FOTO ASSASSINE

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FOTO ASSASSINE
FOTO ASSASSINE
Il mercatino svuota-il-bagagliaio si teneva ogni sabato nello spiazzo vuoto in fondo a
Crouch End.
Laggiù non c'erano parcheggi, né lotti edificabili, soltanto un riquadro abbandonato di
detriti e terriccio. Finché un'estate gli svuotatori-di-bagagliai erano arrivati come mosche a un
picnic, e da allora c'era stato un mercatino alla settimana.
Non che ci fosse granché, in vendita. Bicchieri scheggiati e vassoi orripilanti, tascabili
ammuffiti scritti da illustri sconosciuti, bollitori elettrici e stereo antiquati già quarant'anni
prima. Matthew King aveva deciso di andarci solo perché era gratis. C'era già stato altre volte,
guadagnandoci soltanto un raffreddore.
Ma quel sabato pomeriggio il sole era tiepido e lui aveva tempo in abbondanza e
nient'altro da fare. C'erano le solite anticaglie. Di sicuro non era lì che avrebbe trovato il
regalo per i cinquant'anni del padre, a meno che il suo vecchio non sognasse un puzzle di
cinquecento tessere (meno una) che mostrava una scena di Biancaneve, o una caffettiera
elettrica (appena appena sbreccata), o un maglione fatto a mano di un'insolita sfumatura rosa
(aaaaarrrgh!).
Matthew sospirò. A volte - come adesso - trovava insopportabile vivere a Londra.
Quando aveva compiuto quattordici anni, non molto tempo prima, i suoi avevano finalmente
acconsentito a lasciarlo uscire da solo... e soltanto allora si era reso conto di non avere nessun
posto dove andare. A parte la squallida Crouch End col suo ancora più squallido mercatino.
Che schifo di posto, perché un giovanotto in gamba ci passasse un pomeriggio d'estate!
Stava per andarsene, quando vide arrivare un'auto che parcheggiò in fondo alla fila. Lì
per lì pensò che ci fosse un errore. Le auto che venivano al mercatino erano vecchie e
arrugginite, sciupate quanto la paccottiglia in vendita. Ma quella era una Volkswagen rossa,
tirata a lucido e immatricolata di recente. Ne smontò un tizio ben vestito, che aprì il bagagliaio
e si guardò intorno a disagio, con aria incerta, come se non sapesse bene cosa fare.
Lentamente, Matthew gli si avvicinò.
Non avrebbe mai scordato il contenuto del bagagliaio. Strano. Non aveva una gran
memoria. Quando alla tivù c'era quel gioco dove bisognava ricordare tutti gli oggetti che
passavano su un nastro trasportatore, non era mai riuscito a ricordarne più di un paio, ma
stavolta gli rimase tutto in mente come... be', come una fotografia.
Vestiti: una giacca da baseball, diverse paia di jeans, magliette. Pattini a rotelle, fuochi
d'artificio, un paralume di carta. Libri: tascabili e un dizionario d'inglese nuovo di zecca. Una
ventina di CD, per lo più di musica pop, un walkman, una chitarra, una scatola di acquerelli,
una tavoletta oui-ja, riviste... ... una macchina fotografica.
Matthew la tirò fuori per esaminarla, rendendosi solo vagamente conto della piccola
folla radunatasi dietro di lui e delle mani che già si affannavano a fru-gare nel bagagliaio. Il
proprietario dell'auto non si mosse. E nemmeno diede segno del minimo interesse. Aveva il
viso rotondo, baffetti sottili e l'aria annoiata. Chiaramente, non aveva affatto voglia di trovarsi
lì.
"Un deca per questa" disse qualcuno. "Questa" era la giacca da baseball. Era quasi
nuova, pensò Matthew, e doveva essere costata almeno trenta sterline.
"Affare fatto" disse l'uomo, imperturbabile.
Matthew si rigirò fra le mani la macchina fotografica. A differenza della giacca era
vecchia, probabilmente già di seconda mano, però sembrava in buone condizioni. Era una
Pentax, e la "x" sulla custodia si era sbiadita. Era il solo segno di danno. La sollevò, guardò
nell'obiettivo. A cinque metri da lui, una donna stava studiando l'orribile maglione rosa. Mise
a fuoco, e provò un fremito di eccitazione quando il maglione riempì il suo campo visivo.
Poteva perfino distinguere i bottoni, bianco argento e allentati. Ruotò su se stesso, facendo
scorrere le auto e la folla davanti all'obiettivo, cercando un soggetto adatto.
