitiche gene GATA1 che si riscontrano nei disordini megacariocitari dei pazienti pediatrici affetti da SD comportano la scomparsa dell’isoforma lunga e la conservazione di GATA1s. Ad oggi sono state riportate oltre un centinaio di mutazioni del gene GATA1; esse si riscontrano all’estremità 5’, soprattutto a carico del primo esone codificante, l’esone 2, o più raramente, del terzo esone. La maggior parte delle mutazioni sono rappresentate da inserzioni, duplicazioni, mutazioni puntiformi e, in rari casi, da ampie delezioni. Sono stati riportati alcuni casi nei quali è stata dimostrata la coesistenza di diversi cloni cellulari caratterizzati da mutazioni differenti di GATA1 (14). Le mutazioni di GATA1 possono produrre un codone di stop prima del codone 84 o un’alterazione dello splicing che estromette l’esone 2 dal RNA messaggero di GATA1; in entrambi i casi la conseguenza sarà la rimozione dal processo di traduzione del codone di avvio dell’esone 2 e a causa di ciò la proteina GATA1 sarà tradotta a partire da un codone di avvio alternativo, individuato nel codone 84 dell’esone 3. La proteina GATA1 perderà 84 aminoacidi della sua porzione N-terminale (GATA1s) (Figura 1). Dal momento che GATA1 è codificata da un gene che mappa sul cromosoma X, il clone mutante esprimerà solo l’allele mutato sia nell’uomo che nella donna (a causa dell’inattivazione della X). Il blocco della differenziazione conseguente alla mutazione o alla delezione è legato al fatto che i geni specifici per la linea eritroide e megacariocitaria dipendono dal punto di vista funzionale dall’attività di GATA1. Nel modello murino le mutazioni che non consentono il legame della proteina FOG-1 con il dominio zinc finger dell’estremità N-terminale o che risultano nella generazione di GATA1s produrranno un’asincronia nei meccanismi che regolano la proliferazione e la differenziazione megacariocitaria; inoltre GATA1s non riesce ad inibire l’attività di alcuni fattori di trascrizione (GATA2, Ikaros, Myb, Myc) la cui azione è quella di promuovere la proliferazione delle cellule emopoietiche (15-16). Resta da stabilire se il fenotipo leucemico debba essere attribuito alla perdita dell’isoforma lunga di GATA1 piuttosto che alla sola presenza dell’isoforma GATA1s. Recentemente è stato dimostrato che le cellule emopoietiche con deficit di GATA1 messe in coltura e stimolate con la trombopoietina producevano l’espansione di una popolazione blastica trombopoietina-dipendente che esprimeva marker d’immaturità e che proliferava indefinitivamente. Pertanto è possibile che la perdita dell’isoforma lunga di GATA1 possa rappresentare il driver primario che conduce al fenotipo leucemico (17). È probabile che la differenza di funzione eserci- FIGURA 1 - Le mutazioni del gene GATA1 si riscontrano soprattutto a carico del primo esone codificante (in rosso), l’esone 2, o più raramente, del terzo esone. Esse producono un codone di stop prima del codone 84 o un’alterazione dello splicing che estromette l’esone 2 dal RNA messaggero di GATA1; in entrambi i casi si avrà la formazione di GATA1s per effetto della rimozione dal processo di traduzione del codone di avvio dell’esone 2 e conseguente traduzione della proteina GATA1 a partire da un codone di avvio alternativo (individuato nel codone 84 dell’esone 3). 39 40 Seminari di Ematologia Oncologica tata da GATA1 e GATA1s sia dovuta ai diversi partners proteici delle due isoforme (Figura 2). L’isoforma GATA1 è presente in almeno cinque complessi proteici. In particolare GATA1 e FOG1 si legano a formare un complesso che probabilmente ha la funzione di attivare l’espressione genica, mentre ciascuna delle due proteine, separatamente, si unisce al complesso repressore NuRD/MeCP1 (18). GATA1 forma anche dei complessi attivanti con i fattori di trascrizione SCLTAL1/E2A/LMO2/LDB1 e si ritrova a far parte di complessi insieme a proteine che si occupano del rimodellamento cromatinico come ACH/WCRF e GFI-1b (19). Nessuno dei partners di GATA1 interagisce con questa proteina a livello dell’estremità N-terminale. È stato ipotizzato che GATA1 potrebbe interagire con RUNX1 attraverso i domini N e C-terminali (20); quest’interazione assume un valore importante non solo per il fatto che RUNX1 mappa sul cromosoma 21 (e quindi nella SD è presente in triplice copia) ma anche perché questo gene ha un ruolo importante nei processi della differenziazione megacariocitaria umana (21). In realtà non è ancora del tutto chiaro se l’estremità N- terminale di GATA1 sia davvero necessaria per l’interazione con RUNX1 dal momento che quest’ultima potrebbe realizzarsi anche attraverso il dominio zinc finger (22). Gli studi finora riportati in letteratura non hanno mostrato una differenza in termini di partners proteici per le due isoforme, probabilmente questo è il riflesso del fatto che ancora non sono stati individuati tutti i partners proteici di GATA1 coinvolti nella megacariocitopoiesi fisiologica. Dal momento che la trisomia 21 della SD è un’anomalia costituzionale, tutte le cellule dell’organismo risulteranno essere aneuploidi; questa condizione cellulare potrebbe agire, in maniera non autonoma, da fattore leucemogeno. Infatti la presenza della trisomia 21 nelle cellule stromali non emopoietiche del fegato fetale potrebbe modificare il microambiente e creare le condizioni di supporto alla proliferazione di progenitori emopoietici fetali che siano sensibili all’azione di GATA1s. Questa ipotesi spiegherebbe perché la LT nella maggior parte dei casi si risolve spontaneamente dopo la nascita. Recentemente è stata studiata l’emopoiesi nel fegato fetale e nel midollo osseo in feti normali e affetti da SD (i campioni oggetto dall’ana- FIGURA 2 - Modello della funzione di GATA1 nell’emopoiesi normale e nella leucemogenesi. A) La presenza delle due isoforme di GATA1 garantisce lo sviluppo della normale emopoiesi. B) in assenza dell’isoforma lunga di GATA1, GATA1s non garantisce la normale emopoiesi; in questa situazione si avrà l’alterazione della megacariopoiesi, dell’eritropoiesi e della granulopoiesi; C) in assenza dell’isoforma lunga di GATA1, GATA1s può agire in sinergia con la trisomia 21 favorendo la proliferazione megacariocitaria e la trasformazione neoplastica. Leucemie Megacariocitiche lisi provenivano da interruzioni chirurgiche di gravidanza prodotte entro il secondo trimestre) (23). Il compartimento CD34+CD38+ mostrava una frequenza più elevata di progenitori megacariocitari-eritroidi nel fegato fetale dei feti affetti da SD mentre nel midollo osseo la frequenza di questi progenitori emopoietici era uguale nei due gruppi di feti studiati. Per escludere la presenza di mutazioni occulte di GATA1 era stata effettuata l’analisi mutazionale sul DNA delle cellule CD34+ del fegato fetale affetto da SD, così come l’analisi genomica delle cellule CD34+ delle colture cellulari megacariocitarie ed eritroidi. L’analisi mutazionale escludeva la presenza di mutazioni, inoltre le cellule CD34+, del fegato fetale normale e di quello affetto da SD, esprimevano l’mRNA di entrambe le isoforme di GATA1. Un altro dato importante era che l’analisi quantitativa dell’espressione del gene RUNX1, effettuata mediante real time PCR, evidenziava che l’espressione del gene nelle cellule CD34+ del fegato fetale con SD era aumentata rispetto a quella rilevata nel fegato fetale normale. Questo dato era in accordo con il meccanismo di effetto di dose genica legato alla trisomia 21 ed in contrasto con l’evidenza che l’espressione di RUNXI è diminuita nelle LAMKSD (24). Pertanto questo studio ha evidenziato, per la prima volta, che nella SD il compartimento progenitore mieloide del fegato fetale presenta delle alterazioni che non sono dipendenti dalle mutazioni di GATA1. Queste alterazioni si traducono in un’espansione dei progenitori megacariocitari-eritroidi e in una spiccata clonogenicità della linea mieloide (23). Appare chiaro quindi che nel fegato fetale di tutti i pazienti affetti da SD vi è una popolazione progenitrice emopoietica capace di dare il via al processo leucemogeno; questi dati dimostravano che la trisomia 21 espande in maniera specifica un compartimento di progenitori emopoietici del fegato fetale a partire dal quale la mutazione di GATA1 potrebbe poi creare un ulteriore vantaggio selettivo. L’evoluzione della LT in LAMK nei pazienti affetti da SD chiama in causa la condizione di aumentata espressione di geni che mappano sul cromosoma 21 in concomitanza alla presenza di GATA1s; questo binomio promuoverebbe la proliferazione e la sopravvivenza cellulare. Recentemente è stato dimostrato il coinvolgimen- to del gene ERG, fattore di trascrizione Ets che mappa sul cromosoma 21, nelle leucemie megacariocitiche dei pazienti con SD (25). ERG è un protooncogene raramente coinvolto nelle LAMK per effetto della traslocazione ERG-TLS. Il gene ERG è normalmente espresso nelle cellule emopoietiche CD34+, nei megacariociti normali e nelle piastrine, nei megacariociti leucemici (delle leucemie associate o meno a SD); la sua espressione risulta essere assente negli eritroblasti normali e leucemici. Evidenze sperimentali hanno mostrato che: a) l’espressione forzata di ERG nelle linee cellulari di eritroleucemia determinava uno shift fenotipico dalla linea eritroide a quella megacariocitaria; b) il knock-down di ERG nelle linee cellulari di leucemia megacarioblastica era responsabile del ripristino del fenotipo megacarioblastico normale (25). Queste osservazioni suggeriscono che il gene ERG è probabilmente un regolatore positivo della megacariopoiesi normale e leucemica. I geni ETS2 ed ERG (membri della famiglia dei fattori di trascrizione Ets) hanno mostrato una overespressione nei casi di LAM con cariotipi complessi nei quali erano coinvolti i cromosomi 21 (26). Questa circostanza ha portato alla formulazione dell’ipotesi che i due geni, che mappano entrambi sul cromosoma 21, potrebbero avere un ruolo importante nel processo di leucemogenesi dei pazienti affetti da SD. A supporto di quest’ipotesi c’era l’evidenza che l’espressione forzata del gene ERG3 produceva, nel corso dello sviluppo emopoietico, uno switch fenotipico dalla linea eritroide a quella megacariocitaria, così come avviene nel corso dell’emopoiesi fetale nei casi con trisomia 21 costituzionale (25). Questa “pressione promegacariocitaria” potrebbe favorire la selezione e la proliferazione dei progenitori emopoietici con la mutazione GATA1 determinando il blocco definitivo del processo di differenziazione. Il