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Maria Teresa Russo
CORPOREITÀ E
RELAZIONE
Temi di antropologia in
José Ortega y Gasset e Julián Marías
ARMANDO
EDITORE
SOMMARIO
Premessa: La centralità del corpo nel realismo español
7
1. José Ortega y Gasset: il corpo come espressione
di vitalità e di intimità
1.1 “Circostanza” e “prospettiva” categorie centrali
nel pensiero di Ortega
1.2 Il corpo come “circostanza”
1.3 Fenomenologia del corpo vissuto: la nozione di “intracorpo”
1.4 Il corpo come geroglifico: l’espressione, fenomeno cosmico
1.5 Dinamiche del riconoscimento: corporeità e percezione
del prossimo
1.6 Femminilità, innamoramento, amore
2. Julián Marías: la corporeità come struttura
empirica della vita umana
2.1 Il tema dell’uomo, questione centrale della filosofia
2.2 La ricerca di un’antropologia “in prima persona”
2.3 La struttura empirica, forma concreta
della nostra circostanza
2.4 Vivere è “essere installati in un corpo”
2.5 Vivere è “essere installati” in un corpo sensibile e mortale
2.6 Fenomenologia del volto e della carezza
2.7 Vivere è essere installati in un corpo sessuato
2.8 La condizione amorosa
2.9 Filosofia del femminile
21
21
30
37
45
53
71
89
89
99
111
118
125
133
138
147
158
Conclusioni: Due antropologie a confronto
173
Cronologia essenziale della vita e delle opere
di José Ortega y Gasset
179
Cronologia essenziale della vita e delle opere
di Julián Marías
181
Bibliografia essenziale
1. Opere di José Ortega y Gasset
2. Opere di Julián Marías
3. Bibliografia critica su José Ortega y Gasset, Julián Marías
e la filosofia in Spagna
185
185
186
187
Premessa
LA CENTRALITÀ DEL CORPO
NEL REALISMO ESPAÑOL
Forse solo in Spagna si è svolto con toni particolarmente accesi
un dibattito, che ha visto coinvolti un gran numero di studiosi, storici, filosofi, linguisti. L’oggetto attorno al quale si sono confrontate
posizioni spesso opposte è stato il tentativo di definire la cifra della
cosiddetta hispanidad o de lo hispánico, per rispondere a un unico
interrogativo, diversamente modulato: quali siano i tratti caratteristici che concorrono alla definizione della cultura e del pensiero nella
penisola iberica. Non si registrano dibattiti così vivaci in altri Paesi
europei: cosa significhi la cultura italiana o francese o tedesca non è
stato argomento di accurate indagini teoretiche, nonostante i rigurgiti
di nazionalismo della prima metà del Novecento. Sono state certamente numerose le riflessioni sull’idea di nazione – tedesca, italiana
– ma dando per scontati una tradizione, un popolo e una continuità
culturale. Lo spirito germanico o il revanchismo francese hanno connotazioni essenzialmente politiche, non culturali.
Si può dunque affermare senza timore di esagerare che la preoccupazione di definire se stessi sia una costante nell’ambiente intellettuale della Spagna, soprattutto nel XX secolo, quando si fa più
pressante l’esigenza di sentirsi inseriti in un contesto europeo, ma
anche di conservare la propria identità culturale. Il motivo di questo atteggiamento forse è da attribuire, più che al lungo processo di
unificazione politica della Spagna, registratosi anche in altre nazioni
come l’Italia e la Germania, alla coesistenza secolare di diverse tradizioni linguistiche e culturali, che hanno mantenuto una loro autono7
mia, nonché all’esportazione oltre oceano della lingua e della cultura
spagnola, con il risultato dello sconfinamento della hispanidad in uno
spazio più ampio ed estremamente diversificato, quello iberoamericano. Anche il meticciato che si è prodotto in questo nuovo orizzonte è
stato un ulteriore elemento di complessità, per il costante confronto
con la madrepatria, sia per conservare una certa filiazione che per
rivendicare un’autonomia culturale.
Nella prima metà del Novecento, la preoccupazione dell’identità è
stata inseparabile dal problema della “rinascita della Spagna”, sentito
con grande urgenza da parte di tutti i filosofi spagnoli dell’epoca, che
lamentavano l’isolamento della Spagna nei confronti dell’Europa,
coincidendo nella proposta di una reforma, intesa come consapevolezza della propria identità culturale e ricerca di un ruolo in ambito
europeo.