D'impulso, mise a fuoco uno specchio a figura intera appoggiato a un'auto. Il suo dito
trovò l'otturatore, lo premette. Ne ricavò uno scatto soddisfacente: a quanto pareva, la
macchina funzionava.
Sarebbe stato un regalo perfetto. Appena pochi mesi prima, suo padre si era lamentato
delle foto fatte durante le vacanze in Francia. Una metà era sfocata, e l'altra metà così
sovraesposta da fare apparire la Valle della Loira attraente quanto il deserto dei Gobi sotto il
solleone.
"É tutta colpa della macchina fotografica" aveva protestato. "E un rottame. Devo
comprarne un'altra".
Però non l'aveva fatto. E fra una settimana compiva cinquant'anni.
E Matthew aveva fra le mani il regalo perfetto. Ma quanto poteva valere? Aveva l'aria
costosa. Per cominciare era pesante. Solida. Con un obiettivo potente. D'accordo, non aveva
riavvolgimento automatico e display digitale e tutti i soliti ammennicoli moderni, ma ormai la
tecnologia era a buon mercato. La qualità costava. E quella era senza dubbio una macchina di
qualità.
"Bastano dieci sterline, per questa?" chiese speranzoso. Se si era accontentato di così
poco per la giacca da baseball...
Ma stavolta l'uomo scosse la testa. "Ne vale almeno cento" ribatté. E si voltò per
intascarne venti: la chitarra era stata comprata da una ragazza di colore che si allontanò
strimpellando.
"Fa' vedere...". Una donna bruna e magra fece per togliergli di mano la macchina
fotografica, ma Matthew si ritrasse. Aveva in tasca tre biglietti da venti sterline, l'equivalente
di dodici settimane passate a lustrare scarpe, lavare auto e dare una mano in casa. Non era
partito con l'intenzione di spenderle tutte... forse neanche la metà. "E quaranta?" insisté. "È
tutto quello che ho" mentì.
L'uomo gli lanciò un'occhiata, poi annuì. "Affare fatto".
Matthew sentì un'ondata di eccitazione e, al tem-po stesso, una strana paura. Una
macchina da cento sterline per appena quaranta? Doveva essere rotta. O rubata. O magari
tutt'e due.
Ma poi, accorgendosi che la brunetta magra stava per rilanciare, si affrettò a tirare
fuori i soldi. L'uomo prese i biglietti, li piegò e se li infilò in tasca senza battere ciglio. "Grazie"
disse Matthew.
"M'interessa solo sbarazzarmi alla svelta di tutta questa roba" disse l'uomo,
guardandolo dritto in faccia.
"Di chi era?" "Studenti...". Scrollò le spalle, come se questo bastasse a spiegare tutto.
Matthew aspettò. La folla era migrata verso altri bagagliai, lasciandoli per un momento soli.
"Avevo affittato un paio di stanze" riprese l'uomo. "Studenti d'arte. Tre. Un paio di mesi
fa sono spariti. Hanno tagliato la corda di punto in bianco... e mi dovevano due mesi d'affitto.
Dannazione! Ho tentato di trovarli, ma niente da fare. Alla fine, mia moglie mi ha suggerito di
vendere un po' della loro roba. La cosa non mi entusiasma, ma dopotutto sono loro a essere in
debito con me..."
Un donnone formoso s'insinuò fra loro per abbrancare una manciata di magliette. "A
quanto vanno, queste?".
Il sole continuava a risplendere, ma di colpo Matthew rabbrividì. ... sono spariti...
Perché tre studenti d'arte dovrebbero sparire senza preavviso, lasciandosi dietro tutte le loro
cose... compresa una macchina fotografica da cento sterline? Ovviamente, il padrone di casa si
sentiva in colpa a vendere le loro cose. Faceva la cosa giusta, Matthew, a comprarle?
Girò sui tacchi e si allontanò in fretta, prima che uno di loro due cambiasse idea. Aveva
appena raggiunto il cancello che dava sulla strada quando sentì lo schianto inconfondibile di
un vetro rotto. Si voltò: lo specchio che aveva fotografato poco prima era caduto. O così gli
sembrò. Di sicuro era finito a terra, circondato da una miriade di schegge. Il suo proprietario un bassotto con un taglio alla skinhead - si slanciò ad agguantare per il bavero un tizio lì
accanto.
"Hai rotto il mio specchio!" strepitò.
"Neanche ci sono passato vicino". Il tizio era gio-vane, e indossava un paio di jeans e
una maglietta di Guerre Stellari.
"Ti ho visto! Fanno cinque deca..."