gene ETS2 è ubiquitariamente espresso nei tessuti. Nelle cellule emopoietiche ETS2 è abbondantemente espresso nei monociti e nei macrofagi ma non nei granulociti (27); è implicato nella regolazione di geni che controllano la funzione megacariocitaria (28). Recentemente è stato dimostra- 41 42 Seminari di Ematologia Oncologica to che i livelli di trascritto del gene ETS2 sono più alti nei megacarioblasti delle LAMK dei bambini affetti e non da SD rispetto ai livelli di espressione riscontrati nei mieloblasti di LAM non M7 e non associate a SD (29). Inoltre i livelli di trascritto di ETS2 risultavano più elevati nei casi di LAMK-SD rispetto a quelli riscontrati nei pazienti con LAMK non associata a SD. Questi risultati suggeriscono che ETS2 potrebbe avere un ruolo sia nello sviluppo della LAMK che nella diversa sensibilità farmacologica che contraddistingue la LAMK-SD rispetto alla LAMK non associata a SD. L’overespressione di ETS2 indotta nella linea cellulare K562 produce uno switch fenotipico dalla linea eritroide a quella megacariocitica in maniera indipendente dai livelli di GATA1; inoltre questo esperimento dimostrava che la upregolazione di ETS2 modulava la sensibilità delle cellule all’azione dell’ARA-C e della daunorubicina in funzione dei livelli di GATA1 (29). L’analisi del profilo di espressione genica della linea cellulare K562 nella quale veniva upregolata l’espressione del gene ETS2 mostrava che la disregolazione di fattori di trascrizioni e di citochine potevano essere responsabili dello switch fenotipico eritroide-megacariocitico e dell’alterata sensibilità agli agenti antiblastici (29). Sul cromosoma 21 ci sono molti geni che codificano per proteine che hanno un ruolo nella megacariopoiesi; tra questi vi sono i già citati RUNX1, ETS2 e i microRNA miR99a e miR125b, questi ultimi risultano essere upregolati nelle LAMK associate a SD (30). Tutte queste evidenze permettono di formulare un modello che spiega la relazione tra SD e leucemie megacariocitiche: la upregolazione di alcuni geni che mappano sul cromosoma 21 stimolerebbe fuori misura la megacariopoiesi; questo sarebbe in linea con l’osservazione che i nascituri affetti da SD mostrano una trombocitosi nei primi 6 mesi di vita (31). Nel contempo è stata anche dimostrata nella SD un’espansione dell’attività dei progenitori eritromegacariocitari nel fegato fetale (23). In questo contesto, la mutazione GATA1s produrrebbe un blocco della normale megacariopoiesi e la promozione della proliferazione dei megacariociti immaturi; in definitiva, solo i precursori megacariocitici con la mutazione GATA1s proliferano e si accumulano configurando il quadro del fenotipo leucemico congenito. RUNX1 è un fattore di trascrizione emopoietico che mappa sul cromosoma 21. È spesso il target di traslocazioni cromosomiche nella leucemia mieloide acuta ed è fondamentale per la differenziazione dei progenitori megacariocitici (32). L’aploinsufficienza di RUNX1 è responsabile di una sindrome familiare caratterizzata da piastrinopenia e rischio di trasformazione leucemica (33). Un recente studio ha dimostrato che RUNX1 è espresso nei megacariociti e che GATA1s, presente nella LAMK-SD, è incapace di interagire con RUNX1 (20). Alla luce di queste evidenze, la mutazione GATA1s potrebbe essere responsabile di un duplice effetto nella LAMK-SD: a) alterata differenziazione megacariocitaria per l’assenza dell’isoforma lunga di GATA1; b) un’aumentata disponibilità di RUNX1 dovuta sia alla trisomia 21 che all’incapacità di legarsi a GATA1s. La combinazione del deficit di funzione di GATA1 e dell’aumento di funzione di RUNX1 potrebbe avere un ruolo importante nei meccanismi che determinano l’aumentata incidenza di LAMK nella SD. I dati disponibili fanno pensare che nello sviluppo della LAMK-SD ci siano almeno tre momenti patogenetici fondamentali (Figura 3). Il primo è che la cellula emopoietica fetale debba avere la trisomia 21; l’importanza della trisomia è sottolineata dai rari casi di LT nei neonati che non sono affetti da SD, infatti, in tutti questi casi il clone della LT ha acquisito la trisomia 21. Il secondo momento è rappresentato dalla mutazione di GATA1 e generazione di GATA1s. Poichè la mutazione di GATA1 è frequente nelle cellule trisomiche del sangue fetale e i bambini affetti da SD non sono proni al cancro, è possibile dunque che il vantaggio proliferativo venga conferito dalla mutazione GATA1s piuttosto che dalla trisomia 21. Questi due primi momenti patogenetici sono necessari per avere la LT. Infine, poichè non tutti i casi di LT progrediscono a LAMK, sarà necessario un terzo step patogenetico, di natura genetica o epigenetica, ancora ignoto. Circa il 10% dei neonati affetti da SD sviluppano la LT, caratterizzata da un clone preleucemico che origina da progenitori mieloidi del fegato fetale portatori della mutazione somatica del gene GATA1. Leucemie Megacariocitiche FIGURA 3 - Nella SD la upregolazione di alcuni geni che mappano sul cromosoma 21 stimolerebbe fuori misura la megacariopoiesi producendo un’espansione dell’attività dei progenitori eritro-megacariocitari (in rosso) nel fegato fetale. In questo contesto, la mutazione GATA1s produrebbe un blocco della normale megacariopoiesi e la promozione della proliferazione dei megacariociti immaturi configurando il quadro fenotipico della LT. Dopo la nascita nella maggior parte dei casi di LT si ha il ripristino della normale emopoiesi e scomparsa del clone GATA1s +. Nel 20% dei casi di LT una anomalia molecolare addizionale, non nota, sarà responsabile della trasformazione leucemica della LT. La LT ha un quadro clinico variabile che va dall’assenza di sintomatologia fino a complicazioni severe e talvolta fatali (34, 35). Circa il 20% dei bambini con la LT svilupperanno una LAMK prima dei 5 anni di età (34). Dal momento che la LT ha origine nel fegato emopoietico, dopo la nascita i blasti nel sangue periferico saranno in maggior numero rispetto a quelli del midollo osseo. La LAMK è preceduta spesso da una fase mielodisplastica nella quale il numero delle piastrine nel sangue periferico si riduce e i megacariociti displastici aumentano nel midollo osseo. In questa fase il numero dei blasti è basso. La fase mielodisplastica dura qualche mese e si conclude con la trasformazione in LAMK (2, 4, 36). La fase mielodisplastica che anticipa la LAMK-SD può durare mesi o perfino anni prima della progressione. Questa mielodisplasia è differente da quella che si riscontra nei bambi- ni che non hanno la SD: la prima può essere curata con la chemioterapia, la seconda richiede il trapianto di midollo osseo (2, 37, 38). È probabile che questa fase mielodisplastica non rappresenti un disordine distinto ma una fase dell’evoluzione della LT a LAMK. Le caratteristiche presenti all’esordio della LAMKSD sono differenti rispetto a quelle delle LAM pediatriche non associate a SD: 1) basso numero di globuli bianchi; 2) i bambini all’esordio della malattia hanno meno di 5 anni; 3) assenza di coinvolgimento meningeo; 4) assenza di alterazioni citogenetiche come la t(8;21) e la inv(16), di frequente riscontro nella LAM non associate alla SD. La LAMK-DS, come le altre forme di leucemie megacariocitiche dell’adulto e pediatriche, è associata alla proliferazione di tessuto fibroso in 43 44 Seminari di Ematologia Oncologica sede midollare, presumibilmente imputabile all’aumentato numero dei megacarioblasti e dei megacariociti. Alcune evidenze suggeriscono che la LAMK e la LT sono due condizioni patologiche che dividono la stessa base patogenetica: a) i blasti della LAMK e della LT hanno un immunofenotipo caratterizzato da marker eritroidi e megacariocitici, testimoniando la possibilità che la LT e la LAMK possano derivare entrambe da un progenitore cellulare bipotente eritroide-megacariocitario; b) i megacarioblasti della LAMK e della LT sono simili dal punto di vista morfologico, immunofenotipico e ultrastrutturale; c) mutazioni di GATA1 sono presenti in LT e LAMK. Recenti studi hanno dimostrato che la LT e la LAMK-SD hanno un profilo di espressione genica ben distinto da quello di altre neoplasie mieloidi. Questi dati confermano che GATA1s non riesce a bloccare l’attività di alcuni fattori di trascrizione (GATA2, MYC, KIT). Inoltre altri geni upregolati risultavano essere BACH1 (fattore di trascrizione repressore delle differenziazione megacariocitaria), SON (omologo di MYC) e lo stesso GATA1 (24). Massey et al. hanno descritto 48 casi di LT-SD dei quali il 25% era asintomatico e presentava blasti nel sangue periferico (34). Altri pazienti mostravano una conta dei blasti circolanti molto alta, sanguinamenti, distress respiratorio ed epatomegalia. La disfunzione epatica può essere molto severa e in rari casi di feti o neonati affetti da LT può essere causa di una insufficienza epatica acuta secondaria a fibrosi. La patologia epatica è probabilmente dovuta all’infiltrazione patologica delle cellule emopoietiche fetali trasformate. Nella maggior parte dei casi la LT si risolve spontaneamente anche se in qualche caso è necessario un trattamento chemioterapico a basse dosi. Un recente studio ha dimostrato la overespressione del gene KIT nella LT (39). Lo stem cell factor (SCF) stimolava la proliferazione delle cellule della LT e il trattamento in vitro con imatinib sopprimeva la proliferazione. Venivano quindi studiate le vie di segnale coinvolte nella prima linea cellulare SCF dipendente (KPAM1) derivante da un paziente affetto da LAMK-SD. L’eliminazione dello SCF dal- la coltura o il trattamento con l’imatinib inducevano l’apoptosi delle cellule KPAM1. SCF era capace di attivare i pathway RAS/MAPK e PI3K/AKT producendo la downregolazione del fattore pro apoptotico BIM e la upregolazione del fattore antiapoptotico MCL1. Questi dati suggeriscono un ruolo patogenetico del signaling SCF/KIT nella proliferazione delle leucemie associate alla SD e la possibilità di un beneficio terapeutico prodotto dall’imatinib nei pazienti affetti da LT. La reale incidenza della LT non è nota dal momento che l’esame emocromocitometrico e l’analisi morfologica del sangue periferico non vengono routinariamente effettuati su tutti i neonati affetti da SD; inoltre i casi con lievi manifestazioni di LT possono sfuggire alla diagnosi. Ci sono diverse ipotesi circa la spiegazione della remissione spontanea della LT. È probabile che la LT sia espressione di un disordine dell’emopoiesi fetale epatica (40, 41). Il fegato fisiologicamente è una sede di emopoiesi e cessa