di Ematologia Oncologica - Società Italiana di Ematologia

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di Ematologia Oncologica - Società Italiana di Ematologia
Editor in chief
Giorgio Lambertenghi Deliliers
Anno 5
Numero 1-3
2008
Seminari
di Ematologia
Oncologica
NEL PROSSIMO NUMERO
MIELOMA MULTIPLO
Fisiopatologia •
Clinica e terapia nel giovane •
Clinica e terapia nell’anziano •
Complicanze: aspetti clinici •
e terapeutici
Neoplasie
Megacariocitiche
EDIZIONI
INTERNAZIONALI srl
Edizioni Medico Scientifiche - Pavia
Neoplasie
Megacariocitiche
Diagnosi Istologica
della Trombocitemia Essenziale
Vol. 5 - n. 1-3 - 2008
5
UMBERTO GIANELLI, ALESSIA MORO,
FEDERICA SAVI, LEONARDO BOIOCCHI,
EMANUELA BONOLDI
Editor in Chief
Giorgio Lambertenghi Deliliers
Università degli Studi, Milano
Editorial Board
Sergio Amadori
Università degli Studi Tor Vergata, Roma
Mario Boccadoro
Università degli Studi, Torino
Citogenetica e Biologia
Molecolare della Trombocitemia
Essenziale
Alberto Bosi
Università degli Studi, Firenze
Federico Caligaris Cappio
Università Vita e Salute, Istituto San Raffaele, Milano
17
PAOLO BERNASCONI
Antonio Cuneo
Università degli Studi, Ferrara
Marco Gobbi
Università degli Studi, Genova
Mario Petrini
Università degli Studi, Pisa
Giovanni Pizzolo
Università degli Studi, Verona
Leucemie Megacariocitiche
37
FRANCESCO ALBANO
Giorgina Specchia
Università degli Studi, Bari
Direttore Responsabile
Paolo E. Zoncada
Registrazione Trib. di Milano n. 532
del 6 settembre 2007
Clinica e Terapia
della Trombocitemia Essenziale
LUIGI GUGLIOTTA
EDIZIONI
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Seminari
2
Periodicità
Quadrimestrale
Scopi
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di Ematologia
Oncologica
Periodico di aggiornamento
sulla clinica e terapia
delle emopatie neoplastiche
Bibliografia
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il sito “International Committee of Medical Journal Editors Uniform
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Sample References”.
Es. 1 - Articolo standard
1. Bianchi AG, Rossi EV. Immunologic effect of donor lymphocytes in bone marrow transplantation. N Engl J Med. 2004; 232:
284-7.
Es. 2 - Articolo con più di 6 autori (dopo il 6° autore et al.)
1. Bianchi AG, Rossi EV, Rose ME, Huerbin MB, Melick J, Marion
DW, et al. Immunologic effect of donor lymphocytes in bone marrow transplantation. N Engl J Med. 2004; 232: 284-7.
Es. 3 - Letter
1. Bianchi AG, Rossi AV. Immunologic effect of donor lymphocytes
[Letter]. N Engl J Med. 2004; 232: 284-7.
Es. 4 - Capitoli di libri
1. Bianchi AG, Rossi AV. Immunologic effect of donor lymphocytes. In: Caplan RS, Vigna AB, editors. Immunology. Milano:
MacGraw-Hill; 2002; p. 93-113.
Es. 5 - Abstract congressi (non più di 6 autori)
1. Bianchi AG, Rossi AV. Immunologic effect of donor lymphocytes
in bone marrow transplantation [Abstract]. Haematologica.
2002; 19: (Suppl. 1): S178.
Ringraziamenti
Riguarda persone e/o gruppi che, pur non avendo dignità di AA.,
meritano comunque di essere citati per il loro apporto alla realizzazione dell’articolo.
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Editoriale
GIORGIO LAMBERTENGHI DELILIERS
Università degli Studi di Milano
U.O. Ematologia 1 - Centro Trapianti di Midollo
Fondazione IRCCS Ospedale Maggiore Policlinico,
Mangiagalli e Regina Elena
Seminari di Ematologia Oncologica si ripresenta, dopo una breve pausa e con una nuova veste
editoriale, con l’obiettivo di riportare opinioni e
revisioni critiche aggiornate sui più recenti progressi nella clinica e nella terapia delle emopatie
neoplastiche.
L’Editorial Board desidera ringraziare Celgene,
azienda farmaceutica multinazionale leader nel
campo della ricerca farmacologica, per il supporto determinante e per la sensibilità dimostrata alla
diffusione di una rivista in lingua italiana, il cui
scopo è essenzialmente educativo.
Il numero che viene presentato per l’annata 2008
è dedicato alla patologia neoplastica della linea
megacariocitaria, che nel passato ha suscitato
incertezze e interrogativi per carenza di conoscenze biologiche. Negli ultimi anni il quadro è
sostanzialmente mutato grazie alla diffusione
della biopsia osteomidollare che nella tromboci-
temia essenziale ha contribuito ad una revisione
dei criteri diagnostici e alla differenziazione con
altre sindromi mieloproliferative. Analogamente il
recente riscontro di alterazioni citogenetiche ha
in parte chiarito la sua patogenesi e nello stesso
tempo ha permesso di identificare quelle mutazioni fisiopatologicamente più rilevanti che, insieme ai fattori prognostici ormai consolidati e condivisi, permettono di valutare il rischio clinico in
senso trombotico o emorragico, nonché di comprendere i meccanismi genetici della sua evoluzione in leucemia megacariocitica, emersi dai
recenti studi sui giovani pazienti affetti da sindrome di Down. L’acquisizione di tutte queste nuove
informazioni ha avuto importanti riflessi nella formulazione di linee guida volte a modificare l’approccio terapeutico delle neoplasie megacariocitiche, anche con l’ausilio dei nuovi farmaci molecolarmente mirati.
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Diagnosi Istologica
della Trombocitemia
Essenziale
Umberto Gianelli
UMBERTO GIANELLI, ALESSIA MORO, FEDERICA SAVI, LEONARDO BOIOCCHI,
EMANUELA BONOLDI
Cattedra di Anatomia Patologica, Dipartimento di Medicina, Chirurgia e Odontoiatria,
Università degli Studi di Milano, A.O. San Paolo, Milano e IRCCS Fondazione Ospedale Maggiore Policlinico,
Mangiagalli e Regina Elena, Milano
■ INTRODUZIONE
La Trombocitemia Essenziale (TE) è un disordine mieloproliferativo clonale che interessa principalmente la linea megacariocitaria, con piastrinosi persistente e manifestazioni cliniche di tipo
trombotico-emorragico.
Storicamente la TE è stata indicata con diversi
nomi: Trombocitemia/Trombocitosi Emorragica,
Trombocitemia primitiva o Trombocitemia idiopatica. La malattia venne descritta per la prima
volta nel 1934 da Epstein e Goedel come “una
Trombocitemia Emorragica in un caso di atrofia
vascolare splenica indotta da trombosi”.
Venti anni più tardi, grazie al contributo di
Dameshek (1), la TE venne inclusa nell’ambito
delle sindromi mieloproliferative, insieme alla
Leucemia Mieloide Cronica (LMC), alla Policitemia Vera (PV) ed alla Mielofibrosi Idiopatica
Cronica (MFIC).
Un primo inquadramento diagnostico della
malattia si ebbe tuttavia solo nel 1986: il
Polycythemia Vera Study Group (PVSG) (2-4)
Indirizzo per la corrispondenza
Umberto Gianelli
Cattedra di Anatomia Patologica,
DMCO, A. O. San Paolo
Via Di Rudinì, 8 - 20142 Milano
E-mail: [email protected]
definì la TE come un disordine mieloproliferativo, la cui principale manifestazione clinica era
un marcato incremento della conta piastrinica.
I criteri indispensabili per la diagnosi erano principalmente clinici e le alterazioni istologiche del
midollo osseo venivano considerate solo marginalmente.
Con la diffusione della biopsia osteomidollare
(BOM) nella diagnostica ematologica, grazie principalmente ai lavori di Georgii et al. (5, 6) e di
Thiele et al. (7, 8), negli anni Novanta vennero
identificate le alterazioni istologiche caratteristiche della TE.
Tali lavori rappresentano le basi istologiche della classificazione delle malattie mieloproliferative croniche proposta dalla Organizzazione
Mondiale della Sanità (OMS) nel 2001 (9) e recentemente aggiornata (10).
■ DIAGNOSI ISTOLOGICA DI TE:
DAI CRITERI DEL PVSG ALLA
CLASSIFICAZIONE OMS (2001)
Poichè i criteri diagnostici utilizzati dal PVSG
(Tabella 1) erano sostanzialmente criteri di esclusione, che consideravano solo marginalmente
l’istologia del midollo osseo, diversi ematopatologi hanno tentato di identificare eventuali parametri morfologici “positivi” per la diagnosi di TE.
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Seminari di Ematologia Oncologica
1. Piastrine >600x109/L
2. Emoglobina <13 g/dL o valori normali di massa eritrocitaria
3. Depositi di ferro identificabili nel midollo osseo o
assenza di risposta alla terapia marziale
4. Assenza del cromosoma Philadephia e assenza
molecolare del gene ibrido bcr/abl
5. Fibrosi collagene nel midollo osseo:
a) Assente
b) Inferiore ad 1/3 della BOM in assenza di splenomegalia e di reazione leuco-eritroblastica
6. Assenza di dimostrabili cause di piastrinosi
TABELLA 1 - Criteri diagnostici per la diagnosi di Trombocitemia
Essenziale secondo il PVSG.
I principali contributi in questo senso derivano
dal gruppo di Cologne (11-13). Ad esempio, in
un lavoro retrospettivo del 2003 (14), condotto
su di una serie di 272 casi di TE classificati
secondo i criteri del PVSG, sono state studiate
le caratteristiche morfologiche del midollo osseo,
analizzando la distribuzione in cieco di 16
variabili considerate utili nella diagnosi di malattia mieloproliferativa cronica, tra cui la cellularità midollare in relazione all’età del paziente, la
quantità e le caratteristiche delle tre serie emopoietiche e la fibrosi reticolinica.
Delle serie eritropoietica e granulopoietica è stato valutato principalmente il grado di maturità,
mentre per i megacariociti la modalità di aggregazione (formazione e tipologia dei clusters), le
dimensioni cellulari e la morfologia nucleare
(nuclei iperlobati, nuclei vescicolosi, nuclei nudi).
Sulla base delle caratteristiche considerate, sono
stati identificati tre principali patterns istologici
definiti dagli Autori: TE vera (98 pazienti), fase
prefibrotica della MFIC (136 pazienti) e fase fibrotica iniziale della MFIC (38 pazienti). I criteri istologici utili per differenziare i tre patterns morfologici sono risultati la quantità e le caratteristiche morfologiche dei megacariociti (in particolare la presenza di forme giganti e di nuclei vescicolosi o iperlobati) e la fibrosi reticolinica. La rivalutazione dei dati clinici in considerazione di questi tre patterns ha dimostrato la coerenza di tale
distinzione istologica: in particolare sono risultate significative le differenze nella evoluzione
della fibrosi midollare e nella sopravvivenza dei
pazienti.
Sulla base di questo e di altri lavori sono stati
pertanto definiti dall’OMS i criteri diagnostici per
la diagnosi di Trombocitemia essenziale.
■ DIAGNOSI ISTOLOGICA DI TE
SECONDO LA CLASSIFICAZIONE
OMS (2001)
L’OMS definisce la TE (15) come una malattia
mieloproliferativa clonale che interessa principalmente la linea megacariocitaria, caratterizzata da
piastrinosi persistente, incremento della quota
di megacariociti giganti nel midollo osseo e da
manifestazioni cliniche di tipo trombotico emorragico. In accordo con questa definizione,
l’OMS propone i criteri positivi ed i criteri di esclusione per la diagnosi di TE (Tabella 2).
Criteri positivi
1. Piastrinosi >600x109/L
2. Biopsia osteomidollare: proliferazione principalmente a carico della serie piastrinopoietica, con incremento del numero di megacariociti giganti, maturi.
Criteri di esclusione
1. Nessuna evidenza di Policitemia Vera
a) Normale massa eritrocitaria; Hb <18.5 g/dL (uomo)
e 16.5 g /dL (donna)
b) Depositi di ferro identificabili nel midollo osseo,
ferritina sierica normale, MCV normale
c) Se la precedente condizione non è rispettata,
assenza di incremento della terapia marziale ad
incrementare la massa eritrocitaria o l’Hb ai livelli
della PV
2. Nessuna evidenza di Leucemia Mieloide Cronica: non
evidenza di cromosoma Philadelphia; non evidenza
di gene di fusione BCR-ABL
3. Nessuna evidenza di Mielofibrosi Idiopatica Cronica
a) Fibrosi collagene assente
b) Fibrosi reticolinica minima o assente
4. Nessuna evidenza di Sindrome Mielodisplastica
a) No del(5q), t(3;3)(q21;q26), inv(3)(q21;q26)
b) No significativa displasia dei granulociti, assenza
o presenza di solo pochi micromegacariociti
5. Nessuna evidenza di piastrinosi secondaria a:
a) infiammazione o infezione
b) neoplasia
c) precedente splenectomia
TABELLA 2 - Criteri diagnostici per la diagnosi di Trombocitemia
Essenziale secondo l’OMS (2001).
Diagnosi Istologica della Trombocitemia Essenziale
FIGURA 1 - Trombocitemia Essenziale: la freccia indica un
nucleo iperlobato e la tendenza dei megacariociti a formare
aggregati lassi.
FIGURA 2 - Trombocitemia Essenziale: megacariociti giganti con
nuclei iperlobati. Questo aspetto morfologico dei megacariociti
consente di distinguere la TE dai casi di piastrinosi secondaria.
In circa la metà dei casi di TE i pazienti sono asintomatici nel momento in cui si riscontra casualmente, durante controlli di routine, l’incremento della conta piastrinica. Al contrario, dal 20%
al 50% dei pazienti manifesta fenomeni trombotici od emorragici alla diagnosi. L’aumento della conta piastrinica si associa a valori di globuli bianchi nei limiti della norma, o solo lievemente aumentati, ed a valori di emoglobina nei limiti per età.
Lo striscio di sangue periferico evidenzia una
marcata piastrinosi, con frequente anisocitosi e
forme da molto piccole ad elementi grandi e
giganti. Non è presente leuco-eritroblastosi.
La BOM mostra midollo normocellulare per età
o cellularità solo modicamente aumentata. Il più
importante aspetto morfologico è rappresentato dalla marcata proliferazione di megacariociti
di dimensioni grandi e giganti, sparsi o in clusters lassi (n.d.a.: aggregati di almeno 3 megacariociti raggruppati, senza che i contorni cellulari siano direttamente in contatto, con interposte cellule emopoietiche), con citoplasma
abbondante, maturo e nuclei iperlobati (Figura
1 e 2). Le serie eritropoietica e granulopoietica
sono di solito prive di alterazioni.
Non si osserva un incremento del numero di
mieloblasti. I midolli di pazienti che hanno manifestato fenomeni emorragici possono mostrare un lieve incremento della quota di precursori eritroidi. La trama reticolinica appare norma-
le o solo lievemente aumentata. In proposito,
va sottolineato che ogni incremento significativo della trama reticolare esclude la diagnosi
di TE.
Dal punto di vista citogenetico, non esistono
anomalie cromosomiche specifiche per la TE ed
alterazioni del cariotipo sono poco frequenti (510%) e consistono in del (13q22), +8 e +9.
■ REAZIONI DEI CLINICI E DEGLI
ANATOMO-PATOLOGI ALLA
CLASSIFICAZIONE DELL’OMS
(2001)
Diversi gruppi hanno pubblicato, negli ultimi anni,
lavori di revisione casistica, comparando i criteri
diagnostici del PVSG con quelli dell’OMS, al fine
di definire meglio gli aspetti morfologici, le categorie diagnostiche ed i fattori prognostici.
Uno studio multicentrico osservazionale è stato condotto dal gruppo di Cologne nel 2003 (16)
su 839 pazienti adulti, affetti da malattia mieloproliferativa cronica con conta piastrinica superiore a 600x109/L. Di questa serie di pazienti, 439
potevano essere classificati come affetti da TE
applicando strettamente i criteri del PVSG. Al
contrario, utilizzando i criteri OMS, gli stessi venivano classificati come affetti da TE (162 pazienti), da MFIC in fase prefibrotica (184 pazienti) e
da MFIC in fase fibrotica (137 pazienti).
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Seminari di Ematologia Oncologica
Allorchè si applicavano i criteri del PVSG, la perdita di aspettativa di vita specifica per malattia
dei pazienti affetti da TE era del 16,5%, mentre
si riduceva significativamente all’8,9% applicando i criteri dell’OMS.
In un lavoro successivo di Florena et al. del 2004
(17), le BOM di 142 pazienti con diagnosi di TE
(sec. PVSG) sono state riclassificate in base ai
criteri OMS come TE (21%), MFIC grado-0
(30%), MFIC grado-1 (34%), MFIC grado-2 (10%)
e sono stati identificati i parametri biologici con
differente espressione nei casi di TE e MFIC, quali il clustering index dei megacariociti (indice che
valuta la tendenza dei megacariociti ad aggregarsi), la densità microvascolare, la quota di precursori CD34 (+) e l’indice di proliferazione dei
megacariociti. Risultati sovrapponibili a quelli di
Florena et al. sono stati ottenuti dal nostro gruppo, in un lavoro clinico-patologico retrospettivo
condotto su 116 pazienti affetti da TE secondo
i criteri PVSG, rivalutati alla luce delle indicazioni OMS (18).
La conseguenza principale dell’applicazione
dei criteri istologici OMS, e probabilmente un
motivo di iniziale resistenza ad essa, è stata la
necessità da parte degli ematologi di dovere
riconsiderare le proprie casistiche, riclassificando parte dei loro pazienti come affetti da MFIC
(seppure in fase iniziale) al posto che da TE, con
ovvie conseguenze sulla prognosi e sulla aspettativa di vita.
In particolare, era di difficile acquisizione il concetto, introdotto dalla classificazione OMS, di una
fase pre-fibrotica (fase cellulare) della MFIC, con
caratteristiche cliniche non chiaramente distinguibili da quelle della TE e con un decorso clinico indolente. Un importante lavoro molto
recente di Wilkins BS et al. (19) riesamina l’approccio diagnostico OMS.
Secondo gli Autori, i lavori pubblicati a supporto dei criteri OMS provengono principalmente da
un unico gruppo, sono di tipo retrospettivo, con
parziale sovrapposizione delle casistiche, senza significativi dati clinici e di follow-up e giungono a conclusioni simili. Inoltre mancano della valutazione della riproducibilità interosservatore dei criteri diagnostici proposti.
Pertanto in questo studio vengono rivalutate
secondo l’OMS, da tre esperti emopatologi, le
caratteristiche istologiche di 370 BOM di pazienti affetti da TE (sec. PVSG), arruolati prospetticamente in tre importanti trials clinici.
I risultati dimostrano una significativa variabilità
inter-osservatore, in particolare per quanto
riguarda la diagnosi. La concordanza maggiore
si ottiene valutando parametri generali come la
cellularità complessiva del midollo osseo, il
numero di clusters di megacariociti ed il grado
di fibrosi. Al contrario, la valutazione di parametri individuali quali le caratteristiche morfologiche dei megacariociti e la tipologia dei clusters
risulta eccessivamente variabile tra gli osservatori. Infine, non è stata riscontrata nessuna differenza statisticamente significativa tra i casi che,
dopo la rivalutazione, sono stati classificati come
TE o come fase pre-fibrotica (fase cellulare) della MFIC, in termini di quadro clinico e di laboratorio alla diagnosi, di stato mutazionale di
JAK2, di sopravvivenza, di fenomeni tromboemorragici maggiori, di eventuale evoluzione
mielofibrotica.
■ RAZIONALE PER LA REVISIONE
DEI CRITERI DIAGNOSTICI
DELLA TE
I membri del comitato per la revisione della
Classificazione OMS delle Neoplasie Emopoietiche e Linfoidi, insieme ai colleghi dell’International Working Group for Myelofibrosis
Research and Treatment (IWG-MRT), del
Myeloproliferative Diseases-Research Consortium (MPD-RC) e dell’European Collaboration
on Low-Dose Aspirin in Polycythemia Vera
(ECLAP), in un meeting che si è svolto a Chicago
a marzo del 2007, hanno presentato al Clinical
Advisory Committee per la revisione della classificazione OMS delle neoplasie mieloidi un
documento contenente i propositi ed il razionale per la revisione della classificazione (20).
La spinta maggiore alla revisione dei criteri diagnostici deriva dalle recenti scoperte riguardanti la patogenesi molecolare delle malattie mieloproliferative croniche BCR-ABL-negative (21).
Agli inizi del 2005 diversi gruppi hanno evidenziato che una mutazione somatica a carico del
gene Janus kinase 2 (JAK2617V >F, esone 14)
Diagnosi Istologica della Trombocitemia Essenziale
è riscontrabile nel 95% dei casi di PV e nel 50%
circa dei casi di TE e di MFIC (21-25).
Più recentemente è stato riportato che una mutazione a carico del gene MPL (MPL515W >L7K)
è riscontrabile in <5% dei pazienti affetti da MFIC
o da ET (26) e che nei pazienti affetti da PV
JAK2617V >F-negativi si possono riscontrare
mutazioni di JAK2 a carico dell’esone 12 (27).
Da ultimo, la frequenza di associazione tra le
mutazioni di JAK2 e le malattie mieloproliferative croniche BCR-ABL-negative, unitamente alla
osservazione che non si ritrovano mutazioni di
questo gene in condizioni reattive, ha portato ad
ipotizzare una classificazione molecolare di
queste malattie (28).
Inoltre, una problematica di tipo clinico che ha
indotto a modificare i criteri diagnostici OMS
riguarda la conta piastrinica. Diversi Autori hanno riconosciuto che, utilizzando come soglia per
la diagnosi di TE un valore di conta piastrinica
superiore a 600x109/L piastrine, si corre il rischio
di non diagnosticare le fasi precoci della malattia, quando il livello piastrinico è inferiore ma i
pazienti sono pur sempre a rischio di manifestazioni trombotico-emorragiche. Pertanto, considerando che il 95° percentile relativo ai valori normali di conta piastrinica correlati al sesso e all’età
del paziente è inferiore alle 400 x 109/L piastrine, si è proposto di ridurre il livello soglia per la
diagnosi di TE ad un valore di 450x109/L piastrine (criterio n. 1). È stato inoltre proposto di eliminare dalla lista dei criteri diagnostici di TE il concetto di “criteri di esclusione” presenti nella versione OMS 2001 (Tabella 2) e di sostituirli con criteri positivi.
■ DIAGNOSI DI TE SECONDO
LA CLASSIFICAZIONE OMS (2008)
La classificazione OMS (2008) definisce la TE (29)
una neoplasia mieloproliferativa cronica che interessa in maniera primaria la serie megacariocitica, caratterizzata da una piastrinosi persistente con conta piastrinica superiore a 450x109/L
piastrine, da un incremento del numero di
megacariociti maturi di dimensioni giganti nel
midollo osseo e dalla presenza di manifestazioni cliniche di tipo trombotico-emorragico. La
1. Piastrinosi >450x109/L
2. Biopsia osteomidollare: proliferazione principalmente a carico della serie piastrinopoietica; incremento
del numero di megacariociti giganti, maturi; no significativo incremento o “left-shift” delle serie granulopoietica o eritropoietica.
3. Non adesione ai criteri diagnostici OMS per la diagnosi di Policitemia Vera, di Mielofibrosi primaria, di
Leucemia Mieloide Cronica BCR-ABL-positiva, di
Sindrome Mielodisplastica o di altra Neoplasia mieloide.
4. Presenza della mutazione JAK2V617F o di un altro
indicatore di clonalità o, in assenza di JAK2V617F,
nessuna evidenza di piastrinosi reattiva.
TABELLA 3 - Criteri diagnostici per la diagnosi di Trombocitemia
Essenziale secondo l’OMS (2008): la diagnosi richiede il rispetto
di tutti e quattro i criteri.
malattia mostra due picchi di incidenza: uno nella 3a decade di vita, con predilezione per il sesso femminile e l’altro, maggiore, nella 5a-6a decade di vita, senza alcuna predilezione di sesso.
Circa la metà dei pazienti risulta asintomatica alla
diagnosi. Nei restanti casi la malattia viene diagnosticata a seguito di manifestazioni trombotico-emorragiche: attacchi ischemici transitori,
ischemie dei piccoli vasi superficiali con parestesie e/o gangrene, trombosi venose profonde
a livello delle vene spleniche ed epatiche con
manifestazioni cliniche tipo sindrome di BuddChiari (30), manifestazioni emorragiche a carico
delle mucose del tratto gastro-enterico e respiratorio.
Tra i criteri indispensabili per la diagnosi di TE
viene inclusa l’analisi morfologica del midollo
osseo, che presenta caratteristiche analoghe a
quelle descritte nella precedente classificazione.
Vengono inoltre introdotti come elementi diagnostici positivi l’assenza di criteri WHO per la diagnosi delle altre neoplasie mieloidi (criterio n. 3),
la dimostrazione di mutazioni di JAK2 o di altri
marcatori di clonalità e, in assenza di essi,
l’esclusione delle cause di piastrinosi secondaria (criterio n. 4) (Tabella 3).
Le caratteristiche descritte consentono di distinguere la TE dalle altre neoplasie mieloproliferative, dalle condizioni reattive e dalle Sindromi
Mielodisplastiche.
Infatti, la presenza di diseritropoiesi o disgranulopoiesi significative orienta per una Sindrome
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Seminari di Ematologia Oncologica
Criteri necessari
1. Documentazione di una precedente diagnosi di
Trombocitemia Essenziale, definita secondo i criteri
OMS.