"Ma dacci un taglio!" Per tutta risposta, lo skinhead gli tirò un cazzotto. Quasi si sentì lo
schiocco delle nocche contro la faccia del giovanotto che urlò. Dal naso gli uscì uno zampillo di
sangue che gocciolò sulla maglietta. Matthew si allontanò di corsa, con la macchina fotografica
stretta al petto.
"Dev'essere rubata" commentò Elizabeth King, esaminando il suo acquisto.
"Non credo" ribatté Matthew. "Ti ho detto com'è andata".
"Quanto l'hai pagata?" chiese Jamie, il suo fratellino. Più piccolo di tre anni, e geloso
marcio.
"Non sono affari tuoi" lo rimbeccò Matthew.
Elizabeth spinse una levetta, e la macchina si aprì di scatto. "Guarda! C'era dentro una
pellicola." Ne estrasse un rullino. "È stato usato".
"L'avranno dimenticato" disse Jamie.
"Fallo sviluppare" suggerì Elizabeth. "Non si sa mai cosa puoi trovarci".
"Noiose foto di famiglia" bofonchiò Matthew.
"Foto pomo!" strillò Jamie.
"Cresci, deficiente!" sospirò Matthew. "Sei una tale lagna...!"
"Ritardato..."
"Su, ragazzi. Non litigate!". Elizabeth gli restituì la Pentax.
"È un bel regalo. Chris ne sarà felice. E non c'è bisogno che sappia dove l'hai comprata...
o come potrebbe essere arrivata là".
Christopher King faceva l'attore. Non era famoso, anche se la gente lo riconosceva
grazie alla pubblicità di un caffè fatta due anni prima, però il lavoro non gli mancava mai. Al
momento, la settimana prima del suo cinquantesimo compleanno, recitava nel Macbeth di
Shakespeare ("la tragedia scozzese", la chiamava: secondo lui, dirne il titolo portava male).
Era stato assassinato sei sere e un pomeriggio alla settimana durante le precedenti cinque
settimane, e cominciava a non poterne più. Matthew e Jamie erano contenti quando il padre
recitava a Londra, specialmente se questo coincide-va con le vacanze estive. Significava che
potevano passare insieme buona parte della giornata. Avevano un vecchio labrador, Polonius,
e spesso andavano tutti e quattro a passeggio a Hampstead Heath.
Elizabeth King lavorava mezza giornata in un negozio d'abbigliamento, ma li
accompagnava ogni volta che era libera. I King erano sposati da vent'anni, e la loro era una
famiglia unita, felice.
In cuor suo Matthew era un po' dispiaciuto al pensiero di avere speso tutti quei soldi,
ma ogni traccia di rammarico era svanita quando finalmente arrivò il giorno del compleanno.
La reazione del padre lo riempì di gioia. "Fantastico!" esclamò Christopher,
esaminando la macchina. Avevano appena finito di fare colazione ed erano ancora seduti in
cucina. "Proprio quello che desideravo. Esposimetro automatico! Varie aperture"... Guardò
Matthew, che era raggiante di soddisfazione. "Come te la sei procurata, Matt? Hai svaligiato
una banca?"
"Era di seconda mano" annunciò Jamie.
"Questo lo vedo. Ma è comunque fantastica. Dov'è la pellicola?"
"Non ce l'ho..." Matthew si ricordò del rullino trovato dentro la macchina. Adesso era
sul suo comodino. Imprecò fra sé. Perché non aveva pensato a comprarne uno nuovo? A che
serviva una macchina fotografica senza pellicola?
"Apri il mio regalo, papà" interloquì Jamie.
Christopher mise giù la macchina e prese una scatoletta quadrata, avvolta in una carta
decorata da personaggi dei fumetti. La aprì e scoppiò a ridere alla vista di una scatola di
rullini. "Questa sì che è una bella idea!" esclamò.
`Piccolo taccagno' pensò Matthew, ma saggiamente non a voce alta.
"Allora, come si carica...?"
"Lascia fare a me". Matthew gli tolse la macchina di mano, l'aprì. Fece per infilare la
pellicola.
Ma non ci riuscì.
Si bloccò.
E scivolò nell'incubo.
Era come se la sua famiglia - Christopher ed Elizabeth ancora seduti, Jamie che gli
alitava sul collo - si fosse trasformata in una fotografia. Li guardava dall'esterno, raggelati in
un altro universo. Ogni cosa sembrava essersi fermata. Allo stesso tempo, per la prima volta in
vita sua, avvertì uno strano formicolio sulla nuca mentre, uno dopo l'altro, gli si rizzavano i
capelli. Abbassò lo sguardo sulla macchina fotografica fra le sue mani: gli si spalancava
davanti come un buco nero, attirandolo, risucchiandolo. E una volta che vi fosse precipitato
dentro, si sarebbe richiusa di scatto come il coperchio d'una bara, imprigionandolo nelle
tenebre...