Gran parte degli interpreti riconosce che dalla fine del XVII secolo
la Spagna non soltanto non avesse registrato nessun germe filosofico di rilievo, perdendo progressivamente l’abito del pensiero teorico
a favore della letteratura, ma si era isolata sempre di più dal resto
dell’Europa. Filosofi come Ortega y Gasset indicano in una ragione
inaridita e lontana dalla vita la causa della stagnazione della cultura
spagnola di cui auspicano lo svecchiamento. Per lui la reforma del
entendimiento, ossia la maturazione della mentalità ispanica deve avvenire attraverso l’apertura al resto dell’Europa, ma senza perdere la
propria identità.
“Liberar España del extranjero”: è il proposito annunciato da
Ortega sin dal 19101, che va inteso come il progetto di affrancare
la Spagna dalla condizione di estraneità nei confronti della cultura
europea, percepita, appunto, come straniera. Se la Francia era stata,
per secoli, il tramite con il resto dell’Europa, l’europeizzazione della
Spagna doveva passare attraverso l’apertura ad altre nazioni, come la
Germania e l’Inghilterra. Non si tratta di un progetto di sradicamento
né di spaesamento: Ortega respinge, infatti, ogni forma di evasione
o di dispersione dello spirito spagnolo, cercando, piuttosto, di risali1
J. Ortega y Gasset, Europa ha de salvarnos del extranjero (1910), Obras completas, Revista de Occidente, Madrid 1983, vol. I, p. 144.
8
re alle radici della cultura ispanica, mostrandone il respiro europeo.
Occorre, pertanto, nello sforzo di superare l’isolamento, proteggersi
dal rischio di essere assorbiti da altre culture, rischiando l’estinzione
dell’autentico spirito spagnolo:
«Oggi siamo francesizzati, anglicizzati, germanizzati: stiamo incorporando parti senza vita di altre civilizzazioni per una fatale alluvione
di incoscienza. Importiamo più che esportare: il che è semplicemente
la concrezione commerciale della nostra stranierizzazione. Siamo cisterna e dovremmo essere sorgente»2.
La categoria della “circostanza”, la più celebre tra quelle orteghiane, nasce proprio con questo connotato. La prima “circostanza” da
cui è impossibile prescindere è quella geografica, storica, culturale,
che però è collocata in una “circostanza” più ampia, quella europea.
Il rispetto della “circostanza”, “el saber a qué atenerse” è una forma
di realismo. Tra i due estremi, provincialismo e cosmopolitismo, si
muove questo proposito di rompere la chiusura, la “tibetanización”
della Spagna, per recuperare una nuova concentrazione di energia e
nuovo slancio. Ma la questione dell’europeizzazione ne pone immediatamente un’altra: quella di definire cosa significhino concetti come
“Europa” e cultura “europea”3.
Mentre lo storico Ramón Menéndez Pidal ha cercato di tratteggiare le caratteristiche psicologiche dell’individuo iberico, da cui ha ricavato alcune tendenze culturali4, il filologo Américo Castro ha cercato
invece nella storia le radici della hispanidad.
Nella lettura che ne ha dato il filosofo Julián Marías, in un saggio del 19475, i tratti essenziali del popolo spagnolo segnalati da
2 «Hoy estamos afrancesados, anglizados, alemanizados: trozos exánimes de otras
civilizaciones van siendo traídos a nuestro cuerpo por un fatal aluvión de inconsciencia.
El hecho de que importemos más que exportamos es sólo la concreción comercial de
nuestra extranjerización. Somos cisterna y deberíamos ser manantial». Ivi, p. 145.
3 J. Ortega y Gasset, Asamblea para el progreso de la ciencia (1908), Obras completas, cit., vol. I, pp. 99-105.
4 Cfr. R. Menéndez Pidal, Historia de España, Espasa Calpe, Madrid 1947.
5 J. Marías, Una psicología del español, in Ensayos de convivencia, Obras, Revista
de Occidente, Madrid 1982, vol. III, pp. 53-61.
9
Menéndez Pidal sono la sobrietà, la carica di idealità e la tendenza all’individualismo. Nella sobrietà è possibile rintracciare l’eredità della dimensione stoica, condensata soprattutto nel pensiero di
Seneca, nativo di Cordoba, che ha dato luogo a una filosofia e a un
atteggiamento tipico, denominato senequismo6. Da qui una certa essenzialità e persino rozzezza delle forme di vita, prive di raffinatezza
e di comodità. Menéndez Pidal vi riconosce una radice psicologica
nella mancanza di desideri e nella scarsa immaginazione, con evidenti
conseguenze. Da un lato, la scarsa rappresentazione immaginativa del
futuro, per cui lo spagnolo si imbarca in imprese rischiose senza calcolarne le conseguenze, come è avvenuto per la scoperta dell’America. Dall’altro, il disinteresse per l’economia e per il danaro, causa
del ristagno economico della Spagna. E se tipico della hispanidad è
quell’atteggiamento denominato sosiego, emergente soprattutto nel
XVI secolo, ossia quel misto di eleganza e di posatezza nell’azione, il rovescio della medaglia è costituito dall’apatia, dall’inazione e
dall’ostilità nei confronti del nuovo.