2. Fibrosi midollare di grado 2-3 (su una scala da 0 a 3)
o di grado 3-4 (su una scala tra 0 e 4).
Criteri aggiuntivi (necessari almeno 2)
1. Anemia* o una diminuzione dell’emoglobina ³2 g/dL
rispetto ai valori basali.
2. Screzio leuco-eritroblastico nel sangue periferico
3. Splenomegalia ingravescente: aumento della splenomegalia palpabile oltre i 5 cm rispetto ai valori basali (distanza dal margine costale di sinistra) o comparsa di una splenomegalia palpabile
4. Aumento del LDH (al di sopra dei valori di riferimento)
5. Comparsa >1 di 3 sintomi costituzionali: perdita di più
del 10% del peso corporeo in 6 mesi, sudorazione notturna, febbre (>37,5°C).
*Anemia al di sotto dei valori di riferimento per età, sesso ed altitudine.
TABELLA 4 - Criteri diagnostici per la diagnosi di Mielofibrosi postTrombocitemia secondo l’OMS (2008).
Mielodisplastica; Megacariociti di media taglia, a
nucleo Monolobato, per Sindrome Mielodisplastica
con del(5q) e megacariociti di piccole dimensioni
per una Leucemia Mieloide Cronica.
Nella TE non sono state identificate anomalie citogenetiche specifiche: il 40-50% dei casi risulta
JAK2V617F-mutato e circa l’1% è MPLW515K/L
mutato. Nessuna di queste mutazioni è stata
identificata in casi di trombocitosi reattiva.
Sono state inoltre riportate anomalie citogenetiche isolate: +8, anomalie 9q e del(20q).
L’evoluzione della malattia è indolente, con lunghi periodi asintomatici.
La sopravvivenza media è valutata intorno ai 1015 anni e, considerando che la diagnosi è di solito posta in età adulta o avanzata, l’aspettativa
di vita dei pazienti è paragonabile a quella della
popolazione generale.
Si ammette che una strettissima minoranza di
pazienti possa sviluppare una mielofibrosi posttrombocitemica, la cui diagnosi viene rigorosamente definita dall’OMS (Tabella 4), per evitare
errori diagnostici con la MFP.
La progressione in Sindrome Mielodisplastica o
in Leucemia Mieloide Acuta è descritta in meno
del 5% dei pazienti e viene di solito correlata alle
terapie eseguite.
■ DIAGNOSI DIFFERENZIALE
CON LA FASE CELLULARE
DELLA MIELOFIBROSI IDIOPATICA
CRONICA
Uno dei problemi maggiori nella diagnostica
istologica delle malattie mieloproliferative croniche, e certamente una delle fonti maggiori di
discussione, è la diagnosi differenziale tra TE e
MFIC.
Prima della classificazione OMS, i criteri per la
diagnosi di MFIC erano ben codificati e condivisi (31), ma consentivano di porre diagnosi
quando la malattia era già in fase avanzata, in
presenza di fibrosi collagene e praticamente in
uno stadio irreversibile.
Il concetto di “stadio iniziale (pre-fibrotico)” della MFIC è stato introdotto da Thiele et al. nel
1999, che ne ha descritto le principali caratteristiche (32, 33). I pazienti possono mostrare una
modesta leucocitosi e/o una lieve anemia refrattaria alla terapia, eventualmente associate a
modesta splenomegalia.
Lo striscio di sangue periferico evidenzia qualche eritrocita a goccia, con presenza di rari precursori eritroidi e mieloidi, senza un vero screzio leuco-eritroblastico.
La BOM è caratterizzata da un midollo modicamente o chiaramente ipercellulare, con iperplasia della serie granulopoietica, con incremento
dei precursori immaturi, una serie eritropoietica
modicamente ridotta e megacariociti aumentati di numero, con tendenza a formare clusters
densi (aggregati di almeno 3 megacariociti con
contorni cellulari direttamente in contatto), con
frequenti aspetti displastici (asincronia nucleocitoplasmatica), forme a nucleo vescicoloso
(cloud-like) e nuclei nudi (Figura 3 e 4).
La trama reticolinica è normale o solo modicamente aumentata.
La classificazione OMS ha fatto proprie le indicazioni del gruppo tedesco definendo i criteri per
la diagnosi di fase pre-fibrotica (fase cellulare)
della MFIC (34) (Tabella 5).
Come ricordato precedentemente, abbiamo
condotto (18) un lavoro clinico-patologico
retrospettivo monocentrico su 116 pazienti
affetti da TE (secondo i criteri PVSG) con lo scopo di revisionare le BOM alla luce delle indica-
Diagnosi Istologica della Trombocitemia Essenziale
FIGURA 3 - Mielofibrosi Idiopatica Cronica: aggregato denso di
megacariociti, di cui alcuni mostrano i caratteristici nuclei
vescicolosi ed ipolobati.
Criteri clinici
Criteri Morfologici
Milza e fegato:
- assenza o lieve
epato-splenomegalia
Sangue periferico:
- assente o lieve
leuco-eritroblastosi
- assente o minima poichilocitosi
- assenza o ridotto numero
di dacriociti
Parametri ematologici:
- lieve anemia
- lieve - moderata
leucocitosi
- lieve - moderata
piastrinosi
Midollo osseo:
- ipercellularità
- proliferazione della serie
granulopoietica
- proliferazione ed atipia
dei megacariociti (clustering,
lobulazione nucleare anomala,
nuclei nudi)
- assente o minima fibrosi reticolinica
TABELLA 5 - Criteri diagnostici per la diagnosi di fase pre-fibrotica
(fase cellulare) della Mielofibrosi Idiopatica Cronica secondo
l’OMS (2001).
zioni OMS, esaminare la distribuzione delle principali caratteristiche morfologiche utili per la
diagnosi ed identificare patterns morfologici
(insieme di più caratteristiche morfologiche) utili nella diagnosi differenziale con la fase cellulare della MFIC.
La revisione dei preparati istologici ha permesso di riclassificare i pazienti come: TE (19%),
MFIC-0 (21%), MFIC-1 (37%), MFIC-2 (12%), PV
in fase latente (8%) e malattia mieloproliferativa
cronica non ulteriormente classificabile (3%).
Sulla base di questa rivalutazione, è stata rile-
FIGURA 4 - Mielofibrosi Idiopatica Cronica: “cluster” denso di
megacariociti, disposto in sede paratrabecolare, associato a
marcata proliferazione granulocitaria.
vata una differenza statisticamente significativa
tra l’età media dei pazienti affetti da TE e quelli affetti da MFIC (54,7 vs 59,13, p=0,03).
La valutazione semiquantitativa dei parametri
morfologici che caratterizzano le diverse CMPD
ha evidenziato differenze significative tra TE e
MFIC. In particolare, nella MFIC la cellularità
midollare è lievemente o moderatamente aumentata, a causa dell’incremento della granulopoiesi e della megacariopoiesi; i megacariociti tendono ad essere di taglia variabile, da piccoli a
grandi/giganti, con difetti di maturazione, nuclei
vescicolosi e nuclei nudi, sono aggregati in clusters densi ed il trabecolato osseo risulta rimaneggiato.
Nella TE invece la cellularità midollare risulta nei
limiti per età o solo lievemente aumentata; i
megacariociti hanno nuclei iperlobati e sono
aggregati in clusters lassi.
Nella MFIC in fase fibrotica le alterazioni che
caratterizzano la fase prefibrotica sono ulteriormente accentuate, il numero dei megacariociti
aumenta, come anche le alterazioni displastiche
e l’entità della fibrosi reticolinica, mentre si riduce la serie eritropoietica.
Successivamente, allo scopo di identificare
patterns istologici utili nella diagnosi differenziale tra le due malattie, abbiamo esaminato l’associazione di diversi parametri morfologici.
La presenza di clusters lassi di megacariociti,
prevalentemente grandi e giganti, con nuclei iperlobati caratterizza la TE.
11
12
Seminari di Ematologia Oncologica
Cellularità midollare
Serie eritropoietica
Serie granulopoietica
Serie megacariopoietica
- clusters:
Lassi
Densi
- forme grandi/giganti
Nuclei iperlobati
Nuclei vescicolosi
Difetti di maturazione
Trama reticolare
TE
MFIC
fase prefibrotica
n/+
n
n
++ / +++
+ / ++
-/n
+ /++
++ / +++
caratteristici
assenti
++ / +++
++ / +++
occasionali
occasionali
n
presenti
caratteristici
++ / +++
+ / ++
+ / ++
+ / ++
+
Legenda: (-) ridotto, (n) normale, (+) incremento lieve, (++) incremento moderato, (+++) incremento marcato.
TABELLA 6 - Criteri istologici per la diagnosi differenziale tra la
Trombocitemia Essenziale e la fase prefibrotica della Mielofibrosi
Idiopatica Cronica.
Al contrario, la presenza di clusters densi di
megacariociti, con difetti di maturazione e
nuclei vescicolosi distingue la fase prefibrotica
della MFIC dalla TE.
Nell’ambito della MFIC, l’ipercellularità del midollo osseo, la proliferazione di granulociti e l’incremento della fibrosi reticolinica caratterizzano la
fase fibrotica della MFIC e la distinguono dalla
fase prefibrotica (Tabella 6).
■ LA DIAGNOSI DIFFERENZIALE
CON LA FASE PRE-POLICITEMICA
DELLA POLICITEMIA VERA
In circa il 10-15% dei casi la PV in fase precoce può manifestarsi con una piastrinosi importante, tale da mimare la TE.
L’identificazione di questa fase della malattia si
deve a Thiele et al. (35) che nel 2005 ha descritto 23 pazienti con piastrinosi e lieve incremento della conta eritrocitaria, associate ad incremento della cellularità midollare, proliferazione
delle serie eritro- e granulopoietica ed incremento del numero di megacariociti, con aspetto tipicamente pleomorfo.
In accordo con tale osservazione, l’OMS definisce la Policitemia Vera (36) come una neopla-
sia mieloproliferativa caratterizzata dall’incremento patologico del numero di globuli rossi, in cui
si possono distinguere tre fasi:
a) una fase prodromica (fase pre-policitemica),
caratterizzata da una incremento lieve, borderline del numero di globuli rossi;
b) una fase di stato della malattia (fase policitemica) in cui si ha il maggiore incremento della massa eritrocitaria;
c) una fase terminale (mielofibrosi post-policitemica) in cui si possono avere anemia, eritropoiesi inefficace, ipersplenismo ed metaplasia mieloide, legate al progressivo incremento della fibrosi midollare.
Il midollo osseo nelle fasi pre-policitemica e policitemica è caratterizzato da una ipercellularità
complessiva, dovuto alla proliferazione delle tre
serie emopoietiche (panmielosi). In particolare,
i megacariociti sono aumentati e formano clusters lassi tipicamente di aspetto pleomorfo (presenza di elementi che mostrano nell’ambito dello stesso aggregato variabilità dimensionale e
morfologica) (Figura 5 e 6).
Dal momento che alla prima descrizione della
fase iniziale della PV da parte di Thiele et al. non
sono stati seguiti altri lavori inerenti questa problematica, molto recentemente abbiamo voluto
studiare i criteri diagnostico-differenziali per
distinguere la fase pre-policitemica della PV (prePV) dalla TE (37).
Abbiamo esaminato 17 pazienti che si presentavano alla diagnosi con una piastrinosi superiore a 600x109/L piastrine e livelli di emoglobina ai limiti superiori della norma o solo lievemente aumentati, ma non diagnostici per PV,
che hanno sviluppato nel corso del follow-up
(mediamente dopo 9 anni) una PV in fase policitemica.
Abbiamo confrontato i parametri clinici, le
caratteristiche morfologiche e molecolari dei
casi con quelle di due gruppi di controllo rappresentati da PV in fase policitemica (n=19) e
da TE (n=14) diagnosticate secondo i criteri
OMS.
Dal punto di vista clinico, una splenomegalia palpabile e/o l’epatomegalia sono risultate più frequenti nei pazienti con pre-PV “precoce” e PV
rispetto ai pazienti con TE.
Dal punto di vista morfologico i casi di pre-PV
Diagnosi Istologica della Trombocitemia Essenziale
FIGURA 5 - Patterns morfologici che contribuiscono alla diagnosi differenziale tra Trombocitemia Essenziale e fase prefibrotica della
Mielofibrosi Idiopatica Cronica e tra Trombocitemia Essenziale e fase pre-policitemica della Policitemia Vera.
FIGURA 6 - Fase pre-policitemica della Policitemia Vera. Si
riconosce un aggregato lasso di megacariociti di aspetto
pleomorfo, in un contesto di iperplasia trilineare (panmielosi).
Cellularità midollare
Serie eritropoietica
- “left shifting”
Serie granulopoietica
- “left shifting”
Serie megacariopoietica
- clusters:
- monomorfi
- polimorfi
- forme grandi/giganti
- forme piccole / medie
Nuclei iperlobati
Nuclei vescicolosi
Difetti di maturazione
Trama reticolare
TE
Pre-PV
n/+
n
a
n
a
++/+++
+/++
+/++
+ / ++
+/++
+ / ++
++/+++
caratteristici
assenti
++/+++
a
++/+++
occasionali
occasionali
n
presenti
caratteristici
++/+++
+/++
+/++
+/++
+/++
+
Legenda: (a) assente, (-) ridotto, (n) normale, (+) incremento lieve, (++) incremento moderato, (+++) incremento marcato.
TABELLA 7 - Criteri istologici per la diagnosi differenziale tra la
Trombocitemia Essenziale e la fase pre-policitemica (iniziale) della
Policitemia Vera.
sono caratterizzati da una cellularità midollare aumentata, con incremento della eritropoiesi e della granulopoiesi complessive, del
numero di proeritroblasti e delle forme mieloidi immature.
I megacariociti risultano maggiormente pleomorfi, con iperlobulazione nucleare, difetti di
maturazione, nuclei vescicolosi e nuclei nudi
(Tabella 7).
La mutazione JAK2V617F è stata riscontrata in
tutti i pazienti con pre-PV, in 18 dei 19 casi di
PV (95%), e in 7 di 13 casi di TE (54%).
Alla luce di tali risultati, abbiamo proposto un
algoritmo diagnostico (Figura 7) utile per differenziare la pre-PV dalla TE.
Secondo tale algoritmo, tutti i casi di piastrinosi (>450 x 109/L) persistente devono essere esaminati per valutare lo stato mutazionale di JAK2.
I pazienti JAK2 (+) possono poi essere classificati valutando la conta eritrocitaria e le caratteristiche morfologiche del midollo osseo.
Infatti, i casi con conta eritrocitaria superiore alla
norma, con un midollo ipercellulare per proliferazione tri-lineare e pleomorfismo dei megacariociti posso essere classificati come “pre-PV
probabile”.
I casi con conta eritrocitaria nei limiti e midollo
osseo con caratteristiche della TE possono essere classificati come TE JAK2 (+).
I casi con caratteristiche intermedie, semplicemente come malattie mieloproliferative croniche
non ulteriormente classificabili.
Analogamente, i pazienti JAK 2 (-) possono essere classificati sulla base della conta eritrocitaria
e delle caratteristiche del midollo osseo come
“verosimili pre-PV”, TE JAK2 (-) e casi inclassificabili, tra i quali si devono escludere le piastrinosi secondarie.
13
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Seminari di Ematologia Oncologica
FIGURA 7 - Algoritmo diagnostico per la diagnosi differenziale tra la Trombocitemia Essenziale e la fase pre-policitemica della Policitemia vera.
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15
17
Citogenetica e
Biologia Molecolare
della Trombocitemia
Essenziale
Paolo Bernasconi
PAOLO BERNASCONI
Dipartimento di Scienze Ematologiche, Pneumologiche, Cardiovascolari dell’Università degli Studi di Pavia,
Unità Operativa di Ematologia, Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo, Pavia
■ INTRODUZIONE
La Trombocitemia Essenziale (TE) fa parte delle
malattie mieloproliferative croniche (MMC), disordini clonali della cellula staminale ematopoietiche.
Le MMC sono caratterizzate da un lungo decorso clinico e da una popolazione clonale che prolifera in modo incontrollato mantenendo la propria capacità differenziativa (1). Nel 1951
Dameshek (2) fu il primo ad apprezzare la significativa sovrapposizione di aspetti clinici e dati di
laboratorio nei pazienti con MMC, leucemia mieloide cronica (LMC) inclusa, e propose che le
MMC fossero malattie strettamente correlate o
addirittura potessero costituire sfaccettature
diverse di una stessa malattia. Le MMC vengono classificate a seconda della linea cellulare che
più intensamente prolifera ed in base ad un insieme di caratteristiche biologiche e cliniche. Tra le
MMC solo la leucemia mieloide cronica (LMC) è
considerata un’entità a sé stante dato che preIndirizzo per la corrispondenza
Paolo Bernasconi
Divisione di Ematologia
IRCCS Policlinico San Matteo
Università degli Studi di Pavia
Piazzale Golgi, 2 - 27100 Pavia
E-mail: [email protected]
senta una particolare anomalia citogenetica, il cromosoma Ph1 prodotto dalla traslocazione
t(9;22)(q34;q11) con conseguente anomalia molecolare consistente nel riarrangiamento BCR-ABL
(3, 4). Caratteristiche cardini delle altre tre classiche MMC, per anni identificate dal termine di
“malattie mieloproliferative croniche Ph1 negative sono una massa eritrocitaria aumentata nella
policitemia vera (PV), un’elevata conta piastrinica nella TE ed una fibrosi midollare nella mielofibrosi idiopatica (MI) (5). Le caratteristiche biologiche condivise dalle tre MMC sono: eccessiva
sensibilità della popolazione clonale a varie citochine (Eritropoietina, GM-CSF e Trombopoietina),
sviluppo di colonie eritroidi endogene, eccessiva
produzione di PRV-1 (“polycythemia rubra vera1”) da parte dei granulociti, bassi livelli di espressione del recettore della trombopoietina (MPL) da
parte dei megacariociti e delle piastrine, assenza di specifici marcatori cromosomici. Dal punto
di vista clinico trombosi ed emorragie sono frequenti nella PV e nella TE. Inoltre, TE e PV possono evolvere in MI e tutte le MMC possono progredire in leucemia acuta mieloide (LAM). Il rischio
di evoluzione a dieci anni è 1% nella TE, 6.3%
nella PV e 8-23% nella MI (5).
Sino a qualche anno fa la diagnosi di questi tre
disordini mieloproliferativi si basava principalmente su un insieme di dati di clinici, di laboratorio e
18
Seminari di Ematologia Oncologica
soprattutto sull’esame istologico del midollo
osseo. L’assenza della traslocazione (9, 22) e del
riarrangiamento BCR-ABL erano e rimangono fondamentali per escludere una diagnosi di LMC,
mentre l’identificazione di un’anomalia cromosomica, dimostrando il carattere clonale della proliferazione cellulare, permette una diagnosi differenziale nei confronti di una trombocitosi, di un’eritrocitosi o di una fibrosi midollare reattive. Tuttavia
nessuna anomalia citogenetica presente nella
popolazione neoplastica è patognomonica di
MMC. Pertanto, la recente dimostrazione che la
maggior parte di questi pazienti presenta una singola mutazione somatica acquisita a carico del
gene JAK2 e che una minor percentuale di pazienti presenta mutazioni acquisite del gene MPL ha
in parte chiarito la patogenesi di tali disordini, ma
ha soprattutto identificato un marcatore molecolare indispensabile per una corretta diagnosi e
responsabile delle modifiche dei criteri diagnostici adottati dalla WHO (6). Inoltre, studi ancor più
recenti indicano che mutazioni diverse di JAK2
sottendono fenotipi diversi di MMC e che la percentuale di alleli mutati e lo stato di eterozigosi/
omozigosi per la mutazione di JAK2 non solo si
correlano ad una diversa diagnosi ma determinano anche un diverso decorso clinico.
In questa breve trattazione verranno descritte le
alterazioni citogenetiche in corso di TE e le mutazioni molecolari osservate in tale disordine mieloproliferativo.
■ ANOMALIE CITOGENETICHE
Le anomalie cromosomiche osservate nella TE
non sono patognomoniche della malattia poten-
do essere riscontrate anche nella PV e nella MI
ed in altri disordini mieloproliferativi. Inoltre, solo
il 5-6% dei pazienti con TE presenta difetti citogenetici clonali che invece si osservano nel 35%
dei pazienti affetti da PV e nel 40% di quelli affetti da MI (7) (Tabella 1). Queste incidenze sono state confermate da un recente studio (8) che ha
anche sottolineato la rilevanza dell’analisi cromosomica convenzionale nella diagnosi di MMC.
Infatti, difetti clonali del cariotipo erano stati identificati nel 10% dei pazienti con diagnosi di sospetta MMC ed erano stati quindi assolutamente
necessari per un corretto inquadramento diagnostico di tali pazienti.
Le alterazioni citogenetiche di più frequente
riscontro nella TE consistono in una delezione delle braccia lunghe dei cromosomi 13 e 20 (13q-,
20q-), in una trisomia 8 (+8), in una duplicazione
delle braccia lunghe del cromosoma 1 ed in anomalie del cromosoma 9. Siccome questi difetti
cromosomici sono di solito presenti come singole anomalie e si sviluppano in pazienti che non
hanno ricevuto chemioterapia, si ritiene che individuino regioni cromosomiche contenenti geni
necessari per la patogenesi della TE. Questa ipotesi è anche corroborata dai dati di citogenetica
molecolare (FISH). Infatti, la FISH in interfase sembra suggerire che la frequenza delle anomalie cromosomiche, soprattutto di delezioni, possa essere decisamente superiore rispetto a quella determinata dalla citogenetica convenzionale. Altre anomalie del cariotipo, come la monosomia o la delezione delle braccia lunghe dei cromosomi 5 e 7
si osservano invece in pazienti sottoposti a chemioterapia e fanno spesso parte di un cariotipo
complesso. Pertanto, si ritiene che tali difetti non
svolgano alcun ruolo nella patogenesi della TE.
Difetto cromosomico
TE
PV
MI
Incidenza complessiva di cariotipi anomali
Delezione 20q
Delezione 13q
Trisomia 8
Trisomia 9
Trisomia 1q
Delezione 7q/monosomia 7
Delezione 5q/Monosomia 5
5.0
0.2
0.7
0.9
0.2
0
0
0
33.7
8.4
3.0
6.9
6.6
3.6
0.9
3.2
39.5
7.1
6.3
5.0
1.0
3.5
3.8
1.5
TABELLA 1 - Incidenza di anomalie cromosomiche a confronto: TE rispetto a PV e MI secondo Bench et al. (7).
Citogenetica e Biologia Molecolare della Trombocitemia Essenziale
L’evoluzione della TE verso un quadro di MI o di
LAM comporta lo sviluppo di nuove anomalie cromosomiche, tra questa quella senz’altro più
comune è una traslocazione sbilanciata tra i cromosomi 1 e 7 con perdita delle braccia corte del
cromosoma 1, delle braccia lunghe del cromosoma 7 e sviluppo di trisomia 1q.
Delezione 20q
La delezione 20q è un’anomalia strutturale di frequente riscontro nella TE come in tutte le MMC.
Questa delezione può essere però osservata
anche nelle sindromi mielodisplastiche (SMD), nelle LAM, nelle crisi blastiche della LMC, nella sindrome ipereosinofila e nella leucemia cronica neutrofilica, mentre si osserva raramente nelle malattie linfoproliferative. Questi dati fanno ipotizzare
che la delezione possa svilupparsi in un progenitore ematopoietico molto precoce capace di differenziarsi sia in senso mielode che linfoide e confermano che l’anomalia non è patognomonica di
TE. Nei pazienti con TE la delezione non sembra
possedere alcun impatto prognostico (Tabella 2).
La delezione 20q è più spesso interstiziale che terminale e la regione di minima comune delezione
(“common deleted region”, CDR) è compresa tra
le bande 20q11.2 e 20q13.1. L’analisi molecolare, dimostrando che i punti di rottura prossimale
e distale hanno sede assolutamente variabile, ha
suggerito che la regione di cromosoma 20 coinvolta nella delezione possa contenere uno o più
geni onco-soppressori (“tumor suppressor genes”,
TSG). È possibile che nelle MMC e nelle SMD con
20q- le regioni di minima comune delezione siano di diversa ampiezza. A questo proposito è stato proposto che nelle MMC la CDR abbia
un’estensione di 3Mb, mentre nelle SMD vi sarebbero due distinte CDR, la più estesa delle dimensioni di circa 700kb. Tra i possibili TSG, mappati nelle due regioni grazie all’impiego di “yeast arti-
ficial chromosomes” (YAC) e di “bacterial artificial
chromosomes” (BAC), quello che potrebbe avere un ruolo più rilevante nella patogenesi delle
MMC potrebbe essere L3MBTL che codifica per
una proteina capace di reprimere la trascrizione.
Sino ad oggi però nessun paziente con 20q- ha
presentato una mutazione acquisita di tale gene.
In altri pazienti il 20q- è invece prodotto da un riarrangiamento criptico, di solito una traslocazione
che viene identificata dalla sola FISH. Tale riarrangiamento può essere o non essere associato
a delezione e di solito presenta punti di rottura che
si localizzano al di fuori dei punti di rottura della
classica delezione. La definizione di tali riarrangiamenti criptici potrebbe permettere di individuare nuovi importanti TSG. In realtà dati recenti sembrano indicare che nei pazienti con questi riarrangiamenti criptici del cromosoma ed in quelli con
monosomia 20, oltre alla delezione sia sempre
presente l’amplificazione di una regione di braccia lunghe del cromosoma molto prossimale al
centromero. Tale regione potrebbe contenere geni
o sequenze cruciali per la vitalità della popolazione leucemica.