"Matt? Che cos'hai?" Christopher gli tolse la macchina di mano, spezzando
l'incantesimo, e Matthew si accorse d'essere sudato e di tremare da capo a piedi.
Che gli era successo? Cos'è che aveva appena sperimentato?
"Sì. Io...". Batté le palpebre e scosse la testa.
"Stai mica covando l'influenza?" chiese sua madre. "Sei diventato pallido".
"No..."
Risuonò uno scatto. Christopher sollevò la macchina fotografica. "Fatto! A posto!"
Jamie, sempre il solito buffone, salì sulla sedia e s'immobilizzò con una gamba tesa.
"Fammi la foto!" strillò. "Fammi la foto!"
"Non posso. Non ho il flash".
"Usciamo in giardino!"
"Non c'è abbastanza luce".
"Insomma, Chris" disse Elizabeth. "Devi pur fotografare qualcosa".
Alla fine Christopher scattò due foto, tanto per prova. La prima al ciliegio che cresceva
in mezzo al prato: Elizabeth l'aveva piantato quando lui aveva avuto una parte nel Giardino dei
ciliegi di Cechov, subito dopo il loro matrimonio. Da allora, era fiorito ogni anno. Poi, quando
Jamie ebbe persuaso Polonius il labrador a zampettare fuori dalla cuccia e in giardino,
Christopher scattò una foto anche a lui.
Matthew assisté alla scena sorridendo, ma si rifiutò di parteciparvi. Continuava a
sentirsi strano... come se qualcuno avesse tentato di strangolarlo o gli avesse assestato un
pugno nello stomaco. Si versò un bicchiere di succo di mela. Probabilmente sua madre aveva
ragione. Forse gli stava venendo l'influenza.
Comunque il senso di disagio gli passò di mente quando altri due attori della "tragedia
scozzese" telefonarono e poi uscirono per andare a pranzo tutti insieme.
Più tardi, Christopher prese l'autobus per la città — era mercoledì, e doveva essere in
teatro per le due — e Matthew passò il resto del pomeriggio giocando al computer, con
Polonius addormentato ai piedi del suo letto.
E poi, due giorni dopo... "Guardate!" esclamò sua madre, bloccandosi davanti alla
finestra della cucina.
"Che succede?" Christopher stava leggendo un nuovo copione in attesa dell'audizione.
"Il ciliegio!"
Matthew la raggiunse e guardò fuori. Capì subito a cosa si riferiva. L'albero, alto quasi
tre metri, aveva preso i colori dell'autunno e i rami sottili erano ricoperti da un'esplosione di
foglie rosso scuro. O meglio: così era stato fino al giorno prima. Ma ora il ciliegio era morto. I
rami erano spogli e le foglie, scure e raggrinzite, sparse sul prato. Perfino il tronco sembrava
essersi rattrappito, e l'intero albero era curvo come un vecchio malato.
"Che succede?" ripeté Christopher, aprendo la porta sul retro e uscendo in giardino.
Elizabeth lo seguì. Christopher raggiunse l'albero e si chinò a raccogliere una manciata
di foglie. "Morto stecchito!" esclamò.
"Ma un albero non può morire in questo modo".
Matthew non aveva mai visto sua madre così triste, e di colpo si rese conto che per lei il
ciliegio non era un semplice albero. Era cresciuto insieme al suo matrimonio e alla sua
famiglia. "Ha l'aria d'essere stato avvelenato!" la sentì mormorare.
Christopher lasciò cadere le foglie e si passò la mano sui pantaloni. "Forse qualcosa nel
terreno". Abbracciò Elizabeth. "Allegra! Ne pianteremo un altro".
"Ma questo era speciale. Il giardino..."
Christopher la strinse a sé. "Almeno gli ho fatto una foto. Abbiamo qualcosa per
ricordarlo". Rientrarono in casa.
Una volta solo, Matthew tese la mano e passò un dito sul tronco. Era freddo e viscido.
Rabbrividì. Non aveva mai visto niente così completamente... morto. Almeno gli ho fatto una
foto... Le parole del padre gli echeggiarono nella mente. D'un tratto, senza sapere perché, si
sentì a disagio.
Il giorno dopo ci fu l'incidente.
Era ancora a letto quando sentì la porta di casa aprirsi sbattendo troppo forte, e voci
concitate salire dal pianterreno.
"Liz! Che succede? Che cos'hai?"
"Oh, Chris!"
Matthew s'irrigidì. Sua madre non piangeva mai. Mai. Eppure adesso stava piangendo.
