Situazione del corso

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Situazione del corso
FRÉDÉRIC GROS1
Situazione del corso
Il corso del 1984 è dunque l’ultimo che Foucault tiene al Collège de France. Molto
indebolito all’inizio dell’anno, egli comincia le sue lezioni solo nel mese di febbraio e le
termina alla fine del mese di marzo. Queste le sue ultime parole al Collège: “È troppo
tardi. Allora, grazie.” La sua morte, nel giugno seguente, getta su questo corso una luce
particolare, la tentazione è evidentemente quella di leggerlo come una sorta di testamento
filosofico. Il corso, d’altronde, vi si presta, dal momento che Foucault, ritornando con
Socrate alle radici stesse della filosofia, decide di inscrivervi la totalità della sua opera
critica.
1. IL QUADRO METODOLOGICO GENERALE: L’ONTOLOGIA DEI DISCORSI VERI
Foucault, come d’abitudine, dedica tutta una parte delle prime lezioni a considerazioni
sul metodo, impegnandosi a definire la specificità del suo approccio. Riprendendo una
problematica de L’Archeologia del sapere, è attorno al concetto di verità che Foucault intende
distinguere il proprio pensiero. L’archeologia consisteva nella messa in luce di
un’organizzazione discorsiva che struttura i saperi costituiti. Questo campo discorsivo non
possedeva né la sistematicità né la dimostrabilità delle scienze, ma rappresentava per i
discorsi un codice di organizzazione vincolante.2 Situando così il suo oggetto d’analisi,
Foucault sfuggiva, nello stesso tempo, ai canoni dell’epistemologia e della storia delle
scienze: non si trattava più di porre la questione delle condizioni di possibilità formali o
della rivelazione progressiva dei discorsi veri, ma delle condizioni storico-culturali della
loro esistenza. Nel 1984, Foucault elabora la distinzione, questa volta, tra l’analisi delle
strutture epistemologiche e quella delle forme “aleturgiche”.3 La prima pone la questione
di ciò che rende possibile una conoscenza vera, la seconda quella delle trasformazioni
etiche del soggetto, nella misura in cui fa dipendere il suo rapporto con sé e con gli altri da
un certo dire-il-vero. Ciò che Foucault chiama “aleturgia” presuppone dunque un
principio d’irriducibilità a tutta l’epistemologia.
Frédéric Gros è professore di filosofia politica all’Università Paris-XII. Insegna anche all’Istituto di studi
politici di Parigi (Master “Storia e Teoria della politica”). Ultima opera pubblicata: États de violence. Essai sur
la fin de la guerre, Paris, Gallimard (coll. “Les Essais”), 2006.
2 L’Archéologie du savoir, Paris, Gallimard, 1969, pp. 232-255.
3 Cf. supra, lezione del 1 febbraio 1984, prima ora ( il concetto di “aleturgia” è stato elaborato per la prima
volta da Foucault nel 1980, ed esposto nelle lezioni al Collège de France del 23 e del 30 gennaio 1980, nel
corso “Le Gouvernement des vivants”).
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Lungo tutto il 1984, egli procederà all’esposizione di un concetto di verità decisamente
originale e che, secondo Foucault, trova all’interno della filosofia antica l’iscrizione
principale, ampiamente occultata dal regime moderno dei discorsi e dei saperi. Per altro,
come già aveva fatto l’anno precedente, Foucault, durante le sue prime lezioni, ripropone
il trittico della sua opera critica: uno studio dei modi di veridizione (piuttosto che
un’epistemologia della Verità); un’analisi delle forme di governamentalità (piuttosto che
una teoria del Potere); una descrizione delle tecniche di soggettivazione (piuttosto che una
deduzione del Soggetto) – consistendo la posta in gioco nell’assumere come oggetto di
studio un determinato nucleo culturale (la confessione, la cura di sé, ecc.) che prenda
corpo all’incrocio di queste tre dimensioni.