questa funzione subito dopo la nascita; pertanto la remissione spontanea della LT potrebbe essere il prodotto della cessazione dell’emopoiesi epatica. L’evidenza che l’evoluzione della LAMK comincia da subcloni di blasti della LT, oltre che essere documentata dalla presenza della mutazione GATA1s, appare supportata dal fatto che le stesse anomalie citogenetiche sono presenti in tutte e due le fasi di questo disordine megacariocitario (42, 43). È presumibile che alterazioni citogenetico-molecolari promuovono la trasformazione di una condizione benigna qual è la LT in un’irreversibile e maligna qual è la LAMK. Questo dato è confermato dal fatto che spesso la LAMK-DS presenta anomalie citogenetiche addizionali, non evidenti nella fase di LT (42, 44). Le cellule leucemiche della LT e della LAMK-SD mostrano i segni della differenziazione megacariocitaria, rappresentati da antigeni di superficie, attività perossidasica piastrinica e caratteristiche ultrastrutturali megacariocitarie (45, 46) (Figura 4). Inoltre le cellule leucemiche possono presentare caratteristiche di altre linee emopoietiche, in particolare riferibili a progenitori cellulari eritroidi e basofili (47). Infatti sulla superficie e nel citoplasma dei blasti LAMK-SD sono stati riscontrati rispettivamenti antigeni eritrocitari (ad es. la glicoforina) (48) e la ferritina (46). La trisomia 8 pre- Leucemie Megacariocitiche FIGURA 4 - Caratteristiche immunofenotipiche del blasto leucemico della LAMK. Lo studio di alcuni mRNA può definire la natura megacariocitaria della cellula leucemica nei casi in cui la morfologia e lo studio immunofenotipico non forniscano sufficienti indicazioni circa l’appartenenza di lineage del blasto leucemico. sente nei blasti megacariocitari è stata riscontrata anche nei precursori eritroidi suggerendo che questi ultimi fanno parte del clone leucemico (49). Inoltre nei blasti della LAMK-SD è stato riscontrato l’mRNA della g-globina e della a-aminolevulinico sintetasi (50), specifici della linea eritroide, e studi in vitro hanno documentato segni di differenziazione basofila nelle colture di cellule midollari di LT e LAMK-SD (51, 52). Queste evidenze sottolineano che la cellula leucemica della leucemia associata alla SD ha il potenziale per formare elementi cellulari riconducibili alla linea megacariocitaria, eritroide e basofila. Questo potenziale differenziativo è certamente da mettere in relazione con la mutazione di GATA1 che è un noto fattore di trascrizione coinvolto nella differenziazione cellulare della linea megacariocitaria, eritroide e basofila. Nella LAMK-SD è frequente il riscontro di alterazioni citogenetiche quali la trisomia 8, una copia addizionale del cromosoma 21 (che si aggiunge alla trisomia costituzionale), la monosomia del cromosoma 7, la monosomia del cromosoma 5 e la delezione del 5q (38). In generale, i bambini affetti da LAMK associata a SD hanno una prognosi migliore rispetto a quelli con LAM in assenza di SD, dal momento che la prima risulta essere chemiosensibile (53-56). In vitro le cellule LAMK-DS sono sensibili all’ ara-CTP (57) a causa dell’aumentata espressione della cistationina-b-sintetasi e della deossicitidina chinasi, entrambe codificate da geni che mappano sul cromosoma 21. In vivo i pazienti affetti da LAMK-SD risultano essere sensibili alla citosina arabinoside, componente essenziale del regime terapeutico. Il trattamento chemioterapico intensivo, normalmente impiegato per la cura delle LAM pediatriche non associate a SD, deve essere evitato nei casi di LAMK-SD dal momento che è causa, in questi pazienti, di un’alta incidenza di morte treatment-related (58, 59). La sopravvivenza globale (OS) a 10 anni di 61 pazienti trattati secondo il protocollo NOPHO era uguale al 74% (60). Allo stesso modo la OS a 5 anni per 161pazienti trattati secondo il Children’s Cancer Group study CCG 2891 era del 79% (59). Infine la OS a 3 anni di 67 bambini trattati secondo lo studio AML-BFM 98 era del 91% (1). Tutti questi dati confermano la prognosi favorevole dei pazienti affetti da SD che sviluppano una LAM. Sono molti i casi di LAMK-SD che muoiono per la tossicità del trattamento d’induzione, pertanto nuovi protocolli terapeutici prevedono una revisione dei dosaggi dei chemioterapici ad eccezione di quelli che riguardano la citosina arabinoside. Klusmann et al. riportano che i pazienti con LAMK-SD con una storia di LT avevano una sopravvivenza libera da malattia superiore a quella evidenziata nei pazienti che non avevano un’anamnesi di LT. Infatti, in questi ultimi la frequenza di recidiva di malattia risultava essere più alta (61). Non è ancora chiaro se l’analisi quantitativa del trascritto mutato di GATA1, effettuato con analisi di real time PCR quantitativa, potrà essere uno strumento efficace per misurare la malattia minima residua e individuare classi di rischio nei pazienti affetti da LAM associata a SD (62). Le mutazioni del gene GATA1 possono essere 45 46 Seminari di Ematologia Oncologica riscontrate mediante amplificazione per PCR degli esoni 2 e 3, seguita dal sequenziameto diretto o dall’analisi in cromatografia liquida denaturante ad alta prestazione (DHPLC). La possibilità di trovare la mutazione è in funzione della rappresentazione del clone mutato nel campione. In generale, per avere un riscontro positivo è necessario che, per il sequenziamento diretto, almeno il 20% del campione contenga cellule mutate. La sensibilità della DHPLC è più alta e sarà sufficiente che la popolazione mutata rappresenti almeno il 2-5% del campione (62). Mutazioni del gene JAK3 sono state riscontrate in casi di LT e LAMK-SD. Dal momento che l’alterazione di JAK3 è stata rilevata nelle diverse fasi del disordine megacariocitario associato alla SD, è improbabile che essa rappresenti la causa della trasformazione della LT in LAMK (63-67). Inoltre nei casi affetti da LT e LAMK-SD non sono state riscontrate mutazioni a carico di geni ad attività tirosin-chinasica (FLT3, KIT) spesso coinvolti nelle LAM non associate a SD, così come sono risultate assenti le mutazioni a carico dell’oncogene RAS o del gene MPL che codifica per il recettore della trombopoietina (67). Hama et al. (68) hanno confrontato le caratteristiche biologiche e cliniche dei bambini affetti da LAMK-SD con quelle dei casi LAMK non associati a SD. L’analisi morfologica dei blasti individuava almeno tre categorie morfologiche differenti: 1) categoria 1: blasti completamente indifferenziati con nucleolo e/o vacuoli citoplasmatici; 2) categoria 2: blasti moderatamente differenziati, con blebs citoplasmatici, spesso ampio citoplasma e granuli azurofili; 3) blasti con dismegacariocitopoiesi e/o micromegacariociti. Le categorie 1 e 2 potevano poi essere suddivise in base alla presenza/assenza del citoplasma intensamente basofilo dei blasti. Dal punto di vista morfologico i blasti della LAMK-SD apparivano meno maturi rispetto al gruppo di LAMK non associato alla SD. La maggior parte dei blasti leucemici nei pazienti dei due gruppi esprimeva almeno un antigene della linea megacariocitaria (CD36, CD41, CD42, CD61); i casi con bassa espressione di questi antigeni risultavano positivi per la perosidassi piastrinica. Il CD13/CD33 era- no espressi nella maggior parte dei due gruppi di pazienti. L’espressione del CD7 era associata soprattutto ai casi LAMK-SD. La glicoforina A era espressa solo sui blasti leucemici della LAMK-SD. La LAMK non associata a SD è caratterizzata dall’espansione midollare dei megacarioblasti ed è spesso associata a mielofibrosi, epato-splenomegalia e pancitopenia (69-71). Nella maggior parte dei casi la LAMK risulta essere associata alla t(1;22) (72-74). Altre anomalie citogenetiche sporadiche sono state osservate nel corso delle LAMK, tra tutte la t(10;11) che porta alla fusione di CALM-AF10 (75), la t(9;11), la + 8 e la +21 (70). In questi casi il quadro clinico è simile a quello presente nella LAMK con la t(1;22) ma l’esordio della malattia è più tardivo, intorno ai 2 anni di età (70). Recentemente un gene omologo di RBM15, RBM6, è stato trovato in fusione con il gene CSFR1 (colony-stimulating factor 1 receptor) nella linea cellulare megacarioticica MKL1 ma al momento non c’è ancora nessuna evidenza di questo riarrangiamento nei pazienti pediatrici affetti da LAMK (76). La proteina di fusione RBM15-MKL1 è il prodotto della traslocazione bilanciata t(1;22)(p13;q13) che si riscontra nella LAMK pediatrica. Del gene RBM15 (RNA binding motif protein 15), precedentemente chiamato OTT, e del gene MKL1 (megakaryoblastic leukemia), già indicato con il nome MAL (megakaryocytic acute leukemia), non si sa molto. Dal momento che i breakpoint cadono nel primo introne di RBM15 (o nel terzo introne nella traslocazione variante) e nel quarto introne del gene MKL1, le regioni che codificano per le due proteine conservano quasi del tutto la loro integrità (74). Il gene RBM15 contiene tre siti di riconoscimento dell’RNA (RRM) e un dominio C-terminale, chiamato SPOC, ortologo e paralogo del gene di Drosophila Spen (77, 78). I motivi RRM si legano agli acidi nucleici (79) mentre il dominio SPOC recluta i complessi corepressori SMRT e Ncor (80). Le funzioni di RBM15 sembrano riguardare anche il controllo delle attività trascrizionali del gene NOTCH (81). Il gene MKL1 è un potente coattivatore della trascrizione appartenente alla famiglia dei fattori di trascrizione associati alla miocardina (MRTF), implicato nell’ espressione genica regolata dal Leucemie Megacariocitiche “serum response factor” (SRF), un fattore di trascrizione che controlla i geni responsivi a mitogeni e specifici del tessuto muscolare (82). Il gene RBM15 è probabile che sia implicato nella regolazione negativa della proliferazione megacariocitaria; recenti evidenze documentano la possibilità che il gene di fusione RBM15-MKL1 possa avere un ruolo dominante negativo sull’attività fisiologica dell’allele RBM15 non riarrangiato contribuendo così alla patogenesi della LAMK. È dunque possibile che la disregolazione del gene RBM15 insieme all’attivazione dei geni target di MKL1 possano rappresentare momenti patogenetici fondamentali nella formazione della LAMK (83). I pazienti pediatrici affetti da LAMK non associata a SD presentano una OS inferiore e una più bassa sopravvivenza libera da malattia quando sono confrontati con bambini affetti da LAMK-SD o da una LAM con citotipo FAB diverso da M7 (2, 70, 71). ■ LEUCEMIE MEGACARIOCITICHE DELL’ADULTO La LAMK dell’adulto è una patologia assai rara; essa