"Polonius..."
"Cos'è successo?"
"Non lo so! Non capisco!"
"Lizzie, è..."
"Sì. Mi dispiace. Mi dispiace tanto...". Non riuscì a proseguire.
In cucina, Christopher preparò il tè e ascoltò. Era andata a piedi fino a Crouch End per
prendere il giornale e imbucare alcune lettere. E aveva portato Polonius con sé. Come al solito,
il labrador l'aveva seguita. Non gli metteva mai il guinzaglio. Era bene addestrato. Non correva
mai in strada, neanche per inseguire le auto o gli scoiattoli. In effetti, alla rispettabile età di
dodici anni, Polonius non correva praticamente più. Invece oggi, senza un motivo al mondo,
era sceso dal marciapiede. Elizabeth se n'era accorta troppo tardi. Stava per richiamarlo
quando una jeep aveva svoltato l'angolo a tutta velocità. Aveva fatto in tempo a chiudere gli
occhi, ma aveva sentito un guaito e un tonfo, e aveva capito che per Polonius era finita.
Almeno non aveva sofferto. Il guidatore della jeep era stato servizievole e dispiaciuto. Aveva
portato il cane dal veterinario... perché fosse sepolto o cremato o che altro.
Polonius non c'era più. Aveva fatto parte della famiglia fin da cucciolo, e adesso non
c'era più. Disteso a letto, Matthew ascoltava le voci dei genitori salire dalla cucina; non
distinse ogni parola, ma quanto bastava. Riappoggiò la testa sul cuscino, gli occhi lucidi. "Gli
hai fatto una foto" mormorò fra sé. "Non ci resta altro..."
Fu allora che capì. Al mercatino aveva scattato una foto dello specchio, e lo specchio si
era rotto. Suo padre aveva scattato una foto del ciliegio, e il ciliegio era morto. Poi ne aveva
scattata una a Polonius, e... Si rigirò, sentendo sulla guancia la frescura del cuscino. E lo vide, là
dove l'aveva messo, sul comodino. Il rotolino di pellicola rimasto dentro la macchina
fotografica. Quello già usato. Lo portò a sviluppare nel pomeriggio.
Nella busta c'erano ventiquattro foto. Si sedette davanti a una Coca-Cola in un bar di
Crouch End e aprì la busta, sciorinando sul tavolino le foto lucide.
Per un momento esitò. Lo imbarazzava, sbirciare nella vita di qualcun altro... come un
guardone. Ma doveva sapere.
Le prime dieci foto non fecero che accrescere il suo imbarazzo. Mostravano un
giovanotto sulla ventina che - lo intuì senza sapere come - doveva essere il proprietario della
macchina fotografica. In una foto baciava una graziosa biondina, in un'altra tirava una palla da
cricket...
Studenti d'arte. Erano tre...
L'uomo al mercatino aveva affittato alcune stanze a studenti d'arte. Dovevano essere
quelli. Il proprietario della macchina fotografica. La biondina. E un altro ragazzo magro, coi
capelli lunghi e i denti storti.
Passò rapidamente in rassegna il resto delle foto. Una mostra di pittura. Una strada di
Londra. Una stazione ferroviaria. Una spiaggia. Una barca da pesca.
Una casa...
La casa era diversa da ogni altra che Matthew avesse mai visto. Era su tre piani e
sorgeva fra le rovine di un giardino, emergendo da un groviglio di rovi e ortiche, con erbacce
simili a lame di coltello che sbucavano dagli interstizi fra i mattoni. Era chiaramente
abbandonata. Alcune finestre erano rotte. L'intonaco scuro si sgretolava qua e là, mettendo a
nudo il muro, lucido come una ferita in suppurazione.
Più vicino. Una gargolla scheggiata sogghignava all'obiettivo, inarcandosi sopra il
portone. Il battente era di quercia massiccia, il batacchio di ferro forgiato a forma di due mani
infantili strettamente intrecciate.
In quella casa, una notte erano entrate sei persone. Una foto di gruppo li mostrava tutti
insieme in giardino. Matthew riconobbe i tre studenti d'arte. Erano vestiti di nero, camicie e
jeans. Alle loro spalle c'erano altri due ragazzi e una ragazza, anch'essi sui vent'anni. Uno dei
ragazzi aveva sollevato le braccia e faceva una smorfia in stile vampiresco. Ridevano tutti.
Matthew si chiese se la foto fosse stata scattata da una settima persona, o se avessero
usato l'automatico. La foto successiva lo portò nella casa.
Clic. Un grande atrio. Larghe lastre di pietra e, sullo sfondo, la mole putrida di una
scalinata lignea che si curvava verso il nulla.