È all’interno di questo quadro teorico generale che l’analisi della nozione di parresia,
avviata nel 1982 e continuata nel 1983, deve essere ricollocata. Più precisamente, questa
analisi trova spazio all’interno di ciò che Foucault aveva definito nel 1983 una “ontologia
dei discorsi veri”.4 Bisogna riconoscere qui uno studio che non pone nei discorsi veri la
questione delle forme intrinseche che li rendono validi, ma quella dei modi d’essere che
essi implicano per i soggetti che ne fanno uso. Foucault può allora proporre una tipologia
unica degli stili di veridizione nella cultura antica, ben lontana da quella che la tradizione
conosce a partire da Aristotele (la gerarchizzazione dei discorsi secondo le loro forme
logiche), considerando questa volta il tipo di rapporto con sé e con l’altro implicato da
un’asserzione di verità. Inoltre il dire-il-vero della parresia – in quanto essa mira alla
trasformazione dell’ethos del suo interlocutore, comporta un rischio per chi parla e
s’inscrive in una temporalità attuale – è distinto dal dire-il-vero dell’insegnamento, della
profezia e della saggezza.5
2. IL SEGRETO GRECO DELLA POLITICA: LA DIFFERENZA ETICA
Foucault aveva dedicato una buona parte dell’anno 1983 allo studio della nozione di
parresia nella sua dimensione politica. Si trattava allora di cogliere una condizione non
formale della democrazia ateniese: il coraggio di un dire-il-vero che si esercitava a partire
da un’esposizione pubblica. Il coraggio della verità era stato allora definito come ciò che
rende effettivo e autentico il gioco democratico.6
Nelle prime lezioni dell’anno 1984,7 Foucault non fa altro che tracciare il bilancio
dell’anno precedente, ma si percepisce subito che ciò che si presenta come un semplice
richiamo costituisce di fatto una radicalizzazione della posta in gioco. Foucault, in effetti,
Le Gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France, 1982-1983, éd. F. Gros, Paris, Gallimard-Le
Seuil, 2008, p. 285.286.
5 Cfr. supra, lezione del 1 febbraio 1984, prima e seconda ora.
6 Le Gouvernement de soi …, op. cit., p.145-147.
7 Cfr. supra, lezione dell’8 febbraio 1984, prima e seconda ora.
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intendendo pervenire questa volta al punto nodale della filosofia politica greca, lo scopre
in ciò che egli chiama un principio di differenziazione etica.
È stato detto, da sempre, che la filosofia politica degli Antichi è stata ossessionata dalla
ricerca del “regime migliore”. E qui si è voluto vedere l’effetto di un moralismo un po’ naïf
e piatto, al quale si opporrebbe il pessimismo tragico dei Moderni. Foucault tenta qui
un’altra via: mostrare che la ricerca della “migliore costituzione” non coincide con una
ricerca morale, ma costituisce l’iscrizione di un differenza etica all’interno del problema
del governo degli uomini. Di fatto, non si tratta di determinare una forma ideale o un
meccanismo ottimale di distribuzione dei poteri, ma di mettere in evidenza come
l’eccellenza della politica dipenderà dal modo in cui gli attori politici saranno stati in
grado di costituire se stessi come soggetti etici. Certamente è difficile notare la differenza,
poiché si tratta pur sempre di dire che una buona politica dipenderà dalla virtù dei suoi
leader. Ma l’intervento di Foucault è capitale nel momento in cui mostra come questa
differenziazione etica non designi in realtà la qualità morale di un politico né tantomeno la
singolarità di una stilizzazione dell’esistenza che distinguerebbe un individuo eccezionale
dalla massa anonima. Al contrario si propone di far giocare, nella costruzione del rapporto
con sé, la differenza della verità, o piuttosto la verità stessa come differenza, come distanza
dall’opinione e dalle certezze condivise. Da qui la fragilità strutturale della democrazia,8
per cui se è possibile pensare che un individuo o un piccolo gruppo riescano a operare su
se stessi questo lavoro etico differenziatore, ciò sembra improbabile per un intero popolo.
Rimane il fatto che la differenza etica, che permette l’esistenza della migliore politeia, non è
che l’effetto, in un soggetto, della differenza della verità stessa.
Questa rivalutazione del pensiero politico greco permette nello stesso tempo a Foucault
di collocare se stesso all’interno di questa scia.9 Pervenendo al seguente risultato: la
filosofia antica pone il problema del governo degli uomini (politeia) sotto la dipendenza di
un’elaborazione etica di un soggetto (ethos) che possa far valere di fronte a sé e agli altri la
differenza di un discorso di verità (aletheia). Le tre dimensioni del Sapere, del Potere e del
Soggetto (o piuttosto: della veridizione, della governamentalità e dei modi di
soggettivazione), che avevano caratterizzato l’impresa di Foucault, vengono qui
ripresentati. Ma queste tre dimensioni non vanno considerate come tre piani distinti che
occorre studiare separatamente, come tre domini separati. Foucault insiste sull’idea che
l’identità del dire filosofico ha a che fare giustamente, a partire dalla sua fondazione
socratico-platonica, con una struttura d’appello: mai studiare i discorsi di verità senza
descrivere contemporaneamente la loro incidenza sul governo di sé o degli altri; mai
analizzare le strutture di potere senza mostrare su quali saperi e quali forme di
soggettività si fondino; mai individuare i modi di soggettivazione senza comprendere le
loro conseguenze politiche e su quali rapporti con la verità si sostengano. E non
Cf. supra, nella lezione dell’8 febbraio, prima ora, la conclusione dell’analisi enigmatica della Politica di
Aristotele (III,7,1279a-b), p. 200.
