Marco Peano L`invenzione della madre

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Marco Peano L`invenzione della madre
Marco Peano
L’invenzione della madre
minimum fax, 2015
Pagine 280
ISBN 978-88-7521-633-7
L’invenzione della madre © 2015 minimum fax
Assaggio di lettura: pagine 119-123
Diritti stranieri:
Tiziana Bello
[email protected]
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Di parrucche e di aranciate
Un pomeriggio di qualche anno prima, dopo l’intervento al cervelletto, la madre aveva ricevuto la visita di un’amica. Si erano messe a
chiacchierare sedute all’aperto; l’estate del 2003 era molto calda, e la
madre di Mattia si concedeva delle brevi passeggiate in giardino. Era
costretta a indossare un cappello di paglia, perché la radioterapia le
aveva reso la cute del cranio ipersensibile ai raggi del sole. Poteva
rimanere all’aria aperta – amava sostare all’ombra del corniolo – a
patto che si riparasse bene e non si stancasse troppo.
Questa amica le diceva sorridendo che non si aspettava di trovarla
così in forma; le raccontava quanto le sembrasse impossibile averla
vista nemmeno un mese prima in ospedale, E ora invece: guardati!
Intanto Mattia, da bravo padrone di casa, stava trasportando su un
vassoietto due bicchieri di aranciata per le donne e uno d’acqua e
menta per lui.
(Ogni volta che Mattia berrà un sorso d’acqua fresca in una giornata
afosa, e sentirà il liquido carezzargli le pareti della gola, capirà che
quella è la vita: l’acqua che scende nei recessi bui del suo corpo per
permettere alle cellule di rigenerarsi. Al contrario dell’alcol, che gratta
giù in fondo con le sue unghie ricurve, e spazza via ogni cosa.)
La madre raccontava affabile dettagli del recente intervento: il futuro
si caricava di speranza, la malattia si poteva sconfiggere.
E mentre l’altra annuiva – sorseggiando la sua aranciata con dentro
un piacevole cubetto di ghiaccio –, la madre all’improvviso si era
rivolta al figlio dicendogli se per favore poteva andare a prenderle la
parrucca al piano di sopra, perché voleva mostrarla all’amica.
L’avevano comprata Mattia e la madre in un negozio di città, in
centro. Ma non era stato facile trovare quella giusta. Dapprima si
erano rivolti a un negozio che si chiamava Clinica della parrucca, e
già il nome li avrebbe dovuti far sospettare di qualcosa.
Le commesse, illustrando le caratteristiche artigianali dei loro articoli,
insistevano in particolar modo su un aggettivo: le loro parrucche
erano personalissime, e i capelli – ci tenevano a specificarlo – erano
stati forniti esclusivamente da donatori affidabili. Autentici come i
capelli che ho in testa, aveva detto una ragazza dalla chioma rossiccia
avvolgendosi una ciocca intorno a un dito (e Mattia si era immaginato
che da un momento all’altro una commessa, per dimostrare la validità
del prodotto, si sfilasse dalla nuca quelli che sembravano i suoi veri
capelli e mostrasse ai clienti stupefatti un cranio calvo).
Questi della Clinica sembravano sapere il fatto loro: di ogni cliente
valutavano le sfumature dell’incarnato e la simmetria del viso (nei loro
laboratori facevano parrucche solo su misura, quelle che si potevano
ammirare in vetrina avevano un valore puramente espositivo). Uno
specialista, dopo aver fotografato la testa della madre, stava ora
analizzando al computer le peculiarità del cranio per formulare un
preventivo.
Dopo il primo intervento al seno – quello del 1996 –, nonostante le
previsioni i capelli non le erano caduti, dunque forse anche questa
volta i medici si sbagliavano. In fondo non erano loro stessi a sostenere
che ogni caso fosse diverso da un altro? La madre si trovava lì perché
non voleva farsi cogliere impreparata. Ma forse si trattava di una
precauzione eccessiva: confrontandosi col figlio si era convinta non
valesse la pena spendere tutti quei soldi. Dunque Mattia e sua madre
avevano ringraziato le commesse, salutato lo specialista col suo
preventivo ed erano scappati da lì.