Clic. La biondina beveva vino rosso a garganella, da una bottiglia.
Clic. Un ragazzo coi capelli chiari reggeva due can-dele. Dietro di lui, un altro ragazzo
con un pennello in mano.
Clic. Di nuovo le lastre di pietra, ma adesso sopra c'era stato dipinto un cerchio con la
vernice bianca e il ragazzo coi capelli chiari stava scrivendo qualcosa tutt'intorno. Non si
distinguevano le parole, però. Il riflesso del flash le aveva cancellate.
Clic. Altre candele. Accese, adesso. E sistemate intorno al cerchio di vernice bianca. Tre
del gruppo si tenevano per mano.
Clic. Erano nudi! Senza più i vestiti addosso. Matthew strabuzzò gli occhi. Era
pazzesco...
Clic. Un gatto. Nero. Alla luce del flash, i suoi occhi erano punte di spillo infuocate. Il
gatto mostrava aguzzi denti bianchi. Soffiava, contorcendosi nelle mani che lo stringevano.
Clic. Un coltello.
Matthew chiuse gli occhi. Aveva capito che cosa stavano facendo. E gli era tornato in
mente un altro oggetto visto nel bagagliaio della Volkswagen rossa, anche se lì per lì non ci
aveva fatto caso. La tavola oui-ja. Un passatempo per chi si diverte a giocare con cose che non
capisce. Un passatempo per chi non teme l'oscurità.
Ma Matthew la temeva. E ora, seduto al bar, con le toto sparpagliate sul tavolino
davanti a sé, non riusciva a credere ai propri occhi. Ma era impossibile sfuggire alla verità.
Quei ragazzi si erano intrufolati in una vecchia casa abbandonata. Forse si erano
portati dietro qualche libro... un vecchio libro d'incantesimi, magari ripescato in un negozio
d'antiquariato. Una volta aveva visto qualcosa del genere nel negozio dove lavorava sua
madre: un librone rilegato in pelle, con le pagine ingiallite coperte da una sbavata calligrafia
nera. Era un grimoire, gli aveva spiegato lei: un libro di stregoneria. I ragazzi nelle foto
dovevano averne trovato uno chissà dove e, stanchi della tavoletta oui-ja, avevano deciso di
provare qualcosa di più pericoloso, di più spaventoso. Di evocare...
Che cosa? Uno spettro? Un demone? Matthew aveva visto abbastanza film dell'orrore
per capire quello che appariva nelle foto. Un cerchio magico. Candele. Il sangue di un gatto
ucciso. Quei sei avevano preso tutto molto sul serio... si erano perfino spogliati per completare
il rituale.
E c'erano riusciti. D'istinto, Matthew sapeva che aveva funzionato. Avevano evocato...
qualcosa. Che li aveva uccisi.
Sono spariti. Hanno tagliato la corda di punto in bianco... Il proprietario della
Volkswagen rossa non li aveva più visti.
Naturalmente erano tornati nelle stanze che avevano preso in affitto, dovunque
fossero. In caso contrario, la macchina fotografica non sarebbe finita fra le sue mani. Ma dopo
era successo qualcosa. E non a uno soltanto. A tutti quanti.
La macchina fotografica... Matthew abbassò lo sguardo. Le foto erano quasi finite, ne
restavano ancora tre o quattro.
Fece per separarle, e si bloccò. Avevano per caso fotografato la creatura... la cosa...
evocata dai loro sortilegi? E adesso la foto si trovava forse sul tavolo davanti a lui? Possibile...?
Non voleva saperlo. Abbrancò tutte le foto e le appallottolò, tentando inutilmente di
stracciarle. Di colpo si sentiva nauseato e furibondo. Lui non aveva mai voluto niente del
genere. Aveva solo cercato un regalo di compleanno per il padre, e aveva portato a casa
qualcosa di orrendo, malvagio.
Una foto gli scivolò fra le dita e... ... un luccichio rossastro, occhi da serpente, un'ombra
gigantesca... ... si sforzò di non guardare, ma vide ugualmente tutto con la coda dell'occhio.
Afferrò la foto e la stracciò: una volta, due volte, in pezzi sempre più piccoli…
"Tutto bene, giovanotto?" La cameriera era comparsa dal nulla e si era fermata accanto
al tavolo.
Matthew alzò lo sguardo e si sforzò di sorridere, aprendo le mani e lasciando cadere i
frammenti lucidi.
"Sì...". Si alzò in piedi. "Queste foto non m'interessano" spiegò.
"Lo vedo. Posso gettarle nella spazzatura?"
"Si. Grazie..."