9 Cf. supra, lezione dell’8 febbraio 1984, conclusione della seconda ora.
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bisognerebbe mai sperare di porre come fondamentale una di queste dimensioni: non si
riuscirà mai a risolvere le violenze politiche o le posizioni morali in una logica generale;
non sarà mai possibile ridurre le esigenze di sapere o le costruzioni etiche a delle forme di
dominazione; infine, non si potranno mai fondare le forme di veridizione e i modi di
governo su delle strutture soggettive. Questi due principi di correlazione necessaria e
d’irriducibilità definitiva bastano a determinare l’identità della filosofia a partire dai Greci,
e Foucault vi inscrive il suo progetto. Ecco perché, infine, a coloro che potrebbero dire
(l’abbiamo sentito e lo sentiremo ancora) di non riuscire a trovare in Foucault una “vera”
filosofia della conoscenza o una “vera” filosofia politica o morale, lui risponde:
fortunatamente, perché pretendere che l’epistemologia, la morale e la politica possano
costituire domini autonomi, giustapposti, che bisognerebbe studiare separatamente e
isolatamente, significherebbe uscire dalla originaria ispirazione della filosofia.
3. LA LUCE DELLA MORTE
Foucault muore di aids il 25 giugno 1984. A gennaio dello stesso anno, molto malato,
viene trattato con antibiotici.10 Scrive a Maurice Pinguet: “Credevo di avere l’aids, ma un
trattamento energico mi ha rimesso in piedi.”11 Egli recupera la salute, e può di nuovo
tenere il corso a partire dal mese di febbraio, ma soffre di una brutta influenza all’inizio
del mese di marzo.12
È difficile riuscire a capire l’esatta consapevolezza che Foucault aveva o volesse avere
riguardo al male che lo indeboliva. Daniel Defert mostra, nella sua Chronologie, che nel
mese di marzo, in cura all’ospedale Tarnier, “non chiede né riceve alcuna diagnosi”, e che
la sola domanda che sembra porre ai medici è: “Quanto tempo mi resta?”13 Si tratta qui del
rapporto intimo che ciascuno intrattiene col suo corpo, con la propria malattia e con la
propria morte. Resta il fatto che un certo numero di letture proposte nel 1984 tratte da
grandi testi della storia della filosofia si collocano in questo orizzonte di malattia e morte.14
Si possono citare soprattutto, poiché si tratta di testi fondativi, l’Apologia di Socrate e il
Fedone di Platone.
A proposito del destino di Socrate, è sorprendente vedere come il ragionamento di
Foucault si incentri sul rapporto con la morte, e più precisamente sul problema della paura
di morire.15 Il tema generale è quello della trasformazione di una parresia che si esercita da
D. Defert, “Chronologie”, in Dits et Ecrits, 1954-1988, éd. D.Defert & F.Ewald, collab. J. Lagrange, Paris,
Gallimard, 1994, 4vol.; cf. t. I, p.63.
11 Ibid.
12 Cfr. supra, le prime parole pronunciate nella lezione del 21 marzo, prima ora.
13 D. Defert, “Chronologie”, in op. cit., p. 63.
14 D’altra parte l’esistenza stessa di Foucault, durante l’inverno del 1984, sembrava essere segnata da
quell’ascetismo radicale di cui contemporaneamente forniva descrizione nelle lezioni sul cinismo.
15 Cfr. supra, lezione del 15 febbraio, prima ora.
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una tribuna politica (Pericle o Solone di fronte agli Ateniesi) in una parresia (l’esame
socratico) che si pratica sulla piazza pubblica, nel quadro di una relazione interindividuale. Al rimprovero di non aver fatto politica, Socrate avrebbe risposto: ma se io
avessi fatto della politica, sarei morto già da molto tempo. Tuttavia, mostra Foucault,
questa risposta non rimanda a una paura di morire, piuttosto a un tentativo di preservare
il più a lungo possibile una missione ricevuta dagli dei – la cura degli altri: questa
perpetua e insistente vigilanza volta a verificare che ciascuno si prenda cura correttamente
di se stesso. Qui vediamo annodarsi, intorno al personaggio di Socrate, la nozione di
parrêsia con quella di epimeleia (la cura di sé), e l’impresa filosofica si ridefinisce come quel
dire-il-vero coraggioso che si propone di modificare il modo d’essere dell’interlocutore, in
modo che egli apprenda a prendersi propriamente cura di sé. È per poter salvaguardare
questo compito che Socrate rifiuta di fare politica. Non è la paura di morire: è la paura che
la sua missione essenziale venga compromessa. Allo stesso modo, possiamo dire che una
malattia grave ci fa paura non perché ci viene incontro lo spettro orribile del nulla, ma
perché ci verrà impedito di giungere al termine di una ricerca o di un lavoro. La prova
migliore sta nel fatto che Socrate (in tutta la vicenda dell’Apologia) preferisce infine la
morte al tradimento della sua missione essenziale.