Prima di tornarsene a casa avevano preso un caffè in un bar, e
guardato le vetrine camminando sotto braccio; a differenza di qualche
tempo prima in cui si sarebbe vergognato, ora Mattia era ben fiero di
passeggiare per le viuzze del centro al fianco di sua madre.
Stavano ormai per raggiungere la macchina, quand’erano capitati
quasi per caso davanti a un negozio (molto più modesto della Clinica)
che esponeva in vetrina diverse tipologie di parrucche, a un prezzo
ragionevole. Con una fretta eccessiva, come una coppia che deve a tutti
i costi fare un regalo, avevano quasi fatto irruzione e scelto insieme
un modello di parrucca; sua madre l’aveva provata (facendola aderire
ai suoi capelli, che aveva ancora folti), e poiché entrambi sembravano
soddisfatti avevano pagato senza esitare. Erano usciti dal negozio
sollevati, stringendo in mano un sacchetto simile a una busta del pane.
Era stata una giornata perfetta, che madre e figlio si erano regalati.
Erano andati insieme al cinema, e la sera avevano cenato al ristorante
– Mattia, negli anni avrebbe conservato i biglietti e lo scontrino piegati
nel portafogli, come prova di felicità tascabile.
Usciti dal ristorante, si erano accorti che l’automobile parcheggiata
subito dietro la loro aveva il parabrezza distrutto. Sul cruscotto c’era
ancora il sampietrino che era stato usato per rompere il vetro, insieme
ai cocci polverizzati, brillanti sotto la luce dei lampioni. Salendo a
bordo della loro auto, la madre aveva commentato: Sarebbe potuto
capitare a noi.
Rientrati a casa, la madre si era rifugiata subito in camera da letto:
era stanca. Il padre era a una cena con i colleghi, e Mattia aveva
telefonato alla sua ragazza, raccontandole di quella giornata a suo
modo memorabile.
Quando si era deciso ad andare a dormire, aveva notato la luce
ancora accesa nella camera dei genitori. Si era affacciato sulla porta e
aveva visto la madre nuda, in piedi davanti allo specchio, le cicatrici
dei seni che denunciavano silenziose quell’ingiustizia. L’unica cosa
che indossava era la parrucca. Non suggeriva nulla di armonico: un
animale ferito deposto sulla testa. Quando lei si era accorta del figlio
immobile sulla porta aveva trattenuto appena un singhiozzo, prima
di cominciare a piangere.
Il mattino dopo Mattia si era liberato di quel grottesco ammasso
di capelli finti gettandolo nell’immondizia, e aveva telefonato alla
Clinica della parrucca per dire che quel preventivo fatto dallo specialista andava benissimo, potevano procedere alla realizzazione di
quell’oggetto su misura, grazie.
E la parrucca sarebbe poi diventata per la madre di Mattia un
copricapo a tutti gli effetti, un oggetto personale – personalissimo,
avrebbero detto alla Clinica – da indossare in qualunque momento
con disinvoltura, tanto che veniva tenuta appesa a un pomello della
mantelleria come se si trattasse di un cappotto, o un berretto.
Quando Mattia aveva consegnato la parrucca alla madre, lei subito
se l’era messa sulla testa di fronte all’amica proprio come, magari
trent’anni prima, poteva aver mostrato a una compagna di scuola
quanto fossero belle le sue scarpe nuove.
L’altra si era affrettata a dire che sì, in effetti le stava molto bene,
quasi non si sarebbe detta una parrucca – per fortuna poi la madre
se l’era tolta, dando sollievo a tutti. Mattia temeva che, proseguendo
coi complimenti l’amica potesse arrivare a dire a sua madre che
quella parrucca le donava più che i suoi veri capelli. Anzi, ora che
ci pensava, magari anche lei poteva fare un po’ di radioterapia per
poterne indossare una uguale (del resto, rientrando a casa, forse quella
donna avrebbe concluso il racconto della visita dicendo al marito:
Sarebbe potuto capitare a noi).
Solo Mattia aveva notato come il bicchiere con l’aranciata, mentre la
madre aveva in testa la parrucca, avesse tremato per un attimo nella
mano dell’amica.
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