rappresenta circa l’1% di tutti i casi di LAM (84, 85). L’esame morfologico del midollo osseo mette in evidenza una proliferazione incontrollata dei megacarioblasti associata frequentemente a mielofibrosi. La LAMK dell’adulto è caratterizzata da una popolazione abbastanza uniforme di blasti leucemici caratterizzati da un aspetto “linfoide” con abbondante citoplasma basofilo e assenza di corpi di Auer. Possono essere presenti blebs citoplasmatici ma questo dato morfologico non è specifico di questo citotipo e non può quindi essere impiegato come criterio diagnostico dirimente. I blasti sono negativi per la mieloperossidasi e per il Sudan black B, possono essere positivi per le esterasi non specifiche. L’indagine citofluorimetrica dei blasti rivela che essi possono esprimere antigeni mielodi ma anche antigeni associati alla linea megacariocitaria come il CD41, CD42 e il CD61 (86). Le analisi delle casistiche dei pazienti adulti affetti da LAMK riportate in letteratura definiscono che questi casi non hanno percentuali di remissione completa più basse quando confrontati con gli altri citotipi FAB. Tuttavia i casi affetti da M7 presentano una OS e una sopravvivenza libera da malattia peggiore rispetto a quelle di tutte le altre LAM (84, 85, 87). Le alterazioni citogenetiche più spesso descritte in associazione con la LAMK dell’adulto sono le anomalie del cromosoma 3, 5 e 7 (87, 88). Sebbene la t(1;22)(p13;q13) sia un riarrangiamento frequentemente associato alle LAMK pediatriche non associate alla SD, quest’anomalia non è mai stata riportata nei casi di M7 dell’adulto. La frequenza delle localizzazioni extramidollari nella LAMK dell’adulto è alta. Le sedi più spesso coinvolte sono la cute e il sistema nervoso centrale, più rare le localizzazioni ossee a carattere osteolitico. Questi dati suggeriscono che i blasti leucemici della M7, al pari di quelli della M4 e M5 della classificazione FAB, godono di caratteristiche biologiche che li rendono idonei alle localizzazioni extramidollari Oki et al. hanno dimostrato che il citotipo M7 risultava essere più spesso associato ad una precedente malattia ematologica, ad alterazioni citogenetiche con significato prognostico sfavorevole, ad un basso numero di globuli bianchi e ad una più bassa percentuale di blasti midollari. Inoltre, in analisi multivariata, la M7 rappresentava di per sè un fattore prognostico negativo indipendente anche dalla citogenetica (87). Questo dato indica che probabilmente la LAMK dell’adulto ha caratteristiche biologiche distinte da quelle degli altri citotipi FAB. Un recente studio ha analizzato le caratteristiche funzionali e genomiche dei mitocondri dei blasti di un paziente affetto da LAMK. Evidenze sperimentali mettevano in rilievo un’anomala produzione di reattivi dell’ossigeno (ROS) da parte dei blasti, probabilmente da mettere in relazione con l’alterazione della catena respiratoria mitocondriale, come anche evidenziato dalla presenza di mutazioni non senso a carico del DNA mitocondriale che riguardavano il gene ND1 che codifica per la subunità transmembrana del NADH-ubiquinone ossidoreduttasi (89). L’European Group of Blood and Marrow Transplantation (EBMT) ha riportato le caratteristiche cliniche e prognostiche di 69 pazienti adulti affetti da LAMK e sottoposti a trapianto auto- 47 48 Seminari di Ematologia Oncologica logo o allogenico di cellule staminali dopo la prima remissione completa. La sopravvivenza a 3 anni era del 30% e del 43% per i pazienti sottoposti rispettivamente a trapianto autologo e allogenico (90). Pertanto, come già detto, essendo la prognosi di questi pazienti severa, appare evidente che in questo subset di pazienti il miglior beneficio terapeutico si ottiene con il trapianto allogenico in prima remissione completa. L’associazione tra le patologie oncoematologiche e il tumore primitivo del mediastino a cellule germinali (TPMCG) è nota dal 1985 (91, 92). La patologia ematologica di più frequente riscontro nei pazienti con TPMCG è la LAMK (93). Ad oggi sono stati riportati in letteratura almeno 20 casi di LAMK dopo diagnosi di TPMCG (92-100). La relazione causale tra queste due patologie non è ancora chiara. È possibile che le cellule neoplastiche del TPMCG non seminomatoso una volta invase le cavità midollari, in questa sede diventino capaci, a causa di stimoli esercitati dal microambiente midollare, di trasformarsi in cellule leucemiche. Un’ipotesi alternativa stabilisce che la componente neoplastica mesenchimale-like riconducibile al sacco vitellino possa agire come stimolo per le cellule primordiali germinali promuovendo la loro trasformazione in neoplasie tipiche dei tessuti non germinativi. La conferma a quest’ipotesi viene dalla presenza di precursori emopoietici nel TPMCG che derivano da stroma e vasi della componente neoplastica riconducibile al sacco vitellino, sovente associata a questi tumori (101). È inoltre possibile che la presenza di fattori di crescita e di differenziazione emopoietici in alcuni TPMCG possano essere responsabili della differenziazione delle cellule germinali primordiali in elementi cellulari emopoietici. La mediana di tempo dello sviluppo di una LAMK a partire da un TPMCG è di circa 6 mesi (93). Il decorso clinico della leucemia è aggressivo con una mediana di sopravvivenza di circa 5 mesi dopo la diagnosi (93). Ad oggi sono stati descritti tre casi con localizzazione extramidollare di LAMK associata a TPMCG (97, 100). Sono almeno due le evidenze che stabiliscono chiaramente che la LAMK che si associa alla TPMCG non può essere considerata therapy-related: 1) il breve intervallo di tempo che intercorre tra la TPMCG e la malattia ematologica; 2) una relazione clonale tra le due patologie è spesso stabilita dalla presenza di marker citogenetici (l’alterazione citogenetica più spesso rappresentata in questi casi è l’isocromosoma 12p) (101-104). La Leucemia mieloide cronica (LMC) è un disordine mieloproliferativo clonale caratterizzato dalla presenza del riarrangiamento cromosomico t(9;22). La storia naturale della LMC prevede la trasformazione della malattia da una fase cronica alle fasi accelerata e blastica entro 2-5 anni dalla diagnosi (105). In circa il 70% delle crisi blastiche i blasti sono riconducibili alla linea mieloide. Nel restante 30% le crisi blastiche sono caratterizzate da elementi blastici con marker immunofenotipici linfoidi (105, 106). La crisi megacarioblastica che segue la fase cronica della LMC è una condizione molto rara e conta meno del 3% di tutte le crisi blastiche della LMC (107). È una malattia molto aggressiva, resistente al trattamento chemioterapico e con una pessima prognosi (107-109). All’esame immunofenotipico i blasti possono presentare positività per il CD45, CD41, CD61, CD34, CD13, CD33, HLA-DR. La linea megacariocitaria può essere individuata anche attraverso lo studio dell’espressione dell’mRNA del fattore piastrinico 4 (PF4), della perossidasi piastrinica e della glicoproteina IIb (110, 111). Nella crisi blastica megacariocitaria la presenza nel sangue periferico di piastrine displastiche che si distaccano dal citoplasma di megacariociti potrebbe rappresentare un marker morfologico distintivo di questa patologia (112). La Trombocitemia Essenziale (TE) è un disordine mieloproliferativo cronico caratterizzato da un aumentato rischio di trombosi e/o emorragia (113). La trasformazione leucemica della TE è stata riportata nell’1% dei casi non trattati e fino al 4% dei casi sottoposti a trattamenti farmacologici (114115). La M7 rappresenta il citotipo FAB che nel 10% dei casi caratterizza la trasformazione leucemica della TE (116). La mielofibrosi con metaplasia mieloide (MMM) è un disordine mieloproliferativo caratterizzato da progressiva fibrosi midollare, osteosclerosi e angiogenesi (117). Nel 25% dei casi di MMM con trasformazione leucemica si riscontra un fenotipo riconducibile alla LAMK; i pazienti con evo- Leucemie Megacariocitiche luzione della MMM in LAMK hanno una OS di 3 mesi e nessuno di loro otteneva la remissione completa dopo il trattamento d’induzione (118). ■ CONCLUSIONI La LAMK è un disordine megacariocitario con caratteristiche biologiche e cliniche eterogenee. La trasformazione neoplastica della linea megacariocitaria probabilmente può realizzarsi con modalità patogenetiche differenti. La LAMK associata alla SD si propone come un interessante modello di leucemogenesi a partire dal quale, in futuro, si potrà migliorare la comprensione anche dei meccanismi patogenetici che sono alla base delle LAMK dell’adulto. ■ BIBLIOGRAFIA 1. Creutzig U, Reinhardt D, Diekamp S, et al. 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Ciò in relazione alla crescente efficienza diagnostica, legata soprattutto alle recenti acquisizioni sull’istopatologia del midollo osseo (4, 5) e sulla mutazione JAK2 V617F (6-9), nonché in relazione alla migliore conoscenza dei fattori prognostici e dei presidi terapeutici convenzionali e non (1015). Benché la definizione generale di TE sia immutata (16), l’evoluzione dei criteri diagnostici e classificativi, da quelli PVSG (17) a quelli WHO 2001 (4) e WHO 2008 (18, 19), ha portato ad un graIndirizzo per la corrispondenza Luigi Gugliotta Direttore Struttura Complessa di Ematologia Arcispedale Santa Maria Nuova Viale Risorgimento, 80 - 42100 Reggio Emilia e-mail: [email protected] duale ma significativo cambiamento dell’epidemiologia, del quadro clinico all’esordio e nel follow-up, della prognosi e, ovviamente, dell’approccio terapeutico (11, 15, 20-22). Descriveremo pertanto clinica e terapia della TE con la dovuta cautela in relazione alle mutevoli caratteristiche delle casistiche di volta in volta considerate. ■ DEFINIZIONE E FISIOPATOLOGIA La TE è una malattia neoplastica acquisita della mielopoiesi con cronica iperproliferazione clonale, caratterizzata da aumentata produzione di piastrine morfo-funzionalmente anormali e da aumentato rischio trombotico-emorragico. La TE è dunque data per definizione come patologia clonale, ma nella pratica clinica la documentazione della clonalità è stata piuttosto problematica fino alla scoperta della mutazione JAK2 V617F nel 2005 (6-9). Infatti, gli studi del cariotipo mostrano anomalie random solo nel 3-5% dei casi (20, 23); lo studio dell’inattivazione del cromosoma X documenta un pattern di monoclonalità in circa la metà dei casi probabilmente per scarsa sensibilità, avendo come altri limiti l’eseguibilità solo nelle donne e una scarsa specificità nelle donne più