Pakistan 2001 - Scuole di Alpinismo del FVG

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Pakistan 2001 - Scuole di Alpinismo del FVG
NUOVE SFIDE PER L'ALPINISMO ITALIANO
Il 1° Corso per Guide Alpine e Portatori D’Alta Quota
Chitral (Pakistan) - Catena Himalayana dell'Hindu-Kush (giugno-luglio 2001)
di Giorgio Gregorio e Claudio Rossi
Premessa
Scrivere ora un resoconto del primo Corso per Guide Alpine e Portatori D’Alta Quota, organizzato
da Mountain Wilderness International e dal Club Alpino Accademico Italiano, assieme alla
Commissione Nazionale di Alpinismo e Scialpinismo, e tenuto in Pakistan nel giugno e luglio 2001,
dopo quello che è accaduto nel mondo e che purtroppo sta accadendo ancora, risulta essere un
compito ancora più difficile. In luglio, appena rientrato in Italia, non avevo dubbi su cosa raccontare
dell’esperienza appena conclusa; cosa descrivere di quella splendida terra che è il Pakistan e in
particolare la regione di Chitral, sin dal primo momento apparsa ai miei occhi sospesa tra una
condizione di vita medievale e un’enorme voglia di crescere e di raggiungere la modernità.
Allora ero entusiasta, sia per l’esperienza personale vissuta, sia per la convinzione, allora salda, di
aver contribuito, anche se in piccolissima parte, ad offrire un’opportunità in più per il proprio futuro
agli amici allievi pakistani: il brevetto di Guida Alpina che Mountain Wilderness International gli
aveva attribuito, poteva risultare un’importante carta da giocare con i turisti, dalla prossima
stagione, quando sarebbero arrivati per l’alpinismo o il trekking in Hindu-Kush. Ora tutto è più
confuso. Mi trovo costretto a dover dire anche qualcosa d’altro, oltre al semplice resoconto del
Corso. Sento che di dover spendere qualche parola in più per descrivere, almeno a grandi linee, la
stupenda regione di Chitral, terra a pochissimi chilometri dall’ Afghanistan. Premetterò, dunque,
alla parte dedicata al resoconto alpinistico dell’iniziativa, alcune sensazioni che mi ripercorrono la
mente mentre leggo i giornali e mi chiedo cosa ne sarà degli amici lontani, sparsi nelle valli di
Chitral.
Regione in cui, fatta eccezione per Chitral, centro abitato principale, la maggioranza della
popolazione vive in piccolissimi villaggi, isolata da tutto. La cui unica preoccupazione è quella di
sopravvivere e disporre di una scorta di grano sufficiente al sostentamento per i lunghi inverni. Lì
l’uomo non ha ancora addomesticato la natura alle sue esigenze e vive da prigioniero, tra valli e
montagne che lo dominano e decidono ancora del suo destino, attraverso la prepotenza degli
elementi, costringendolo a riunirsi in piccolissime comunità autosufficienti – o forse
autoinsufficienti – i tanti villaggi del Hindu-Kush, collocati in un tempo storico non ben definito.
Da un villaggio all’altro ci si muove a piedi o con mezzi fuoristrada che attraversano morene e
cenge scavate nella roccia friabile, sospesi su baratri a strapiombo sopra torrenti impetuosi che
scorrono centinaia di metri più in basso, talvolta ritagliando zone abitabili, altre volte trascinando
via strade e coltivazioni, con piene stagionali.
Ad ogni strettoia ti chiedi se il mondo debba finire lì al prossimo tornante, e invece,
misteriosamente, scopri che si riesce a passare; ed ecco un altro slargo verde, minuscole
coltivazioni; ecco un altro villaggio isolato nella sua infinita bellezza ed immensa povertà. I
bambini ti corrono incontro scalzi e ti chiedi che scarpe indosseranno in inverno, come faranno a
raggiungere la scuola con la neve che ricoprirà ogni cosa. Ti chiedi come farà questa gente a
riscaldare le misere case di fango, che quasi non si distinguono dal resto del paesaggio, quando ti
volti indietro a guardare verso sud, mimetizzate come sono tra i boschetti di betulle, e con le pareti
dello stesso colore delle rocce che le sovrastano ai lati.
E io oggi mi chiedo cosa sappia lì ora la gente della guerra che gli è piovuta dal cielo, come ogni
cosa, da sempre. Destinati a subire, senza via di uscita alcuna, senza poter cambiare, nemmeno nelle
piccolissime cose di ogni giorno, la loro condizione di vita. Senza energia elettrica e senza
collegamenti telefonici, in mezzo e in aggiunta alla miseria, vengono travolti da un altro torrente in
piena, un altro flagello, che arriva per sconvolgere e devastare, oltre alla loro vita materiale anche le
loro fragili coscienze.