Quest’ultimo aspetto è però compensato dalla forte carica di idealità, che si mostra nella pronta disposizione alla morte, così come la
profonda religiosità ha bilanciato il disinteresse per le opere sociali.
Infine, l’individualismo, manifestato nel debole senso della collettività ha prodotto quell’oscillazione tra arbitrarietà e benevolenza caratteristica della vita sociale e anche dello stile istituzionale del popolo
spagnolo.
Per il filosofo Julián Marías questa psicologia è alquanto rigida e
schematica, in quanto non si riferisce alla natura di un popolo, ma ad
abiti che si sono costituiti storicamente, come ingredienti naturali di
6 Angel Ganivet, nel suo Idearium español (1897), considera questo atteggiamento
come costitutivo del temperamento iberico: «Lo spirito spagnolo, rude, informe, nudo,
non copre la sua nudità primitiva con artificiosi vestimenti; si copre con la foglia di fico
del senechismo; e questo vestito sudario gli resta attaccato per sempre e si mostra non
appena si penetra un po’ nella superficie o corteccia ideale della nostra nazione». («El
espíritu español, tosco, informe, desnudo, no cubre su desnudez primitiva con artificiosa vestimenta; se cubre con la hoja de parra del senequismo; y este traje sudario queda
adherido para siempre y se muestra en cuanto se ahonda un poco en la superficie o
corteza ideal de nuestra nación»). A. Ganivet, Idearium español, Espasa Calpe, Madrid
1957, p. 9. Cfr. L. Frattale, Melanconia, crisi, creatività nella letteratura spagnola tra
Otto e Novecento, Bulzoni, Roma 2005, p. 173 e ss.
10
una realtà storica, che possono essere modificati dall’agire. Si tratta
di un repertorio di caratteristiche, acquisite nella storia o in parte date
dalla natura, che contribuiscono a comporre la “circostanza”: con essi
occorre fare i conti, ma possono essere un punto di partenza per successivi cambiamenti.
Anche Américo Castro polemizza con il suo maestro Menéndez
Pidal, tra l’altro negando con decisione che il senequismo sia una
componente essenziale dello spirito spagnolo7, per il semplice motivo
che non è possibile parlare di una vera e propria cultura “spagnola”
prima della Reconquista. A suo parere l’identità ispanica si forgia tra
l’VIII e il XV secolo, come risultante di tre elementi: il cristianesimo, l’eredità islamica, il giudaismo8. Non è d’accordo Marías9, che
respinge l’idea dell’amalgama culturale, rivendicando la profonda coerenza della storia della Spagna, che la rende, pertanto, estremamente
intellegibile. Per il filosofo cinque miti vanno sfatati per comprendere
la hispanidad: il mito del mosaico culturale privo di parti essenziali,
con la preponderanza del fattore islamico, come voleva Castro (che
non tiene conto della funzione civilizzante della romanizzazione); il
mito della decadenza prodotta, come pretendeva Ortega, dall’assenza di élites; il mito della “leggenda nera” sulla colonizzazione delle
Americhe; il mito dell’epoca dell’Inquisizione, che invece coincide
con il cosiddetto Siglo de Oro10; il mito dell’inferiorità congenita della Spagna.
Qui non interessa entrare nel vivo di un dibattito che forse ha fatto
il suo tempo. È invece stimolante cercare di individuare se esistano
precise specificità della cultura iberica, che possa far inquadrare nella
giusta luce il suo apporto prezioso alla storia del pensiero. Senza forzature inopportune, importa rintracciare un filo da seguire per orien7 «Séneca no era español, ni los españoles son senequistas». A. Castro, La realidad
histórica de España (1948), Porrua, México 1962, p. 642.
8 Cfr. A. Castro, Los españoles, Taurus, Madrid 1966. Cfr. anche G. Fernández de la
Mora, Pensamiento español (1965), Rialp, Madrid 1966, pp. 287-294.
9 Cfr. J. Marías, España intelegible. Razón histórica de las Españas, Alianza
Editorial, Madrid 1985.
10 Tra l’altro osserva Marías che le maggiori esecuzioni dell’epoca non avvennero
in Spagna, ma altrove, se si pensa a Tommaso Moro, Giordano Bruno, Michele Serveto.
Cfr. ivi, p. 289.