Se tutta la lettura di Foucault dell’Apologia ruota attorno al problema della paura della
morte, quella del Fedone interroga il rapporto essenziale tra la filosofia e la malattia.16 Il
problema è quello delle ultime parole di Socrate, questa enigmatica disposizione: “Critone,
dobbiamo un gallo ad Asclepio; non dimenticartene” (118a). Queste ultime parole sono
state tradizionalmente oggetto di un’interpretazione nichilista. Come se Socrate avesse
detto: bisogna ringraziare il dio della medicina, perché attraverso la salvezza della morte,
sono guarito dalla malattia di vivere. Foucault chiama in causa Dumézil17 per dare un’altra
lettura della famosa frase: se Socrate può ringraziare Asclepio nei suoi ultimi istanti di
vita, è sì perché egli è guarito, ma guarito dalla malattia dei falsi discorsi, dal contagio
delle opinioni comuni e dominanti, dall’epidemia dei pregiudizi, guarito grazie alla
filosofia.
Così le due dichiarazioni alle quali perviene Foucault nel 1984, e che non si possono
separare dalla sua lotta contro la malattia e dalla sua morte nel mese di giugno, sarebbero:
non è la morte che mi fa paura, ma l’interruzione del mio scopo; di tutte le malattie, quella
che è veramente mortale, è la malattia dei discorsi (le conoscenze false e le evidenze
ingannevoli), e la filosofia alla fine mi ha guarito. Si deve infine notare che le ultime parole
pronunciate da Socrate (ricordatevene, non dimenticate la mia richiesta: mê amelêsête)
rinviano all’epimeleia cara a Foucault. Quella cura di sé che aveva voluto situare al cuore
dell’etica antica, sarebbe stata l’ultima parola sulle labbra di Socrate.
Cfr. supra, lezione del 15 febbraio, seconda ora.
G. Dumézil, “Le Moyne noir en gris dedans Varennes”. Sotie nostradamique suivie d’un Divertissement sur les
dernières paroles de Socrate, Paris Gallimard, 1984.
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Ma resterà da mostrare, e ciò costituirà la posta in gioco dell’intero corso del 1984, che la
cura di sé appena compresa nel 198218 come una strutturazione del soggetto, specifica e
irriducibile al modello cristiano o trascendentale (né il soggetto della confessione, né l’ego
trascendentale), sia anche un curarsi del dire-il-vero, che richiede coraggio e soprattutto
una cura del mondo e degli altri, che esige l’adozione di una “vita vera” come critica
permanente del mondo.
4. IL LACHETE E LA RADICALIZZAZIONE DELLA POSTA IN GIOCO
La lettura del Lachete di Platone quasi s’impone a Foucault, nel quadro di un corso
intitolato “Il coraggio della verità”, dal momento che si tratta di uno dei pochi testi di
filosofia interamente dedicati al problema del coraggio. Ma se la scelta dell’opera non è
sorprendente, la lettura che ne viene data lo è di certo. In effetti, mentre la gran parte dei
commentatori si erano applicati soprattutto allo studio del corpo centrale del testo (il
momento dialettico dei tentativi, abortiti, di Nicia e Lachete di definire la virtù del
coraggio), Foucault s’interessa esclusivamente all’inizio e alla fine del dialogo, vale a dire a
ciò che da molti era stato considerato come rilevante solo per la messa in scena
aneddotica.19 Questo taglio gli permette, ponendo nuovamente l’accento sulla parresia, di
prendere in considerazione come coraggio solamente quello che sostiene un dire-il-vero e
soprattutto uno stile d’esistenza.
In continuità con il commento dell’Apologia, Socrate viene sempre presentato come colui
che esercita un dire-il-vero coraggioso nel rivolgersi agli altri, al fine di correggerne l’ethos.
Ma con la lettura del Lachete si apre una nuova dimensione: Socrate è anche colui che ha il
coraggio di far valere questa esigenza di verità sulla trama visibile della propria esistenza.
Questo secondo elemento è determinante per la logica d’insieme del corso, dal momento
che renderà possibile porre il problema della “vera vita” e, pertanto, di fornire un quadro
teorico generale per lo studio del cinismo antico. Questa rivalutazione, d’altra parte, è a
questo punto decisiva, tanto da condurre immediatamente Foucault a una
riconfigurazione nella prospettiva globale della storia della filosofia, che riprende,
modificandone il contenuto, la struttura di derivazione binaria che era servita a descrivere
il pensiero moderno a partire da Kant.20 Dalla fine degli anni settanta, Foucault in effetti
aveva più volte distinto due tradizioni kantiane: la tradizione trascendentale (cosa posso
conoscere?) e la tradizione critica (in che modo siamo governati?). Durante gli anni
ottanta, egli aveva arricchito questa distinzione, aggiungendo la dimensione etica allo
studio delle relazioni di potere – così la questione diventava: quali modalità di
L’Herméneutique du sujet. Cours au Collège de France, 1981-1982, éd. F. Gros, Paris, Gallimard-Le Seuil, 2001.
Cfr. supra, lezione del 22 febbraio.