anziane (24, 25); infine, lo studio delle colonie eritroidi e/o megariocitarie spontanee, della 56 Seminari di Ematologia Oncologica espressione di PRV-1 nei granulociti e di c-MPL nelle piastrine e/o nei megacariociti è di fatto attuato solo a scopo di ricerca (26-28). La svolta nella storia della TE, così come delle altre MMC Ph negative, è rappresentata effettivamente dalla scoperta nel 2005 della mutazione genica puntiforme acquisita JAK2 V617F (6-9). Tale mutazione, che occorre nel dominio JH2 con la sostituzione Valina - Fenilalanina, comporta un aumento dell’attività tirosin-chinasica del gene JAK2 il quale, legandosi a recettori quali in particolare Epo-R, Tpo-R e G-CSF, interagisce con il sistema STAT (signal transducer and activator of transduction) inducendo così una iperproliferazione della emopoiesi anche con fattori di crescita minimali o assenti (29). La mutazione JAK2 V617F, documentabile in circa il 90% dei casi di PV, è in grado di provare la clonalità solo nel 50-60% dei casi di TE o di PMF (Primary Myelofibrosis) (6). Nei casi mutati la carica allelica di JAK2 V617F è significativamente più elevata nella PV rispetto alla TE (30-32). Tutto ciò sembra rendere ragione del fatto che a crescente carica allelica di JAK2 V617F possa corrispondere, a scapito del fenotipo TE, una crescente espressione del fenotipo PV (eritropoiesi aumentata con più bassi valori di Epo sierica, di ferritina e di MCV; conta leucocitaria più elevata; conta piastrinica meno elevata; più frequenti trombosi venose; più frequente trasformazione in franca PV (33). Nei casi senza mutazione JAK2 V617F la dimostrazione di clonalità è ancora possibile in una ulteriore piccola quota (1-3%) di pazienti TE con la documentazione di un’altra mutazione somatica a carico del recettore della trombopoietina cMPL (MPLW515L/K) anch’essa operante attraverso l’attivazione del sistema JAK-STAT (34, 35). Molto probabilmente altre mutazioni patogeneticamente rilevanti e in grado di documentare la clonalità nella TE restano da scoprire. Va infine detto che il ruolo preciso giocato dalla mutazione JAK2 V617F in tre malattie fenotipicamente diverse quali TE, PV e PMF è ancora poco chiaro (36, 37). Altro elemento determinante per la corretta diagnosi della TE è la istopatologia del midollo osseo. Nei criteri classificativi del PVSG (17, 38) venivano indicati l’iperplasia della megacariocitopoiesi e, abbastanza grossolanamente, una fibrosi presente in meno di 1/3 dell’area osservata sul preparato istologico della biopsia osteomidollare (BOM). La valorizzazione della cellularità di ciascuna delle tre filiere ematopoietiche, della morfologia e distribuzione dei megacariociti e del grado di fibrosi ha rilevato come parametri propri della TE un’iperplasia pressocchè selettiva della megariocitopoiesi con elementi grandi, maturi, iperlobulati, non dismorfici e non clusterizzanti e una fibrosi midollare di grado 0 oppure 0 /1 (39), portando al successivo recepimento di quanto sopra nella classificazione WHO 2001 (4). L’applicazione di tali criteri ha portato ad una distinzione tra casi di TE vera e propria, casi di pre-PMF (con MF 0), casi di precoce–PMF (con MF1) e casi di pre-PV (40, 41). In casistiche di TE con diagnosi posta secondo i criteri PVSG, la revisione dei preparati istologici secondo i criteri WHO 2001 ha identificato come TE vera circa 1/3 dei casi, mentre il resto era inquadrabile come iniziale-PMF (cioè pre-PMF e precoce PMF) e in piccola parte come pre-PV (38, 40-43). Tale distinzione, oltre ad una rilevanza istopatologica, sembra avere un valore clinico-prognostico (40, 42) che tuttavia andrà ulteriormente validato in studi prospettici, anche migliorando lo standard di riproducibilità diagnostica (44). In uno studio prospettico su 90 pazienti, diagnosticati secondo i criteri PVSG e trattati con IFN alpha 2-b pegilato, la revisione secondo i criteri WHO ha identificato come TE vera solo il 39% dei pazienti, e questi risultavano avere una minore incidenza di splenomegalia e una più elevata frequenza di risposta ematologica alla terapia (42). Questi criteri di valutazione istopatologica sono stati fondamentalmente riaccolti nella classificazione WHO 2008 e, insieme con i più recenti parametri di valutazione clonale (JAK2 e cMPL), hanno consentito di abbassare per la TE la soglia diagnostica delle piastrine a 450000/mm3 (19), con avvicinamento così alla proposta della classificazione ECP (European Clinical Pathological) del 2002 che prevedeva una soglia piastrinica a 400.000/mm3 (45). Le complicanze trombotico-emorragiche, caratterizzanti la clinica di molti pazienti con TE all’esordio e/o durante il follow-up, riconoscono complessi meccanismi fisiopatologici ancora non del tutto elucidati (20, 46). Le alterazioni quan- Clinica e Terapia della Trombocitemia Essenziale titative e morfo-funzionali delle piastrine giocano un sicuro ruolo patogenetico giacchè il loro ridimensionamento con la terapia citoriduttiva comporta un’evidente riduzione di trombosi ed emorragie (47, 48). Nella TE i megacariociti liberano piastrine più o meno anormali caratterizzate da anisopoichilocitosi (PDW elevato), delta-Storage Pool Deficiency acquisito ( carenza di granuli densi e del loro contenuto in ADP, ATP e 5-HT), alterata aggregazione in vitro spontanea o in risposta ad ADP o Epinefrina, anormale distribuzione delle glicoproteine di membrana (espressione ridotta di GPIb e GPIIb-IIIa e aumentata di GPIV) e altre anomalie ancora (20, 49). Un’iperattivazione in vitro delle piastrine è suggerita dagli elevati livelli plasmatici di beta-Tromboglobulina e Fattore Piastrinico 4, liberati dai granuli alfa (49), e dagli elevati livelli di Trombossano B2 (Tx B2) nelle urine (46). Nei pazienti con severa piastrinosi (PLT >1 –1,5 milioni/mm3) un aumentato rischio emorragico viene riferito ad una sindrome di von Willebrand acquisita dovuta alla aumentata clearance plasmatica dei multimeri di vWF ad alto peso molecolare da parte delle piastrine circolanti (46). Dati più recenti tendono ad attribuire un ruolo protrombotico anche ai leucociti, specie quando sono in numero aumentato (50, 51). Infatti, i polimorfonucleati (PMN) risultano attivati, iperesprimendo sulla membrana molecole di adesione che interagiscono con le cellule endoteliali e con le piastrine, e portano alla formazione di aggregati misti PMN-Piastrine e alla iperattivazione della coagulazione plasmatica con coinvolgimento anche della parete endoteliale (52). ■ CRITERI DIAGNOSTICI I criteri WHO 2008 per la diagnosi di TE (19) sono 4 ed essendo tutti maggiori vanno tutti accolti (Tabella 1). Dopo aver acquisito l’orientamento clinico verso una TE, anche in base alla persistenza della trombocitosi, va eseguita la BOM, in concomitanza con l’aspirato midollare e lo studio del cariotipo utili anche per la diagnosi differenziale con le Sindromi Mielo Displastiche (SMD); la valutazione della Epo sierica e delle cellule CD34+ circolanti può faci- TROMBOCITEMIA ESSENZIALE – WHO 2008 1. PLT > 450.000/mm3 2. BOM: proliferazione di megacariociti grandi e maturi; normale proliferazione eritroide e granulocitaria 3. Esclusione di CML, PV, PMF e SMD secondo i criteri WHO 4. Dimostrazione di JAK2 V617F o di altre anomalie clonali (c-MPL, inattivazione del cromosoma X,….) oppure esclusione di trombocitosi reattive CRITERI MAGGIORI TUTTI NECESSARI TABELLA 1 - TE - Criteri diagnostici WHO 2008 Transitorie Emorragia acuta Rimbalzo post-piastrinopenia da mielosoppressori Rimbalzo post-trattamento di carenza di B12 Esercizio fisico Interventi chirurgici Risoluzione di infezioni acute Da farmaci quali Vincristina e Epinefrina Persistenti Carenza marziale non corretta Anemia emolitica Splenectomia o milza esclusa Stati infiammatori cronici: Malattie reumatiche, Colite ulcerosa, Enterite regionale, Osteomielite, Cirrosi epatica, Sarcoidosi, Tubercolosi, Artrite gonococcica, …. Tumori maligni quali Carcinomi, Linfomi, Mesotelioma, …. Trombocitosi familiari: Da elevati livelli di Tpo per mutazioni del gene Tpo Da mutazioni attivanti di cMPL (Tpo-R) Altre TABELLA 2 - Trombocitosi secondarie. litare la diagnosi differenziale rispettivamente con PV e PMF; la valutazione della massa totale eritrocitaria potrà essere eseguita in base a eventuali dubbi generati dalla BOM e/o dal livello di Epo sierica; la valutazione sulla clonalità va eseguita con lo studio molecolare per JAK2 (qualitativo sempre e quantitativo solo per specifici interessi di ricerca) e, nei casi non mutati, per cMPL; nei casi in cui non sia possibile documentare la clonalità, diventa necessario escludere scrupolosamente una trombocitosi secondaria, pur tenendo conto che in alcuni casi questa può coesistere alla TE (Tabella 2). 57 58 Seminari di Ematologia Oncologica ■ EPIDEMIOLOGIA, CLINICA E LABORATORIO ALLA DIAGNOSI Estrapolando i pochi dati disponibili sull’incidenza della TE, tra cui quelli della città di Goteborg che la riportano pari a 1,55/100.000 abitanti/anno (53), si calcola che i nuovi casi di TE in Italia siano circa 1.000/anno. La prevalenza è calcolata in circa 30/100.000 abitanti, corrispondente dunque per l’Italia a poco meno di 20.000 pazienti. Per illustrare la clinica e il laboratorio alla diagnosi nella TE viene considerata la casistica del Registro Italiano Trombocitemia (RIT) (Tabella 3), che ben si presta poichè dei 1.785 pazienti analizzati oltre 1.000 sono stati diagnosticati a partire dal 2004, impiegando nei 2/3 dei casi la classificazione WHO 2001 (Figura 1). I pazienti di sesso femminile sono nettamente prevalenti (62%) con rapporto F: M pari a 1,63. L’età alla diagnosi ha un valore mediano di 61 anni, risultando maggiore negli uomini rispetto alle donne (62 vs 60 anni). La distribuzione per decadi documenta come i pazienti di età >70 anni siano pari al 33% mentre quelli con età <40 anni siano poco meno del 15% (Figura 2). Le pazienti in età fertile alla diagnosi sono circa il 10%.Va rilevato come l’età mediana alla diagnosi sia aumentata nel tempo, passando da 48 anni in 84 pazienti con diagnoPAZIENTI 1785 DIAGNOSI: PVSG/WHO 2001 BOM: CASI (fibrosi grado 0/1/2) CARIOTIPO: CASI (anormali) JAK2: CASI (JAK2V617F) SESSO: maschi/femmine ETà mediana (maschi/femmine) PIASTRINE x109/L: mediana (maschi/femmine) LEUCOCITI x109/L: mediana (12-15/>15) Hb g/dL: mediana SPLENOMEGALIA FATTORI GENERALI RISCHIO TROMBOTICO SINTOMI TROMBOSI (maggiori) EMORRAGIE (maggiori) 39%/61% 1087 (68%/27%/5%) 828 (3%) 574 (56%) 38%/62% 61 (62/60) si antecedente al 1979 (20), a 53 anni in 280 pazienti con diagnosi antecedente al 1985 (54) e a 65 anni in 402 pazienti con diagnosi nell’anno 1995 (54). Le piastrine (PLT) alla diagnosi hanno un valore mediano di 776x109/L che risulta significativamente più elevato nelle donne rispetto agli uomini (795 vs 751 p<0.002 ). I pazienti con PLT 1000-1500 FIGURA 1 - Criteri diagnostici PVSG e WHO nella casistica RIT. FIGURA 2 - Età alla diagnosi nella casistica RIT. 776 (751/795) 8,7 (10%/3%) 13,9 27% 63% 41% 10,3% (7,7%) 3,8% (1,2%) TABELLA 3 - TE - Dati alla diagnosi nella casistica RIT. FIGURA 3- Piastrine alla diagnosi nella casistica RIT. Clinica e Terapia della Trombocitemia Essenziale e >1500 x109/L sono solo 16% e 4%, rispettivamente, mentre i pazienti con PLT tra 400 e 600 x 109/L, inseriti nel RIT dunque in base ai criteri ECP (45), sono pari al 14% (Figura 3), e ciò contribuisce ad abbassare il valore mediano rispetto a casistiche precedenti. I leucociti alla diagnosi hanno un valore mediano di 8,7 x109/L, senza differenza tra uomini e donne. I casi con significativa leucocitosi, cioè con valore di 12-15 e >15 x109/L, sono 10% e 3%, dunque inferiori ai valori di 13% e 7% rispettivamente osservati nella antecedente casistica di 2316 pazienti (54). L’emoglobina (Hb) alla diagnosi ha un valore mediano di 13,9 g/dL con attesa differenza tra uomini e donne (14,8 vs 13,8 p<0.001). L’ematocrito è risultato >51% nel 2% degli uomini e >48% nel 13% delle donne. La BOM è stata riportata in 1087 casi (61%), con fibrosi di grado 0, 1 e 2 rispettivamente nel 68%, 27% e 5% dei casi, ma una revisione dei preparati istopatologici secondo i criteri WHO è in corso ad opera di un Panel di Esperti del RIT. Lo studio del cariotipo midollare in 828 pazienti (46%) evidenzia anomalie random in 27 casi (3,3%). La mutazione JAK2 V617F è stata documentata nel 56% dei 574 casi finora riportati. Una splenomegalia è stata rilevata in 488 (27%) pazienti, in 2/3 dei quali tramite valutazione ecografica. Fattori generali di rischio cardiovascolare, quali fumo, ipertensione arteriosa, ipercolesterolemia, diabete, obesità e trombofilia familiare, sono stati riportati, singolarmente o in varia combinazione, nel 63% dei casi. Sintomi riferibili a disturbi del microcircolo, quali cefalea, vertigini, alterazioni del visus, acroparestesie, acrocianosi, eritromelalgia ed altri ancora, sono riportati, singolarmente o in combinazione, nel 41% dei pazienti. La clinica più importante della TE è tuttavia rappresentata dagli eventi trombotici ed emorragici. Le trombosi maggiori includono tra quelle arteriose stroke, AIT, trombosi arteriose periferiche e IMA e tra quelle venose TVP, embolia polmonare e trombosi spleno-portali. Le emorragie maggiori includono quelle cerebrali, oculari, articolari e retroperitoneali e quelle che richiedono chirurgia o manovre angiografiche o che abbassano il livello emoglobinico di almeno 2 g/dL o richiedono trasfusione di almeno 2 unità di emazie. N % TROMBOSI Maggiori Arteriose Venose Minori 176 131 96 25 45 10.3 7.7 5.6 2.1 2.6 EMORRAGIE Maggiori Minori 65 21 44 3.8 1.2 2.6 TABELLA 4 - TE - Trombosi ed emorragie alla diagnosi nella casistica RIT. In fase di diagnosi o pre-diagnosi le trombosi nei pazienti del RIT sono in totale pari al 10,3% di cui maggiori arteriose 5,6%, maggiori venose 2,1% e minori 2,6%; le emorragie sono 3,8% di cui maggiori 1,2% (Tabella 4). Sia le trombosi che le emorragie, dunque, si collocano nella fascia inferiore dell’intervallo di frequenza riportato in letteratura (11, 20, 21, 46). ■ DECORSO CLINICO E STORIA NATURALE La descrizione degli eventi nel follow-up dei 1785 pazienti del RIT terrà conto della durata media dello stesso (4,5 anni per un totale di 8033 annipaziente) e dei trattamenti antiaggreganti e citoriduttori eseguiti in oltre 2/3 di loro. Gli eventi trombotici nel follow-up (Tabella 5) sono stati pari a 3,3% anni-pz (maggiori arteriosi 2,1%; maggiori venosi 0,8%; minori 0,4%), mentre quelli emorragici sono stati 1,3% anni-pz (maggiori 0,4% e minori 0,7%). La frequenza di tali even% n/100pt-aa TROMBOSI Maggiori Arteriose Venose Minori 14.9 12.9 9.4 3.5 2.0 3.3 2.9 2.1 0.8 0.4 EMORRAGIE Maggiori Minori 5.7 1.9 3.8 1.3 0.4 0.9 TABELLA 5 - TE - Trombosi ed emorragie nel follow-up della casistica RIT. 59 60 Seminari di Ematologia Oncologica ti è comparabile con quella della letteratura (11, 16, 54). La ricorrenza di trombosi totali nel follow-up è stata segnalata pari a circa 25%, cioè simile a quella di pazienti controllo non affetti da MMC, mentre la ricorrenza delle sole trombosi arteriose è risultata significativamente superiore rispetto ai pazienti controllo (55). Le complicanze trombotiche dopo intervento chirurgico maggiore o minore nella TE sono state valutate recentemente: trombosi arteriose 5,3% e trombosi venose 1,1% (56). La trasformazione o progressione in PV è stata riportata in circa il 6% dei casi in larghe casistiche (57). Tale aspetto va tuttavia riconsiderato tenendo conto dello stato mutazionale di JAK2, e in particolare della carica allelica di JAK2 V617F che sembra correlare con l’epressione fenotipica, in una sorta di continuum tra TE e PV (33). Né va trascurata, in merito, la precisa valutazione del quadro istologico midollare (19, 43). La trasformazione o progressione in Mielofibrosi (Post TE-PMF) è segnalata con frequenza variabile in diverse casistiche: in 2.316 pazienti rischio di eventi pari a 0,2% anni-pz (54); in 198 pazienti rischio cumulativo a 5, 10 e 15 anni pari rispettivamente a 3%, 8% e 15% (58); in 605 pazienti occorrenza nel 2,8% dei casi e rischio a 10 anni del 3,9% (14); in 126 pazienti con età alla diagnosi non superiore a 40 anni rischio a 10 anni del 3% (13). Tuttavia, nei casi definiti come TE vera, con fibrosi di grado 0, la comparsa di mielofibrosi è segnalata come assente o molto rara (13, 40). La trasformazione o progressione in LA/SMD è anch’essa riportata con frequenza variabile da 0,7% a 9,3% in casistiche con più di 100 casi: nelle casistiche più numerose, in 2.316 pazienti occorrenza globale in 1,2% dei casi con eventi pari a 0,4% anni-pz (11, 54); in 605 pazienti occorrenza in 2,3% dei casi con rischio a 10 anni del 2,6% (14); in 605 pazienti eventi nel 3,3% (12). È condiviso che il rischio di evoluzione in LA/SMD, quasi sempre tardiva, sia minimale (circa 0,5%) in pazienti non trattati o trattati con farmaci sicuramente non leucemogeni quali Interferone e Anagrelide e sia massimo (5-10%) nei pazienti trattati in sequenza con farmaci alchilanti e Idrossiurea. Molto controverso è invece il rischio leucemogeno di Idrossiurea somministrato come singolo farmaco nella TE (11, 12, 14, 16, 48, 59). La comparsa di tumori solidi nel follow-up, potenzialmente correlabile all’impiego di farmaci citotossici, è stata osservata con la frequenza di 0,6% anni-pz (54). La sopravvivenza dei pazienti con TE è stata riportata nel tempo con valori significativamente crescenti e sempre più vicini a quelli della popolazione generale di controllo. Va comunque considerato che tali risultati sono da riferire a casistiche di pazienti trattati per oltre 1.0 0.9 0.8 0.7 Controllo 0.6 TE 0.5 0.4 0.3 0.2 0.1 Controllo 0.0 0 1 2 3 4 TE 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 Anni FIGURA 4 - Sopravvivenza dei pazienti della casistica GIMMC (1997) rispetto alla popolazione italiana di controllo. Clinica e Terapia della Trombocitemia Essenziale 2/3 con farmaci antiaggreganti (in genere Aspirina a bassa dose) e/o con farmaci citoriduttori e caratterizzati da fattori prognostici man mano più favorevoli. Infatti, in 66 pazienti riportati nel 1979 (20) la mediana di sopravvivenza era appena superiore a 6 anni; in 2316 pazienti segnalati nel 1997 (54) la sopravvivenza era sovrapponibile a quella della popolazione italiana di controllo fino al 10° anno (circa 80%) ma poi declinava sensibilmente raggiungendo il 55% al 18° anno e la mediana intorno al 20° anno (Figura 4); in più recenti segnalazioni la mediana di sopravvivenza è stata: 22,3 anni in 605 pazienti (60); circa 18 anni in altri 605 pazienti (12); circa 18 anni in altri 386 pazienti (61). ■ FATTORI PROGNOSTICI I fattori prognostici nella TE sono stati cercati inizialmente con l’intento di valutare nel follow-up il rischio di complicanze trombotiche ed emorragiche, ma successivamente si è dato rilievo al rischio di comparsa di neoplasie, specie LA/SMD, di evoluzione mielofibrotica e policitemica e, ovviamente, di mortalità. Accanto ad alcuni fattori prognostici consolidati perché condivisi e validati, esistono fattori prognostici candidati che da lungo o breve tempo attendono una validazione definitiva e altri fattori già consolidati che vedono modificarsi il proprio valore prognostico (Tabella 6). I fattori prognostici per rischio trombotico consolidati sono: età >60 anni (10, 21, 47, 54) e precedenti trombosi maggiori (10, 21, 54), mentre fattori candidati sono: età 40-60 anni (10, 47, 54), fattori generali di rischio cardiovascolare (47), sesso maschile (54), leucocitosi (50), clonalità (25, 32, 35, 46), piastrinopatia morfo-funzionale (49). I fattori prognostici per rischio emorragico sono quello consolidato della piastrinosi >1500x109/L (16, 21) e quello candidato della piastrinopatia morfo-funzionale(49). I fattori prognostici candidati per rischio leucemico sono: età >60 anni (14, 54, 63), anemia (12, 63), piastrinosi >1000 x 109/L (12), precursori granulocitari circolanti (54) e sesso maschile (54, 63). I fattori prognostici candidati per rischio di evoluzione mielofibrotica sono: giudizio istolopatologico di iniziale PMF (19, 40) e anemia (14, 63). I fattori prognostici candidati per rischio di evoluzione policitemica sono: mutazione JAK2 V617F con carica allelica elevata (32, 35) e giudizio istolopatologico di pre-PV (19, 43). Fattori di rischio Età >60 anni Trombosi maggiori precedenti Emorragie maggiori precedenti Piastrine >1500 x 109/l Piastrine >1000 x 109/l Sesso maschile Fattori rischio cardiovascolare Età 40-60 anni Leucocitosi Clonalità (JAK2, cMPL, …) Anemia Precursori granulocitari BOM con iniziale PMF BOM con iniziale PV Piastrinopatia morfo-funzionale JAK2 V617F con carica allelica elevata Piastrine >1000 x109/l nel follow-up Rischio Trombosi + + Emorragia Evoluzione PMF ± Evoluzione PV Evoluzione LA/SMD ± + + Morte ± ± ± ± ± ± ± ± ± ± ± ± ± ± ± ± ± ± ± ± ± ± ± TABELLA 6 - Fattori di rischio consolidati (+) o candidati (±). ± 61 62 Seminari di Ematologia Oncologica I fattori prognostici