Delezione 13q
Si tratta di un’anomalia strutturale più comune nelle MI successive a PV che nella PV e nella TE. La
delezione 13q si osserva anche in vari disordini
linfoproliferativi come la leucemia linfatica cronica a cellule B (LLC), la leucemia acuta linfoblastica, i linfomi non-Hodgkin ed il mieloma multiplo. La delezione determina una cattiva prognosi in molte malattie linfoproliferative, una prognosi favorevole nella LLC, ma tuttora possiede un
incerto significato prognostico nelle MMC.
La FISH sembra dimostrare che l’incidenza di 13qè superiore a quella determinata dalla citogenetica convenzionale. Infatti, è stato osservato che
una perdita di eterozigosi per il locus Rb1 map-
Difetto citogenetico
Gene coinvolto
Caratteristiche cliniche e prognosi
Delezione 20q
Delezione 13q
Trisomia 8
Trisomia 9 e anomalie 9p
Anomalie 1q/1p
Sconosciuto
Sconosciuto
Sconosciuto
JAK2
Sconosciuto/MPL
Prognosi favorevole se singola anomalia
Prognosi favorevole se singola anomalia
Prognosi favorevole
Prognosi dipendente dal carico di alleli JAK2 mutati
Prognosi indefinita
TABELLA 2 - Impatto prognostico delle anomalie citogenetiche nella TE.
19
20
Seminari di Ematologia Oncologica
pato in 13q14, non dimostrata dalla citogenetica
convenzionale, si verifica nel 43% dei pazienti con
MMC e che la regione di minima comune delezione lungo il cromosoma 13q sia di circa 4 CM.
Studi successivi hanno ulteriormente ridotto
l’estensione della CDR a 1.8Mb. Le dimensioni del
segmento di cromosoma 13 deleto nelle MMC
corrisponderebbe a quella del segmento deleto
nelle malattie linfoproliferative. I geni che potrebbero funzionare come potenziali TSG potrebbero essere gli stessi delle malattie linoproliferative:
Rb1, CHCIL e RFP2. Tuttavia, ad oggi non vi sono
conferme che tali geni svolgano un reale ruolo nella patogenesi della TE.
Trisomia 8
Si osserva nel 10% dei pazienti con diverse malattie mieloproliferative ed è pertanto l’anomalia cromosomica numerica che viene più frequentemente riscontrata. La trisomia 8 si osserva nel 10-15%
dei pazienti con SMD, nel 5% dei pazienti con
LAM e nel 35% dei pazienti con LMC in crisi blastica. Alcune casistiche hanno riportato che l’incidenza di +8 nelle MMC sarebbe del 25-30%,
ma tale incidenza non è stata confermata da casistiche più ampie. La FISH ha però dimostrato che
l’incidenza di +8 potrebbe essere superiore a quella determinata dalla citogenetica convenzionale.
Inoltre, siccome la FICTION ha dimostrato che nelle LAM la trisomia è presente nelle cellule CD34
positive del midollo osseo e nelle cellule della serie
mieloide del sangue periferico ma assente dai linfociti B del sangue periferico, è stato proposto che
tale aneuploidia possa svilupparsi nel compartimento staminale e possa determinare un’incapacità della popolazione cellulare a differenziarsi lungo la filiera linfoide.
Non vi sono dati molecolari riguardanti un possibile gene dosage effect svolto dalla trisomia.
Duplicazione delle braccia lunghe
del cromosoma 1, Dup(1q)
Una duplicazione di parte dell’1q è stata riportata non solo nella TE ma anche in altri disordini mieloproliferativi. L’alterazione citogenetica può essere presente alla diagnosi, ma più spesso si sviluppa al momento della progressione clinica. La
FISH, dimostrando che i precursori eritroidi e mieloidi contengono la dup(1q), ha indicato che l’ano-
malia si sviluppa in un progenitore multipotente.
Nella maggior parte dei pazienti la parte di cromosoma 1q duplicata corrisponde alle bande
1q23-q32, mentre in altri sono le intere braccia
lunghe del cromosoma 1 ad essere duplicate a
causa di una traslocazione cromosomica sbilanciata tra il cromosoma 1 ed i numeri 7 o 9. Non
vi sono analisi molecolari che abbiano tentato di
definire quali siano i geni possibilmente coinvolti nella duplicazione 1q. Tuttavia, nei pazienti con
anemia refrattaria con sideroblasti ad anello e
trombocitosi (ARRS-T) è stata recentemente
riportata una “uniparental disomy” (UDP) della
regione 1p, simile a quella descritta qui di seguito a carico delle braccia corte del cromosoma 9
(9). Tutti i pazienti con UDP dell’1p presentano la
mutazione W515L del gene MPL, che si associa
a TE e MI e che verrà descritta in seguito. Inoltre,
tutti presentano megacariociti che all’immuno-istochimica mostrano una caratteristica positività
nucleare per la fosfo-STAT5.
Anomalie del cromosoma 9
La trisomia 9 è una delle più comuni alterazioni
numeriche osservate nella TE e nelle MMC in
generale. In alcuni pazienti, specialmente in
quelli affetti da PV, si osserva una trisomia 9p o
una trisomia 9q. La trisomia 9p può essere prodotta da varie traslocazioni sbilanciate specialmente tra braccia corte del cromosoma 9 e braccia corte o lunghe del cromosoma 1. Di solito la
traslocazione sbilanciata t(1;9) determina una trisomia 1q e 9p e si sviluppa nelle MMC al momento dell’evoluzione in LAM. La t(9;18) è un’altra traslocazione sbilanciata ricorrente. Bacher et al (10)
ha descritto questo riarrangiamento del cariotipo
in un paziente con PV ed in due con TE. La traslocazione, identificata anche dalla FISH, determina una trisomia 9p ed una monosomia 18p.
Dato l’esiguo numero di pazienti, lo studio non è
riuscito a correlare la traslocazione a particolari
caratteristiche cliniche ed ematologiche. Una trisomia 9p può essere anche causata dalla formazione di un isocromosoma per le braccia corte del
9 o da altri meccanismi.
L’impiego della FISH ha dimostrato che il cromosoma 9 oltre ad essere coinvolto in anomalie
numeriche può essere coinvolto in anomalie strutturali con una frequenza superiore rispetto a quel-
Citogenetica e Biologia Molecolare della Trombocitemia Essenziale
la determinata dalla citogenetica convenzionale.
Un recente studio di “Comparative Genomic
Hybridization” (CGH) ha identificato una trisomia
9p nel 50% dei pazienti affetti da MI ed ha suggerito che tale porzione di cromosoma possa contenere geni importanti per la patogenesi della
malattia (11), ipotesi già formulata in precedenza
da studi condotti in pazienti con PV (12-14).
L’importanza di tale porzione cromosomica è stata corroborata dall’identificazione nel suo interno
di una regione di perdita di eterozigosi (“Loss of
heterozygosity”, LOH). Questa area di LOH, presente nel 33% dei pazienti con PV, si sviluppa per
errori nel processo di ricombinazione mitotica che
creano una disomia uniparentale (“Uniparental
Disomy”, UDP). L’importante ruolo svolto da tale
regione nella patogenesi delle MMC è stato ulteriormente confermato dal fatto che al suo interno risiede il gene JAK2, mappato in 9p24. La
regione di cromosoma 9 compresa tra il telomero 9p ed il gene JAK2 è quella sempre colpita da
LOH, mentre la regione compresa tra JAK2 ed il
centromero è quella variabilmente interessata da
LOH. Infatti, il suo coinvolgimento nella LOH
dipende dalla localizzazione del punto di rottura
della ricombinazione mitotica. Comunque sia la
UDP per la regione 9p può interessare il cromosoma 9 materno o paterno e vi è quindi una probabilità del 50% che geni “imprinted” e geni che
casualmente presentano un’espressione non
vengano o vengano espressi dal clone con UDP
del 9p (15). Nei pazienti con TE bisogna però sottolineare che la frequenza di UDP a carico del 9p
è più bassa rispetto a quella osservata nei pazienti con PV e MI e la presenza di UDP si correla,
come vedremo, ad un basso carico di mutazione V617F (16). Per spiegare questo evento sono
state fatte due ipotesi: nella TE la mutazione preesistente a JAK2 non aumenta o addirittura ridu-
ce la frequenza di ricombinazione mitotica a carico del 9p o, alternativamente, la mutazione V617F
si comporta in modo autosomico dominante e
quindi la UDP in 9p non determina alcun vantaggio per le cellule omozigoti che presentano la
mutazione. Quest’ultima ipotesi si basa sul concetto che il microambiente nella TE sia sostanzialmente diverso da quello della PV e MI dove
vi è una selettiva pressione per acquisire la UDP
del 9p (15).
JAK2 oltre ad essere bersaglio, come vedremo,
di mutazioni puntiformi nelle malattie mieloproliferative croniche è anche coinvolto in varie traslocazioni cromosomiche. Tra queste bisogna
ricordare la traslocazione t(8;9)(p22;p24) osservata nella leucemia mieloide cronica atipica, nella
leucemia cronica eosinofilica e nelle LAM. La FISH
ha stabilito che questo riarrangiamento interessa una regione di cromosoma 8 che si trova in
posizione più telomerica rispetto al gene FGFR1.
Inoltre, la FISH e la PCR hanno dimostrato che i
geni interessati dal riarrangiamento sono PCM1,
mappato in 8p22 e già coinvolto nella formazione di varie proteine di fusione associate a vari
tumori solidi, ed il gene JAK2, mappato in 9p24
(17). Il gene PCM1 codifica per una lunga proteina ubiquitaria di 228kDa che presenta diversi motivi “coil-coiled” a livello della sua porzione aminoterminale. Questi motivi vengono mantenuti
nonostante la traslocazione e probabilmente
causano una dimerizzazione della proteina di
fusione PCM1-JAK2 con conseguente attivazione costitutiva di JAK2. Altre traslocazioni che coinvolgono JAK2 sono la t(9;22)(p24;q11.2), la
t(9;12)(p24;p13) e la t(9;15;12)(p24;q15;p13) (18,
19, 20). La prima, osservata un paziente con una
LMC atipica, codifica per la proteina di fusione
BCR-JAK2; la seconda e la terza, osservate in un
paziente con una leucemia acuta linfoblastica a
Difetto cromosomico
Geni coinvolti
Tipo di MMC
Der(1)t(1;9) con trisomia 9p
T(9;18) con trisomia 9p
T(8;9)(p22;p24)
T(9;22)(p24;q11.2)
T(9;12)(p24;p13)
T(9;15;12)(p24;q15;p13)
JAK2
JAK2
PCM1-JAK2
JAK2-BCR
JAK2-ETV6
BCR-JAK2
MMC, SMD
PV, TE
LAM
LMC atipica
LAL a cellule T
LMC atipica
TABELLA 3 - Traslocazioni delle braccia corte del cromosoma 9 nelle MMC e nelle leucemie acute.
21
22
Seminari di Ematologia Oncologica
ni e codifica per proteine di 1100 aminoacidi del
peso molecolare di 120kDa a struttura tridimensionale tuttora mal definita. Ad eccezione di JAK3
espresso solo dal tessuto ematopoietiche, tutti gli
altri geni hanno un’espressione ubiquitaria. Modelli
sperimentali murini basati sulla riduzione o sulla
mancata espressione di un particolare gene JAK
hanno permesso di dimostrare l’importante ruolo svolto da questi geni nell’ematopoiesi. In particolare, un blocco dell’espressione del gene JAK1
causa una difettosa funzionalità neuronale ed un
alterato sviluppo del tessuto linfoide con morte
perinatale; un blocco dell’espressione di JAK2
causa un blocco dell’eritropoiesi ma una normale linfopoiesi.
Mutazioni di JAK3 determinano una “Severe
Combined Immunodeficiency” (SCID), mentre
quelle di TYK2 una sindrome caratterizzata da una
eccessiva produzione di Ig E. Le proteine JAK partecipano alla trasduzione del segnale attraverso
la via JAK/STAT (“Signal Transducers and
Activators of Transcription”), determinano l’attivazione della fosfatidil-inositol 3 kinasi (PI3K), stimolano la via di Ras-“Mitogen Activated Protein
Kinase” (MAPK) e dalle “Extracellular SignalRegulated Kinases” (ERK) e favoriscono l’espressione dei geni c-fos e c-myc (21).
Tra le proteine Jak, Jak2 sembra essere quella più
importante per la proliferazione e differenziazione mieloide essendo attivata in risposta a varie
citochine: Eritropoietina (EPO), GM-CSF, trombopoietina (TPO), interleukina 3 (IL-3), IL-5, IL-12 e
IFN-γ. La proteina JAK2 è costituita da sette regioni JH (Figura 1).
La regione JH1, situata nelle vicinanze dell’estremità carbossi-terminale della proteina, è dotata
di attività kinasica e contiene residui di tirosina che
vengono fosforilati quando la proteina è attivata.
La regione JH2 presenta un’importante omologia
cellule T ed in uno con LMC atipica, codificano
per la proteina di fusione ETV6/JAK2. In tutti i
pazienti i geni BCR e ETV6 sono fusi alle regioni
JH1 o JH2 di JAK2 e forniscono una superficie
di dimerizzazione per la regione ad attività kinasica di JAK2 con conseguente attivazione costitutiva della proteina (Tabella 3).
■ ALTERAZIONI MOLECOLARI
Come già riportato nessuna anomalia cromosomica e nessun marcatore molecolare sono sufficientemente specifici per poter formulare un’accurata diagnosi nell’ambito dei disordini mieloproliferativi cronici Ph1 negativi. La diagnosi di tali
disordini sino ad ora si basava principalmente sull’istologia midollare e su diverse indagini di laboratorio (formazione di colonie eritroidi endogene,
espressione di Mpl da parte dei megacariociti e
delle piastrine, espressione di PRV1 da parte dei
neutrofili ed espressione del fattore trascrizionale NF-E2). Quindi, la recente dimostrazione che
la maggior parte dei pazienti con PV ed una frazione di quelli con MI e TE presenta la mutazione somatica V617F del gene JAK2 e che una frazione di pazienti con MMC V617F negativa presenta una mutazione di MPL ha migliorato la definizione diagnostica di questi disordini onco-ematologici (Tabella 4).
JAK2
Il gene JAK2 (Janus Kinase 2) è uno dei quattro
geni (JAK1, JAK2, JAK3, TYK2) che codificano per
proteine citoplasmatiche ad attività tirosina kinasica ed appartiene alla famiglia delle Janus tirosine kinasi. JAK1 è mappato in 1p31.3, JAK2 in
9p24, JAK3 in 19p13.1 e TYK2 in 19p13.2.
Ognuno di questi geni è formato da 20-25 eso-
Lesione Molecolare
Mutazione V617F eterozigote
Mutazione V617 omozigote
Mutazione esone 12 di JAK2
Mutazione W515K/L
Incidenza (%)
TE
PV
MI
50
3-4
Assente
5
90
24-27
3
Assente
50
6-18
Assente
11
TABELLA 4 - Incidenza delle lesioni molecolari a confronto: TE rispetto a PV e MI.
Citogenetica e Biologia Molecolare della Trombocitemia Essenziale
FIGURA 1 - Struttura della proteina Jak2 e sedi di mutazione.
con la regione JH1 ma non possiede attività kinasica (regione pseudo-kinasica). Siccome la delezione di JH2 fa aumentare l’attività di JAK2, è stato proposto e poi confermato che tale regione
pseudo-kinasica svolge un’azione inibitoria nei
confronti di JH1.
Le regioni JH3-JH4 contengono un motivo chiamato “Src Homology Region 2” (SH2) ad attività
ancora mal definita, mentre le regioni JH5-JH7
comprendono la regione amino-terminale della
proteina che a sua volta contiene la regione di
omologia FERM (F per proteina 4.1, E per ezrina, R per radixina e M per moesina), altra regione critica per JAK2. Infatti, tramite questa regione la proteina JAK2 si attacca in modo non covalente alla regione iuxta-membrana citoplasmati-
FIGURA 2 - signaling di JAK2 per attivazione dei recettori di
tipo I delle citochine.
ca del recettore delle citokine di tipo I (EPO, GMCSF, TPO). Questi recettori che formano omodimeri non possiedono attività tirosino kinasica
intrinseca, ma una volta avvenuto il legame alla
citochina cambiano la propria conformazione.
Due molecole della proteina Jak2 si avvicinano
abbastanza in modo tale da potersi fosforilare
vicendevolmente. La proteina Jak2 fosforilata si
comporta come una tirosina kinasi e fosforila la
regione citoplasmatica del recettore della citokina di tipo I che diviene sede di accumulo delle
proteine STAT. Una volta legate al recettore le proteine STAT sono fosforilate dalla proteina Jak2 attivata a livello del residuo di tirosina situato alla loro
estremità carbossi-terminale (Figura 2). Le sette
possibili proteine STAT una volta fosforilate formano omo- ed etero-dimeri tra loro poiché si creano legami tra la regione SH2 di una proteina STAT
e la fosfotirosina di un’altra proteina STAT. Tali
dimeri entrano nel nucleo della cellula ed attivano la trascrizione di vari geni. Pertanto le proteine STAT si comportano da attivatori della trascrizione legandosi a sequenze che regolano l’espressione di specifici geni. Il tipo di complessi STAT
attivati determina quindi il tipo di risposta cellulare a quella particolare citochina. Perciò, le proteine JAK e STAT attivate variano in funzione della cellula bersaglio, del grado di differenziazione
della cellula e della possibilità che si verifichi un
“cross-talk” tra recettori diversi. Tra i geni regolati da STAT bisogna ricordare Bcl-X che codifica per una proteina ad attività anti-apoptotica
espressa dai progenitori eritroidi (21).
Sedi di mutazione
Nel 2005 vari Autori, pur impiegando approcci
metodologici diversi, hanno contemporanea-
23
24
Seminari di Ematologia Oncologica
mente e per la prima volta identificato la mutazione puntiforme V617F in pazienti con MMC.
Kravolics et al. (16) e Baxter et al. (22) erano partiti dalle seguenti osservazioni: nella PV il più
comune difetto cromosomico consiste in una LOH
a carico del cromosoma 9, le tirosine kinasi svolgono un ruolo importante nella patogenesi delle
leucemie, JAK2, una tirosina kinasi mappata in
9p24, è frequentemente attivata in risposta all’eritropoietina, le diverse MMC presentano caratteristiche cliniche comuni. Inizialmente Kravolics et
al. (12, 13) aveva identificato la mutazione V617F
allo stato omozigote in pazienti con MMC e LOH
in 9p, ma estendendo l’analisi anche a pazienti
con MMC privi di LOH in 9p aveva individuato la
mutazione anche allo stato eterozigote. Baxter et
al (22) aveva individuato la stessa mutazione dopo
aver analizzato con metodiche diverse la sequenza degli esoni di JAK2. Levine et al. (23) e Zhao
et al. (24) erano partiti dall’ipotesi che fosforilazione e defosforilazione delle tirosine kinasi siano tappe fondamentali nel processo di regolazione della crescita cellulare e nei processi di cancerogenesi ed avevano perciò ricercato possibili mutazioni a carico di varie tirosine kinasi e fosfatasi. Entrambi gli studi avevano identificato la
mutazione V617F di JAK2 come unica mutazione. James et al. (25) aveva utilizzato un “interfering RNA” per ridurre o spegnere l’espressione di
JAK2 e aveva osservato che nei pazienti con PV
una riduzione dell’espressione di JAK2 si associava ad una riduzione del numero di colonie eritroidi endogene. Il sequenziamento dei 23 esoni
e delle giunzioni tra esoni ed introni del gene permise di individuare la mutazione V617F. Tutti questi studi hanno dimostrato che la mutazione V617F
è una mutazione somatica presente nei granulociti, ma assente dalle cellule della mucosa orale,
dai linfociti T e dalle cellule non appartenenti alla
serie granulocitaria. Si tratta di una mutazione
acquisita e non germ-line dal momento che non
si osserva nei soggetti sani e nei soggetti con eritrocitosi, trombocitosi reattive.
Tale mutazione colpisce l’esone 14 di JAK2 causando la sostituzione della guanina in posizione
1849 con una timina (G→T). Tale evento determina la sostituzione della valina in posizione 617
con una fenilalanina nella regione JH2 della proteina Jak2. Sul piano funzionale la valina 617,
come pure i residui aminoacidici adiacenti, svolge un ruolo molto importante perchè consente alla
regione JH2 di inibire l’attività tirosina kinasica di
JH1. La mutazione V617F fa sì che la regione JH2
non possa più svolgere tale azione e quindi la
regione JH1 viene mantenuta in conformazione
attiva e può svolgere la propria attività tirosina
kinasica. Un dato sorprendente è che ad oggi la
mutazione V617F è l’unica a colpire il codone 617,
nonostante sia stato dimostrato che anche altre
sostituzioni aminoacidiche in tale posizione
potrebbero mantenere JH1 in conformazione attiva (21). La mutazione può essere presente allo stato omo- o eterozigote. L’omozigosi per la mutazione si verifica per un processo di ricombinazione mitotica a livello delle braccia corte del cromosoma 9 e viene definita dalla presenza di livelli di allele mutato nel campione in studio superiori al 51% dei livelli totali di espressione di JAK2
(valore dell’allele mutato e dell’allele wild type),
indipendentemente dalla presenza di singole colonie cellulari che esprimano il solo allele mutato (26).
Ovviamente la presenza dell’allele mutato in forma omozigote determina una maggiore attivazione dell’asse JAK-STAT rispetto a quanto si verifica nella cellula che presenta l’allele mutato e l’allele wild type. In entrambi gli stati mutazionali però
l’espressione di STAT5 in forma attivata e l’espressione di Bcl-X da parte dei progenitori ematopoietici sono necessarie per lo sviluppo di colonie
eritroidi endogene. Si ritiene però che i livelli di
espressione dell’allele mutato possano influenzare i livelli di espressione dei geni controllati da
JAK2 (soprattutto PRV-1, NF-E2, il gene per la
fosfatasi alcalina leucocitaria, e HMGA2). Pertanto
la cellula omozigote per l’allele mutato esprimerebbe tali geni a livelli sicuramente inferiori rispetto a quelli espressi dalla cellula eterozigote nella
quale si verifica una competizione tra allele wild
type ed allele mutato. Inoltre, la cellula omozigote per la mutazione presenterebbe una maggiore attivazione/deregolazione dell’interazione tra
proteina Jak2 mutata e substrati, evento che
potrebbe ulteriormente contribuire alla perdita del
controllo delle normali funzioni cellulari (27).
Recentemente, sono state identificate nuove
mutazioni di JAK2. Scott et al. (28) hanno individuato mutazioni dell’esone 12 in pazienti affetti
da PV negativa per la mutazione V617F. Si tratta
Citogenetica e Biologia Molecolare della Trombocitemia Essenziale
Mutazione
Fenotipo
V617F
Esone 12
TE, PV, MI
Eritrocitosi idiopatica con bassi livelli di eritropoietina
e sviluppo di colonie eritroidi endogene
C2624A
ΔIREED
LAL-B in sindrome di Down
LAL-B
Codone 683
LAL-B in sindrome di Down
R541L e N542-E543del
Trombosi mesenterica e portale; sindrome di Budd-Chiari
TABELLA 5 - Mutazioni di JAK2 e fenotipi leucemici.
di quattro nuove mutazioni presenti allo stato eterozigote. Nella mutazione F537-K539 il tratto di
proteina compreso tra il residuo di fenilalanina in
posizione 537 ed il residuo di istidina in posizione 539 viene sostituito da una leucina, nella mutazione H538OK539L la glutamina sostituisce la lisina in posizione 538 e la leucina sostituisce la lisina in posizione 539, nella mutazione K539L la leucina sostituisce la lisina in posizione 539 e nella
mutazione N542-E543del si verifica la delezione
dell’asparagina in posizione 542 e dell’acido glutammico in posizione 543. Queste quattro mutazioni erano presenti solo in pochi granulociti del
sangue periferico, ma erano invece presenti in
molte cellule del midollo osseo e nelle colonie eritroidi endogene. Questa osservazione potrebbe
spiegare perché nessuna delle quattro nutazioni
era stata precedentemente identificata dai molti
studi che avevano analizzato il sangue periferico
di pazienti con MMC. Sul piano molecolare tali
mutazioni sono localizzate tra le regioni SH2 e JH2
di JAK2 e determinano rispetto alla mutazione
V617F un signaling di JAK meno dipendente dal
ligando, mentre sul piano funzionale aumentano
la sensibilità verso i vari fattori di crescita ed un’attivazione delle vie di segnale presiedute dall’EPO.
Un altro studio, condotto su linee cellulari di leucemia acuta megacarioblastica, ha dimostrato una
sostituzione C→A in posizione 2624 cui corrisponde nella proteina Jak2Δ la sostituzione della treonina in posizione 875 con una asparagina (29); un
altro, condotto in un paziente con sindrome di
Down e leucemia acuta linfoblastica a cellule B,
ha individuato una delezione di 5 aminoacidi all’interno della regione JH2 della proteina (mutazione JAK2 IREED) (LAL-B) (30) ed un altro, condotto in un paziente con sindrome di Down e LAL-
B, una mutazione centrata sul codone 683 (31).
Un recente studio italiano ha poi riportato una nuova mutazione dell’esone 12 in due giovani
pazienti con PV che alla diagnosi avevano rispettivamente presentato una trombosi della porta e
della mesenterica ed una sindrome di Budd-Chiari
(32).
In conclusione, questi dati suggeriscono che ad
una variazione della sede di mutazione all’interno di JAK2 corrisponde una variazione del fenotipo leucemico (Tabella 5).