20 Cfr. su questo punto già nel 1978 la conferenza “Qu’est-ce que la critique?”, pronunciata davanti alla
Società francese di Filosofia e nel 1983 la lezione del 5 gennaio (p. 21-22).
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soggettivazione si vengono ad articolare, per resistervi o abitarvi, sulle forme di governo
degli uomini?
Foucault, nel 1984, risalirà a monte, facendo questa volta derivare da Platone due
grandi orientamenti spirituali della filosofia: da una parte, ispirandosi all’Alcibiade, una
metafisica dell’anima che fonda, nel discorso e attraverso la contemplazione teoretica, il
legame originario tra la psukhe immortale e la verità trascendente; dall’altro lato,
un’estetica dell’esistenza, problematizzata nel Lachete, che persegue lo scopo di dare alla
vita (al bios) una forma visibile, armonica, bella. L’alternativa di derivazione platonica si
distingue fortemente da quella kantiana. Con Kant, si trattava di distinguere due campi di
ricerca: la determinazione sia delle condizioni formali di verità, sia delle condizioni di
governamentalità degli uomini. Questa volta si oppongono, da una parte, un compito
spirituale che trova realizzazione in un logos, nella costituzione di un sistema di
conoscenze, e dall’altra un compito che prende corpo nell’effettività dell’esistenza concreta
e nell’ascesi. Si ha l’impressione che Foucault, nel 1984, metta sulla bilancia la filosofia
come campo discorsivo, corpo costituito di conoscenze, e la filosofia come prova e
atteggiamento, piuttosto che due tipi di ricerca possibili (trascendentale o storico-critico).
5. IL GESTO CINICO
Una grossa parte del corso del 1984 è dedicata a una presentazione molto originale,
potremmo anche dire corrosiva, del cinismo antico. Il cinismo è stato sempre considerato il
parente povero della storia della filosofia antica. L’insieme degli studi che gli sono stati
dedicati è significativamente povero, se comparato agli studi sull’epicureismo, sullo
stoicismo e sullo scetticismo. Dunque Foucault è stato uno dei primi a rinnovare in Francia
l’interesse per questa corrente rimasta marginale.21 È anche vero che del cinismo ci è
rimasto ben poco, poiché da una parte il contenuto dottrinale era relativamente rozzo, e
dall’altra, seguendo l’esempio di Socrate che non ha lasciato dietro sé alcun libro, i cinici
trascuravano largamente l’arte di scrivere. Il cinismo è dunque arrivato fino a noi
essenzialmente grazie ad aneddoti, storielle, battute taglienti. È proprio di questa povertà
teorica che Foucault si appropria per fare del cinismo il momento puro di una
rivalutazione radicale della verità filosofica, restituita al côté della praxis, della prova di
vita, della trasformazione del mondo.
È attraverso la parresia (parlar franco) che si riconoscono i cinici, ed è ancora la parresia
che serve da quadro introduttivo per questa nuova ricerca. Fino a quel momento, Foucault
ne aveva esaminato due grandi versanti: per primo il versante politico, che si era evoluto
Gli studi sul cinismo si sono comunque largamente diffusi a partire dalla fine degli anni ottanta,
particolarmente in Francia […] Segnaliamo inoltre, contemporaneamente al corso, l’apparizione delle opere
di P. Sloterdijk (Kritik der zynischen Vernunft, Francofort, Suhrkamp, 1983/Critique de la raison cynique, Paris,
Bourgois, 1987) e di A.Glucksmann (Cynisme et Passion, Paris, Grasset, 1981).
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da una momento democratico fortemente ambivalente – la parrêsia che designa la presa di
parola coraggiosa del cittadino che dice ai suoi pari delle verità scomode, rischiando così
la loro ira, e contemporaneamente il diritto demagogico riconosciuto a chiunque di dire
qualsiasi cosa – a un momento autocratico che vede l’entrata in scena del filosofo,
consigliere di un Principe al quale impartisce coraggiosamente la sua lezione, elevandosi
al di sopra del brusio degli adulatori di corte; e poi il versante etico, rappresentato da
Socrate che interpella tutti affinché ci si prenda correttamente cura di sé.