11
tarsi in un panorama diversificato e ricco, che merita di essere ancora
adeguatamente studiato, forse per il ruolo marginale esercitato fino a
una certa epoca in ambito europeo.
Seguendo anche la linea interpretativa di Alain Guy, che riassume
la cifra della filosofia spagnola in quattro caratteristiche, il gusto per
la logica, la preoccupazione morale e politica, la nostalgia dell’assoluto e la presenza di una filosofia medica11, si può affermare che
in queste note abbia un peso rilevante la convivenza cristiano-islamico-giudaica verificatasi per secoli nella penisola iberica. Più che
un’attenzione nei riguardi di questioni squisitamente metafisiche e
teoretiche, vi è una chiara tendenza a valorizzare la concretezza della
vita nel suo carattere potremmo dire drammatico e carnale, come si
manifesta nelle espressioni più quotidiane, quali l’amore, la festa, le
esperienze del corpo, l’animo femminile, con la contraddittorietà che
è propria della vita.
Questa è anche la tesi di José Luis Abellán, per il quale l’elemento
più tradizionale dell’anima spagnola è quello di “una cultura hecha
desde la vida y para la vida”12. Proprio perché è una sorta di applicazione pratica della ragione vitale, egli ritiene che la cultura spagnola
abbia come espressioni più tipiche la pittura, la poesia e l’arte in generale, mentre sarebbe carente in ambito filosofico e scientifico. Egli
condivide la posizione di Unamuno, per il quale le manifestazioni
della filosofia spagnola, più dotata per esplorare l’intramondo che il
sovramondo, andrebbero ricercate non nei trattati, ma nei simboli, nei
cantici, in opere letterarie come La vida es sueño di Calderón de la
Barca o il Quijote. Per questo motivo, secondo Abellán, è più esatto
parlare di pensiero spagnolo, piuttosto che di filosofia spagnola13.
Personaggi letterari come Don Chisciotte o Don Giovanni sono
l’espressione di questo modo di sentire, incarnando rispettivamente il
gusto dell’avventura e la passione amorosa. Ma né il quijotismo né il
11
Cfr. A. Guy, La philosophie en Espagne, in Encyclopédie Philosophique
Universelle, PUF, Paris 1998, vol. IV, p. 454; cfr. anche A. Guy, Histoire de la philosophie espagnole, Publications Université de Toulouse, Toulouse 1985, pp. 32-34.
12 Cfr. J.L. Abellán, Historia crítica del pensamiento español. De la Gran Guerra a
la guerra civil española, t. 5/III, Espasa Calpe, Madrid 1988, p. 209.
13 Cfr. ivi, p. 209.
12
donjuanismo, entrambi atteggiamenti improntati a una certa radicalità, rappresentano da soli l’autentico esprit ispanico, che può essere individuato anche nell’antieroe Sancho, forse alter ego di Cervantes14,
il quale nel suo realismo ironico fa da correttivo ai sogni dell’hidalgo
Chisciotte. E se anche la corrida de toros evoca un impasto drammatico e primitivo di passione, fisicità e morte, come lo ritroviamo in
alcune pitture di Goya, le Madonne andaluse portate in processione
rischiarano invece questi toni foschi e ancora una volta sono un richiamo alla carnalità, con i loro volti femminili, ben poco idealizzati.
Materia e spirito, corporeità e mistica si mescolano nelle manifestazioni culturali della Spagna, rappresentate da figure apparentemente distanti: Don Juan di fronte al mistico San Juan de la Cruz; Don
Quijote di fronte a Sancho Panza. La ragione consolatrice e guaritrice di Seneca, orientata alle dimensioni dell’interiorità; la filosofia
medica di Maimonide, finalizzata alla salute come armonia; infine
il pensiero di Teresa de Ahumada (Teresa de Jesús), che unisce alla
mistica del castello interiore un’intensa attività di viaggi e di fondazioni, hanno uno sfondo comune. Una sorta di patetica unisce questa
linea di pensiero, intesa come centralità del pathos nelle sue diverse
manifestazioni, assieme alla rilevanza del corpo, realtà da curare e da
guidare, lontano dagli eccessi dello spiritualismo e del materialismo.
In Seneca, cordobese di nascita, troviamo un’attenzione per le cosiddette malattie dell’anima, che è compito della filosofia guarire: la
aegritudo o taedium vitae, da ricondurre alle passioni dell’anima e che
ha il suo corrispettivo nelle malattie del corpo. Filosofia e medicina si
muovono su linee parallele, la prima procurando la consolatio, l’altra
il solacium, il sollievo fisico. Come è stato osservato, perché si possa
dire che l’anima patisce la malattia, occorre una nozione di malattia
che è medica, ma altresì una nozione di anima, che è filosofica15.