Mutazioni e patogenesi delle MMC
L’introduzione della mutazione V617F nel tessuto ematopoietico del topo mediante vettori retrovirali determina un disordine mieloproliferativo del
tutto sovrapponibile alla PV, ma non alla TE. Infatti,
la trombocitosi non è una caratteristica riproducibile in questi topi forse perché tale approccio
sperimentale determina alti livelli di espressione
dell’allele mutato con conseguente blocco nella
differenziazione dei megacariociti (33). Pertanto,
queste osservazioni non riescono a definire correttamente il reale impatto della mutazione V617F
sulla patogenesi delle MMC Ph1 negative, TE
inclusa, e nemmeno a spiegare come una singola mutazione possa generare tre fenotipi diversi
di una stessa malattia. Per stabilire il ruolo della
mutazione nella patogenesi delle MMC Ph1
negative sono state fatte due ipotesi: la mutazione V617F di JAK2 sarebbe responsabile dell’ematopoiesi clonale e della MMC (ipotesi single hit)
mentre variazioni nel dosaggio del gene mutato
sarebbero responsabili dei diversi fenotipi cellulari (gene dosage effect), alternativamente, mutazioni somatiche acquisite insorte prima della mutazione V617F sarebbero responsabili dell’emato-
25
26
Seminari di Ematologia Oncologica
FIGURA 3 - Mutazioni di JAK2
e possibile patogenesi delle
MMC (15).
poiesi clonale e faciliterebbero la comparsa della mutazione stessa (ipotesi multi-hit) mentre una
loro influenza sull’impatto della mutazione V516F
nei confronti del tessuto ematopoietico sarebbe
responsabile dei diversi fenotipi cellulari (Figura
3) (21, 34).
La prima ipotesi sembra essere suffragata dalle
seguenti osservazioni:
- topi con bassi livelli di espressione di JAK2
mutato sviluppano una trombocitosi ed una
minima eritrocitosi;
- l’allele mutato di JAK2 è poco espresso nei granulociti e nel sangue midollare di pazienti con
TE, mentre è molto espresso nei granulociti e
nel sangue midollare di pazienti con PV e MI;
- molti pazienti con PV nonostante i bassi livelli
di espressione dell’allele mutato sono omozigoti per la mutazione, mentre la totalità dei
pazienti con TE presenta bassi livelli di espressione dell’allele mutato ed è sempre eterozigote per la mutazione. Questo dato fa ritenere che
nella PV l’omozigosi per la mutazione sia un
evento precoce nella patogenesi della malattia
ed il progressivo aumento della percentuale di
alleli mutati durante il decorso clinico sia causato dalla selezione della preesistente popolazione clonale;
- sul piano clinico è frequente una progressione
della TE in PV o in MI e della PV in MI.
Bisogna però sottolineare che il gene dosage
effect non riesce a spiegare completamente l’eterogeneità delle MMC con mutazione di JAK2.
Infatti, considerando i modelli murini è stato riportato che l’estrema variabilità nel fenotipo della
malattia sia determinata anche dal “background”
genetico del topo. L’espressione della mutazione V617F nel topo Balb/c determina un’importante leucocitosi ed una fibrosi midollare, mentre nel
topo C57Bl/6 una minima leucocitosi ed una fibrosi limitata alla milza.
La seconda ipotesi, basata sulla possibilità che
la mutazione di JAK2 possa cooperare con mutazioni somatiche preesistenti, sembra suffragata
dalle seguenti osservazioni:
- nella popolazione di granulociti clonali ottenuti da sangue periferico la percentuale di cellu-
Citogenetica e Biologia Molecolare della Trombocitemia Essenziale
-
-
-
-
le con la mutazione di JAK2 varia tra lo 0% ed
il 95%;
nelle MMC 20q- positive tutte le cellule ematopoietiche presentano il 20q-, ma solo una frazione contiene la mutazione di JAK2 (35);
la presenza della mutazione di JAK2 in pazienti con TE policlonale suggerisce che le cellule
con la mutazione non necessariamente subiscono un processo di selezione clonale (36, 37);
nelle famiglie con predisposizione allo sviluppo
di una MMC Ph1 negativa la mutazione di JAK2
sembra cooperare con alleli ancora sconosciuti ereditabili ed a bassa penetranza (38). La maggior parte di queste famiglie eredita la predisposizione alla MMC come carattere autosomico
dominante a penetranza incompleta, mentre un
piccolo numero come carattere a ereditarietà
meno evidente, forse autosomica recessiva.
Siccome, indipendentemente dal tipo di ereditarietà, in tutte le famiglie la mutazione V617F
è somatica ed acquisita, gli alleli che predispongono alla MMC potrebbero amplificare direttamente o indirettamente il signaling di JAK2 con
vantaggio selettivo dei progenitori ematopoietici che hanno acquisito la mutazione. Un’altra
prova a favore dell’esistenza dell’esistenza di
alleli ereditabili ed a bassa penetranza è fornita dalla recente osservazione di famiglie che presentano individui a rischio di sviluppare una
mutazione V617F ed individui a rischio di sviluppare una mutazione dell’esone 12 e dal fatto che il 5-10% dei pazienti con PV, TE e MI presenta parenti di primo grado con MMC (39, 40).
Queste osservazioni spiegano come tali alleli,
non essendo da soli sufficienti a causare una
MMC, sono responsabili di un fenotipo a
penetranza incompleta nei casi famigliari di
MMC. Quindi, l’unica differenza tra casi famigliari e casi sporadici di MMC potrebbe consistere nel fatto che la mutazione preesistente a
JAK2 (alleli predisponenti a MMC) è ereditata
in forma germ-line nei primi mentre in forma
somatica acquisita nei secondi. Inoltre, la mancanza di mutazioni germ-line di JAK2 potrebbe essere semplicemente dovuta al fatto che
tali mutazioni sarebbero incompatibili con l’embriogenesi (15);
la presenza di “single nucleotide polymorphisms” (SNPs) all’interno dei geni JAK2, MPL
e del gene che codifica per il recettore dell’eritropoietina sembra essere strettamente correlata a TE e PV anche se non sembra predisporre ad una particolare MMC (41). Tuttavia, tali
SNPs contribuiscono piuttosto a generare il
fenotipo MMC cooperando con JAK2;
- solo la metà dei pazienti con LAM evoluta da
PV JAK2+ mantiene la mutazione di JAK2 (42,
43). Sono stati riportati due pazienti con LAM
evoluta da PV JAK2 positiva con blasti leucemici JAK2 negativi e neutrofili JAK2 positivi nello stesso campione di sangue midollare ed è
stato proposto che le due popolazioni cellulari
avessero una diversa origine clonale o fossero
derivate da un progenitore ancestrale comune
(15).
Qualunque sia il ruolo della mutazione di JAK2 nella patogenesi delle MMC Ph1 negative, la reazione polimerasica a catena di tipo quantitativo realtime ha dimostrato che le cellule staminali ematopoietiche, i progenitori mieloidi, quelli granulocito-macrofagici, quelli megacariocitari ed eritroidi purificati al citofluorimetro (44), i linfociti B, T,
e le cellule natural killer di pazienti con MMC presentano la mutazione (45). Pertanto si ritiene che
la mutazione insorga in una cellula staminale capace di differenziarsi sia in senso linfoide che mieloide.
Cooperazione con altre mutazioni
Studi iniziali hanno riportato che la mutazione di
JAK2, seppure frequentemente associata a delezione 20q e 9p, è sempre presente come singola anomalia (46) e mai associata alla mutazione
di altre tirosin kinasi. Però, sono stati recentemente descritti pazienti che oltre alla mutazione di
JAK2 presentavano il cromosoma Ph1 e quindi
il gene di fusione BCR-ABL. Si trattava di un
paziente con iniziale diagnosi di MI, di un paziente con LMC che era evoluto in MI durante la terapia con imatinib e di un paziente con LMC evoluta a PV durante la terapia con imatinib (21). Alla
diagnosi il primo paziente non aveva presentato
un quadro compatibile con una LMC o con una
PV, le indagini molecolari avevano mostrato un
basso numero di copie di trascritto BCR-ABL e
la mutazione di JAK2 era presente allo stato eterozigote. Negli altri due pazienti la diagnosi iniziale era stata quella di LMC Ph1 positiva e la muta-
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Seminari di Ematologia Oncologica
zione di JAK2 era stata identificata al momento
dell’evoluzione in MI ed in PV rispettivamente
anche se non si poteva escludere che già alla diagnosi i due pazienti potessero presentare bassi
livelli di mutazione. In questi due pazienti l’imatinib aveva quindi bloccato il clone Ph1 positivo
permettendo l’espansione della popolazione
JAK2 mutata (21).
Incidenza delle mutazioni
La mutazione di JAK2 è stata identificata nel 90%
dei pazienti con PV e in circa la metà dei pazienti con TE e MI. La mutazione allo stato omozigote è presente nel 24-27% dei pazienti con PV, nel
3-4% di quelli con TE e nel 6-18% di quelli con
MI (21) (Tabella 4). La mutazione è stata osservata, sebbene con un’incidenza più bassa, anche
nel 20% circa dei pazienti con LMC atipica, nel
5% di quelli con leucemia mielomonocitica cronica (LMMC), nel 2% di quelli con forma giovanile di LMMC, nel 2% di quelli con Sindrome
Mielodisplastica (SMD) ed in una percentuale
ancora inferiore di quelli con mastocitosi. La maggior parte dei pazienti con SMD e mutazione era
stata classificata come anemia refrattaria con sideroblasti ad anello e trombocitosi (ARRS-T), entità provvisoria che rientra nel gruppo delle
SMD/MMC. In questo sottogruppo di SMD l’incidenza della mutazione era stata del 66% circa.
La mutazione di JAK2 è stata osservata molto
raramente nei pazienti con LAM. Solo l’1% delle forme de novo presenta la mutazione, presente invece nel 50% delle LAM secondarie a MMC.
L’analisi di campioni ottenuti al momento della diagnosi di MMC ed al momento della trasformazione in LAM ha dimostrato, come già riportato, che
più della metà dei pazienti con LAM secondaria
a MMC JAK2 positiva presenta blasti JAK2 negativi. Sul piano clinico questi pazienti mostrano un
intervallo tra diagnosi di MMC e trasformazione
in LAM più breve rispetto a quello dei pazienti con
LAM secondaria JAK2 positiva.
Inoltre, il 50% dei pazienti con una sindrome di
Budd-Chiari inspiegabile può presentare la mutazione V617F. Anzi, un recente studio ha dimostrato che la mutazione è presente nel 45% dei
pazienti con sindrome di Budd-Chiari e nel 34%
di quelli con trombosi della vena porta (47).
Nessun paziente entrato nello studio presentava
invece la mutazione dell’esone 12 di JAK2 e mutazioni del codone 515 del gene MPL. La mutazione V617F era presente nel 96.5% dei pazienti con
un quadro midollare di MMC e colonie eritroidi
endogene positive, ma anche nel 58% dei
pazienti con uno solo dei due indici diagnostici e
nel 7% dei pazienti con nessuno dei due indici
diagnostici. Combinando la mutazione ed il quadro midollare l’incidenza di MMC era stata del
53% nei pazienti con sindrome di Budd-Chiari e
del 37% in quelli con trombosi portale. Bisogna
però notare che il 37% dei pazienti con MMC
inclusi nello studio presentava altri fattori di rischio
per eventi trombotici.
Dal punto di vista clinico i pazienti con sindrome di Budd-Chiari erano più giovani, più frequentemente di sesso femminile e con normali valori ematici forse dovuti all’emodiluizione dato che
tutti avevano una massa eritrocitaria aumentata. Il 14% dei pazienti con MMC non presentava la mutazione V617F, ma nemmeno altre mutazioni.
Utilizzando la mutazione come primo parametro per la diagnosi di MMC, la biopsia ossea non
sarebbe stata necessaria nel 40% dei pazienti.
Tra i pazienti con sindrome di Budd-Chiari, quelli con MMC o mutazione V617F avevano una
funzionalità epatica più alterata che però non
influiva sulla probabilità di sopravvivenza a cinque anni forse perché questi pazienti erano stati più precocemente sottoposti a decompressione epatica.
Mutazioni e caratteristiche cliniche
La presenza o l’assenza della mutazione V617F
ha permesso di distinguere due tipi di TE. È stato riportato che rispetto ai pazienti privi della mutazione quelli con mutazione presentano più alti livelli di emoglobina e di leucociti, più basse conte piastriniche, un midollo ipercellulato con mielopioesi stimolata ed un aumentato rischio di trombosi venose (Tabella 6) (48). L’associazione tra mutazione e trombosi era stata inizialmente riportata
da due studi retrospettivi condotti subito dopo la
descrizione della mutazione V617F (49, 50) ed è
stata confermata da uno studio successivo condotto in 179 pazienti (51). Quest’ultimo aveva
osservato che una trombosi venosa si era verificata nel 33% dei pazienti con TE V617F+, ma solo
Citogenetica e Biologia Molecolare della Trombocitemia Essenziale
Mutazione
Caratteristiche cliniche
Pazienti con mutazione V617F rispetto ai pazienti
senza mutazione
Alti livelli di leucociti
Conte piastriniche più basse
Midollo osseo ipercellulato
Aumentato rischio di trombosi venose
Pazienti con mutazione V617F allo stato omozigote
rispetto ai pazienti con mutazione allo stato eterozigote
Paziente più spesso di sesso maschile
Più frequente splenomegalia
Maggiore incidenza di trombosi
Maggior rischio di eventi cardiovascolari maggiori
Maggior rischio di evoluzione in MI
Più alti livelli di cellule CD34+
Pazienti W515L/K positivi rispetto a pazienti V617F
positivi
Più bassi livelli di emoglobina
Più alti valori piastrinici
Più alti dosaggi di Eritropoietina
Crescita di colonie megacariocitarie endogene ma non
di colonie eroitroidi endogene
Cellularità midollare ed eritroide ridotte
Pazienti W515L/K positivi rispetto a pazienti V617F negativi
Età più avanzata
Cellularità midollare ridotta
TABELLA 6 - Caratteri clinici associati alle mutazioni di JAK2 e di MPL.
nel 17% dei pazienti con TE V617F–. Altri studi
non avevano invece individuato alcuna correlazione tra mutazione e rischio di sviluppare eventi trombotico-emorragici (37). Queste differenze
potevano dipendere dall’inadeguatezza dei criteri clinici impiegati per distinguere la TE dalla PV,
dai criteri impiegati per la selezione dei pazienti
e dal fatto che l’espressione dell’allele mutato veniva valutata da una reazione di PCR qualitativa e
non quantitativa.
Tutte queste caratteristiche sono state comunque
ritenute suggestive per una forma frusta e biologicamente distinta di PV. Questa possibilità è tra
l’altro supportata dal fatto che sino ad oggi nessun paziente con TE è passato da una forma con
JAK2 wild type ad una con JAK2 mutato, dato
che indica come la forma wild type di TE non debba essere considerata una fase pre-mutazione
della malattia (35).
Un altro parametro che sicuramente incide sul
fenotipo cellulare, sulle caratteristiche biologiche
e cliniche e sul decorso clinico della malattia è
costituito dalla completa assenza dell’allele wild
type di JAK2 e quindi dalla quantità di allele mutato espresso dal paziente. Come già riportato una
quota di allele mutato superiore al 51% corrispon-
de ad una mutazione presente allo stato omozigote, mentre una quota di allele mutato inferiore
al 50% ad una mutazione presente allo stato eterozigote. Una mutazione allo stato omozigote è
comunque evento raro nella TE essendo presente solo nel 3-4% dei pazienti.
Molti degli studi retrospettivi iniziali che avevano analizzato e paragonato i pazienti con mutazione allo stato omozigote a quelli con mutazione allo stato eterozigote soffrono di due importanti limiti. La determinazione dei livelli di espressione dell’allele mutato era stata condotta utilizzando un approccio semiquantitativo (PCR allele specifica) che può fornire risultati poco attendibili specie quando le percentuali di espressione dell’allele mutato erano comprese tra il 45%
ed il 60% (52).
Inoltre, i campioni utilizzati per l’analisi erano stati collezionati in tempi diversi del decorso clinico, dato che non sembra influire sul numero totale di pazienti con o senza mutazione, ma che sicuramente influisce sulla quantità di allele mutato che
può variare durante il decorso clinico specie nei
pazienti con PV e MI. Comunque sia, nonostante i limiti sopra riportati, questi studi retrospettivi
hanno dimostrato che i pazienti con TE e muta-
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Seminari di Ematologia Oncologica
zione JAK2V617F allo stato omozigote presentano un’eritropoiesi ed una mielopoiesi stimolate ed
una conta piastrinica più bassa rispetto ai pazienti con mutazione allo stato eterozigote. Inoltre, i
pazienti omozigoti per la mutazione mostrano una
più frequente splenomegalia, una milza di più
grosse dimensioni, più frequenti episodi trombotici e necessitano di una più precoce terapia citoriduttiva.
Uno studio ha riportato che tra i pazienti con TE
quelli con mutazione allo stato omozigote presentano un rischio di trombosi 3.97 volte quello dei
pazienti con mutazione allo stato eterozigote e
quello dei pazienti senza mutazione (52). Alla diagnosi erano più frequenti le trombosi arteriose,
mentre durante il decorso clinico trombosi arteriose e venose erano ugualmente frequenti. Lo stato omozigote era anche associato in modo statisticamente significativo ad eventi cardiovascolari e manteneva la sua significatività anche quando l’analisi multivariata prendeva in considerazione fattori di rischio ben documentati quali età >60
anni, pregresse trombosi e leucocitosi. Lo stesso studio ha riportato che la trasformazione in MI
avveniva nel 14% dei pazienti omozigoti, nel 4.7%
di quelli eterozigoti e nell’1,6% di quelli privi della mutazione (52).
Altri studi hanno osservato un’associazione tra alti
livelli di cellule CD34+ e omozigosi per la mutazione V617F (45, 53). Ruggeri et al. (54) ha riportato che nelle pazienti con PV e TE in gravidanza la presenza della mutazione era un fattore predittivo indipendente di possibili complicanze in
analisi multivariata. Infatti i pazienti con la mutazione presentavano un rischio di complicanze
doppio rispetto a quello dei pazienti con allele wild
type. In questo studio retrospettivo i nati vivi erano il 65% ed il 51% delle gravidanze decorreva
senza complicanze. L’incidenza di eventi sfavorevoli per la madre era del 9% ed in queste
pazienti la frequenza di complicanze fetali era del
40% circa. Nelle pazienti con TE la perdita del feto
era stata 3.4 volte quella che si osservava nella
popolazione generale (55).
Questi dati ottenuti con l’approccio semiquantitativo hanno rappresentato il punto di partenza
per la determinazione quantitativa del carico di
allele mutato (allele burden), definito come misura continua del rapporto tra allele mutato ed alle-
le wild type. Uno studio retrospettivo che ha analizzato il DNA ottenuto da pazienti con TE aveva
osservato una stretta correlazione tra carico di allele mutato e valore di leucociti, conta piastrinica,
sesso maschile, splenomegalia all’esame obiettivo e sviluppo di trombosi venosa durante il
decorso clinico (56).
Lo stesso studio aveva osservato che nei pazienti con TE il carico di allele mutato rimaneva stabile durante tutto il decorso clinico, osservazione confermata anche da Pemmaraju et al. (57).
Quest’ultimo studio non aveva però osservato
alcuna associazione tra allele burden ed eventi
cardiovascolari. Viceversa, Antonioli et al. (58) aveva riportato che un carico di allele mutato >25%
si associava ad un rischio relativo di trombosi arteriosa alla diagnosi tre volte più alto ed a un rischio
di sviluppare disturbi del microcircolo 2.2 volte più
alto.
Siccome ognuno di questi studi ha impiegato un
proprio approccio metodologico (vari tipi di tecnica analitica [real-time PCR, pyrosequencing,
analisi delle curve di melting], primers diversamente disegnati e marcati, riferimenti per la quantificazione dell’allele mutato diversi), i risultati ottenuti non sono perfettamente confrontabili e fanno sorgere dubbi riguardo le possibili correlazioni cliniche osservate.
Pertanto vari Autori hanno tentato di stabilire quale sia la miglior sorgente di DNA. Vannuchi et al.
(52) ha riportato che i risultati ottenuti a partire da
copy DNA (cDNA) o da DNA genomico sono perfettamente sovrapponibili, mentre Larsen et al. (45)
ha dimostrato che granulociti del sangue periferico e cellule midollari conservate forniscono risultati assolutamente sovrapponibili.
Recentemente, Moliterno et al. (59) ha dimostrato che nei pazienti con PV e TE i granulociti del
sangue periferico presentano un allele burden più
alto delle cellule CD34+, mentre nei pazienti con
MI le due popolazioni cellulari mostrano un identico carico di alleli mutati. Moliterno et al (59) ha
quindi introdotto il concetto di “dominanza clonale” per indicare quei pazienti che presentano
una differenza nella percentuale di allele mutato
tra granulociti del sangue periferico e cellule
CD34+ ≤10. Una dominanza clonale si osserva
nel 22% delle TE, nel 53% delle PV e nel 90%
delle MI. Siccome lo stesso studio aveva dimo-
Citogenetica e Biologia Molecolare della Trombocitemia Essenziale
strato che il carico di allele mutato delle cellule
CD34+ era strettamente correlato alle caratteristiche cliniche ed i pazienti con PV e dominanza
clonale erano quelli con malattia più sintomatica,
è stato proposto che il carico di allele mutato delle cellule CD34 positive sia più esatto di quello
dei granulociti per stabilire eventuali correlazioni
cliniche. Vannucchi et al. (26) ha riportato che i
pazienti con TE e con MI post-TE sono quelli con
più basso allele burden.
La conclusione che possiamo trarre da tutti questi studi è che la mutazione V617F è probabilmente un marcatore di trombosi nelle TE. L’accurata
definizione del significato prognostico della mutazione nella TE e nelle altre MMC può essere raggiunta solo attraverso la determinazione del carico di allele mutato con un approccio di tipo quantitativo e non giungendo semplicemente a definire una condizione di omozigosi o di eterozigosi. In tal modo la categoria di pazienti con un allele burden superiore al 75% (soprattutto pazienti
con PV) sarebbe quella caratterizzata da un significativo aumento del rischio di sviluppare eventi
cardiovascolari maggiori (48).
■ TE V617F NEGATIVA
Si tratta di un sottogruppo di pazienti, soprattutto affetti da TE e MI, che non presenta la mutazione V617F. Siccome, paragonando i pazienti con
mutazione di JAK2 a quelli senza mutazione sono
state osservate minime differenze cliniche e nei
parametri di laboratorio, è stato ipotizzato che nei
pazienti V617F negativi si sviluppino mutazioni
somatiche capaci di attivare il signaling presieduto da JAK2 e che tali mutazioni agiscano con un
meccanismo simile a quello messo in atto dalla
mutazione V617F (1). Tra le mutazioni identificate bisogna ricordare quella dell’esone 12 di JAK2
più sopra riportata. Tuttavia, si tratta di una mutazione mai osservata nei pazienti con TE ed invece presente nei pazienti con una diagnosi di eritrocitosi idiopatica senza tromobocitosi e leucocitosi.
I pazienti con tale mutazione presentano livelli di
emoglobina superiori a quelli dei pazienti con
mutazione V617F e valori di globuli bianchi e di
piastrine più bassi, mentre l’istologia midollare è
simile. Il fatto che nei pazienti JAK2 negativi non
siano state osservate altre mutazioni di JAK2 o
di altri geni appartenenti alla famiglia delle Janus
chinasi, ha suggerito che questi pazienti possano sviluppare mutazioni di altri alleli codificanti per
proteine che interagiscono con la via di segnale
JAK-STAT anche se non vi sono evidenze sperimentali a favore di un tale evento. Questa possibilità è stata però confermata da un recente studio condotto in pazienti con TE V6127F negativa. In questi pazienti si verificava una riduzione
della fosforilazione di STAT3 e dei livelli di espressione dei geni controllati da JAK-STAT come PIM12 e SOCS-2 (60). Quindi, tenendo presente non
solo l’importanza di JAK2 nella trasmissione del
segnale prodotto dall’attivazione delle diverse citochine ma ricordando anche che pazienti con eritrocitosi e trombocitosi ereditarie mostrano mutazioni nei recettori per le diverse citochine, è stato ipotizzato che queste stesse mutazioni possano svilupparsi anche nei pazienti con TE sporadica V6127F negativa.
Quest’approccio metodologico ha portato all’identificazione della mutazione del codone 515 del
gene MPL (“myeloproliferative leukemia virus
oncogene homology”), formato da 12 esoni e
mappato in 1p34. Mutazioni germ-line di MPL erano state descritte nella trombocitosi ereditaria
(mutazione della regione transmembrana, S505N)
e nella trombocitopenia amegacariocitica congenita (mutazione LOF).
Inoltre, il 7% degli africani d’America presenta il
polimorfismo di un singolo nucleotide che determina la sostituzione K39N. I soggetti con questo
poliformismo presentano conte piastriniche più
alte e, come i pazienti con PV, TE e MI, una più
bassa espressione di MPL. Staerk et al. (61) ha
dimostrato che il codone 515 è incluso nella regione amfipatica KWQFP del recettore della trombopoietina, necessario al renewal delle cellule staminali, alla differenziazione dei megacariociti, ed
alla formazione delle piastrine. La regione KWQFP,
assente in altri recettori citochinici, è contenuta
nella giunzione tra le porzioni transmembrana e
citoplasmatica del recettore stesso e serve a mantenere MPL in conformazione inattiva. Staerk et
al. (61) ha dimostrato che una mutazione del recettore dovuta alla perdita del dominio amfipatico
determina l’attivazione del recettore stesso che
31
32
Seminari di Ematologia Oncologica
viene mantenuto attivo in assenza del proprio
ligando. Il recettore attivato attiva a sua volta Jak2,
Tyk2, STAT5 e MAP kinasi, non riesce a fosforilare STAT3, causa una differenziazione mieloide
in presenza di trombopoietina ed una differenziazione eritroide in assenza di trombopoietina.