La parresia cinica costituisce una terza grande forma di coraggio della verità, anche se
può essere compresa, in un primo momento, come la semplice continuazione del dire-ilvero socratico. Dopo tutto, Diogene e Cratilo vengono descritti mentre arringano le folle
nella pubblica piazza, denunciando le compromissioni in cui tutti sono coinvolti e
obbligando chiunque a interrogarsi sul proprio modo di vivere. Ma questa ingiunzione
avviene in modo incomparabilmente più aggressivo, brutale, radicale che in Socrate. Del
resto, non c’è soltanto differenza d’intensità o di stile. Non si tratta più, come nel caso di
Socrate, di mettere semplicemente in discussione la buona (o falsa) coscienza che si ha in
relazione alle proprie certezze, di denunciare i falsi saperi, o ancora di sottolineare
ironicamente le dissonanze fra i discorsi e le azioni di quel tale piuttosto che dell’altro. Si
capisce bene che la messa in discussione dei cinici è più radicale, più estesa: è l’insieme dei
costumi e dei valori acquisiti nella cultura antica a essere attaccato e preso di mira. Socrate
è senza dubbio un personaggio bizzarro, ma, a parte la sua mania di discutere
interminabilmente, adotta uno stile di vita piuttosto regolare e tradizionale. Per certi
aspetti, rappresenta addirittura la figura del cittadino modello. Il cinico si fa notare, al
contrario, per uno stile di vita di rottura. Lo si riconosce, com’è stato detto, innanzitutto
per la sua franchezza (parresia: il suo linguaggio è ruvido, i suoi attacchi verbali virulenti,
le sue arringhe violente), ma anche dal suo aspetto esteriore: piuttosto sporco, indossa un
vecchio mantello che gli serve anche da coperta, porta una semplice bisaccia, cammina a
piedi nudi o con i sandali, e usa il suo bastone per camminare e imprecare. Ora questo stile
di vita assolutamente rude, questa miseria da vagabondo, sono per Foucault l’espressione
evidente di una messa alla prova dell’esistenza attraverso la verità. 22 Questa tematica è
importantissima, poiché permette l’apertura improvvisa di una dimensione lasciata
largamente in ombra dalla filosofia occidentale classica: quella dell’elementare. La
questione della verità, quando si pone al pensiero, apre la dimensione dell’essenziale come
ciò che resta sempre, che trascende le varianti della mente, che ignora le scomposizioni del
tempo. La questione della verità verrà posta dai cinici rispetto alla vita nella sua
materialità, così da mettere in luce ciò che assolutamente resiste: ho forse bisogno di
banchetti per nutrirmi, di palazzi per dormire? Cosa, veramente, è necessario per vivere?
Emerge allora l’elementare, come uno strato di necessità assoluta, dopo la riduzione
ascetica. Resta la terra per vivere, il cielo stellato come tetto e i fiumi per bere. Come i
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Cfr. supra, lezione del 29 febbraio, prima ora.
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platonici tentavano di distinguere, nella densa nebbia delle opinioni acquisite, la
conoscenza essenziale, i cinici danno la caccia, nell’intreccio delle convenzioni e degli
artifici mondani, all’elementare – che, nella concretezza dell’esistenza, resiste
assolutamente. La parresia cinica produce, cercando in ogni desiderio e in ogni bisogno ciò
che c’è di vero, un raschiamento dell’esistenza, dopo il quale le nostre vite appaiono sature
di contingenze e vanità futili.23 Questo profondo intreccio di vita e di verità, questa
dedizione a manifestare il vero nel corpo visibile dell’esistenza sarebbe la caratterizzazione
essenziale del cinismo, che nella posterità sarebbe da cercare nella religione (gli ordini
mendicanti del cristianesimo), nella politica (il rivoluzionario dell’XIX secolo) o ancora
nell’arte moderna e contemporanea.24
L’idea di una vita costruita, nello spessore della sua materialità, sulla verità è da
ricercarsi ancora per Foucault nel quadro di una reinterpretazione della famosa massima
cinica parakharaxon to nomisma (“Falsifica la moneta”). Foucault inizia col sottolineare,
come spesso è stato notato, che bisogna vedere dietro la parola nomisma l’idea di nomos
(legge, costume), e che i valori da trasvalutare non sono quelli della moneta. Ma mette in
luce soprattutto il fatto che la parakharaxis significa cancellare l’effigie in uso di una moneta
per riscoprirne il suo valore autentico. L’ingiunzione cinica deve allora essere intesa come
un rovesciamento dei valori di verità.
Si pone dunque la questione delle “significazioni” o dei “valori” di verità25 (non si parla
di criteri). Foucault ne distingue quattro: la non-dissimulazione, la purezza, la conformità
alla natura e la sovranità. Parakharaxon to nomisma significa allora per i cinici: far valere il
vero senso, raschiato, della verità, facendone principio direttivo dell’esistenza. Così,
condurre una “vera vita” significa: condurre una vita totalmente pubblica ed esposta (il
non-nascosto), un’esistenza di indigenza e di povertà complete (il puro), una vita
radicalmente selvaggia e animale (il diritto) e che manifesta una sovranità senza limiti
(l’immutabile). La trasvalutazione cinica è questa pratica che consiste nel vivere alla lettera
i principi di verità. La verità, infine, è ciò che risulta intollerabile, non appena lascia il
campo dei discorsi per incarnarsi nell’esistenza. La “vera vita” non si può manifestare che
come “vita altra”.