Noto per la sua Guida dei perplessi (1190), il filosofo e medico
Mosé Maimonide, anch’egli cordobese, scrive: «l’intenzione che
14 Cfr. A. Savignano, Panorama della filosofia spagnola del Novecento, Marietti,
Milano 2005, p. 68.
15 Cfr. J. Pigeaud, La maladie de l’âme. Étude sur la relation de l’âme et du corps
dans la tradition médico-philosophique antique, Les Belles Lettres, Paris 1989, pp.
10-16.
13
l’uomo deve perseguire con la salute del corpo è quella che la sua anima disponga degli strumenti sani e perfetti per lo studio delle scienze
e per l’acquisizione delle virtù morali e intellettuali, in modo da raggiungere il suo fine»16. L’ideale maimonideo del medico è quello del
medico-filosofo, un sapiente capace di praticare e di insegnare quella
medietà della virtù che sarà il principio ispiratore anche della misura e
dell’equilibrio nell’esercizio dell’arte medica. Lo stile di vita, la diáita, che il medico deve consigliare è, in fin dei conti, la pratica della
sapienza e della virtù, in rapporto diretto con la salute fisica.
Un profondo realismo fa dunque da sfondo alla cultura ispanica. Il
medico e filosofo Laín Entralgo, trattando del dinamismo della pittura
di Vélazquez, la riconduce al “realismo impressionista” dell’anima
spanola, l’esatto contrario delle trasfigurazioni artistiche dell’idealismo17. In Spagna, afferma Entralgo, l’ascesi di San Juan de la Cruz
e Luis de León convive con la satira di Francisco de Quevedo e il
realismo scientifico di Ramón y Cajal e Severo Ochoa18.
Unamuno è l’esempio filosofico più vigoroso della critica alla ragione teorica e senza vita. All’idea astratta di sostanza egli contrappone con toni paradossali la sostanza della realtà concreta: «Quando
sento parlare di sostanza, mi si risvegliano le oscure reminiscenze
di sostanze concrete, della sostanza del brodo, del sostanzioso di un
bollito, della sostanza della carne», ed è la persona umana “l’unico
sostanziale”19. Contrapponendo il mondo delle cose al mondo delle essenze, egli rifiuta l’astrazione della generica humanitas, privilegiando l’uomo concreto e vivente, l’uomo «di carne e ossa, che nasce,
soffre e muore – soprattutto muore – che mangia e beve e gioca e
16 M. Maimonide, Shemoná Peraqim, cap. 5, in C. Del Valle Rodríguez, Maimónides.
Etica, Aben Ezra Ediciones, Madrid 2004, p. 91.
17 Cfr. P. Laín Entralgo, Ocio y trabajo, Revista de Occidente, Madrid 1960, p.
165.
18 Santiago Ramón y Cajal, medico, premio Nobel per la Medicina nel 1906 e
Severo Ochoa, biochimico, premio Nobel per la Medicina nel 1959, incarnano l’attenzione alla vita dal versante scientifico. Cfr. ivi, p. 270.
19 «Cuando oigo hablar de sustancia, se me despiertan las oscuras reminiscencias
de sustancias concretas, de la sustancia del caldo, de lo sustancioso de un cocido, de
la sustancia de la carne». M. de Unamuno, Ensayos, Obras completas, Turner, Madrid
1985, vol. V, p. 49.
14
dorme e pensa e ama, l’uomo che si vede e che si sente, il fratello, il
vero fratello»20.
Anche per María Zambrano la cifra essenziale del pensiero spagnolo è il realismo, inteso innanzitutto come un preciso stile di vita,
una certa modalità di incardinamento nell’esistenza; ma anche come
una forma di conoscenza, perché è un modo di stare nel mondo e
di guardarlo, senza pretendere di ridurlo alla propria misura. Per la
Zambrano, questo è il modo di comportarsi dell’innamorato: essere innamorati del mondo, catturati da esso, senza pertanto potersene
staccare21.
Su questo terreno si è sviluppata la filosofia spagnola vera e propria, a partire dal cosiddetto Siglo de Oro, ossia dal XVI secolo, quando all’unità politica della penisola iberica si aggiunge una chiara unità
intellettuale e religiosa22.