candidati per rischio di morte sono: età >60 anni (12,14, 54), sesso maschile (54, 60, 64), precedenti trombosi (14, 54), leucocitosi (14,64), anemia (12), precursori granulocitari circolanti (54), piastrinosi >2000x109/L (54). piastrinosi nel follow-up >1000 x 109/L (54). I fattori prognostici consolidati, anche quando presenti singolarmente, autorizzano il giudizio di TE ad alto rischio trombotico (età > 60 anni e/o precedenti trombosi maggiori) oppure di TE ad alto rischio emorragico (PLT >1500 x109/L), o più genericamente di TE ad alto rischio. Valori intermedi di età (40-60) e di piastrine (1.000-1.500 x109/L), unitamente alla presenza di fattori generali di rischio cardiovascolare, suggeriscono un giudizio non sufficientemente condiviso di TE a rischio intermedio. Il giudizio di TE a basso rischio viene dato per esclusione. Quanto sopra rende ragione del fatto che a stratificazioni nette dei pazienti, in fascie ad alto o basso rischio o ad alto, intermedio e basso rischio (15, 16, 48), si stiano affiancando stratificazioni per score di rischio (11, 12, 62). Inoltre, le attuali stratificazioni, certamente necessarie per il disegno di studi controllati o per la elaborazione di linee-guida, non trovano concorde e agevole applicazione nella pratica clinica. Infine, va segnalato che ulteriori fattori prognostici sono di fatto gli andamenti dei parametri clinico-laboratoristici durante il follow-up, siano essi spontanei o indotti dai trattamenti farmacologici. ■ TERAPIA I presidi terapeutici nella TE sono rappresentati fondamentalmente dai farmaci antiaggreganti e dai citoriduttori, mentre la piastrinoaferesi è utilizzata raramente per casi particolari (16). Nella casistica del RIT (Tabella 7) si rileva che un % Antiaggreganti Idrossiurea IFN Anagrelide Busulfano Pipobromano Pazienti Età media anni 51 42 12 12 2.5 2 60 67 48 53 76 72 TABELLA 7 - Terapia in 1.785 pazienti della casistica RIT. trattamento antiaggregante, quasi esclusivamente con Aspirina a bassa dose (100 mg/die), è stato attuato nel 51% dei casi, mentre i citoriduttori impiegati sono stati: Idrossiurea (42%), Interferone alpha (12%), Anagrelide (12%), Busulfano (2,5%) e Pipobromano (2%). Prima di considerare indicazioni e raccomandazioni sul loro impiego, si riportano alcuni dati sui vari farmaci utilizzati nella TE. Antiaggreganti Gli antiaggreganti piastrinici sono largamente impiegati nella TE per la profilassi secondaria e primaria delle trombosi, e trattamenti con Dipiridamolo, Indobufene, Ticlopidina, Clopidogrel e Aspirina sono riportati in numerosissime casistiche (11, 16, 20, 48). Tuttavia, da molti anni l’antiaggregante piastrinico di riferimento è rappresentato dall’Aspirina (ASA), farmaco utilizzato a bassa dose (mediamente 100 mg/die), ma efficace per l’eritromelalgia a dosi più elevate (16, 48, 62). Un’alternativa all’ASA, nei casi di controindicazioni, intolleranza o resistenza, è rappresentata dal Clopidogrel i cui vantaggi nella TE sono tuttavia controversi (16). Benchè non siano pubblicati studi randomizzati finalizzati a testare gli effetti dell’ASA nella TE, lo studio ECLAP nella PV suggerisce fortemente che la profilassi primaria con ASA a bassa dose possa riprodurre anche nella TE i risultati di elevata efficacia antitrombotica e di elevata sicurezza (65). Citoriduttori I farmaci citoriduttori oggi disponibili sono Buslfano, Pipobromano, Idrossiurea nota anche come Idrossicarbamide, Anagrelide e Interferoni Alpha. Il Busulfano (BUS), farmaco alchilante, presenta come vantaggi l’elevata efficacia di trattamenti ciclici di breve durata, la somministrazione orale, la facilità di monitoraggio per pazienti anziani; tuttavia, esso presenta come svantaggi un rischio sia pure molto basso di aplasia midollare e, soprattutto, un significativo effetto leucemogeno (64, 66, 67). Il Pipobromano (PIPO), derivato piperazinico con struttura simil-alchilante, è un farmaco a somministrazione orale, efficace e ben tollerato, utilizzato soprattutto nel paziente anziano, in alterna- Clinica e Terapia della Trombocitemia Essenziale tiva a Busulfano o Idrossiurea per specifica politica di Centro (68). Tuttavia, anch’esso ha un effetto leucemogeno non trascurabile, specie a lunghissimo termine, come desunto dall’esperienza francese in pazienti con PV (64). L’Idrossiurea (HU), farmaco non-alchilante in grado di interferire sulla sintesi del DNA, ad assunzione orale, è globalmente ben tollerato, ma per il particolare meccanismo d’azione va somministrato senza interruzioni e richiede monitoraggio ematologico relativamente frequente (16). L’HU è altamente efficace nel controllare la piastrinosi e nel ridurre significativamente le complicanze trombotiche in pazienti ad elevato rischio: il tasso di trombosi a due anni nello studio randomizzato di Cortelazzo (10) è stato pari a 4% con HU, risultando invece pari al 24%) nei controlli non trattati; anche nello studio randomizzato PT1 (48) il tasso di trombosi a due anni è stato pari a 4% con HU, e pari a 8% con ANA. La comparsa di leucopenia e/o anemia porta alla riduzione di dose e quindi al mancato controllo della piastrinosi in circa il 10% dei casi. Altro limite è la tossicità cutanea, con comparsa sia pure infrequente di ulcere agli arti inferiori. Recentemente è stato trovato un consenso internazionale nel definire la resistenza/intolleranza all’HU (69): PLT >600 x 109/L dopo 3 mesi di HU a dose piena (almeno 2 g/die o 2,5 g/die in pazien- ti con peso >80 Kg); PLT >400 x 109/L e WBC <2,5 x 109/L e/o Hb <10 g/dL, con qualsiasi dose di HU; ulcere agli arti o inaccettabili lesioni muco-cutanee con qualsiasi dose di HU; febbre HU-correlata. Ma il limite principale della HU è la sua potenziale leucemogenicità, anche se la valutazione di vari studi retrospettivi resta problematica e controversa. La terapia sequenziale di HU con Busulfano o altri alchilanti è sicuramente associata ad un tasso di sviluppo tardivo di LA/SMD fino a livelli del 14% (70) e del 33% (67). Tale dato negativo potrebbe dipendere, più che dalla leucemogenicità specifica di ogni singolo farmaco, dal potenziamento di tossicità di un farmaco sul successivo o, altrettanto verosimilmente, dalla esistenza in tali pazienti di una malattia biologicamente più severa. La terapia con HU soltanto sembra essere invece relativamente sicura: in 2.316 pazienti valutati retrospettivamente (11) e in 112 pazienti valutati prospetticamente (71) la comparsa di LA/SMD è stata intorno all’1%, cioè equivalente a quella dei pazienti trattati con IFN o mai trattati, risultando quindi non significativamente superiore a quella spontanea propria della malattia. Il trattamento con HU sembra ridurre la carica allelica di JAK2 V617F (72), ma ciò non appare incidere significativamente sulla evoluzione leucemica e sulla sopravvivenza dei pazienti (12). FIGURA 5- Risposta all’Anagrelide in 220 pazienti della casistica RIT. 63 64 Seminari di Ematologia Oncologica L’Anagrelide (ANA), derivato imidazo-quinazolinico, è in grado di ridurre selettivamente la produzione midollare di piastrine (73) e, a dosi elevate, anche l’aggregazione piastrinica (74). L’ANA, da moltissimi anni impiegato per il trattamento della TE e della altre MMC con trombocitosi (59, 74-77), è stato dimostrato essere oltre che efficace (Figura 5) anche del tutto privo di effetti leucemogeni (59). L’ANA, essendo un inibitore delle fosfodiesterasi, induce un aumento dell’AMP ciclico (AMPc) intracellulare ed esercitando un effetto inotropo positivo e vasodilatatore diventa responsabile dei principali effetti collaterali quali cefalea, palpitazioni, edema e, raramente, cardiomiopatia (78). Interruzioni del trattamento con ANA entro i primi due anni sono riportate mediamente nel 30% dei casi, in larga maggioranza a causa di tachicardia e palpitazioni (74). Tuttavia, uno studio osservazionale prospettico del RIT mostra, in via preliminare, che un’attenta valutazione cardiologica basale e nel follow-up, associata ad un agevole controllo farmacologico della eventuale tachicardia, consente di ridurre le interruzioni del trattamento per disturbi cardiovascolari a circa 5% (79). Lo studio randomizzato PT1 ha dimostrato che l’associazione ANA+ASA, rispetto all’associazione HU+ASA, riduce in minor misura le trombosi arteriose (differenza dovuta quasi esclusivamente a eventi interpretati come AIT), riduce di più le trombosi venose, riduce meno le emorragie e si associa ad un maggior numero di evoluzioni mielofibrotiche (48). Una successiva analisi ha evidenziato che il vantaggio di HU+ASA nel ridurre le trombosi arteriose era limitato ai casi JAK2 mutati (33), suggerendo che in questi pazienti, che hanno livelli medi più elevati di eritrociti e leucociti, una citoriduzione trilineare esplichi una massimale funzione antitrombotica. Un più recente studio randomizzato (ANAHYDRET), in pazienti TE classificati secondo i criteri WHO, ha dimostrato la non inferiorità dell’ANA da sola rispetto all’HU da sola nel prevenire le complicanze trombotiche ed emorragiche, e ha documentato la non occorrenza di evoluzione mielofibrotica (80). Alla luce di quanto sopra, restano legittime le ipo- tesi che nello studio PT1 l’interazione di ANA con ASA (cioè di due molecole con attività antiaggregante) possa giustificare il relativo eccesso di emorragie, e che la mancata stratificazione dei pazienti secondo i criteri WHO renda poco valutabili i dati sulla evoluzione mielofibrotica. Recentemente è stata segnalata una riduzione della carica allelica in pazienti trattati con ANA (81). L’ANA, approvato dall’EMEA per il trattamento della TE ad alto rischio come farmaco di seconda linea, è oggetto di uno studio europeo osservazionale prospettico post-registrativo (EXELS) per la valutazione a lungo termine della sua efficacia e sicurezza, con comparazione indiretta con gli altri farmaci. In considerazione della selettività citoriduttiva sulla piastrinopoiesi, l’ANA ha trovato impiego in un certo numero di pazienti come farmaco di combinazione con HU o IFN, quando questi provocano eccessiva riduzione di leucociti e/o eritrociti o non accettabili tossicità o effetti collaterali (82, 83). L’ANA trova un’indicazione privilegiata nel paziente giovane, in relazione al vantaggio di usare un farmaco sicuramente non leucemogeno per trattamenti ipotizzati di lunghissima durata (21, 59, 74, 75). L’Interferone (IFN) alpha, molecola ad attività antiproliferativa e immunomodulante, è da tempo impiegato anche per il trattamento della TE (84, 85). L’IFN