6. LA VERA VITA COME RICHIAMO ALLA CRITICA E ALLA TRASFORMAZIONE DEL MONDO
Foucault, al termine della sua ricerca sul cinismo antico, si trova a dover riorganizzare
una visione d’insieme, e a re-situare il rapporto fra pensiero greco-latino e cristianesimo. A
partire dal corso del 1980, questo rapporto veniva rappresentato dall’immagine di
un’opposizione tra un modo di soggettivazione antico che implicava una costruzione di
Ibid.
Cfr. supra, lezione del 29 febbraio, seconda ora.
25 Cfr. supra, lezione del 7 marzo, prima ora.
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sé, una cura della propria esistenza, la continua applicazione di una cura di sé come
esercizio di una libertà, e una modalità di soggettivazione che portava verso la rinuncia di
sé, attraverso l’applicazione di una conoscenza e un obbligo permanente di obbedienza.26
Nel 1984, Foucault modifica questa prospettiva d’insieme.
L’analisi del “rovesciamento” del senso della verità aveva già permesso di definire il
concetto di “vita altra”. Il cinico, facendo operare nello spessore della sua stessa vita i
valori di verità tradizionalmente messi in rapporto ai discorsi, produce in effetti lo
scandalo di una “vera vita” ritrovandosi in posizione di rottura con tutte le forme abituali
di esistenza. La vera vita non è più rappresentata come quell’esistenza perfetta, che
spingerebbe alla perfezione quelle qualità o quelle virtù di cui i destini ordinari non
lasciano intravedere che un debole bagliore. La vera vita, con i cinici, diviene una vita
scandalosa, inquietante, una vita “altra”, immediatamente rifiutata, marginalizzata.
Nelle ultime lezioni, spingendo più in là la lettura della diatriba III-22 di Epitteto (il
grande ritratto del cinico),27 Foucault mostra come questa vita altra costituisca allo stesso
tempo la critica del mondo esistente e supporti il richiamo a un “mondo altro”. La vera
vita si manifesta in questo modo come una vita altra che fa balenare l’esigenza di un
mondo differente. L’ascesi attraverso cui il cinico costringe la sua vita all’esposizione
permanente, alla spogliazione radicale, all’animalità selvaggia e alla sovranità illimitata (i
quattro significati della verità rovesciati) non mira (come poteva invece essere per gli
epicurei, gli stoici o gli scettici) a garantire semplicemente una tranquillità interiore che
costituisca un fine di per sé, edificante. Il cinico investe molto nella “vera vita” al fine di
far comprendere agli altri che si stanno sbagliando, che si perdono, e di far emergere
l’ipocrisia dei valori acquisiti. Grazie a questa irruzione dissonante della “vera vita” nel
bel mezzo del concerto delle menzogne e delle false sembianze, delle ingiustizie accettate e
delle iniquità dissimulate, il cinico apre l’orizzonte di un “mondo altro”, il cui avvento
comporta la trasformazione del mondo presente. Questa critica, che presuppone un lavoro
continuo su di sé e un insistente messa in discussione dell’altro, deve essere interpretata
come una sfida politica. E questa “militanza filosofica” come la chiama Foucault
costituisce essa stessa la più nobile e la più alta delle azioni politiche: è la grande
politeuesthai di Epitteto.28
Comprendiamo allo stesso modo come lo studio del movimento cinico abbia permesso
di denunciare il rischio rappresentato dalla posizione della “cura di sé” nel cuore dell’etica
antica. Sicuramente il punto forte di questa rielaborazione è stato in primo luogo di natura
Cfr. le lezioni del 12, 19 e 26 marzo 1980 del corso del 1979-1980 al Collège de France (“Le Gouvernement
des vivants”).
27 Cfr. supra, lezione del 22 marzo, prima ora.
28 Si noti che Foucault negli ultimi mesi, sebbene vivesse un’esistenza rarefatta e tutta concentrata attorno al
suo lavoro di preparazione dei corsi così come nella lettura e nella correzione dei tomi II e III della sua
Histoire de la sexualité (L’Usage des plaisirs et Le Souci de soi, Paris, Gallimard, 1984), trovava anche il tempo di
ricevere, nel mese di marzo, Claude Mauriac accompagnato da lavoratori senegalesi e del Mali, espulsi dalla
polizia, per redigere delle lettere in loro favore (cfr. su questo punto, D. Defert, “Chronologie”, in op. cit.).