L’attenzione alla vita concreta – e non l’isolamento culturale,
come vorrebbero alcuni – è il motivo principale per cui l’idealismo
non attecchisce in Spagna, mentre invece è presente il positivismo,
ma sempre come rivendicazione della realtà del mondo, piuttosto che
come riduzionismo metodologico. Si pensi al saggio di Ramón Turró
i Darder23, Orígenes del conocimiento. El hambre24, nel quale l’autore considera la fame come il tramite della nostra conoscenza del
mondo. In chiave decisamente antikantiana, Turró analizza gli impulsi trofici giudicandoli non come “impulsi amorfi”, ma come “una
somma di tendenze elettive”. Dall’inquietudine trofica e dal riflesso
20
«De carne y hueso, que nace, sufre y muere – sobre todo muere – el que come y
bebe y juega y duerme y piensa y quiere, el hombre que se ve y a quien se oye, el hermano, el verdadero hermano». Id., Del sentimiento trágico de la vida, cap.1, p. 3; trad.
ital. Del sentimento tragico della vita negli uomini e nei popoli, SE, Milano 2003.
21 Cfr. M. Zambrano, Pensamiento y poesía en la vida española, Endymion, Madrid
1987, p. 39.
22 Cfr. J.E. Gracia, Filosofía hispánica. Concepto, origen y foco historiográfico,
EUNSA, Pamplona 1998, pp. 28-30.
23 Gerona, 1854 - Barcellona, 1926.
24 Cfr. R. Turró i Darder, Orígenes del conocimiento. El hambre, Minerva, Barcelona
1916. Il saggio apparve in catalano nel 1912, immediatamente tradotto in tedesco e in
francese ancor prima che in spagnolo. La prefazione all’edizione spagnola del saggio
fu opera di Miguel de Unamuno, che riconobbe una profonda affinità tra la tesi di Turró
e la sua teoria della conoscenza.
15
trofico, percezioni confuse del sistema vegetativo, la fame o intuizione trofica è la coscienza del bisogno di sostanze commestibili, che
conduce all’esperienza trofica. Contro l’errore dello scetticismo, che
nega il mondo esterno, Turró afferma che l’intellezione è un processo
logico i cui dati sono imposti sensorialmente25.
Oltre all’idealismo, non ritroviamo in terra iberica neppure la corrente filosofica dell’esistenzialismo. C’è chi ha attribuito questa assenza al ritardo culturale della Spagna. La risposta di Julián Marías
colloca invece la filosofia spagnola ancora una volta nella linea del realismo26. Non solo egli obietta che Kierkegaard fu conosciuto molto
presto da Unamuno, che imparò addirittura il danese per leggerlo, così
come Ortega conobbe la filosofia di Husserl e di Heidegger, diffusa
in Spagna anche grazie a numerose traduzioni. In realtà, il pensiero
spagnolo ha anticipato molte delle tesi esistenzialiste, ma alla luce di
un’idea di ragione che gli ha impedito di cadere negli errori dell’esistenzialismo. Si tratta della ragione vitale, cioè dell’“apprensione della realtà nella sua connessione”27, che si realizza concretamente come
ragione storica e ragione narrativa. Unamuno, afferma Marías, si è
interrogato sull’esserci del reale nel 1904, venticinque anni prima di
Heidegger. È indubitabile che tale approccio può condurre a radicalismi, come il vitalismo, lo storicismo e l’irrazionalismo. Per questo
motivo, nella prospettiva elaborata da Marías, come si spiegherà nelle
pagine che seguono, la ragione vitale deve essere integrata da un’analitica o teoria della vita umana, costituita da enunciati universali e
necessari, che potranno fornire conoscenze reali solo ricevendo una
concretizzazione individuale e circostanziale.
La centralità del corpo, assieme alla categoria di ragione vitale, si
può pertanto considerare un filo conduttore della filosofia spagnola,
soprattutto nel XX secolo, quando, a parere di alcuni interpreti, essa si
presenta con una profonda affinità sostanziale, tanto da comporre un
25 Cfr. A. Guy, Historia de la filosofía española, Anthropos, Barcelona 1985, pp.
426-429.
26 Cfr. J. Marías, Presencia y ausencia del existencialismo en España (1950),
Obras, cit., vol. V, pp. 233-247.
27 J. Marías, Introducción a la filosofía, Obras, cit., vol. II, p. 42.
16
“sistema storico”, un “sistema di filiazione intellettuale”28. Unamuno
ne è in un certo senso il capostipite, anche se non da tutti considerato
filosofo in senso stretto, per la frammentarietà del suo pensiero e la
preferenza accordata alla novella. L’elemento che accomuna i filosofi di questo periodo è l’insoddisfazione nei confronti della categoria
dell’essere, che tuttavia non li conduce a esiti antimetafisici, ma ad
interrogarsi sulla realtà in quanto tale, cioè sul ciò che c’è, in cerca di
una metafisica che sia al di là dell’ontologia29.