più utilizzato è il ricombinante (alpha 2-a o alpha 2-b) che alla dose di 3 MU x 3-7 volte /sett è in grado di indurre entro 3 mesi una risposta completa (PLT<400x109/L) o parziale (PLT 400-600) in oltre l’80% dei pazienti, e di mantenere tale risposta con dosi gradualmente calanti, talora fino a quella minimale di 3MU/sett (85). L’IFN, essendo una molecola sicuramente non leucemogena, trova anch’esso un’indicazione privilegiata per i pazienti più giovani (85). L’IFN, tuttavia, presenta limiti significativi quali la somministrazione sottocute e l’induzione di effetti collaterali e tossicità (dalla flu-like syndrome alla tossicità epatica, tiroidea e neurologica) che portano spesso alla perdita di compliance e alla interruzione del trattamento in circa il 25% dei casi (16, 21, 85).L’IFN pegilato (alpha 2-a o alpha 2-b), consente la somministrazione settimanale con evidente vantaggio pratico per i pazienti, ma presenta Clinica e Terapia della Trombocitemia Essenziale FIGURA 6- Risposta al PEG-Intron in 90 pazienti con TE. risultati di efficacia e tossicità analoghi a quelli dell’IFN non pegilato (86-88). Il trattamento con IFN alpha 2-b pegilato in 90 pazienti con diagnosi di TE secondo i criteri PVSG è risultato altamente efficace (Figura 6), inducendo nei primi due anni un’attesa riduzione della cellularità midollare, ma anche un certo aumento della dismegacariocitopoiesi e della fibrosi. La rivalutazione di tali casi in base alla classificazione WHO, tuttavia, ha evidenziato che i pazienti con quadro istopatologico di TE vera non presentano viraggio mielofibrotico e hanno una più elevata frequenza di risposta al trattamento, anche con dosi mediamente inferiori (86, 87). Il ridimensionamento del clone neoplastico della TE con l’IFN è atteso, anche in base a dati recenti che documentano nella PV una significativa riduzione della carica allelica di JAK2 V617F associata al trattamento con IFN alpha 2-a pugilato (89). Studi precedenti con IFN non pegilato avevano documentato nella TE che un trattamento di 1-2 anni (90) induceva una sensibile riduzione del delta-Storage Pool Deficiency (sorta di marker funzionale di malattia), mentre un trattamento di soli 6 mesi (91) non si associava a negativizzazione del pattern di clonalità (in base alla inattivazione del cromosoma X). Farmaci sperimentali Includono soprattutto i nuovi inbitori delle tirosinkinasi, e in particolare gli inibitori di JAK2, stanno offrendo risultati preliminari piuttosto promettenti (92), anche se appare sempre più evidente che la mutazione di JAK2 è solo un anello intermedio di un processo fisiopatogenetico tuttaltro che compreso (36) e che il vero target terapeutico sia ancora da individuare. ■ LINEE GUIDA Suggerimenti sulle indicazioni al trattamento e sui farmaci da utilizzare nella TE sono rintracciabili in varie rassegne e sono inoltre desumibili dai disegni di alcuni importanti studi. Tuttavia, nel 2004 le società scientifiche italiane di Ematologia (SIE, SIES e GITMO) hanno pubblicato delle Linee Guida sulla terapia della TE (Tabelle 8 e 9) basate sulla evidenza e sul consenso di un Panel di esperti (21). Il RIT sta anche valutando il grado di accoglienza di tali linee guida evidenziandone eventuali problematicità. Tra il 2004 e i giorni odierni sono stati acquisiti dati importanti sul versante diagnostico e prognostico ( mutazioni di JAK2 e di cMPL, ruolo dei leu- 65 66 Seminari di Ematologia Oncologica Raccomandazione grado Trombosi maggiori precedenti A Emorragie maggiori precedenti A Età >60 Anni A Età 40-60 Anni Con PLT 1000-1500x109/L Con fattori di rischio cardiovascolare o trombofilia familiare D Età 40-60 Anni Con PLT <1000X109/L Con fattori di rischio cardiovascolare o trombofilia familiare No Consenso Età <40 Anni Con PLT <1500X109/L Con comorbidità protrombotica D Disturbi del microcircolo severi Non responsivi all’ASA Gravidanza con fattori di rischio D D Target per citoriduzione Plt <400X109/L (Specie se trombosi maggiori) Plt 400-600x109/L (Se tossicità o alte dosi dei farmaci) D Le raccomandazioni di grado A sono supportate da studi con livello di evidenza 1, mentre quelle di Grado D sono basate sul parere degli esperti. TABELLA 8 - TE - Raccomandazioni SIE, SIES, GITMO per la citoriduzione (Haematologica 2004). Pazienti Raccomandazioni SIE SIES GITMO Haematologica 2004 1 linea 2 linea 3 linea 1 linea 2 linea 3 linea IFN / / IFN IFN+ANA ANA IFN IFN+ANA ANA Gravidanza* IFN D / Donne fertili IFN D ANA D IFN o ANA D HU D HU A HU IFN IFN+ANA o HU+ANA Età 40-60 anni IFN o ANA senza trombosi maggiori precedenti D IFN IFN+ANA ANA Età 60-70 anni A PIPO o BUS D HU HU+ANA ANA HU HU+ANA PIPO o BUS Età <40 anni (no concepimento) Età 40-60 anni con trombosi maggiori precedenti Età >70 anni HU HU o PIPO o BUS D / Ipotesi HU D *per casi selezionati - le raccomandazioni di grado A sono supportate da studi con livello di evidenza 1 mentre quelle di grado D sono sostenute dal parere degli esperti - la nuova ipotesi tiene conto della registrazione dell’anagrelide (ANA) come farmaco di 2a linea e dei dati clinico-biologici acquisiti dal 2004. - nelle donne fertili è raccomandata la sospensione immediata di ANA e HU in caso di ritardo mestruale fino a test di gravidanza negativo - È raccomandata per l’anagrelide la raccolta dei dati di efficacia e di sicurezza nell’ambito di studi o registri di patologia - IFN e ANA, se già in corso con efficacia e sicurezza, vengono continuati in qualunque fascia di età. TABELLA 9 - TE – Farmaci per la citoriduzione. Clinica e Terapia della Trombocitemia Essenziale cociti) e sul versante terapeutico (studio PT1, registrazione EMEA dell’ANA come farmaco di seconda linea, Consensus sulla definizione di resistenza/intolleranza alla HU, esperienze sulla terapia di combinazione ANA+HU o ANA+IFN, studio ANAHYDRET). Quanto sopra sta di fatto modificando l’approccio terapeutico nella TE, per cui può risultare un utile esercizio, che faccio a puro titolo personale, quello di ipotizzare una traccia per nuove raccomandazioni terapeutiche nella TE (Tabella 9). canze fetali e in parte materne nella gravidanza in TE (95, 96). Il concepimento e la prosecuzione della gravidanza, dunque, alla luce di quanto riportato, non vanno scoraggiati in relazione alla semplice esistenza della TE, e la stretta collaborazione tra Ematologo e Ginecologo è cruciale per l’ottimizzazione del percorso assistenziale in tali situazioni complesse. Lo studio osservazionale prospettico del RIT contribuirà ulteriormente a identificare eventuali fattori prognostici per il feto e per la madre, sia sul versante dei parametri clinico-biologici pre-gravidanza sia sul versante dei trattamenti durante il concepimento e la gravidanza (22, 95). ■ GRAVIDANZA ■ PROSPETTIVE La gravidanza in TE è un’evenienza rara ma non rarissima, se si considera che il 10-15% dei pazienti che giungono alla diagnosi sono donne in età fertile (11, 22). In vari studi retrospettivi, le gravidanze ad esito sfavorevole per il feto oscillano tra il 30 e il 40%, con netta prevalenza degli aborti spontanei nel primo trimestre, mentre le complicanze materne gravidiche e post-gravidiche sono inferiori al 10% (93-96). Non esistono dati controllati sull’incidenza di aborti precocissimi potenzialmente imputabili ad un trattamento con farmaci citotossici durante il concepimento e, pertanto, è ovvia la raccomandazione cautelativa di programmare la gravidanza attuando un adeguato wash-out farmacologico (93-96). Sul ruolo protettivo dell’ASA nei confronti del feto esistono dati non concordanti (93-97), anche se in alcune ampie casistiche esso è tuttaltro che provato (95, 96). In ogni caso, nella gravidanza in TE il trattamento con ASA a bassa dose, per prassi consolidata e formalizzata, è ancora attuato in circa il 60% dei casi (93-97). Il trattamento con IFN durante la gravidanza sembra associato ad un elevato vantaggio, con frequenza di nati vivi superiore al 90% (96, 98). L’IFN, farmaco non leucemogeno che non attraversa la placenta, è infatti l’unico citoriduttivo raccomandato per pazienti ad elevato rischio per elevata piastrinosi, precedenti trombosi e altri fattori generali di rischio trombotico (21, 93-96, 98). La mutazione JAK2 V617F è stata recentemente segnalata quale fattore di rischio per compli- Le prospettive di miglioramento dell’attività clinico-assistenziale e scientifica in tema di TE sono importanti perché, mai come in questi ultimi anni, si è registrato un così vivo interesse dei Cultori della materia. Tale progresso si sta realizzando lungo i seguenti più promettenti percorsi: - Affinamento della diagnostica con valorizzazione della istopatologia del midollo osseo e delle indagini genetiche e molecolari, con particolare attenzione alle mutazioni fisiopatologicamente più rilevanti. - Applicazione sistematica e controllata dei criteri diagnostici già identificati al maggior numero di pazienti osservati presso le varie istituzioni assistenziali nazionali, grazie al coinvolgimento delle Società Scientifiche, dei Gruppi di Studio e dei Registri di patologia tra cui il RIT. - Acquisizione prospettica controllata di dati clinico-biologici, alla diagnosi e nel follow-up, per la identificazione di precisi fattori prognostici e per la verifica della aderenza alle linee guida terapeutiche, anche con l’ausilio del RIT. - Conduzione di studi prospettici per la valutazione controllata dei farmaci convenzionali e, soprattutto, dei nuovi farmaci molecolarmente mirati. Ringraziamenti Un grazie vivissimo va a tutti gli amici che partecipando entusiasticamente ai lavori del RIT hanno consentito l’acquisizione dei dati ampiamente utilizzati in questa rassegna. 67 68 Seminari di Ematologia Oncologica ■ BIBLIOGRAFIA 1. Epstein E, Goedel A. Hamorrhagische thrombozythämie bei vascularer schrumpfmilz. Virchows Archiv A Pathol Anat Histopathol. 1934; 293: 33. 2. Dameshek W. Some speculations on the myeloproliferative syndromes. Blood. 1951; 6: 372. 3. Fialkow PJ, Faguet GB, Jacobsen RJ, et al. Evidence that essential thrombocythemia is a clonal disorder with origin in a multipotent stem cell. Blood. 1981; 58: 916. 4. Imbert M, Pierre R, Thiele J, et al. Essential thrombocythaemia. In: Jaffe ES, Harris NL, Stein H, Vardiman JW, editor. World Health Organization Classification of Tumours Pathology and genetics of tumours of haematopoietic and lymphoid tissues. Lyon, IARC press; 2001; 39-41. 5. Thiele J, Kvasnicka HM, Facchetti F, et al. 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