La cameriera raccolse le foto accartocciate e i frammenti strappati e andò verso il
bidone della spazzatura. Quando tornò a voltarsi, il tavolo era vuoto. Matthew se n'era andato.
Trova la macchina fotografica. Distruggila.
I due pensieri continuavano a rimbalzargli nella mente. Più tardi avrebbe spiegato
tutto a suo padre. O forse no. Come poteva dirgli la verità? `Capisci, papà, il vecchio
proprietario della macchina fotografica l'ha usata per un rituale di magia nera. Ha fotografato
un demone, e il demone lo ha ucciso, o lo ha fatto sparire, e poi si è infilato dentro la macchina. Così ogni volta che la usi per fare una fotografia, distruggi quello che fotografi. Hai
presente il ciliegio? E Polonius? Senza contare lo specchio...' No. L'avrebbe creduto matto.
Meglio non dare spiegazioni. Avrebbe preso la macchina fotografica e l'avrebbe persa
da qualche parte. In fondo a un canale, magari. Ai suoi avrebbe detto che gliel'avevano rubata.
Meglio che non sapessero mai la verità.
Una volta arrivato a casa, aprì la porta con le sue chiavi. Capì subito che i suoi erano
fuori. I cappotti non erano sull'attaccapanni e, a parte il ronzio dell'aspirapolvere al piano di
sopra, la casa trasmetteva una sensazione d'abbandono.
Mentre chiudeva la porta, l'aspirapolvere si zittì e una donnetta grassoccia comparve in
cima alle scale. La signora Bayley veniva due volte la settimana per aiutare Elizabeth con le
pulizie. "Sei tu, Matthew?". Quando lo vide, sembrò rilassarsi. "I tuoi sono usciti..."
"Dove sono andati?" Matthew avvertì la prima fit-ta di allarme.
"Tuo papà li ha portati a Hampstead Heath. Aveva con sé la macchina fotografica che gli
hai regalato. Ha detto che voleva fare qualche bella foto..."
No! Matthew sentì il pavimento sussultargli sotto i piedi e barcollò all'indietro,
sbattendo la schiena contro il muro.
La macchina fotografica. Hampstead Heath. Non mamma! Non Jamie!
"Che succede?" La signora Bayley scese le scale, preoccupata. "Hai l'aria d'avere visto
un fantasma!"
"Devo raggiungerli!". Le parole gli uscirono di bocca in un farfuglio. Si costrinse a
restare calmo. "Signora Bayley, ha l'auto? Può darmi un passaggio?"
"Non ho ancora finito la cucina..."
"Per piacere! È importante!"
La signora Bayley doveva avere avvertito qualcosa nella sua voce, perché lo fissò
perplessa, ma annuì. "Posso accompagnarti, se vuoi. Ma lo Heath è grande. Non so come farai a
trovarli..."
Aveva ragione, naturalmente. Lo Heath andava da Hampstead a Highgate per poi
spingersi fino a Gospel Oak: una lunga fascia verde che s'innalzava e ricadeva, attraversata da
sentieri tortuosi e punteggiata da laghetti ornamentali e boschetti. Quando c'eri dentro, quasi
non ti sembrava d'essere a Londra ed era facile smarrirsi.
Dov'erano andati? Potevano trovarsi dovunque.
La Panda arrugginita della signora Bayley percorse Highgate e stava per raggiungere
l'ingresso principale quando, parcheggiata vicino alla fermata dell'autobus, Matthew
riconobbe l'auto del padre. Sul lunotto posteriore c'era un adesivo "IL TEATRO FA PIÙ BELLA
LA VITA" e le vivide lettere rosse gli saltarono agli occhi. Quella battuta trita l'aveva sempre
messo in imbarazzo, ma adesso la lesse con un'ondata di sollievo.
"Fermi qui, signora Bayley!" gridò.
La signora Bayley sterzò di colpo, suscitando la protesta strombazzante dell'auto dietro
di loro. "Li hai visti?"
"Ho visto l'auto. Devono essere a Kenwood..."
Kenwood House. Il più bel punto panoramico di tutto il parco: un'elegante palazzina
ottocentesca su una piccola altura, affacciata su una valle e un laghetto. Esattamente il tipo di
posto dove Christopher sarebbe potuto andare per fare una passeggiata e... qualche bella foto.
Schizzò fuori dall'auto, sbattendosi la portiera alle spalle. Poteva vedere Elizabeth e
Jamie di spalle alla casa, Christopher davanti a loro con la macchina fotografica. 'Un po' più
vicini. Sorridete...'. Avrebbe premuto l'otturatore... e poi?