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polemica, poiché si trattava di destituire il privilegio classico dello gnôthi seauton (la
conoscenza di sé) e di opporre all’ascesi cristiana, che implicava la rinuncia di sé e
l’obbedienza all’altro, un’ascesi antica che esortava alla costruzione di sé. 29 Foucault aveva
già insistito per mostrare come questa cura non fosse un esercizio solitario, ma una pratica
sociale, e anche un invito al buon governo degli uomini (prendersi cura correttamente di
sé al fine di prendersi cura correttamente dell’altro). Resta il fatto che questa cura di sé,
essenzialmente presentata nella sua versione stoica ed epicurea, faceva apparire un gioco
della libertà in cui la costruzione interiore prevaleva sulla trasformazione politica del
mondo. L’introduzione del concetto di parresia, nella versione socratica e cinica, doveva
apportare a questa presentazione dell’etica antica un riequilibrio decisivo. I cinici
rappresentano infatti, con tutta la loro aggressività, il momento in cui l’ascesi di sé si
rivolge provocatoriamente agli altri, poiché si tratta di costituire uno spettacolo di sé che
metta ognuno a confronto con le proprie contraddizioni. Così le cura di sé diviene
esattamente un cura del mondo, la “vera vita” che fa riferimento all’avvento di un “mondo
altro”.
Il platonismo si pone per Foucault in opposizione all’articolazione cinica “vita
altra”/“mondo altro”. Nel platonismo, ci si propone piuttosto di far interagire “l’altro
mondo” e “l’altra vita”. L’altro mondo, è il regno delle Forme pure, delle Verità eterne, che
trascendono le realtà sensibili, mutevoli, corruttibili. L’altra vita è quella promessa
all’anima dal momento in cui, dopo essersi staccata dal corpo, scoprirà nell’altro mondo la
sua terra natale, una vita trasparente, luminosa, eterna. Comprendiamo allora quale stile
debba prendere, nel solco del platonismo, la cura di sé: preservare e purificare la propria
anima per l’al di là, nell’attesa del proprio destino autentico. Il cristianesimo dovrà la sua
originalità, secondo Foucault, all’aver incrociato la visione platonica di un “altro mondo” e
l’esigenza cinica di una “vita altra”: la fede e la speranza in una patria celeste dovranno
autenticarsi in un’esistenza che trasgredisce le abitudini materiali. Il senso della rottura di
Lutero e della Riforma consisterà nel rifiuto di far dipendere da una vita altra l’accesso
all’altro mondo: d’ora in poi, ci si potrà assicurare la salvezza portando a termine i propri
compiti quotidiani, la propria vocazione immanente.30
7. IL VERO E L’ALTRO
I giochi tra “altra vita”/“vita altra”, “altro mondo”/“mondo altro” presuppongono in
Foucault una filosofia dell’alterità che, pur non essendo enunciata sistematicamente, dona
al pensiero il suo slancio. Questa nozione d’alterità gli permette in effetti di ancorare
filosoficamente il suo concetto di verità.
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Cfr. L’Herméneutique du sujet, éd. citée.
Cfr. supra, lezione del 14 marzo, prima ora.
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Già nel 1983, Foucault, per mettere in discussione l’unione felice e trasparente tra
democrazia e verità, aveva chiamato in causa La Repubblica. La virtù del discorso vero
secondo Platone, consisteva nell’individuare nell’anima una differenza e delle gerarchie,
rompendo le logiche consensuali e stabilendo degli ordini di precedenza fra i desideri. Nel
1984, Foucault fa nuovamente risuonare questa dimensione d’alterità come segno del vero,
ma questa volta a proposito della vita (del bios). La “vera vita”, la vita che si sottopone alla
prova della verità non può che apparire, allo sguardo comune, come una vita altra: in
rottura e trasgressiva.
Si comprende perché, dopo aver riunito i differenti “significati” o “valori” della verità,
dopo aver definito i temi del non-nascondimento, della purezza, del diritto e della
sovranità, Foucault abbandoni, cancellandolo dal manoscritto, il tema dell’“identico” o del
“medesimo”, che in precedenza aveva designato come uno dei grandi significati
tradizionali della verità – e che sta al centro della nostra cultura filosofica. Ma egli intende
precisamente far notare nel 1984 come l’alterità sia la traccia del vero: è ciò che fa la
differenza nel mondo e nelle opinioni degli uomini, è ciò che obbliga a trasformare il
proprio modo d’essere, è ciò la cui differenza apre la prospettiva di un mondo altro da
costruire, da sognare. Dunque il filosofo diventa colui che, grazie al coraggio del suo direil-vero, fa vibrare, attraverso la propria vita e la propria parola, il lampo di un’alterità.
Foucault può così scrivere queste parole, che non avrà il tempo di pronunciare, ma che
sono le ultime che aveva segnato sull’ultima pagina del manoscritto del suo ultimo corso:
“Ciò su cui vorrei insistere per finire è questo: non c’è instaurazione di verità senza una posizione
essenziale di alterità. La verità, non è mai il medesimo. Non ci può essere verità che nella forma
dell’altro mondo e della vita altra.”
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Traduzione di Giulia Bortoluzzi
Questo lavoro sulla nozione di verità a partire dalla filosofia greca era già cominciato nel primo corso
tenuto al Collège de France, nel 1971 (“La volonté de savoir”), che si concentrava sulle tecniche di verità nella
Grecia arcaica e iniziava un dialogo segreto con il pensiero di Heidegger sull’idea greca di verità, che
termina dunque nel 1984.
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