Staerk et al. (2006) ha poi dimostrato che mutazioni per sostituzione dei residui K e W del dominio amfipatico producono effetti analoghi a quelli prodotti dalla perdita dell’intero dominio ed ha
quindi ipotizzato che si tratti di residui critici necessari a mantenere il recettore in stato inattivo in
assenza di ligando.
Nel 2006 fu per la prima volta descritta la mutazione W515L del gene MPL, che consiste nella
sostituzione della guanina in posizione 1544 con
una timina. Nella proteina questa mutazione produce la sostituzione del triptofano con una leucina (62). Successivamente venne identificata la
mutazione MPLW515K a carico dello stesso
codone e quindi altre quattro mutazioni a carico
di altrettanti codoni (S505N, A506T, A519T) (63,
64). Più recentemente Beer et al. (65) ha dimostrato che i pazienti con la mutazione W515K presentano un carico di alleli mutati superiore a quello dei pazienti con la mutazione MPLW515L ed
ha quindi suggerito una differenza funzionale tra
i due alleli.
Come la mutazione JAK2W617F anche le mutazioni di MPL si sviluppano in una cellula staminale ematopoietica che può differenziarsi sia in
senso mieloide che linfoide (66), ma, a differenza della mutazione di JAK2, le mutazioni di MPL
favoriscono il commissionamento e la differenziazione della cellula staminale in senso megacariocitario e mieloide. Il potere trasformante della
mutazione MPLW515L è provato dalla sua capacità di rendere la crescita di varie linee cellulari indipendente dalla presenza di citochine, di aumentare la sensibilità alla trombopoietina e di attivare la via di segnale JAK-STAT/ERK/Akt. Inoltre, l’introduzione delle mutazioni nel genoma del topo
determina lo sviluppo di una MI con trombocitosi, leucocitosi, imponente epatosplenomegalia,
fibrosi midollare e decorso rapido, quasi sempre
fatale (62).
Le mutazioni di MPL non sono mai state osservate nei pazienti con PV, mentre sono presenti nel
5% dei pazienti con TE e nell’11% dei pazienti
con MI (tab.4). Alcuni pazienti possono presentare più mutazioni di MPL contemporaneamente, altri sia la mutazione di MPL che quella di
JAK2.
Questa osservazione dimostra che la mutazione di MPL è un evento secondario e sottolinea
la complessità dei meccanismi molecolari
responsabili della patogenesi delle MMC, che
hanno nell’attivazione della via di segnale presieduta da JAK2 il comune meccanismo patogenetico (15).
Rispetto ai pazienti V617F positivi, quelli con le
mutazioni di MPL presentano alla diagnosi più
bassi livelli di emoglobina (67), più alti valori piastrinici, più alti dosaggi di eritropoietina, crescita
di colonie endogene megacariocitarie ma assenza di crescita di colonie endogene eritroidi e riduzione della cellularità midollare specie eritroide (65)
(Tabella 6). Invece rispetto ai pazienti V617F negativi, quelli con la mutazione di MPL presentano
un’età più avanzata ed una riduzione della cellularità midollare ma non possono essere considerati un sottogruppo a sé stante.
Le mutazioni di MPL non hanno alcuna rilevanza prognostica dal momento che non sembrano
avere alcuna influenza sul rischio trombotico ed
emorragico, sulla probabilità di trasformazione in
MI e sulla sopravvivenza.
■ CONCLUSIONI
I dati citogenetici e molecolari sopra elencati indicano che le MMC e la TE in particolare hanno una
patogenesi complessa e suggeriscono un modello stocastico secondo il quale certi tipi di mutazione somatica a diversa espressione fenotipica
vengono acquisiti in ordine assolutamente casuale. Le mutazioni di JAK2 e MPL sono chiaramente associate allo sviluppo di un fenotipo MMC,
mentre le anomalie citogenetiche (specie 20q- e
13q-) non sembrano avere alcuna rilevanza a questo proposito (15). Rimane da chiarire il ruolo di
JAK2 nella patogenesi delle MMC e come una singola mutazione possa generare fenotipi diversi.
Sul piano clinico lo sviluppo di inibitori di JAK2
permetterà di stabilire se una terapia mirata al
difetto molecolare potrà essere utile ai pazienti con
TE, PV e MI (1).
Citogenetica e Biologia Molecolare della Trombocitemia Essenziale
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35
BIANCA
37
Leucemie
Megacariocitiche
FRANCESCO ALBANO
Ematologia con Trapianto, Università degli Studi di Bari
■ INTRODUZIONE
Le Leucemie Acute Mieloidi Megacariocitiche
(LAMK) rappresentano un gruppo di patologie rare
e nel contempo eterogenee dal punto di vista delle caratteristiche biologiche e patogenetiche. In
relazione all’età d’insorgenza possono essere individuate diverse LAMK che per le loro peculiarità
biologiche, le caratteristiche cliniche e in ordine
alla risposta al trattamento rappresentano delle
entità nosologiche specifiche, tutte riconducibili
alla trasformazione neoplastica del progenitore
emopoietico dal quale ha poi origine la linea
megacariocitaria (Tabella 1).
■ LEUCEMIE MEGACARIOCITICHE
DELL’ETÀ PEDIATRICA
La LAMK è una patologia poco frequente nella
popolazione pediatrica, ma rappresenta il 62-82%
delle rare leucemie acute mieloidi (LAM) associate ai pazienti affetti da sindrome di Down (SD) (1,
2). I bambini affetti da sindrome di Down (SD) e
portatori della trisomia 21 hanno un rischio
aumentato di circa 600 volte, rispetto alla popoIndirizzo per la corrispondenza
Prof. Francesco Albano
Università degli Studi di Bari
Dipartimento di Ematologia
P.zza G. Cesare, 11
70124 Bari
E-mail: [email protected]
Francesco Albano
Leucemie Megacariocitiche
- Leucemia transitoria del neonato associata a
Sindrome di Down
- Leucemia Acuta Megacariocitica pediatrica associata a Sindrome di Down
- Leucemia Acuta Megacariocitica pediatrica non
associata a Sindrome di Down
- Leucemia Acuta Megacariocitica dell’Adulto
- Leucemia Acuta Megacariocitica da evoluzione di
disordine mieloproliferativo
- Leucemia Acuta Megacariocitica associata a neoplasia mediastinica primitiva a cellule germinali
TABELLA 1 - Disordini neoplastici megacariocitari.
lazione normale, di sviluppare una LAMK. Inoltre,
in questa categoria di pazienti, il rischio di sviluppare una leucemia acuta linfoblastica è circa 20
volte più alto (3). La SD non è una patologia caratterizzata da instabilità genomica (il rischio di sviluppare una neoplasia, confrontato con quello della popolazione normale, è molto basso in questi
pazienti) (3); d’altro canto la più alta incidenza di
leucemie in questi casi rende la trisomia 21 un probabile fattore leucemogeno.
Circa il 10% dei bambini affetti da SD nascono
con una megacariocitosi clonale che prende il
nome di leucemia transitoria (LT), caratterizzata da
una risoluzione spontanea che avviene nell’arco
di tempo di alcuni mesi. Circa il 20% dei pazienti con SD e LT sviluppano una LAMK entro il quarto-quinto anno di vita; i fattori che promuovono
la trasformazione della LT in LAMK sono ancora
ignoti (3, 4) (Tabella 2).
38
Seminari di Ematologia Oncologica
Tipo di disordine
Descrizione
Incidenza in non SD
Incidenza in SD
Leucemia Acuta
Megacariocitica
(LAMK)
Citotipo di LAM definito da un fenotipo
dei blasti leucemici riconducibile
a precursori piastrinici
6% di tutti i casi
di LAM
62% di tutti i casi
di LAM
Leucemia transitoria
(LT)
Quadro patologico specifico dei neonati
affetti da SD. I blasti circolanti hanno
un fenotipo simile a quello della LAMK.
Non determinata
5-10% dei neonati
Sindrome
mielodisplastica
(SMD)
Disordine clonale acquisito caratterizzato
da un difetto della differenziazione della
emopoiesi. Nei casi con SD è caratteristica
la piastrinopenia e la notevole displasia
megacariocitaria
8% dei casi di LAM
20-62% dei casi
di LAMK
TABELLA 2 - Disordini neoplastici megacariocitari in età pediatrica.
Le neoplasie megacariocitiche che riguardano la
SD rappresentano il modello genetico di un processo leucemogeno multistep lineage-specifico,
dal momento che sia la LT che la LAMK sono
caratterizzate da un difetto di differenziazione della linea megacariocitaria. Un contributo alla comprensione di questo processo deriva dalla scoperta che il gene GATA1, localizzato sul cromosoma
X, risulta essere mutato nei megacarioblasti dei
pazienti affetti da SD associata a LT o LAMK (5,
6). Queste mutazioni sono state riscontrate anche
nelle cellule emopoietiche del fegato dei feti abortiti affetti da SD (7). Inoltre le mutazioni di GATA1
risultavano essere acquisite dal momento che non
si riscontravano nei campioni dei pazienti in remissione della malattia megacariocitaria ed erano
associate in maniera specifica ai disordini megacariocitari dei pazienti con SD. Pertanto è probabile che nei pazienti affetti da SD, già nella vita
intrauterina, siano selezionate delle mutazioni a
carico del gene GATA1, responsabili dell’interruzione del processo di differenziazione e dell’inizio
della proliferazione clonale dei megacarioblasti
immaturi. Ad ogni modo le mutazioni di GATA1
sono necessarie ma da sole insufficienti a promuovere l’evoluzione della LT in LAMK.
Il gene GATA1 codifica per un fattore di trascrizione zinc-finger che regola lo sviluppo fisiologico della linea eritroide, megacariocitica, basofila
e mastcellulare. Il modello murino che ha il deficit di espressione di GATA1 nella linea megacariocitica mostra piastrinopenia e una esuberante
proliferazione a carico dei megacarioblasti immaturi (8). Recentemente è stata descritta una fami-
glia con un’alterazione germline del gene GATA1
simile a quella riportata nella LAMK-DS. I maschi
che ne erano affetti generavano solo l’isoforma
GATA1s e presentavano anemia e displasia trilineare senza sviluppare mai leucemia (9). Le mutazioni del gene GATA1 sono state riscontrate anche
nell’anemia diseritropoietica familiare con trombocitopenia (10), nella X-linked trombocitopenia
(11, 12) e nella X-linked talassemia con piastrinopenia (13). In tutti questi casi le mutazioni non senso erano a carico delle regioni codificanti il dominio zinc finger di GATA1, determinando l’abrogazione (10) o l’indebolimento (11, 12) dell’interazione con FOG-1 e impedendo a GATA1 di legare il
DNA (13). La conseguenza funzionale di questa
alterazione è un difetto della differenziazione
megacariocitaria ed eritroide in assenza di trasformazione neoplastica. Appare dunque chiaro che
il gene GATA1 normalmente promuove la differenziazione, inibendo la proliferazione, della linea eritroide e megacariocitica. Questi dati confermano che la mutazione di GATA1, in assenza della
trisomia 21, è da sola insufficiente a promuovere la leucemogenesi. Fisiologicamente sono presenti due isoforme del gene GATA1:
a) una forma lunga tradotta a partire dalla prima
tripletta ATG dell’esone 2;
b) una forma corta (GATA1s) che inizia dalla tripletta ATG dell’esone 3.
La funzione fisiologica di GATA1s non è nota. È
probabile che il bilanciamento tra le due isoforme svolga un ruolo importante nella regolazione
fisiologica dello sviluppo della linea megacariocitaria. Tutte le mutazioni acquisite a carico del
Leucemie Megacariocitiche
gene GATA1 che si riscontrano nei disordini megacariocitari dei pazienti pediatrici affetti da SD comportano la scomparsa dell’isoforma lunga e la conservazione di GATA1s.
Ad oggi sono state riportate oltre un centinaio di
mutazioni del gene GATA1; esse si riscontrano
all’estremità 5’, soprattutto a carico del primo esone codificante, l’esone 2, o più raramente, del terzo esone. La maggior parte delle mutazioni sono
rappresentate da inserzioni, duplicazioni, mutazioni puntiformi e, in rari casi, da ampie delezioni. Sono stati riportati alcuni casi nei quali è stata dimostrata la coesistenza di diversi cloni cellulari caratterizzati da mutazioni differenti di
GATA1 (14). Le mutazioni di GATA1 possono produrre un codone di stop prima del codone 84 o
un’alterazione dello splicing che estromette l’esone 2 dal RNA messaggero di GATA1; in entrambi i casi la conseguenza sarà la rimozione dal processo di traduzione del codone di avvio dell’esone 2 e a causa di ciò la proteina GATA1 sarà tradotta a partire da un codone di avvio alternativo,
individuato nel codone 84 dell’esone 3. La proteina GATA1 perderà 84 aminoacidi della sua porzione N-terminale (GATA1s) (Figura 1). Dal momento che GATA1 è codificata da un gene che mappa sul cromosoma X, il clone mutante esprimerà solo l’allele mutato sia nell’uomo che nella donna (a causa dell’inattivazione della X).
Il blocco della differenziazione conseguente alla
mutazione o alla delezione è legato al fatto che i
geni specifici per la linea eritroide e megacariocitaria dipendono dal punto di vista funzionale dall’attività di GATA1. Nel modello murino le mutazioni che non consentono il legame della proteina FOG-1 con il dominio zinc finger dell’estremità N-terminale o che risultano nella generazione
di GATA1s produrranno un’asincronia nei meccanismi che regolano la proliferazione e la differenziazione megacariocitaria; inoltre GATA1s non riesce ad inibire l’attività di alcuni fattori di trascrizione (GATA2, Ikaros, Myb, Myc) la cui azione è
quella di promuovere la proliferazione delle cellule emopoietiche (15-16).
Resta da stabilire se il fenotipo leucemico debba essere attribuito alla perdita dell’isoforma lunga di GATA1 piuttosto che alla sola presenza dell’isoforma GATA1s. Recentemente è stato dimostrato che le cellule emopoietiche con deficit di
GATA1 messe in coltura e stimolate con la trombopoietina producevano l’espansione di una
popolazione blastica trombopoietina-dipendente
che esprimeva marker d’immaturità e che proliferava indefinitivamente. Pertanto è possibile che
la perdita dell’isoforma lunga di GATA1 possa rappresentare il driver primario che conduce al fenotipo leucemico (17).
È probabile che la differenza di funzione eserci-
FIGURA 1 - Le mutazioni del gene GATA1 si riscontrano soprattutto a carico del primo esone codificante (in rosso), l’esone 2, o più
raramente, del terzo esone. Esse producono un codone di stop prima del codone 84 o un’alterazione dello splicing che estromette
l’esone 2 dal RNA messaggero di GATA1; in entrambi i casi si avrà la formazione di GATA1s per effetto della rimozione dal processo
di traduzione del codone di avvio dell’esone 2 e conseguente traduzione della proteina GATA1 a partire da un codone di avvio alternativo
(individuato nel codone 84 dell’esone 3).
39
40
Seminari di Ematologia Oncologica
tata da GATA1 e GATA1s sia dovuta ai diversi partners proteici delle due isoforme (Figura 2).
L’isoforma GATA1 è presente in almeno cinque
complessi proteici. In particolare GATA1 e FOG1 si legano a formare un complesso che probabilmente ha la funzione di attivare l’espressione
genica, mentre ciascuna delle due proteine,
separatamente, si unisce al complesso repressore NuRD/MeCP1 (18). GATA1 forma anche dei
complessi attivanti con i fattori di trascrizione SCLTAL1/E2A/LMO2/LDB1 e si ritrova a far parte di
complessi insieme a proteine che si occupano del
rimodellamento cromatinico come ACH/WCRF e
GFI-1b (19). Nessuno dei partners di GATA1 interagisce con questa proteina a livello dell’estremità N-terminale.
È stato ipotizzato che GATA1 potrebbe interagire con RUNX1 attraverso i domini N e C-terminali (20); quest’interazione assume un valore
importante non solo per il fatto che RUNX1 mappa sul cromosoma 21 (e quindi nella SD è presente in triplice copia) ma anche perché questo
gene ha un ruolo importante nei processi della differenziazione megacariocitaria umana (21). In realtà non è ancora del tutto chiaro se l’estremità N-
terminale di GATA1 sia davvero necessaria per l’interazione con RUNX1 dal momento che quest’ultima potrebbe realizzarsi anche attraverso il
dominio zinc finger (22). Gli studi finora riportati
in letteratura non hanno mostrato una differenza
in termini di partners proteici per le due isoforme,
probabilmente questo è il riflesso del fatto che
ancora non sono stati individuati tutti i partners
proteici di GATA1 coinvolti nella megacariocitopoiesi fisiologica.
Dal momento che la trisomia 21 della SD è un’anomalia costituzionale, tutte le cellule dell’organismo
risulteranno essere aneuploidi; questa condizione
cellulare potrebbe agire, in maniera non autonoma, da fattore leucemogeno. Infatti la presenza della trisomia 21 nelle cellule stromali non emopoietiche del fegato fetale potrebbe modificare il microambiente e creare le condizioni di supporto alla
proliferazione di progenitori emopoietici fetali che
siano sensibili all’azione di GATA1s. Questa ipotesi spiegherebbe perché la LT nella maggior parte dei casi si risolve spontaneamente dopo la
nascita. Recentemente è stata studiata l’emopoiesi nel fegato fetale e nel midollo osseo in feti normali e affetti da SD (i campioni oggetto dall’ana-
FIGURA 2 - Modello della funzione di GATA1
nell’emopoiesi normale e nella leucemogenesi.
A) La presenza delle due isoforme di GATA1
garantisce lo sviluppo della normale emopoiesi.
B) in assenza dell’isoforma lunga di GATA1,
GATA1s non garantisce la normale emopoiesi;
in questa situazione si avrà l’alterazione della
megacariopoiesi, dell’eritropoiesi e della
granulopoiesi;
C) in assenza dell’isoforma lunga di GATA1,
GATA1s può agire in sinergia con la trisomia 21
favorendo la proliferazione megacariocitaria e la
trasformazione neoplastica.
Leucemie Megacariocitiche
lisi provenivano da interruzioni chirurgiche di gravidanza prodotte entro il secondo trimestre) (23).
Il compartimento CD34+CD38+ mostrava una frequenza più elevata di progenitori megacariocitari-eritroidi nel fegato fetale dei feti affetti da SD
mentre nel midollo osseo la frequenza di questi
progenitori emopoietici era uguale nei due gruppi di feti studiati. Per escludere la presenza di mutazioni occulte di GATA1 era stata effettuata l’analisi mutazionale sul DNA delle cellule CD34+ del
fegato fetale affetto da SD, così come l’analisi
genomica delle cellule CD34+ delle colture cellulari megacariocitarie ed eritroidi. L’analisi mutazionale escludeva la presenza di mutazioni, inoltre le
cellule CD34+, del fegato fetale normale e di quello affetto da SD, esprimevano l’mRNA di entrambe le isoforme di GATA1. Un altro dato importante era che l’analisi quantitativa dell’espressione del
gene RUNX1, effettuata mediante real time PCR,
evidenziava che l’espressione del gene nelle cellule CD34+ del fegato fetale con SD era aumentata rispetto a quella rilevata nel fegato fetale normale. Questo dato era in accordo con il meccanismo di effetto di dose genica legato alla trisomia 21 ed in contrasto con l’evidenza che
l’espressione di RUNXI è diminuita nelle LAMKSD (24). Pertanto questo studio ha evidenziato, per
la prima volta, che nella SD il compartimento progenitore mieloide del fegato fetale presenta delle
alterazioni che non sono dipendenti dalle mutazioni di GATA1. Queste alterazioni si traducono in
un’espansione dei progenitori megacariocitari-eritroidi e in una spiccata clonogenicità della linea
mieloide (23). Appare chiaro quindi che nel fegato fetale di tutti i pazienti affetti da SD vi è una
popolazione progenitrice emopoietica capace di
dare il via al processo leucemogeno; questi dati
dimostravano che la trisomia 21 espande in maniera specifica un compartimento di progenitori emopoietici del fegato fetale a partire dal quale la mutazione di GATA1 potrebbe poi creare un ulteriore
vantaggio selettivo.
L’evoluzione della LT in LAMK nei pazienti affetti da SD chiama in causa la condizione di aumentata espressione di geni che mappano sul cromosoma 21 in concomitanza alla presenza di
GATA1s; questo binomio promuoverebbe la proliferazione e la sopravvivenza cellulare.
Recentemente è stato dimostrato il coinvolgimen-
to del gene ERG, fattore di trascrizione Ets che
mappa sul cromosoma 21, nelle leucemie megacariocitiche dei pazienti con SD (25). ERG è un
protooncogene raramente coinvolto nelle LAMK
per effetto della traslocazione ERG-TLS. Il gene
ERG è normalmente espresso nelle cellule emopoietiche CD34+, nei megacariociti normali e nelle piastrine, nei megacariociti leucemici (delle leucemie associate o meno a SD); la sua espressione risulta essere assente negli eritroblasti normali e leucemici. Evidenze sperimentali hanno
mostrato che:
a) l’espressione forzata di ERG nelle linee cellulari di eritroleucemia determinava uno shift
fenotipico dalla linea eritroide a quella megacariocitaria;
b) il knock-down di ERG nelle linee cellulari di leucemia megacarioblastica era responsabile
del ripristino del fenotipo megacarioblastico
normale (25).
Queste osservazioni suggeriscono che il gene
ERG è probabilmente un regolatore positivo della megacariopoiesi normale e leucemica.
I geni ETS2 ed ERG (membri della famiglia dei
fattori di trascrizione Ets) hanno mostrato una
overespressione nei casi di LAM con cariotipi
complessi nei quali erano coinvolti i cromosomi
21 (26). Questa circostanza ha portato alla formulazione dell’ipotesi che i due geni, che mappano entrambi sul cromosoma 21, potrebbero
avere un ruolo importante nel processo di leucemogenesi dei pazienti affetti da SD. A supporto di quest’ipotesi c’era l’evidenza che l’espressione forzata del gene ERG3 produceva, nel corso dello sviluppo emopoietico, uno switch fenotipico dalla linea eritroide a quella megacariocitaria, così come avviene nel corso dell’emopoiesi fetale nei casi con trisomia 21 costituzionale (25). Questa “pressione promegacariocitaria”
potrebbe favorire la selezione e la proliferazione
dei progenitori emopoietici con la mutazione
GATA1 determinando il blocco definitivo del processo di differenziazione.
Il gene ETS2 è ubiquitariamente espresso nei tessuti. Nelle cellule emopoietiche ETS2 è abbondantemente espresso nei monociti e nei macrofagi ma
non nei granulociti (27); è implicato nella regolazione di geni che controllano la funzione megacariocitaria (28). Recentemente è stato dimostra-
41
42
Seminari di Ematologia Oncologica
to che i livelli di trascritto del gene ETS2 sono più
alti nei megacarioblasti delle LAMK dei bambini
affetti e non da SD rispetto ai livelli di espressione riscontrati nei mieloblasti di LAM non M7 e non
associate a SD (29). Inoltre i livelli di trascritto di
ETS2 risultavano più elevati nei casi di LAMK-SD
rispetto a quelli riscontrati nei pazienti con LAMK
non associata a SD. Questi risultati suggeriscono che ETS2 potrebbe avere un ruolo sia nello sviluppo della LAMK che nella diversa sensibilità farmacologica che contraddistingue la LAMK-SD
rispetto alla LAMK non associata a SD.
L’overespressione di ETS2 indotta nella linea cellulare K562 produce uno switch fenotipico dalla
linea eritroide a quella megacariocitica in maniera indipendente dai livelli di GATA1; inoltre questo esperimento dimostrava che la upregolazione di ETS2 modulava la sensibilità delle cellule
all’azione dell’ARA-C e della daunorubicina in funzione dei livelli di GATA1 (29).
L’analisi del profilo di espressione genica della
linea cellulare K562 nella quale veniva upregolata l’espressione del gene ETS2 mostrava che la
disregolazione di fattori di trascrizioni e di citochine potevano essere responsabili dello switch fenotipico eritroide-megacariocitico e dell’alterata
sensibilità agli agenti antiblastici (29).
Sul cromosoma 21 ci sono molti geni che codificano per proteine che hanno un ruolo nella
megacariopoiesi; tra questi vi sono i già citati
RUNX1, ETS2 e i microRNA miR99a e miR125b,
questi ultimi risultano essere upregolati nelle LAMK
associate a SD (30). Tutte queste evidenze permettono di formulare un modello che spiega la
relazione tra SD e leucemie megacariocitiche: la
upregolazione di alcuni geni che mappano sul cromosoma 21 stimolerebbe fuori misura la megacariopoiesi; questo sarebbe in linea con l’osservazione che i nascituri affetti da SD mostrano una
trombocitosi nei primi 6 mesi di vita (31). Nel contempo è stata anche dimostrata nella SD
un’espansione dell’attività dei progenitori eritromegacariocitari nel fegato fetale (23). In questo
contesto, la mutazione GATA1s produrrebbe un
blocco della normale megacariopoiesi e la promozione della proliferazione dei megacariociti
immaturi; in definitiva, solo i precursori megacariocitici con la mutazione GATA1s proliferano e si
accumulano configurando il quadro del fenotipo
leucemico congenito. RUNX1 è un fattore di trascrizione emopoietico che mappa sul cromosoma 21. È spesso il target di traslocazioni cromosomiche nella leucemia mieloide acuta ed è fondamentale per la differenziazione dei progenitori
megacariocitici (32). L’aploinsufficienza di RUNX1
è responsabile di una sindrome familiare caratterizzata da piastrinopenia e rischio di trasformazione leucemica (33). Un recente studio ha dimostrato che RUNX1 è espresso nei megacariociti
e che GATA1s, presente nella LAMK-SD, è incapace di interagire con RUNX1 (20). Alla luce di
queste evidenze, la mutazione GATA1s potrebbe
essere responsabile di un duplice effetto nella
LAMK-SD:
a) alterata differenziazione megacariocitaria per
l’assenza dell’isoforma lunga di GATA1;
b) un’aumentata disponibilità di RUNX1 dovuta
sia alla trisomia 21 che all’incapacità di legarsi a GATA1s.