Questo atteggiamento, seppure con un esito storicistico, appare
chiaramente in Ortega, per il quale il pensiero è una funzione della vita,
non considerata in generale, ma della “mia vita”: «Cogito quia vivo,
perché qualcosa attorno mi opprime e mi preoccupa, perché all’esistere
non esisto solo io, ma “io sono una cosa che si preoccupa delle altre
lo voglia o no”»30. La stessa preoccupazione la ritroviamo nei cosiddetti medici-filosofi, che nella Spagna della prima metà del Novecento
sono numerosi. Da un lato, si tratta degli esponenti di quella che
Alain Guy denomina “filosofia psichiatrica”, come l’endocrinologo
Gregorio Marañón, con le sue patobiografie31 e lo psichiatra Juan José
López Ibor32. Dall’altro, abbiamo medici dediti a coltivare un’antropologia filosofica dal taglio esistenzialista, come Juan Rof Carballo33
28
Cfr. J. Marías, Realidad y ser en la filosofía española (Los Angeles, 1955),
Obras, cit., vol. V, pp. 519-529.
29 Cfr. ivi, p. 521.
30 «Cogito quia vivo, porque algo en torno me oprime y preocupa, porque al existir
yo no existo sólo yo sino que “yo soy una cosa que se preocupa de las demás quiera o
no”». J. Ortega y Gasset, Filosofía pura (luglio 1929), Obras completas, cit., vol. IV,
pp. 48-59; cfr. J. Marías, Realidad y ser en la filosofía española, cit., p. 522.
31 Madrid, 19 maggio 1887 - Madrid, 27 marzo 1960. Famose le sue biografie psicologiche di figure storiche come Amiel, Enrico IV di Castiglia, Tiberio, il conte duca
di Olivares. Cfr. A. Guy, Historia de la filosofia española, cit., pp. 439-442.
32 Sollana, Valencia, 22 aprile 1908 - Madrid 1991. Si distinse per l’applicazione
del metodo fenomenologico alla psichiatria, con una particolare attenzione all’aspetto
esistenziale delle patologie. Cfr. ivi, pp. 442-443.
33 Lugo, 1905 - Madrid, 1994. Introdusse la psicoanalisi in Spagna, ma ne fu allo
stesso tempo un critico severo, elaborando la teoria della urdimbre, trama originaria
di relazioni che presiede allo sviluppo dell’io. Cfr. M.T. Russo, La ferita di Chirone.
Itinerari di antropologia ed etica in medicina, Vita e Pensiero, Milano 2008, pp. 57102.
17
e Luis Martín-Santos34, o dal taglio personalista, come Pedro Laín
Entralgo35.
Questo bisogno di concretezza si riflette nel privilegiare il corpo
come oggetto dell’indagine filosofica, parte eminente di quella realtà
su cui interrogarsi, non dal punto di vista dell’esteriorità, ma come la
condizione stessa dell’esistenza personale. Esso occupa dunque un
posto centrale nella speculazione della maggior parte dei filosofi di
questo periodo. A titolo esemplificativo si possono citare i saggi sul
corpo di José Gaos e di Joaquín Xirau, che frequentarono entrambi
negli anni ’20-’21 la facoltà di Filosofia dell’università di Madrid e
furono allievi di Ortega.
José Gaos36, nell’ambito del suo proposito di dar inizio a una “terza e nuova filosofia”, lontana sia dal naturalismo che dallo spiritualismo, scrive nel 1944 un intero saggio dedicato al fenomeno della carezza: Dos exclusivas del hombre: la mano y el tiempo37. Egli
mette in luce la ricchezza inesauribile della mano umana, dalla capacità artigiana alla chiromanzia, fino alla pittura e alla scultura. La
fenomenologia della carezza mostra tutta la complessità di un gesto
ricco di sfumature. Dalle caratteristiche della mano che accarezza –
dura, callosa, rugosa, umida, calda, fredda – a quelle della qualità del
tocco – soave, fugace lento – a quelle della superficie accarezzata,
che non può essere né concava né irsuta, infine al significato stesso
della carezza, che può essere finalizzata a consolare, a implorare, a
34 Larache, Marocco, 1924 - San Sebastián, 1964. Fu direttore dell’ospedale psichiatrico di San Sebastián e attento alle basi filosofiche della malattia mentale, come
appare dal saggio, Dilthey, Jaspers y la comprensión del enfermo mental, Paz Montalvo,
Madrid 1955.
35 Urrea de Gaén (Teruel), 1908 - Madrid, 2001. Medico e storico della medicina, si
è dedicato ad approfondire le basi filosofiche dell’arte medica, in vista di una maggiore
comprensione dell’uomo malato. Cfr. M.T. Russo, La ferita di Chirone, cit., p. 103 e
ss.