Matthew ripensò al ciliegio, scolorito e morto. A Polonius, che mai in vita sua era sceso
dal marciapiede. Allo specchio rotto. Allo zampillo di sangue provocato dalla zuffa che ne era
seguita.
Per un istante, mentre entrava di corsa nel parco dubitò d'essere matto, d'essersi
immaginato tutto. Ma poi rivide le foto: la casa vuota, le candele. L'ombra. Roventi occhi
rossi... E seppe di avere ragione, di non essersi immaginato niente, di avere forse solo pochi
minuti per salvare suo padre, sua madre, suo fratello. Sempre che non fosse troppo tardi.
Christopher, Elizabeth e Jamie non erano a Kenwood. Non sulla terrazza, e nemmeno
sul prato. Perlustrò la casa da un capo all'altro, facendosi largo a gomitate tra la folla,
ignorando le proteste. Gli sembrò di riconoscere Jamie nei giardini ornamentali e lo agguantò
per le spalle... ma era un altro ragazzo, non suo fratello.
Mentre si costringeva a muoversi, a cercare ancora, aveva l'impressione che il mondo
intero stesse andando in pezzi, proprio come lo specchio al mercato... Era consapevole
soltanto del verde dell'erba e dell'azzurro del cielo e della folla multicolore.
"Mamma! Papà! Jamie!". Urlò i loro nomi mentre correva, sperando contro ogni
speranza che potessero sentirlo.
Era vagamente consapevole degli sguardi della gente, delle loro dita puntate, ma non
gli importava.
Aggirò un uomo in carrozzella. Calpestò un'aiuola. Qualcuno gli gridò qualcosa.
Continuò a correre. E proprio quando stava per arrendersi, li vide.
Per un momento si bloccò ansimante, la gola stretta.
Erano davvero loro? Sembrava quasi che lo aspettassero. Ma li aveva raggiunti in
tempo?
Christopher aveva in mano la macchina fotografica. L'obiettivo era coperto. Jamie
sembrava annoiato. Elizabeth stava parlando, ma quando vide Matthew s'interruppe e lo fissò
stupita.
"Matthew...?". Lanciò un'occhiata al marito. "Che ci fai qui? Che succede...?"
Matthew corse verso di loro. Soltanto allora si rese conto d'essere sudato fradicio, non
solo per la fatica della corsa ma per la paura.
Fissò la macchina fotografica, resistendo all'impulso di strapparla di mano al padre e
distruggerla. Apri la bocca, ma non riuscì a dire una parola. Si sforzò di rilassarsi.
"La macchina fotografica..." gracchiò.
"Che cos'ha?" Christopher la fissò allarmato.
Matthew deglutì. Non avrebbe voluto chiederlo. Però doveva. Doveva saperlo. "Hai
fotografato mamma?" domandò.
Suo padre scosse la testa. "Non me l'ha permesso".
"Sono troppo spettinata" spiegò Elizabeth.
"E Jamie?"
"Io cosa?" interloquì Jamie.
Matthew lo ignorò. "Lo hai fotografato?"
"No". Christopher era perplesso. "Che ti succede, Matthew? Che cos'hai?"
"Non hai fotografato Jamie? E neanche mamma?"
"No".
Di colpo... un pensiero orribile. "Ti hanno per caso fotografato loro?"
"No". Christopher gli posò una mano sulla spalla. "Siamo appena arrivati qui. Nessuno
ha fatto nessuna foto. Ma perché vuoi saperlo? Che ci fai, qui?"
Matthew barcollò. Sarebbe voluto crollare sull'erba. Sentì la brezza sfiorargli le guance,
una risata gonfiarglisi dentro. Era arrivato in tempo. Era tutto a posto...
E poi Jamie parlò. "Io l'ho fatta, una foto" disse.
Matthew s'irrigidì.
"Papà mi ha dato il permesso!"
"Sì". Christopher sorrise. "È l'unica che abbiamo fatto".
"Ma...". Solo tre parole. E una volta che le avesse pronunciate, la sua vita non sarebbe
più stata la stessa.
"Cos'hai fotografato?"
Jamie glielo indicò, fiero. "Londra".
Eccola. Londra. Si trovavano su una collina, e Londra si stendeva sotto di loro. Un
panorama completo. La cattedrale di San Paolo. La Torre della Posta. La Colonna di Nelson. Il
Big Ben. Per quello i sovrani si erano fatti costruire un palazzo lassù. Per il panorama.
"Londra...?" Matthew aveva la gola secca.
"Ho fatto una foto fantastica".
"Londra...!"
Il sole era scomparso. E Matthew, paralizzato, fissò le nuvole chiudersi e le tenebre
avanzare verso la città.