La combinazione del deficit di funzione di GATA1
e dell’aumento di funzione di RUNX1 potrebbe
avere un ruolo importante nei meccanismi che
determinano l’aumentata incidenza di LAMK nella SD.
I dati disponibili fanno pensare che nello sviluppo della LAMK-SD ci siano almeno tre momenti
patogenetici fondamentali (Figura 3). Il primo è che
la cellula emopoietica fetale debba avere la trisomia 21; l’importanza della trisomia è sottolineata dai rari casi di LT nei neonati che non sono affetti da SD, infatti, in tutti questi casi il clone della
LT ha acquisito la trisomia 21. Il secondo momento è rappresentato dalla mutazione di GATA1 e
generazione di GATA1s. Poichè la mutazione di
GATA1 è frequente nelle cellule trisomiche del sangue fetale e i bambini affetti da SD non sono proni al cancro, è possibile dunque che il vantaggio
proliferativo venga conferito dalla mutazione
GATA1s piuttosto che dalla trisomia 21. Questi due
primi momenti patogenetici sono necessari per
avere la LT. Infine, poichè non tutti i casi di LT progrediscono a LAMK, sarà necessario un terzo step
patogenetico, di natura genetica o epigenetica,
ancora ignoto.
Circa il 10% dei neonati affetti da SD sviluppano
la LT, caratterizzata da un clone preleucemico che
origina da progenitori mieloidi del fegato fetale portatori della mutazione somatica del gene GATA1.
Leucemie Megacariocitiche
FIGURA 3 - Nella SD la upregolazione di alcuni geni che mappano sul cromosoma 21 stimolerebbe fuori misura la megacariopoiesi
producendo un’espansione dell’attività dei progenitori eritro-megacariocitari (in rosso) nel fegato fetale. In questo contesto, la mutazione
GATA1s produrebbe un blocco della normale megacariopoiesi e la promozione della proliferazione dei megacariociti immaturi
configurando il quadro fenotipico della LT. Dopo la nascita nella maggior parte dei casi di LT si ha il ripristino della normale emopoiesi
e scomparsa del clone GATA1s +. Nel 20% dei casi di LT una anomalia molecolare addizionale, non nota, sarà responsabile della
trasformazione leucemica della LT.
La LT ha un quadro clinico variabile che va dall’assenza di sintomatologia fino a complicazioni
severe e talvolta fatali (34, 35). Circa il 20% dei
bambini con la LT svilupperanno una LAMK prima dei 5 anni di età (34).
Dal momento che la LT ha origine nel fegato emopoietico, dopo la nascita i blasti nel sangue periferico saranno in maggior numero rispetto a quelli del midollo osseo. La LAMK è preceduta spesso da una fase mielodisplastica nella quale il
numero delle piastrine nel sangue periferico si
riduce e i megacariociti displastici aumentano nel
midollo osseo. In questa fase il numero dei blasti è basso. La fase mielodisplastica dura qualche mese e si conclude con la trasformazione in
LAMK (2, 4, 36). La fase mielodisplastica che anticipa la LAMK-SD può durare mesi o perfino anni
prima della progressione. Questa mielodisplasia
è differente da quella che si riscontra nei bambi-
ni che non hanno la SD: la prima può essere curata con la chemioterapia, la seconda richiede il trapianto di midollo osseo (2, 37, 38). È probabile
che questa fase mielodisplastica non rappresenti un disordine distinto ma una fase dell’evoluzione della LT a LAMK.
Le caratteristiche presenti all’esordio della LAMKSD sono differenti rispetto a quelle delle LAM
pediatriche non associate a SD:
1) basso numero di globuli bianchi;
2) i bambini all’esordio della malattia hanno meno
di 5 anni;
3) assenza di coinvolgimento meningeo;
4) assenza di alterazioni citogenetiche come la
t(8;21) e la inv(16), di frequente riscontro nella LAM non associate alla SD.
La LAMK-DS, come le altre forme di leucemie
megacariocitiche dell’adulto e pediatriche, è
associata alla proliferazione di tessuto fibroso in
43
44
Seminari di Ematologia Oncologica
sede midollare, presumibilmente imputabile all’aumentato numero dei megacarioblasti e dei megacariociti.
Alcune evidenze suggeriscono che la LAMK e la
LT sono due condizioni patologiche che dividono la stessa base patogenetica:
a) i blasti della LAMK e della LT hanno un immunofenotipo caratterizzato da marker eritroidi e
megacariocitici, testimoniando la possibilità
che la LT e la LAMK possano derivare entrambe da un progenitore cellulare bipotente eritroide-megacariocitario;
b) i megacarioblasti della LAMK e della LT sono
simili dal punto di vista morfologico, immunofenotipico e ultrastrutturale;
c) mutazioni di GATA1 sono presenti in LT e
LAMK.
Recenti studi hanno dimostrato che la LT e la
LAMK-SD hanno un profilo di espressione genica ben distinto da quello di altre neoplasie mieloidi. Questi dati confermano che GATA1s non riesce a bloccare l’attività di alcuni fattori di trascrizione (GATA2, MYC, KIT). Inoltre altri geni upregolati risultavano essere BACH1 (fattore di trascrizione repressore delle differenziazione megacariocitaria), SON (omologo di MYC) e lo stesso
GATA1 (24).
Massey et al. hanno descritto 48 casi di LT-SD
dei quali il 25% era asintomatico e presentava blasti nel sangue periferico (34). Altri pazienti mostravano una conta dei blasti circolanti molto alta, sanguinamenti, distress respiratorio ed epatomegalia. La disfunzione epatica può essere molto severa e in rari casi di feti o neonati affetti da LT può
essere causa di una insufficienza epatica acuta
secondaria a fibrosi. La patologia epatica è probabilmente dovuta all’infiltrazione patologica delle cellule emopoietiche fetali trasformate. Nella
maggior parte dei casi la LT si risolve spontaneamente anche se in qualche caso è necessario un
trattamento chemioterapico a basse dosi. Un
recente studio ha dimostrato la overespressione
del gene KIT nella LT (39). Lo stem cell factor (SCF)
stimolava la proliferazione delle cellule della LT e
il trattamento in vitro con imatinib sopprimeva la
proliferazione. Venivano quindi studiate le vie di
segnale coinvolte nella prima linea cellulare SCF
dipendente (KPAM1) derivante da un paziente
affetto da LAMK-SD. L’eliminazione dello SCF dal-
la coltura o il trattamento con l’imatinib inducevano l’apoptosi delle cellule KPAM1. SCF era
capace di attivare i pathway RAS/MAPK e
PI3K/AKT producendo la downregolazione del fattore pro apoptotico BIM e la upregolazione del fattore antiapoptotico MCL1. Questi dati suggeriscono un ruolo patogenetico del signaling SCF/KIT
nella proliferazione delle leucemie associate alla
SD e la possibilità di un beneficio terapeutico prodotto dall’imatinib nei pazienti affetti da LT.
La reale incidenza della LT non è nota dal momento che l’esame emocromocitometrico e l’analisi
morfologica del sangue periferico non vengono
routinariamente effettuati su tutti i neonati affetti
da SD; inoltre i casi con lievi manifestazioni di LT
possono sfuggire alla diagnosi.
Ci sono diverse ipotesi circa la spiegazione della remissione spontanea della LT. È probabile che
la LT sia espressione di un disordine dell’emopoiesi fetale epatica (40, 41). Il fegato fisiologicamente è una sede di emopoiesi e cessa questa funzione subito dopo la nascita; pertanto la remissione spontanea della LT potrebbe essere il prodotto della cessazione dell’emopoiesi epatica.
L’evidenza che l’evoluzione della LAMK comincia da subcloni di blasti della LT, oltre che essere documentata dalla presenza della mutazione
GATA1s, appare supportata dal fatto che le stesse anomalie citogenetiche sono presenti in tutte
e due le fasi di questo disordine megacariocitario (42, 43). È presumibile che alterazioni citogenetico-molecolari promuovono la trasformazione
di una condizione benigna qual è la LT in un’irreversibile e maligna qual è la LAMK. Questo dato
è confermato dal fatto che spesso la LAMK-DS
presenta anomalie citogenetiche addizionali, non
evidenti nella fase di LT (42, 44).
Le cellule leucemiche della LT e della LAMK-SD
mostrano i segni della differenziazione megacariocitaria, rappresentati da antigeni di superficie,
attività perossidasica piastrinica e caratteristiche
ultrastrutturali megacariocitarie (45, 46) (Figura 4).
Inoltre le cellule leucemiche possono presentare
caratteristiche di altre linee emopoietiche, in particolare riferibili a progenitori cellulari eritroidi e
basofili (47). Infatti sulla superficie e nel citoplasma dei blasti LAMK-SD sono stati riscontrati
rispettivamenti antigeni eritrocitari (ad es. la glicoforina) (48) e la ferritina (46). La trisomia 8 pre-
Leucemie Megacariocitiche
FIGURA 4 - Caratteristiche immunofenotipiche del blasto
leucemico della LAMK. Lo studio di alcuni mRNA può definire
la natura megacariocitaria della cellula leucemica nei casi in cui
la morfologia e lo studio immunofenotipico non forniscano
sufficienti indicazioni circa l’appartenenza di lineage del blasto
leucemico.
sente nei blasti megacariocitari è stata riscontrata anche nei precursori eritroidi suggerendo che
questi ultimi fanno parte del clone leucemico (49).
Inoltre nei blasti della LAMK-SD è stato riscontrato l’mRNA della g-globina e della a-aminolevulinico sintetasi (50), specifici della linea eritroide, e studi in vitro hanno documentato segni di
differenziazione basofila nelle colture di cellule
midollari di LT e LAMK-SD (51, 52). Queste evidenze sottolineano che la cellula leucemica della leucemia associata alla SD ha il potenziale per
formare elementi cellulari riconducibili alla linea
megacariocitaria, eritroide e basofila. Questo
potenziale differenziativo è certamente da mettere in relazione con la mutazione di GATA1 che è
un noto fattore di trascrizione coinvolto nella differenziazione cellulare della linea megacariocitaria, eritroide e basofila.
Nella LAMK-SD è frequente il riscontro di alterazioni citogenetiche quali la trisomia 8, una copia
addizionale del cromosoma 21 (che si aggiunge
alla trisomia costituzionale), la monosomia del cromosoma 7, la monosomia del cromosoma 5 e la
delezione del 5q (38).
In generale, i bambini affetti da LAMK associata
a SD hanno una prognosi migliore rispetto a quelli con LAM in assenza di SD, dal momento che
la prima risulta essere chemiosensibile (53-56). In
vitro le cellule LAMK-DS sono sensibili all’ ara-CTP
(57) a causa dell’aumentata espressione della
cistationina-b-sintetasi e della deossicitidina chinasi, entrambe codificate da geni che mappano
sul cromosoma 21. In vivo i pazienti affetti da
LAMK-SD risultano essere sensibili alla citosina
arabinoside, componente essenziale del regime
terapeutico. Il trattamento chemioterapico intensivo, normalmente impiegato per la cura delle
LAM pediatriche non associate a SD, deve
essere evitato nei casi di LAMK-SD dal momento che è causa, in questi pazienti, di un’alta incidenza di morte treatment-related (58, 59). La
sopravvivenza globale (OS) a 10 anni di 61 pazienti trattati secondo il protocollo NOPHO era uguale al 74% (60). Allo stesso modo la OS a 5 anni
per 161pazienti trattati secondo il Children’s
Cancer Group study CCG 2891 era del 79% (59).
Infine la OS a 3 anni di 67 bambini trattati secondo lo studio AML-BFM 98 era del 91% (1). Tutti
questi dati confermano la prognosi favorevole dei
pazienti affetti da SD che sviluppano una LAM.
Sono molti i casi di LAMK-SD che muoiono per
la tossicità del trattamento d’induzione, pertanto
nuovi protocolli terapeutici prevedono una revisione dei dosaggi dei chemioterapici ad eccezione di quelli che riguardano la citosina arabinoside. Klusmann et al. riportano che i pazienti con
LAMK-SD con una storia di LT avevano una
sopravvivenza libera da malattia superiore a quella evidenziata nei pazienti che non avevano
un’anamnesi di LT. Infatti, in questi ultimi la frequenza di recidiva di malattia risultava essere più
alta (61).
Non è ancora chiaro se l’analisi quantitativa del
trascritto mutato di GATA1, effettuato con analisi di real time PCR quantitativa, potrà essere uno
strumento efficace per misurare la malattia minima residua e individuare classi di rischio nei
pazienti affetti da LAM associata a SD (62).
Le mutazioni del gene GATA1 possono essere
45
46
Seminari di Ematologia Oncologica
riscontrate mediante amplificazione per PCR degli
esoni 2 e 3, seguita dal sequenziameto diretto o
dall’analisi in cromatografia liquida denaturante ad
alta prestazione (DHPLC). La possibilità di trovare la mutazione è in funzione della rappresentazione del clone mutato nel campione. In generale, per avere un riscontro positivo è necessario
che, per il sequenziamento diretto, almeno il 20%
del campione contenga cellule mutate. La sensibilità della DHPLC è più alta e sarà sufficiente che
la popolazione mutata rappresenti almeno il 2-5%
del campione (62).
Mutazioni del gene JAK3 sono state riscontrate
in casi di LT e LAMK-SD. Dal momento che l’alterazione di JAK3 è stata rilevata nelle diverse fasi
del disordine megacariocitario associato alla SD,
è improbabile che essa rappresenti la causa della trasformazione della LT in LAMK (63-67). Inoltre
nei casi affetti da LT e LAMK-SD non sono state riscontrate mutazioni a carico di geni ad attività tirosin-chinasica (FLT3, KIT) spesso coinvolti nelle LAM non associate a SD, così come sono
risultate assenti le mutazioni a carico dell’oncogene RAS o del gene MPL che codifica per il
recettore della trombopoietina (67).
Hama et al. (68) hanno confrontato le caratteristiche biologiche e cliniche dei bambini affetti da
LAMK-SD con quelle dei casi LAMK non associati a SD. L’analisi morfologica dei blasti individuava almeno tre categorie morfologiche differenti:
1) categoria 1: blasti completamente indifferenziati con nucleolo e/o vacuoli citoplasmatici;
2) categoria 2: blasti moderatamente differenziati, con blebs citoplasmatici, spesso ampio citoplasma e granuli azurofili;
3) blasti con dismegacariocitopoiesi e/o micromegacariociti.
Le categorie 1 e 2 potevano poi essere suddivise in base alla presenza/assenza del citoplasma
intensamente basofilo dei blasti. Dal punto di vista
morfologico i blasti della LAMK-SD apparivano
meno maturi rispetto al gruppo di LAMK non
associato alla SD. La maggior parte dei blasti leucemici nei pazienti dei due gruppi esprimeva almeno un antigene della linea megacariocitaria
(CD36, CD41, CD42, CD61); i casi con bassa
espressione di questi antigeni risultavano positivi per la perosidassi piastrinica. Il CD13/CD33 era-
no espressi nella maggior parte dei due gruppi di
pazienti. L’espressione del CD7 era associata
soprattutto ai casi LAMK-SD. La glicoforina A era
espressa solo sui blasti leucemici della LAMK-SD.
La LAMK non associata a SD è caratterizzata dall’espansione midollare dei megacarioblasti ed è
spesso associata a mielofibrosi, epato-splenomegalia e pancitopenia (69-71). Nella maggior parte dei casi la LAMK risulta essere associata alla
t(1;22) (72-74). Altre anomalie citogenetiche sporadiche sono state osservate nel corso delle
LAMK, tra tutte la t(10;11) che porta alla fusione
di CALM-AF10 (75), la t(9;11), la + 8 e la +21 (70).
In questi casi il quadro clinico è simile a quello
presente nella LAMK con la t(1;22) ma l’esordio
della malattia è più tardivo, intorno ai 2 anni di età
(70). Recentemente un gene omologo di RBM15,
RBM6, è stato trovato in fusione con il gene
CSFR1 (colony-stimulating factor 1 receptor) nella linea cellulare megacarioticica MKL1 ma al
momento non c’è ancora nessuna evidenza di
questo riarrangiamento nei pazienti pediatrici affetti da LAMK (76).
La proteina di fusione RBM15-MKL1 è il prodotto della traslocazione bilanciata t(1;22)(p13;q13)
che si riscontra nella LAMK pediatrica. Del gene
RBM15 (RNA binding motif protein 15), precedentemente chiamato OTT, e del gene MKL1 (megakaryoblastic leukemia), già indicato con il nome
MAL (megakaryocytic acute leukemia), non si sa
molto. Dal momento che i breakpoint cadono nel
primo introne di RBM15 (o nel terzo introne nella traslocazione variante) e nel quarto introne del
gene MKL1, le regioni che codificano per le due
proteine conservano quasi del tutto la loro integrità (74).
Il gene RBM15 contiene tre siti di riconoscimento dell’RNA (RRM) e un dominio C-terminale, chiamato SPOC, ortologo e paralogo del gene di
Drosophila Spen (77, 78). I motivi RRM si legano
agli acidi nucleici (79) mentre il dominio SPOC
recluta i complessi corepressori SMRT e Ncor (80).
Le funzioni di RBM15 sembrano riguardare
anche il controllo delle attività trascrizionali del
gene NOTCH (81).
Il gene MKL1 è un potente coattivatore della trascrizione appartenente alla famiglia dei fattori di
trascrizione associati alla miocardina (MRTF),
implicato nell’ espressione genica regolata dal
Leucemie Megacariocitiche
“serum response factor” (SRF), un fattore di trascrizione che controlla i geni responsivi a mitogeni e specifici del tessuto muscolare (82).
Il gene RBM15 è probabile che sia implicato nella regolazione negativa della proliferazione megacariocitaria; recenti evidenze documentano la possibilità che il gene di fusione RBM15-MKL1 possa avere un ruolo dominante negativo sull’attività
fisiologica dell’allele RBM15 non riarrangiato contribuendo così alla patogenesi della LAMK. È dunque possibile che la disregolazione del gene
RBM15 insieme all’attivazione dei geni target di
MKL1 possano rappresentare momenti patogenetici fondamentali nella formazione della LAMK (83).
I pazienti pediatrici affetti da LAMK non associata a SD presentano una OS inferiore e una più
bassa sopravvivenza libera da malattia quando
sono confrontati con bambini affetti da LAMK-SD
o da una LAM con citotipo FAB diverso da M7
(2, 70, 71).
■ LEUCEMIE MEGACARIOCITICHE
DELL’ADULTO
La LAMK dell’adulto è una patologia assai rara;
essa rappresenta circa l’1% di tutti i casi di LAM
(84, 85). L’esame morfologico del midollo osseo
mette in evidenza una proliferazione incontrollata dei megacarioblasti associata frequentemente a mielofibrosi.
La LAMK dell’adulto è caratterizzata da una popolazione abbastanza uniforme di blasti leucemici
caratterizzati da un aspetto “linfoide” con abbondante citoplasma basofilo e assenza di corpi di
Auer. Possono essere presenti blebs citoplasmatici ma questo dato morfologico non è specifico
di questo citotipo e non può quindi essere impiegato come criterio diagnostico dirimente. I blasti
sono negativi per la mieloperossidasi e per il
Sudan black B, possono essere positivi per le
esterasi non specifiche. L’indagine citofluorimetrica dei blasti rivela che essi possono esprimere antigeni mielodi ma anche antigeni associati alla
linea megacariocitaria come il CD41, CD42 e il
CD61 (86).
Le analisi delle casistiche dei pazienti adulti affetti da LAMK riportate in letteratura definiscono che
questi casi non hanno percentuali di remissione
completa più basse quando confrontati con gli altri
citotipi FAB. Tuttavia i casi affetti da M7 presentano una OS e una sopravvivenza libera da malattia peggiore rispetto a quelle di tutte le altre LAM
(84, 85, 87). Le alterazioni citogenetiche più spesso descritte in associazione con la LAMK dell’adulto sono le anomalie del cromosoma 3, 5 e
7 (87, 88). Sebbene la t(1;22)(p13;q13) sia un riarrangiamento frequentemente associato alle LAMK
pediatriche non associate alla SD, quest’anomalia non è mai stata riportata nei casi di M7 dell’adulto.
La frequenza delle localizzazioni extramidollari nella LAMK dell’adulto è alta. Le sedi più spesso
coinvolte sono la cute e il sistema nervoso centrale, più rare le localizzazioni ossee a carattere
osteolitico. Questi dati suggeriscono che i blasti
leucemici della M7, al pari di quelli della M4 e M5
della classificazione FAB, godono di caratteristiche biologiche che li rendono idonei alle localizzazioni extramidollari
Oki et al. hanno dimostrato che il citotipo M7 risultava essere più spesso associato ad una precedente malattia ematologica, ad alterazioni citogenetiche con significato prognostico sfavorevole,
ad un basso numero di globuli bianchi e ad una
più bassa percentuale di blasti midollari. Inoltre,
in analisi multivariata, la M7 rappresentava di per
sè un fattore prognostico negativo indipendente
anche dalla citogenetica (87). Questo dato indica che probabilmente la LAMK dell’adulto ha
caratteristiche biologiche distinte da quelle degli
altri citotipi FAB.
Un recente studio ha analizzato le caratteristiche
funzionali e genomiche dei mitocondri dei blasti
di un paziente affetto da LAMK. Evidenze sperimentali mettevano in rilievo un’anomala produzione di reattivi dell’ossigeno (ROS) da parte dei blasti, probabilmente da mettere in relazione con l’alterazione della catena respiratoria mitocondriale,
come anche evidenziato dalla presenza di mutazioni non senso a carico del DNA mitocondriale
che riguardavano il gene ND1 che codifica per la
subunità transmembrana del NADH-ubiquinone
ossidoreduttasi (89).
L’European Group of Blood and Marrow
Transplantation (EBMT) ha riportato le caratteristiche cliniche e prognostiche di 69 pazienti adulti affetti da LAMK e sottoposti a trapianto auto-
47
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Seminari di Ematologia Oncologica
logo o allogenico di cellule staminali dopo la prima remissione completa. La sopravvivenza a 3
anni era del 30% e del 43% per i pazienti sottoposti rispettivamente a trapianto autologo e allogenico (90). Pertanto, come già detto, essendo
la prognosi di questi pazienti severa, appare evidente che in questo subset di pazienti il miglior
beneficio terapeutico si ottiene con il trapianto allogenico in prima remissione completa.
L’associazione tra le patologie oncoematologiche
e il tumore primitivo del mediastino a cellule germinali (TPMCG) è nota dal 1985 (91, 92). La patologia ematologica di più frequente riscontro nei
pazienti con TPMCG è la LAMK (93). Ad oggi sono
stati riportati in letteratura almeno 20 casi di LAMK
dopo diagnosi di TPMCG (92-100). La relazione
causale tra queste due patologie non è ancora
chiara. È possibile che le cellule neoplastiche del
TPMCG non seminomatoso una volta invase le
cavità midollari, in questa sede diventino capaci, a causa di stimoli esercitati dal microambiente midollare, di trasformarsi in cellule leucemiche.
Un’ipotesi alternativa stabilisce che la componente neoplastica mesenchimale-like riconducibile al
sacco vitellino possa agire come stimolo per le
cellule primordiali germinali promuovendo la loro
trasformazione in neoplasie tipiche dei tessuti non
germinativi. La conferma a quest’ipotesi viene dalla presenza di precursori emopoietici nel TPMCG
che derivano da stroma e vasi della componente neoplastica riconducibile al sacco vitellino,
sovente associata a questi tumori (101). È inoltre
possibile che la presenza di fattori di crescita e
di differenziazione emopoietici in alcuni TPMCG
possano essere responsabili della differenziazione delle cellule germinali primordiali in elementi
cellulari emopoietici. La mediana di tempo dello
sviluppo di una LAMK a partire da un TPMCG è
di circa 6 mesi (93). Il decorso clinico della leucemia è aggressivo con una mediana di sopravvivenza di circa 5 mesi dopo la diagnosi (93). Ad
oggi sono stati descritti tre casi con localizzazione extramidollare di LAMK associata a TPMCG
(97, 100). Sono almeno due le evidenze che stabiliscono chiaramente che la LAMK che si associa alla TPMCG non può essere considerata therapy-related:
1) il breve intervallo di tempo che intercorre tra
la TPMCG e la malattia ematologica;
2) una relazione clonale tra le due patologie è
spesso stabilita dalla presenza di marker citogenetici (l’alterazione citogenetica più spesso
rappresentata in questi casi è l’isocromosoma
12p) (101-104).
La Leucemia mieloide cronica (LMC) è un disordine mieloproliferativo clonale caratterizzato dalla presenza del riarrangiamento cromosomico
t(9;22). La storia naturale della LMC prevede la
trasformazione della malattia da una fase cronica alle fasi accelerata e blastica entro 2-5 anni dalla diagnosi (105). In circa il 70% delle crisi blastiche i blasti sono riconducibili alla linea mieloide.