36 Gijón, 1900 - México, D.F., 1969. Rettore dell’università di Madrid tra il ‘36 e il
’39, fu poi esiliato in Messico. Cfr. A. Savignano, Panorama della filosofia spagnola
del Novecento, cit., pp. 260-269.
37 J. Gaos, La caricia in Dos exclusivas del hombre: la mano y el tiempo, Ed.
Universidad de Nuevo León, México 1945. Il saggio risale ad alcune conferenze tenute
l’anno precedente nell’Universidad de Nuevo León (Monterrey). Pubblicato successivamente in Obras completas de José Gaos, tomo III, UNAM, México 2003.
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calmare38. Mentre la vista e l’udito sono sensi della distanza, il tatto,
di cui la carezza è l’espressione più ricca, è il senso della prossimità.
Esprime trascendenza e capacità di accoglienza piuttosto che di conquista e di appropriazione. La mano che accarezza accoglie nell’intimità personale chi viene accarezzato, creando un recinto di intimità.
La carezza è opera non del corpo, ma della carne, intendendo con
questo termine la corporeità in quanto espressione di un io personale.
Contrariamente all’interpretazione freudiana, Gaos intende la carezza
come il non sessuale nel sessuale, in quanto attesta la presenza di un
amore spirituale e oblativo, in grado di mediare tra il desiderio e la
sua soddisfazione39.
Joaquín Xirau40, al quale si attribuisce l’elaborazione di una vera
e propria “metafisica dell’amore”41, nel 1946 scrive Presencia del
cos42, in cui approfondisce la distinzione husserliana tra corpo fisico
e corpo vivente, soffermandosi ad analizzare i vissuti e le modalità
attraverso le quali il corpo si fa “presente” a noi stessi. Il corpo è
presenza mia di fronte a me stesso e al mondo, ma è anche presenza
del mondo di fronte a me. Egli distingue tra “corpo mio”, “mio corpo” e corpo fisico. Il primo è il luogo dell’identità, il balcone da cui
si affaccia l’anima; il secondo è il mediatore dell’azione; mentre il
corpo fisico nella sua visibilità, se separato dalle altre dimensioni, può
persino provocare repulsione e timore. Significativo è il riferimento
al termine spagnolo entrañable, che deriva da entrañas (visceri) ed
esprime affetto intimo per gli amici, per le cose43. Il corpo è espressione, manifestazione, ma anche resistenza e ostacolo, origine di tutte
le limitazioni, come il sonno, il peso, il bisogno di alimentarsi. Eppure
fare a meno del corpo comporterebbe più svantaggi che vantaggi, per38
Cfr. J. Gaos, La caricia, in A. Serrano De Haro, Cuerpo vivido, Encuentro,
Madrid 2010, pp. 53-85.
39 Cfr. ivi, p. 84.
40 Figueras, 1895 - México, 1946.
41 Cfr. A. Guy, Historia de la filosofia española, cit., pp. 342-345.
42 J. Xirau, Presencia del cos, pubblicato in Messico in «La nuestra Revista», 4,
aprile 1946, pp. 121-125, poi raccolto in Obras completas III, Anthropos/Fundación
Caja Madrid, Barcelona 2000, vol. II, pp. 328-335.
43 Cfr. J. Xirau, Presencia del cuerpo, in A. Serrano De Haro, Cuerpo vivido, cit.,
pp. 87-98.
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ché darebbe luogo all’impossibilità di abitare il mondo, come aprire
una porta, parlare, dare una stretta di mano. Si ritorna, allora, “tremando al proprio centro di gravità” 44, tanto che la vita si può definire
quasi come il dramma della lotta con il proprio corpo. Suggestivo il
riferimento alla vecchiaia: per Xirau, è il corpo fisico a invecchiare e
a divenire estraneo, mentre il mio corpo diventa sempre più intimo:
«mi infiltro in esso, lo penetro e mi rivelo in esso. Lo rendo anima
della mia anima, essenza della mia essenza. Il compito di una vita
autentica è renderla ogni giorno più pura, più sicura e unitaria. E nel
giorno della morte il mio compito resta incompiuto… Non sarà forse
questo il significato autentico dell’immortalità personale?»45.
44
Cfr. ivi, p. 89.
infiltro en él, lo penetro y me revelo en él. Lo hago alma de mi alma, esencia
de mi esencia. La tarea de una vida auténtica es hacerla cada día más pura, más segura
y unitaria. Y en el día de la muerte queda mi tarea inacabada… ¿No será éste el sentido
auténtico de la inmortalidad personal?». Ivi, p. 97.
45«Me
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