Nel restante 30% le crisi blastiche sono caratterizzate da elementi blastici con marker immunofenotipici linfoidi (105, 106).
La crisi megacarioblastica che segue la fase cronica della LMC è una condizione molto rara e conta meno del 3% di tutte le crisi blastiche della LMC
(107). È una malattia molto aggressiva, resistente al trattamento chemioterapico e con una pessima prognosi (107-109).
All’esame immunofenotipico i blasti possono presentare positività per il CD45, CD41, CD61, CD34,
CD13, CD33, HLA-DR. La linea megacariocitaria
può essere individuata anche attraverso lo studio dell’espressione dell’mRNA del fattore piastrinico 4 (PF4), della perossidasi piastrinica e della
glicoproteina IIb (110, 111). Nella crisi blastica
megacariocitaria la presenza nel sangue periferico di piastrine displastiche che si distaccano dal
citoplasma di megacariociti potrebbe rappresentare un marker morfologico distintivo di questa
patologia (112).
La Trombocitemia Essenziale (TE) è un disordine
mieloproliferativo cronico caratterizzato da un
aumentato rischio di trombosi e/o emorragia (113).
La trasformazione leucemica della TE è stata riportata nell’1% dei casi non trattati e fino al 4% dei
casi sottoposti a trattamenti farmacologici (114115). La M7 rappresenta il citotipo FAB che nel
10% dei casi caratterizza la trasformazione leucemica della TE (116).
La mielofibrosi con metaplasia mieloide (MMM)
è un disordine mieloproliferativo caratterizzato da
progressiva fibrosi midollare, osteosclerosi e
angiogenesi (117). Nel 25% dei casi di MMM con
trasformazione leucemica si riscontra un fenotipo riconducibile alla LAMK; i pazienti con evo-
Leucemie Megacariocitiche
luzione della MMM in LAMK hanno una OS di
3 mesi e nessuno di loro otteneva la remissione completa dopo il trattamento d’induzione
(118).
■ CONCLUSIONI
La LAMK è un disordine megacariocitario con
caratteristiche biologiche e cliniche eterogenee.
La trasformazione neoplastica della linea megacariocitaria probabilmente può realizzarsi con
modalità patogenetiche differenti. La LAMK associata alla SD si propone come un interessante
modello di leucemogenesi a partire dal quale, in
futuro, si potrà migliorare la comprensione anche
dei meccanismi patogenetici che sono alla base
delle LAMK dell’adulto.
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53
55
Clinica e Terapia
della Trombocitemia
Essenziale
Luigi Gugliotta
LUIGI GUGLIOTTA
Struttura Complessa di Ematologia
Arcispedale Santa Maria Nuova, Reggio Emilia
■ INTRODUZIONE
La Trombocitemia Essenziale (TE), descritta per
la prima volta nel 1934 come “trombocitemia
emorragica” da Epstein e Goedel (1), inclusa tra
le Malattie Mieloproliferative Croniche (MMC) nel
1951 da Dameshek (2) e documentata come
disordine clonale dei progenitori ematopoietici
multipotenti nel 1981 da Fialkow (3), è diventata
in quest’ultimo decennio e ancor più in quest’ultimo lustro oggetto di intensissimo interesse da
parte dei clinici e dei biologi.
Ciò in relazione alla crescente efficienza diagnostica, legata soprattutto alle recenti acquisizioni
sull’istopatologia del midollo osseo (4, 5) e sulla
mutazione JAK2 V617F (6-9), nonché in relazione alla migliore conoscenza dei fattori prognostici e dei presidi terapeutici convenzionali e non (1015).
Benché la definizione generale di TE sia immutata (16), l’evoluzione dei criteri diagnostici e classificativi, da quelli PVSG (17) a quelli WHO 2001
(4) e WHO 2008 (18, 19), ha portato ad un graIndirizzo per la corrispondenza
Luigi Gugliotta
Direttore Struttura Complessa di Ematologia
Arcispedale Santa Maria Nuova
Viale Risorgimento, 80 - 42100 Reggio Emilia
e-mail: [email protected]
duale ma significativo cambiamento dell’epidemiologia, del quadro clinico all’esordio e nel follow-up, della prognosi e, ovviamente, dell’approccio terapeutico (11, 15, 20-22).
Descriveremo pertanto clinica e terapia della TE
con la dovuta cautela in relazione alle mutevoli
caratteristiche delle casistiche di volta in volta considerate.
■ DEFINIZIONE E FISIOPATOLOGIA
La TE è una malattia neoplastica acquisita della
mielopoiesi con cronica iperproliferazione clonale, caratterizzata da aumentata produzione di piastrine morfo-funzionalmente anormali e da aumentato rischio trombotico-emorragico.
La TE è dunque data per definizione come patologia clonale, ma nella pratica clinica la documentazione della clonalità è stata piuttosto problematica fino alla scoperta della mutazione JAK2 V617F
nel 2005 (6-9). Infatti, gli studi del cariotipo mostrano anomalie random solo nel 3-5% dei casi (20,
23); lo studio dell’inattivazione del cromosoma X
documenta un pattern di monoclonalità in circa
la metà dei casi probabilmente per scarsa sensibilità, avendo come altri limiti l’eseguibilità solo
nelle donne e una scarsa specificità nelle donne
più anziane (24, 25); infine, lo studio delle colonie eritroidi e/o megariocitarie spontanee, della
56
Seminari di Ematologia Oncologica
espressione di PRV-1 nei granulociti e di c-MPL
nelle piastrine e/o nei megacariociti è di fatto attuato solo a scopo di ricerca (26-28).
La svolta nella storia della TE, così come delle altre
MMC Ph negative, è rappresentata effettivamente dalla scoperta nel 2005 della mutazione genica puntiforme acquisita JAK2 V617F (6-9). Tale
mutazione, che occorre nel dominio JH2 con la
sostituzione Valina - Fenilalanina, comporta un
aumento dell’attività tirosin-chinasica del gene
JAK2 il quale, legandosi a recettori quali in particolare Epo-R, Tpo-R e G-CSF, interagisce con
il sistema STAT (signal transducer and activator
of transduction) inducendo così una iperproliferazione della emopoiesi anche con fattori di crescita minimali o assenti (29).
La mutazione JAK2 V617F, documentabile in circa il 90% dei casi di PV, è in grado di provare la
clonalità solo nel 50-60% dei casi di TE o di PMF
(Primary Myelofibrosis) (6). Nei casi mutati la carica allelica di JAK2 V617F è significativamente più
elevata nella PV rispetto alla TE (30-32). Tutto ciò
sembra rendere ragione del fatto che a crescente carica allelica di JAK2 V617F possa corrispondere, a scapito del fenotipo TE, una crescente
espressione del fenotipo PV (eritropoiesi aumentata con più bassi valori di Epo sierica, di ferritina e di MCV; conta leucocitaria più elevata; conta piastrinica meno elevata; più frequenti trombosi venose; più frequente trasformazione in franca PV (33).
Nei casi senza mutazione JAK2 V617F la dimostrazione di clonalità è ancora possibile in una ulteriore piccola quota (1-3%) di pazienti TE con la
documentazione di un’altra mutazione somatica
a carico del recettore della trombopoietina cMPL
(MPLW515L/K) anch’essa operante attraverso l’attivazione del sistema JAK-STAT (34, 35). Molto
probabilmente altre mutazioni patogeneticamente rilevanti e in grado di documentare la clonalità nella TE restano da scoprire.
Va infine detto che il ruolo preciso giocato dalla
mutazione JAK2 V617F in tre malattie fenotipicamente diverse quali TE, PV e PMF è ancora poco
chiaro (36, 37).
Altro elemento determinante per la corretta diagnosi della TE è la istopatologia del midollo osseo.
Nei criteri classificativi del PVSG (17, 38) venivano indicati l’iperplasia della megacariocitopoiesi
e, abbastanza grossolanamente, una fibrosi presente in meno di 1/3 dell’area osservata sul preparato istologico della biopsia osteomidollare
(BOM). La valorizzazione della cellularità di ciascuna delle tre filiere ematopoietiche, della morfologia e distribuzione dei megacariociti e del grado di fibrosi ha rilevato come parametri propri della TE un’iperplasia pressocchè selettiva della
megariocitopoiesi con elementi grandi, maturi,
iperlobulati, non dismorfici e non clusterizzanti e
una fibrosi midollare di grado 0 oppure 0 /1 (39),
portando al successivo recepimento di quanto
sopra nella classificazione WHO 2001 (4).
L’applicazione di tali criteri ha portato ad una
distinzione tra casi di TE vera e propria, casi di
pre-PMF (con MF 0), casi di precoce–PMF (con
MF1) e casi di pre-PV (40, 41). In casistiche di TE
con diagnosi posta secondo i criteri PVSG, la revisione dei preparati istologici secondo i criteri WHO
2001 ha identificato come TE vera circa 1/3 dei
casi, mentre il resto era inquadrabile come iniziale-PMF (cioè pre-PMF e precoce PMF) e in piccola parte come pre-PV (38, 40-43). Tale distinzione, oltre ad una rilevanza istopatologica, sembra avere un valore clinico-prognostico (40, 42)
che tuttavia andrà ulteriormente validato in studi
prospettici, anche migliorando lo standard di riproducibilità diagnostica (44). In uno studio prospettico su 90 pazienti, diagnosticati secondo i criteri PVSG e trattati con IFN alpha 2-b pegilato, la
revisione secondo i criteri WHO ha identificato
come TE vera solo il 39% dei pazienti, e questi
risultavano avere una minore incidenza di splenomegalia e una più elevata frequenza di risposta ematologica alla terapia (42). Questi criteri di
valutazione istopatologica sono stati fondamentalmente riaccolti nella classificazione WHO 2008
e, insieme con i più recenti parametri di valutazione clonale (JAK2 e cMPL), hanno consentito
di abbassare per la TE la soglia diagnostica delle piastrine a 450000/mm3 (19), con avvicinamento così alla proposta della classificazione ECP
(European Clinical Pathological) del 2002 che prevedeva una soglia piastrinica a 400.000/mm3 (45).
Le complicanze trombotico-emorragiche, caratterizzanti la clinica di molti pazienti con TE all’esordio e/o durante il follow-up, riconoscono complessi meccanismi fisiopatologici ancora
non del tutto elucidati (20, 46). Le alterazioni quan-
Clinica e Terapia della Trombocitemia Essenziale
titative e morfo-funzionali delle piastrine giocano
un sicuro ruolo patogenetico giacchè il loro ridimensionamento con la terapia citoriduttiva comporta un’evidente riduzione di trombosi ed emorragie (47, 48). Nella TE i megacariociti liberano piastrine più o meno anormali caratterizzate da anisopoichilocitosi (PDW elevato), delta-Storage
Pool Deficiency acquisito ( carenza di granuli densi e del loro contenuto in ADP, ATP e 5-HT), alterata aggregazione in vitro spontanea o in risposta ad ADP o Epinefrina, anormale distribuzione
delle glicoproteine di membrana (espressione
ridotta di GPIb e GPIIb-IIIa e aumentata di GPIV)
e altre anomalie ancora (20, 49). Un’iperattivazione
in vitro delle piastrine è suggerita dagli elevati livelli plasmatici di beta-Tromboglobulina e Fattore
Piastrinico 4, liberati dai granuli alfa (49), e dagli
elevati livelli di Trombossano B2 (Tx B2) nelle urine (46).
Nei pazienti con severa piastrinosi (PLT >1 –1,5
milioni/mm3) un aumentato rischio emorragico viene riferito ad una sindrome di von Willebrand
acquisita dovuta alla aumentata clearance plasmatica dei multimeri di vWF ad alto peso molecolare da parte delle piastrine circolanti (46).
Dati più recenti tendono ad attribuire un ruolo protrombotico anche ai leucociti, specie quando sono
in numero aumentato (50, 51).
Infatti, i polimorfonucleati (PMN) risultano attivati, iperesprimendo sulla membrana molecole di
adesione che interagiscono con le cellule endoteliali e con le piastrine, e portano alla formazione di aggregati misti PMN-Piastrine e alla iperattivazione della coagulazione plasmatica con
coinvolgimento anche della parete endoteliale (52).
■ CRITERI DIAGNOSTICI
I criteri WHO 2008 per la diagnosi di TE (19) sono
4 ed essendo tutti maggiori vanno tutti accolti
(Tabella 1).
Dopo aver acquisito l’orientamento clinico verso
una TE, anche in base alla persistenza della trombocitosi, va eseguita la BOM, in concomitanza con
l’aspirato midollare e lo studio del cariotipo utili
anche per la diagnosi differenziale con le Sindromi
Mielo Displastiche (SMD); la valutazione della Epo
sierica e delle cellule CD34+ circolanti può faci-
TROMBOCITEMIA ESSENZIALE – WHO 2008
1. PLT > 450.000/mm3
2. BOM: proliferazione di megacariociti grandi e maturi;
normale proliferazione eritroide e granulocitaria
3. Esclusione di CML, PV, PMF e SMD secondo i criteri
WHO
4. Dimostrazione di JAK2 V617F o di altre anomalie clonali (c-MPL, inattivazione del cromosoma X,….)
oppure esclusione di trombocitosi reattive
CRITERI MAGGIORI TUTTI NECESSARI
TABELLA 1 - TE - Criteri diagnostici WHO 2008
Transitorie
Emorragia acuta
Rimbalzo post-piastrinopenia da mielosoppressori
Rimbalzo post-trattamento di carenza di B12
Esercizio fisico
Interventi chirurgici
Risoluzione di infezioni acute
Da farmaci quali Vincristina e Epinefrina
Persistenti
Carenza marziale non corretta
Anemia emolitica
Splenectomia o milza esclusa
Stati infiammatori cronici:
Malattie reumatiche, Colite ulcerosa, Enterite regionale,
Osteomielite, Cirrosi epatica, Sarcoidosi, Tubercolosi,
Artrite gonococcica, ….
Tumori maligni quali Carcinomi, Linfomi, Mesotelioma, ….
Trombocitosi familiari:
Da elevati livelli di Tpo per mutazioni del gene Tpo
Da mutazioni attivanti di cMPL (Tpo-R)
Altre
TABELLA 2 - Trombocitosi secondarie.
litare la diagnosi differenziale rispettivamente con
PV e PMF; la valutazione della massa totale eritrocitaria potrà essere eseguita in base a eventuali dubbi generati dalla BOM e/o dal livello di
Epo sierica; la valutazione sulla clonalità va eseguita con lo studio molecolare per JAK2 (qualitativo sempre e quantitativo solo per specifici interessi di ricerca) e, nei casi non mutati, per cMPL;
nei casi in cui non sia possibile documentare la
clonalità, diventa necessario escludere scrupolosamente una trombocitosi secondaria, pur tenendo conto che in alcuni casi questa può coesistere alla TE (Tabella 2).
57
58
Seminari di Ematologia Oncologica
■ EPIDEMIOLOGIA, CLINICA
E LABORATORIO ALLA DIAGNOSI
Estrapolando i pochi dati disponibili sull’incidenza della TE, tra cui quelli della città di Goteborg
che la riportano pari a 1,55/100.000 abitanti/anno
(53), si calcola che i nuovi casi di TE in Italia siano circa 1.000/anno. La prevalenza è calcolata in
circa 30/100.000 abitanti, corrispondente dunque
per l’Italia a poco meno di 20.000 pazienti.
Per illustrare la clinica e il laboratorio alla diagnosi nella TE viene considerata la casistica del
Registro Italiano Trombocitemia (RIT) (Tabella 3),
che ben si presta poichè dei 1.785 pazienti analizzati oltre 1.000 sono stati diagnosticati a partire dal 2004, impiegando nei 2/3 dei casi la classificazione WHO 2001 (Figura 1).
I pazienti di sesso femminile sono nettamente prevalenti (62%) con rapporto F: M pari a 1,63.
L’età alla diagnosi ha un valore mediano di 61 anni,
risultando maggiore negli uomini rispetto alle donne (62 vs 60 anni).
La distribuzione per decadi documenta come i
pazienti di età >70 anni siano pari al 33% mentre quelli con età <40 anni siano poco meno del
15% (Figura 2). Le pazienti in età fertile alla diagnosi sono circa il 10%.Va rilevato come l’età
mediana alla diagnosi sia aumentata nel tempo,
passando da 48 anni in 84 pazienti con diagnoPAZIENTI
1785
DIAGNOSI: PVSG/WHO 2001
BOM: CASI (fibrosi grado 0/1/2)
CARIOTIPO: CASI (anormali)
JAK2: CASI (JAK2V617F)
SESSO: maschi/femmine
ETà mediana (maschi/femmine)
PIASTRINE x109/L:
mediana (maschi/femmine)
LEUCOCITI x109/L:
mediana (12-15/>15)
Hb g/dL: mediana
SPLENOMEGALIA
FATTORI GENERALI
RISCHIO TROMBOTICO
SINTOMI
TROMBOSI (maggiori)
EMORRAGIE (maggiori)
39%/61%
1087 (68%/27%/5%)
828 (3%)
574 (56%)
38%/62%
61 (62/60)
si antecedente al 1979 (20), a 53 anni in 280
pazienti con diagnosi antecedente al 1985 (54) e
a 65 anni in 402 pazienti con diagnosi nell’anno
1995 (54).
Le piastrine (PLT) alla diagnosi hanno un valore
mediano di 776x109/L che risulta significativamente più elevato nelle donne rispetto agli uomini (795
vs 751 p<0.002 ). I pazienti con PLT 1000-1500
FIGURA 1 - Criteri diagnostici PVSG e WHO nella casistica RIT.
FIGURA 2 - Età alla diagnosi nella casistica RIT.
776 (751/795)
8,7 (10%/3%)
13,9
27%
63%
41%
10,3% (7,7%)
3,8% (1,2%)
TABELLA 3 - TE - Dati alla diagnosi nella casistica RIT.
FIGURA 3- Piastrine alla diagnosi nella casistica RIT.
Clinica e Terapia della Trombocitemia Essenziale
e >1500 x109/L sono solo 16% e 4%, rispettivamente, mentre i pazienti con PLT tra 400 e 600
x 109/L, inseriti nel RIT dunque in base ai criteri
ECP (45), sono pari al 14% (Figura 3), e ciò contribuisce ad abbassare il valore mediano rispetto a casistiche precedenti.
I leucociti alla diagnosi hanno un valore mediano di 8,7 x109/L, senza differenza tra uomini e donne. I casi con significativa leucocitosi, cioè con
valore di 12-15 e >15 x109/L, sono 10% e 3%,
dunque inferiori ai valori di 13% e 7% rispettivamente osservati nella antecedente casistica di
2316 pazienti (54). L’emoglobina (Hb) alla diagnosi ha un valore mediano di 13,9 g/dL con attesa
differenza tra uomini e donne (14,8 vs 13,8
p<0.001). L’ematocrito è risultato >51% nel 2%
degli uomini e >48% nel 13% delle donne.
La BOM è stata riportata in 1087 casi (61%), con
fibrosi di grado 0, 1 e 2 rispettivamente nel 68%,
27% e 5% dei casi, ma una revisione dei preparati istopatologici secondo i criteri WHO è in corso ad opera di un Panel di Esperti del RIT.
Lo studio del cariotipo midollare in 828 pazienti
(46%) evidenzia anomalie random in 27 casi
(3,3%). La mutazione JAK2 V617F è stata documentata nel 56% dei 574 casi finora riportati.
Una splenomegalia è stata rilevata in 488 (27%)
pazienti, in 2/3 dei quali tramite valutazione ecografica. Fattori generali di rischio cardiovascolare, quali fumo, ipertensione arteriosa, ipercolesterolemia, diabete, obesità e trombofilia familiare,
sono stati riportati, singolarmente o in varia combinazione, nel 63% dei casi.
Sintomi riferibili a disturbi del microcircolo, quali
cefalea, vertigini, alterazioni del visus, acroparestesie, acrocianosi, eritromelalgia ed altri ancora,
sono riportati, singolarmente o in combinazione,
nel 41% dei pazienti.
La clinica più importante della TE è tuttavia rappresentata dagli eventi trombotici ed emorragici.
Le trombosi maggiori includono tra quelle arteriose stroke, AIT, trombosi arteriose periferiche e
IMA e tra quelle venose TVP, embolia polmonare e trombosi spleno-portali. Le emorragie maggiori includono quelle cerebrali, oculari, articolari e retroperitoneali e quelle che richiedono chirurgia o manovre angiografiche o che abbassano il livello emoglobinico di almeno 2 g/dL o richiedono trasfusione di almeno 2 unità di emazie.
N
%
TROMBOSI
Maggiori
Arteriose
Venose
Minori
176
131
96
25
45
10.3
7.7
5.6
2.1
2.6
EMORRAGIE
Maggiori
Minori
65
21
44
3.8
1.2
2.6
TABELLA 4 - TE - Trombosi ed emorragie alla diagnosi nella
casistica RIT.
In fase di diagnosi o pre-diagnosi le trombosi nei
pazienti del RIT sono in totale pari al 10,3% di cui
maggiori arteriose 5,6%, maggiori venose 2,1%
e minori 2,6%; le emorragie sono 3,8% di cui
maggiori 1,2% (Tabella 4). Sia le trombosi che le
emorragie, dunque, si collocano nella fascia inferiore dell’intervallo di frequenza riportato in letteratura (11, 20, 21, 46).
■ DECORSO CLINICO
E STORIA NATURALE
La descrizione degli eventi nel follow-up dei 1785
pazienti del RIT terrà conto della durata media
dello stesso (4,5 anni per un totale di 8033 annipaziente) e dei trattamenti antiaggreganti e citoriduttori eseguiti in oltre 2/3 di loro. Gli eventi
trombotici nel follow-up (Tabella 5) sono stati pari
a 3,3% anni-pz (maggiori arteriosi 2,1%; maggiori venosi 0,8%; minori 0,4%), mentre quelli
emorragici sono stati 1,3% anni-pz (maggiori
0,4% e minori 0,7%). La frequenza di tali even%
n/100pt-aa
TROMBOSI
Maggiori
Arteriose
Venose
Minori
14.9
12.9
9.4
3.5
2.0
3.3
2.9
2.1
0.8
0.4
EMORRAGIE
Maggiori
Minori
5.7
1.9
3.8
1.3
0.4
0.9
TABELLA 5 - TE - Trombosi ed emorragie nel follow-up della
casistica RIT.
59
60
Seminari di Ematologia Oncologica
ti è comparabile con quella della letteratura (11,
16, 54).
La ricorrenza di trombosi totali nel follow-up è stata segnalata pari a circa 25%, cioè simile a quella di pazienti controllo non affetti da MMC, mentre la ricorrenza delle sole trombosi arteriose è
risultata significativamente superiore rispetto ai
pazienti controllo (55).
Le complicanze trombotiche dopo intervento chirurgico maggiore o minore nella TE sono state
valutate recentemente: trombosi arteriose 5,3%
e trombosi venose 1,1% (56).
La trasformazione o progressione in PV è stata
riportata in circa il 6% dei casi in larghe casistiche (57). Tale aspetto va tuttavia riconsiderato
tenendo conto dello stato mutazionale di JAK2,
e in particolare della carica allelica di JAK2 V617F
che sembra correlare con l’epressione fenotipica, in una sorta di continuum tra TE e PV (33).
Né va trascurata, in merito, la precisa valutazione del quadro istologico midollare (19, 43).
La trasformazione o progressione in Mielofibrosi
(Post TE-PMF) è segnalata con frequenza variabile in diverse casistiche: in 2.316 pazienti rischio
di eventi pari a 0,2% anni-pz (54); in 198 pazienti rischio cumulativo a 5, 10 e 15 anni pari rispettivamente a 3%, 8% e 15% (58); in 605 pazienti occorrenza nel 2,8% dei casi e rischio a 10 anni
del 3,9% (14); in 126 pazienti con età alla diagnosi non superiore a 40 anni rischio a 10 anni del
3% (13). Tuttavia, nei casi definiti come TE vera,
con fibrosi di grado 0, la comparsa di mielofibrosi è segnalata come assente o molto rara (13, 40).
La trasformazione o progressione in LA/SMD è
anch’essa riportata con frequenza variabile da
0,7% a 9,3% in casistiche con più di 100 casi:
nelle casistiche più numerose, in 2.316 pazienti
occorrenza globale in 1,2% dei casi con eventi
pari a 0,4% anni-pz (11, 54); in 605 pazienti occorrenza in 2,3% dei casi con rischio a 10 anni del
2,6% (14); in 605 pazienti eventi nel 3,3% (12).
È condiviso che il rischio di evoluzione in LA/SMD,
quasi sempre tardiva, sia minimale (circa 0,5%) in
pazienti non trattati o trattati con farmaci sicuramente non leucemogeni quali Interferone e
Anagrelide e sia massimo (5-10%) nei pazienti trattati in sequenza con farmaci alchilanti e Idrossiurea.
Molto controverso è invece il rischio leucemogeno di Idrossiurea somministrato come singolo farmaco nella TE (11, 12, 14, 16, 48, 59).
La comparsa di tumori solidi nel follow-up, potenzialmente correlabile all’impiego di farmaci citotossici, è stata osservata con la frequenza di 0,6%
anni-pz (54).
La sopravvivenza dei pazienti con TE è stata riportata nel tempo con valori significativamente crescenti e sempre più vicini a quelli della popolazione generale di controllo.
Va comunque considerato che tali risultati sono
da riferire a casistiche di pazienti trattati per oltre
1.0
0.9
0.8
0.7
Controllo
0.6
TE
0.5
0.4
0.3
0.2
0.1
Controllo
0.0
0
1
2
3
4
TE
5
6
7
8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18
Anni
FIGURA 4 - Sopravvivenza dei pazienti
della casistica GIMMC (1997) rispetto
alla popolazione italiana di controllo.
Clinica e Terapia della Trombocitemia Essenziale
2/3 con farmaci antiaggreganti (in genere Aspirina
a bassa dose) e/o con farmaci citoriduttori e caratterizzati da fattori prognostici man mano più favorevoli. Infatti, in 66 pazienti riportati nel 1979 (20)
la mediana di sopravvivenza era appena superiore a 6 anni; in 2316 pazienti segnalati nel 1997
(54) la sopravvivenza era sovrapponibile a quella della popolazione italiana di controllo fino al 10°
anno (circa 80%) ma poi declinava sensibilmente raggiungendo il 55% al 18° anno e la mediana intorno al 20° anno (Figura 4); in più recenti
segnalazioni la mediana di sopravvivenza è stata: 22,3 anni in 605 pazienti (60); circa 18 anni in
altri 605 pazienti (12); circa 18 anni in altri 386
pazienti (61).
■ FATTORI PROGNOSTICI
I fattori prognostici nella TE sono stati cercati inizialmente con l’intento di valutare nel follow-up
il rischio di complicanze trombotiche ed emorragiche, ma successivamente si è dato rilievo al
rischio di comparsa di neoplasie, specie
LA/SMD, di evoluzione mielofibrotica e policitemica e, ovviamente, di mortalità. Accanto ad
alcuni fattori prognostici consolidati perché
condivisi e validati, esistono fattori prognostici
candidati che da lungo o breve tempo attendono una validazione definitiva e altri fattori già consolidati che vedono modificarsi il proprio valore prognostico (Tabella 6).
I fattori prognostici per rischio trombotico consolidati sono: età >60 anni (10, 21, 47, 54) e precedenti trombosi maggiori (10, 21, 54), mentre fattori candidati sono: età 40-60 anni (10, 47, 54),
fattori generali di rischio cardiovascolare (47), sesso maschile (54), leucocitosi (50), clonalità (25, 32,
35, 46), piastrinopatia morfo-funzionale (49).
I fattori prognostici per rischio emorragico sono
quello consolidato della piastrinosi >1500x109/L
(16, 21) e quello candidato della piastrinopatia
morfo-funzionale(49).
I fattori prognostici candidati per rischio leucemico sono: età >60 anni (14, 54, 63), anemia (12,
63), piastrinosi >1000 x 109/L (12), precursori granulocitari circolanti (54) e sesso maschile (54, 63).
I fattori prognostici candidati per rischio di evoluzione mielofibrotica sono: giudizio istolopatologico di iniziale PMF (19, 40) e anemia (14, 63).
I fattori prognostici candidati per rischio di evoluzione policitemica sono: mutazione JAK2 V617F
con carica allelica elevata (32, 35) e giudizio istolopatologico di pre-PV (19, 43).
Fattori di rischio
Età >60 anni
Trombosi maggiori precedenti
Emorragie maggiori precedenti
Piastrine >1500 x 109/l
Piastrine >1000 x 109/l
Sesso maschile
Fattori rischio cardiovascolare
Età 40-60 anni
Leucocitosi
Clonalità (JAK2, cMPL, …)
Anemia
Precursori granulocitari
BOM con iniziale PMF
BOM con iniziale PV
Piastrinopatia morfo-funzionale
JAK2 V617F con carica allelica elevata
Piastrine >1000 x109/l nel follow-up
Rischio
Trombosi
+
+
Emorragia Evoluzione PMF
±
Evoluzione PV
Evoluzione LA/SMD
±
+
+
Morte
±
±
±
±
±
±
±
±
±
±
±
±
±
±
±
±
±
±
±
±
±
±
±
TABELLA 6 - Fattori di rischio consolidati (+) o candidati (±).
±
61
62
Seminari di Ematologia Oncologica
I fattori prognostici candidati per rischio di morte sono: età >60 anni (12,14, 54), sesso maschile (54, 60, 64), precedenti trombosi (14, 54), leucocitosi (14,64), anemia (12), precursori granulocitari circolanti (54), piastrinosi >2000x109/L (54).
piastrinosi nel follow-up >1000 x 109/L (54).
I fattori prognostici consolidati, anche quando presenti singolarmente, autorizzano il giudizio di TE
ad alto rischio trombotico (età > 60 anni e/o precedenti trombosi maggiori) oppure di TE ad alto
rischio emorragico (PLT >1500 x109/L), o più genericamente di TE ad alto rischio. Valori intermedi
di età (40-60) e di piastrine (1.000-1.500 x109/L),
unitamente alla presenza di fattori generali di
rischio cardiovascolare, suggeriscono un giudizio
non sufficientemente condiviso di TE a rischio
intermedio.
Il giudizio di TE a basso rischio viene dato per
esclusione. Quanto sopra rende ragione del fatto che a stratificazioni nette dei pazienti, in fascie
ad alto o basso rischio o ad alto, intermedio e basso rischio (15, 16, 48), si stiano affiancando stratificazioni per score di rischio (11, 12, 62).
Inoltre, le attuali stratificazioni, certamente necessarie per il disegno di studi controllati o per la elaborazione di linee-guida, non trovano concorde
e agevole applicazione nella pratica clinica.
Infine, va segnalato che ulteriori fattori prognostici sono di fatto gli andamenti dei parametri clinico-laboratoristici durante il follow-up, siano essi
spontanei o indotti dai trattamenti farmacologici.
■ TERAPIA
I presidi terapeutici nella TE sono rappresentati
fondamentalmente dai farmaci antiaggreganti e
dai citoriduttori, mentre la piastrinoaferesi è utilizzata raramente per casi particolari (16).
Nella casistica del RIT (Tabella 7) si rileva che un
%
Antiaggreganti
Idrossiurea
IFN
Anagrelide
Busulfano
Pipobromano
Pazienti
Età media anni
51
42
12
12
2.5
2
60
67
48
53
76
72
TABELLA 7 - Terapia in 1.785 pazienti della casistica RIT.
trattamento antiaggregante, quasi esclusivamente con Aspirina a bassa dose (100 mg/die), è stato attuato nel 51% dei casi, mentre i citoriduttori impiegati sono stati: Idrossiurea (42%),
Interferone alpha (12%), Anagrelide (12%),
Busulfano (2,5%) e Pipobromano (2%).
Prima di considerare indicazioni e raccomandazioni sul loro impiego, si riportano alcuni dati sui
vari farmaci utilizzati nella TE.
Antiaggreganti
Gli antiaggreganti piastrinici sono largamente
impiegati nella TE per la profilassi secondaria e
primaria delle trombosi, e trattamenti con
Dipiridamolo, Indobufene, Ticlopidina, Clopidogrel
e Aspirina sono riportati in numerosissime casistiche (11, 16, 20, 48).
Tuttavia, da molti anni l’antiaggregante piastrinico
di riferimento è rappresentato dall’Aspirina (ASA),
farmaco utilizzato a bassa dose (mediamente 100
mg/die), ma efficace per l’eritromelalgia a dosi più
elevate (16, 48, 62). Un’alternativa all’ASA, nei casi
di controindicazioni, intolleranza o resistenza, è rappresentata dal Clopidogrel i cui vantaggi nella TE
sono tuttavia controversi (16). Benchè non siano
pubblicati studi randomizzati finalizzati a testare gli
effetti dell’ASA nella TE, lo studio ECLAP nella PV
suggerisce fortemente che la profilassi primaria con
ASA a bassa dose possa riprodurre anche nella TE
i risultati di elevata efficacia antitrombotica e di elevata sicurezza (65).
Citoriduttori
I farmaci citoriduttori oggi disponibili sono Buslfano,
Pipobromano, Idrossiurea nota anche come
Idrossicarbamide, Anagrelide e Interferoni Alpha.
Il Busulfano (BUS), farmaco alchilante, presenta
come vantaggi l’elevata efficacia di trattamenti
ciclici di breve durata, la somministrazione orale, la facilità di monitoraggio per pazienti anziani;
tuttavia, esso presenta come svantaggi un rischio
sia pure molto basso di aplasia midollare e,
soprattutto, un significativo effetto leucemogeno
(64, 66, 67).
Il Pipobromano (PIPO), derivato piperazinico con
struttura simil-alchilante, è un farmaco a somministrazione orale, efficace e ben tollerato, utilizzato soprattutto nel paziente anziano, in alterna-
Clinica e Terapia della Trombocitemia Essenziale
tiva a Busulfano o Idrossiurea per specifica politica di Centro (68). Tuttavia, anch’esso ha un effetto leucemogeno non trascurabile, specie a lunghissimo termine, come desunto dall’esperienza
francese in pazienti con PV (64).
L’Idrossiurea (HU), farmaco non-alchilante in grado di interferire sulla sintesi del DNA, ad assunzione orale, è globalmente ben tollerato, ma per
il particolare meccanismo d’azione va somministrato senza interruzioni e richiede monitoraggio
ematologico relativamente frequente (16). L’HU è
altamente efficace nel controllare la piastrinosi e
nel ridurre significativamente le complicanze
trombotiche in pazienti ad elevato rischio: il tasso di trombosi a due anni nello studio randomizzato di Cortelazzo (10) è stato pari a 4% con HU,
risultando invece pari al 24%) nei controlli non trattati; anche nello studio randomizzato PT1 (48) il
tasso di trombosi a due anni è stato pari a 4%
con HU, e pari a 8% con ANA.
La comparsa di leucopenia e/o anemia porta alla
riduzione di dose e quindi al mancato controllo
della piastrinosi in circa il 10% dei casi. Altro limite è la tossicità cutanea, con comparsa sia pure
infrequente di ulcere agli arti inferiori.
Recentemente è stato trovato un consenso internazionale nel definire la resistenza/intolleranza
all’HU (69): PLT >600 x 109/L dopo 3 mesi di HU
a dose piena (almeno 2 g/die o 2,5 g/die in pazien-
ti con peso >80 Kg); PLT >400 x 109/L e WBC <2,5
x 109/L e/o Hb <10 g/dL, con qualsiasi dose di HU;
ulcere agli arti o inaccettabili lesioni muco-cutanee
con qualsiasi dose di HU; febbre HU-correlata.
Ma il limite principale della HU è la sua potenziale leucemogenicità, anche se la valutazione di vari
studi retrospettivi resta problematica e controversa. La terapia sequenziale di HU con Busulfano
o altri alchilanti è sicuramente associata ad un tasso di sviluppo tardivo di LA/SMD fino a livelli del
14% (70) e del 33% (67).
Tale dato negativo potrebbe dipendere, più che
dalla leucemogenicità specifica di ogni singolo farmaco, dal potenziamento di tossicità di un farmaco sul successivo o, altrettanto verosimilmente,
dalla esistenza in tali pazienti di una malattia biologicamente più severa.
La terapia con HU soltanto sembra essere invece relativamente sicura: in 2.316 pazienti valutati retrospettivamente (11) e in 112 pazienti valutati prospetticamente (71) la comparsa di LA/SMD
è stata intorno all’1%, cioè equivalente a quella
dei pazienti trattati con IFN o mai trattati, risultando quindi non significativamente superiore a quella spontanea propria della malattia.
Il trattamento con HU sembra ridurre la carica allelica di JAK2 V617F (72), ma ciò non appare incidere significativamente sulla evoluzione leucemica e sulla sopravvivenza dei pazienti (12).
FIGURA 5- Risposta all’Anagrelide in 220
pazienti della casistica RIT.
63
64
Seminari di Ematologia Oncologica
L’Anagrelide (ANA), derivato imidazo-quinazolinico, è in grado di ridurre selettivamente la produzione midollare di piastrine (73) e, a dosi elevate, anche l’aggregazione piastrinica (74).
L’ANA, da moltissimi anni impiegato per il trattamento della TE e della altre MMC con trombocitosi (59, 74-77), è stato dimostrato essere
oltre che efficace (Figura 5) anche del tutto privo di effetti leucemogeni (59).
L’ANA, essendo un inibitore delle fosfodiesterasi, induce un aumento dell’AMP ciclico
(AMPc) intracellulare ed esercitando un effetto inotropo positivo e vasodilatatore diventa
responsabile dei principali effetti collaterali quali cefalea, palpitazioni, edema e, raramente, cardiomiopatia (78).
Interruzioni del trattamento con ANA entro i primi
due anni sono riportate mediamente nel 30% dei
casi, in larga maggioranza a causa di tachicardia
e palpitazioni (74). Tuttavia, uno studio osservazionale prospettico del RIT mostra, in via preliminare, che un’attenta valutazione cardiologica basale
e nel follow-up, associata ad un agevole controllo farmacologico della eventuale tachicardia, consente di ridurre le interruzioni del trattamento per
disturbi cardiovascolari a circa 5% (79).
Lo studio randomizzato PT1 ha dimostrato che
l’associazione ANA+ASA, rispetto all’associazione HU+ASA, riduce in minor misura le trombosi
arteriose (differenza dovuta quasi esclusivamente a eventi interpretati come AIT), riduce di più le
trombosi venose, riduce meno le emorragie e si
associa ad un maggior numero di evoluzioni mielofibrotiche (48).
Una successiva analisi ha evidenziato che il vantaggio di HU+ASA nel ridurre le trombosi arteriose era limitato ai casi JAK2 mutati (33), suggerendo che in questi pazienti, che hanno livelli medi
più elevati di eritrociti e leucociti, una citoriduzione trilineare esplichi una massimale funzione antitrombotica.
Un più recente studio randomizzato (ANAHYDRET), in pazienti TE classificati secondo i criteri WHO, ha dimostrato la non inferiorità dell’ANA
da sola rispetto all’HU da sola nel prevenire le
complicanze trombotiche ed emorragiche, e ha
documentato la non occorrenza di evoluzione mielofibrotica (80).
Alla luce di quanto sopra, restano legittime le ipo-
tesi che nello studio PT1 l’interazione di ANA con
ASA (cioè di due molecole con attività antiaggregante) possa giustificare il relativo eccesso di
emorragie, e che la mancata stratificazione dei
pazienti secondo i criteri WHO renda poco valutabili i dati sulla evoluzione mielofibrotica.
Recentemente è stata segnalata una riduzione
della carica allelica in pazienti trattati con ANA (81).
L’ANA, approvato dall’EMEA per il trattamento della TE ad alto rischio come farmaco di seconda
linea, è oggetto di uno studio europeo osservazionale prospettico post-registrativo (EXELS) per
la valutazione a lungo termine della sua efficacia
e sicurezza, con comparazione indiretta con gli
altri farmaci.
In considerazione della selettività citoriduttiva sulla piastrinopoiesi, l’ANA ha trovato impiego in un
certo numero di pazienti come farmaco di combinazione con HU o IFN, quando questi provocano eccessiva riduzione di leucociti e/o eritrociti o non accettabili tossicità o effetti collaterali
(82, 83). L’ANA trova un’indicazione privilegiata nel
paziente giovane, in relazione al vantaggio di usare un farmaco sicuramente non leucemogeno per
trattamenti ipotizzati di lunghissima durata (21, 59,
74, 75).
L’Interferone (IFN) alpha, molecola ad attività
antiproliferativa e immunomodulante, è da tempo impiegato anche per il trattamento della TE
(84, 85). L’IFN più utilizzato è il ricombinante
(alpha 2-a o alpha 2-b) che alla dose di 3 MU
x 3-7 volte /sett è in grado di indurre entro 3
mesi una risposta completa (PLT<400x109/L) o
parziale (PLT 400-600) in oltre l’80% dei pazienti, e di mantenere tale risposta con dosi gradualmente calanti, talora fino a quella minimale di
3MU/sett (85).
L’IFN, essendo una molecola sicuramente non leucemogena, trova anch’esso un’indicazione privilegiata per i pazienti più giovani (85).
L’IFN, tuttavia, presenta limiti significativi quali la
somministrazione sottocute e l’induzione di effetti collaterali e tossicità (dalla flu-like syndrome alla
tossicità epatica, tiroidea e neurologica) che portano spesso alla perdita di compliance e alla interruzione del trattamento in circa il 25% dei casi (16,
21, 85).L’IFN pegilato (alpha 2-a o alpha 2-b), consente la somministrazione settimanale con evidente vantaggio pratico per i pazienti, ma presenta
Clinica e Terapia della Trombocitemia Essenziale
FIGURA 6- Risposta al PEG-Intron in 90
pazienti con TE.
risultati di efficacia e tossicità analoghi a quelli
dell’IFN non pegilato (86-88). Il trattamento con
IFN alpha 2-b pegilato in 90 pazienti con diagnosi di TE secondo i criteri PVSG è risultato altamente efficace (Figura 6), inducendo nei primi due anni
un’attesa riduzione della cellularità midollare, ma
anche un certo aumento della dismegacariocitopoiesi e della fibrosi.
La rivalutazione di tali casi in base alla classificazione WHO, tuttavia, ha evidenziato che i
pazienti con quadro istopatologico di TE vera non
presentano viraggio mielofibrotico e hanno una
più elevata frequenza di risposta al trattamento,
anche con dosi mediamente inferiori (86, 87). Il
ridimensionamento del clone neoplastico della TE
con l’IFN è atteso, anche in base a dati recenti
che documentano nella PV una significativa riduzione della carica allelica di JAK2 V617F associata al trattamento con IFN alpha 2-a pugilato
(89).
Studi precedenti con IFN non pegilato avevano
documentato nella TE che un trattamento di 1-2
anni (90) induceva una sensibile riduzione del delta-Storage Pool Deficiency (sorta di marker funzionale di malattia), mentre un trattamento di soli
6 mesi (91) non si associava a negativizzazione
del pattern di clonalità (in base alla inattivazione
del cromosoma X).
Farmaci sperimentali
Includono soprattutto i nuovi inbitori delle tirosinkinasi, e in particolare gli inibitori di JAK2, stanno
offrendo risultati preliminari piuttosto promettenti
(92), anche se appare sempre più evidente che la
mutazione di JAK2 è solo un anello intermedio di
un processo fisiopatogenetico tuttaltro che compreso (36) e che il vero target terapeutico sia ancora da individuare.
■ LINEE GUIDA
Suggerimenti sulle indicazioni al trattamento e sui
farmaci da utilizzare nella TE sono rintracciabili in
varie rassegne e sono inoltre desumibili dai disegni di alcuni importanti studi.
Tuttavia, nel 2004 le società scientifiche italiane
di Ematologia (SIE, SIES e GITMO) hanno pubblicato delle Linee Guida sulla terapia della TE
(Tabelle 8 e 9) basate sulla evidenza e sul consenso di un Panel di esperti (21).
Il RIT sta anche valutando il grado di accoglienza di tali linee guida evidenziandone eventuali problematicità.
Tra il 2004 e i giorni odierni sono stati acquisiti
dati importanti sul versante diagnostico e prognostico ( mutazioni di JAK2 e di cMPL, ruolo dei leu-
65
66
Seminari di Ematologia Oncologica
Raccomandazione grado
Trombosi maggiori precedenti
A
Emorragie maggiori precedenti
A
Età >60 Anni
A
Età 40-60 Anni
Con PLT 1000-1500x109/L
Con fattori di rischio cardiovascolare o trombofilia familiare
D
Età 40-60 Anni
Con PLT <1000X109/L
Con fattori di rischio cardiovascolare o trombofilia familiare
No Consenso
Età <40 Anni
Con PLT <1500X109/L
Con comorbidità protrombotica
D
Disturbi del microcircolo severi
Non responsivi all’ASA
Gravidanza con fattori di rischio
D
D
Target per citoriduzione
Plt <400X109/L (Specie se trombosi maggiori)
Plt 400-600x109/L (Se tossicità o alte dosi dei farmaci)
D
Le raccomandazioni di grado A sono supportate da studi con livello di evidenza 1, mentre quelle di Grado D sono basate sul
parere degli esperti.
TABELLA 8 - TE - Raccomandazioni SIE, SIES, GITMO per la citoriduzione (Haematologica 2004).
Pazienti
Raccomandazioni SIE SIES GITMO
Haematologica 2004
1 linea
2 linea
3 linea
1 linea
2 linea
3 linea
IFN
/
/
IFN
IFN+ANA
ANA
IFN
IFN+ANA
ANA
Gravidanza*
IFN
D
/
Donne fertili
IFN
D
ANA
D
IFN o ANA
D
HU
D
HU
A
HU
IFN
IFN+ANA
o
HU+ANA
Età 40-60 anni
IFN o ANA
senza trombosi maggiori
precedenti
D
IFN
IFN+ANA
ANA
Età 60-70 anni
A PIPO o BUS D
HU
HU+ANA
ANA
HU
HU+ANA
PIPO o BUS
Età <40 anni
(no concepimento)
Età 40-60 anni
con trombosi maggiori
precedenti
Età >70 anni
HU
HU o PIPO o BUS D
/
Ipotesi
HU D
*per casi selezionati
- le raccomandazioni di grado A sono supportate da studi con livello di evidenza 1 mentre quelle di grado D sono sostenute
dal parere degli esperti
- la nuova ipotesi tiene conto della registrazione dell’anagrelide (ANA) come farmaco di 2a linea e dei dati clinico-biologici acquisiti dal 2004.
- nelle donne fertili è raccomandata la sospensione immediata di ANA e HU in caso di ritardo mestruale fino a test di gravidanza negativo
- È raccomandata per l’anagrelide la raccolta dei dati di efficacia e di sicurezza nell’ambito di studi o registri di patologia
- IFN e ANA, se già in corso con efficacia e sicurezza, vengono continuati in qualunque fascia di età.
TABELLA 9 - TE – Farmaci per la citoriduzione.
Clinica e Terapia della Trombocitemia Essenziale
cociti) e sul versante terapeutico (studio PT1, registrazione EMEA dell’ANA come farmaco di
seconda linea, Consensus sulla definizione di resistenza/intolleranza alla HU, esperienze sulla terapia di combinazione ANA+HU o ANA+IFN, studio ANAHYDRET).
Quanto sopra sta di fatto modificando l’approccio terapeutico nella TE, per cui può risultare
un utile esercizio, che faccio a puro titolo personale, quello di ipotizzare una traccia per nuove raccomandazioni terapeutiche nella TE
(Tabella 9).
canze fetali e in parte materne nella gravidanza
in TE (95, 96). Il concepimento e la prosecuzione
della gravidanza, dunque, alla luce di quanto riportato, non vanno scoraggiati in relazione alla semplice esistenza della TE, e la stretta collaborazione tra Ematologo e Ginecologo è cruciale per l’ottimizzazione del percorso assistenziale in tali situazioni complesse. Lo studio osservazionale prospettico del RIT contribuirà ulteriormente a identificare eventuali fattori prognostici per il feto e per la
madre, sia sul versante dei parametri clinico-biologici pre-gravidanza sia sul versante dei trattamenti durante il concepimento e la gravidanza (22, 95).
■ GRAVIDANZA
■ PROSPETTIVE
La gravidanza in TE è un’evenienza rara ma non
rarissima, se si considera che il 10-15% dei
pazienti che giungono alla diagnosi sono donne
in età fertile (11, 22). In vari studi retrospettivi, le
gravidanze ad esito sfavorevole per il feto oscillano tra il 30 e il 40%, con netta prevalenza degli
aborti spontanei nel primo trimestre, mentre le
complicanze materne gravidiche e post-gravidiche sono inferiori al 10% (93-96).
Non esistono dati controllati sull’incidenza di
aborti precocissimi potenzialmente imputabili ad
un trattamento con farmaci citotossici durante
il concepimento e, pertanto, è ovvia la raccomandazione cautelativa di programmare la gravidanza attuando un adeguato wash-out farmacologico (93-96). Sul ruolo protettivo dell’ASA nei
confronti del feto esistono dati non concordanti (93-97), anche se in alcune ampie casistiche
esso è tuttaltro che provato (95, 96). In ogni caso,
nella gravidanza in TE il trattamento con ASA a
bassa dose, per prassi consolidata e formalizzata, è ancora attuato in circa il 60% dei casi
(93-97).
Il trattamento con IFN durante la gravidanza sembra associato ad un elevato vantaggio, con frequenza di nati vivi superiore al 90% (96, 98). L’IFN,
farmaco non leucemogeno che non attraversa la
placenta, è infatti l’unico citoriduttivo raccomandato per pazienti ad elevato rischio per elevata
piastrinosi, precedenti trombosi e altri fattori generali di rischio trombotico (21, 93-96, 98).
La mutazione JAK2 V617F è stata recentemente segnalata quale fattore di rischio per compli-
Le prospettive di miglioramento dell’attività clinico-assistenziale e scientifica in tema di TE sono
importanti perché, mai come in questi ultimi anni,
si è registrato un così vivo interesse dei Cultori
della materia. Tale progresso si sta realizzando lungo i seguenti più promettenti percorsi:
- Affinamento della diagnostica con valorizzazione della istopatologia del midollo osseo e delle indagini genetiche e molecolari, con particolare attenzione alle mutazioni fisiopatologicamente più rilevanti.
- Applicazione sistematica e controllata dei criteri diagnostici già identificati al maggior
numero di pazienti osservati presso le varie istituzioni assistenziali nazionali, grazie al coinvolgimento delle Società Scientifiche, dei Gruppi
di Studio e dei Registri di patologia tra cui il RIT.
- Acquisizione prospettica controllata di dati clinico-biologici, alla diagnosi e nel follow-up, per
la identificazione di precisi fattori prognostici
e per la verifica della aderenza alle linee guida terapeutiche, anche con l’ausilio del RIT.
- Conduzione di studi prospettici per la valutazione controllata dei farmaci convenzionali e,
soprattutto, dei nuovi farmaci molecolarmente mirati.
Ringraziamenti
Un grazie vivissimo va a tutti gli amici che partecipando entusiasticamente ai lavori del RIT hanno consentito l’acquisizione dei dati ampiamente utilizzati in questa rassegna.
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Seminari di Ematologia Oncologica
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