Quando fui contattato dalla Scuola Centrale di Alpinismo della Sede Centrale e dal Coordinatore
Generale di Mountain Wilderness International, Carlo Alberto Pinelli (Betto per gli amici) anima
dell’iniziativa, e motore propulsore durante il mese di svolgimento del corso, lessi con meraviglia la
sua descrizione di quei luoghi. Ve la propongo, così come lui l’ha scritta un anno fa, assieme alla
sua descrizione del progetto. Perché ritengo che l'idea di costituite una Scuola di formazione per
Guide Alpine e Portatori d'alta quota nell'Hindu-Kush rappresenti, oggi forse ancor più di quando è
nata, un'esigenza diretta non solo a quelle lontane popolazioni, ma anche a noi "alpinisti
occidentali" che crediamo nei valori della convivenza e dell'amicizia. La Scuola di Chitral può
costituire infatti un saldo punto di dialogo e scambio culturale tra noi e una parte della popolazione
di fede islamica; potrebbe essere un mattone del ponte che oggi qualcuno sta tentando di
distruggere.
Diario del 1° Corso per Guide alpine e Portatori d'alta quota nell'Hindu-Kush
Preliminari :
La ricerca dei materiali
Buttrio Maggio 2001
Al momento di aderire al progetto ideato e propostoci da Carlo Alberto Pinelli sicuramente molti
dubbi ci hanno subito raggiunto: uno sguardo introspettivo verso la nostra forma fisica e qualche
dubbio a doversi confrontare con allievi che vivono in montagna gran parte del loro tempo è subito
apparso , anche perché i tempi erano alquanto ristretti.
Nel giro di pochi giorni ci siamo invece resi conto che il nostro problema sarebbe stato ben diverso.
L’ambizioso obiettivo che ci eravamo posti, si scontrava con due ineluttabili realtà del Hindu- Kush
e del Pakistan più in generale : la grande miseria economica, misurata da un punto di vista
occidentale, e l’isolamento storico di queste regioni che ha portato uno scarsissimo aflusso di turisti
e quindi una conoscenza della lingua inglese limitata ad alcune classe sociali.
Cosa significa tutto ciò, vi chiederete. Ebbene, per prima cosa abbiamo passato le nostre serate a
studiare la lingua di Albione, cercando i vocaboli dei materiali alpinistici e tentando di costruire
degli abbozzi di lezione almeno comprensibili; ma soprattutto, abbiamo dato inizio alla “caccia al
materiale”.
Come già accennato la situazione economica in Pakistan è tale che risultava impensabile caricare
l’onere dei materiali tecnici sulle spalle degli allievi, basti pensare che lo stipendio medio in
Pakistan varia dalle 70.000 alle 200.000 lire mensili.
Credo che tutti voi abbiate in casa un po’ di materiale alpinistico recuperato nei vari anni di attività,
bene, pensate al materiale per arrampicare su roccia e ghiaccio e di moltiplicare tutto per
venticinque, il numero massimo di allievi che il corso si imponeva di prendere. Immaginate poi che
gli allievi abbiano taglie e numero di scarpe ovviamente diversi tra loro e che questi, vivendo in
Pakistan, non possano certo venire in negozio con noi a provare il tutto, ma che, se sbagliamo il
numero degli scarponi ad esempio, ben difficilmente il nostro allievo sopravviverà a tre settimane
sulle sue morene…
Proprio gli scarponi sono stati il nostro principale problema. Curioso è stato l’espediente trovato da
Pinelli per risolvere il problema :
entro una data prestabilita tutti gli allievi hanno dovuto recapitare un foglio di carta con l’impronta
disegnata del proprio piede, questa ci è stata poi fatta pervenire per posta e da questa abbiamo
ricavato i numeri degli scarponi: semplice ed efficace.
Inizia la “caccia” : per prima cosa abbiamo dovuto preparare un bel libretto che riassumesse le
finalità del corso ed i suoi obiettivi, con un “ delicato lavoro d’intelligence ” abbiamo ricercato il
nome della persona fisica che si occupava delle sponsorizzazioni ed abbiamo inviato il tutto alle
varie aziende produttrici. Quindi è iniziato il pedinamento telefonico dei vari soggetti, i quali ben
attaccati da varie parti tentavano con ogni mezzo di sfuggire all’assedio che noi gli ponevamo.
Scherzi a parte, la mole di materiale necessario era evidentemente tale che un singolo fornitore non
era sicuramente in grado di soddisfarla gratuitamente. Le nostre sponsorizzazioni, d’altro canto, non
ci permettevano di comprare alcun che in quanto coprivano a malapena i costi logistici. Abbiamo
quindi dovuto fare i salti mortali per avere un equipaggiamento appena sufficiente ed alla fine, per
raggiungere il numero prefissato, siamo ricorsi persino agli amici che ci hanno fornito, ed esempio,
imbracature usate, scarponi ormai declassati etc.
Un ringraziamento è qui doveroso a tutti i soggetti che hanno generosamente contribuito:
KONG in particolare ci ha fornito una notevole quantità di materiale costoso, senza aver in cambio
alcuna contropartita. Il gruppo SCARPA che, grazie all’interessamento risultato poi decisivo del
team VIDUSSI di Cividale ha fornito tutte le scarpette d’arrampicata, gli scarponi da ghiaccio ed
altro materiale vario. La GRIVEL che ha fornito i ramponi ed alcune piccozze. Il negozio TONI
GOBBI di Courmayeur per ancora piccozze e ramponi. La catena Euro Spin che ha fornito tutto il
cibo che c’è servito ai campi base.
Ultimi ma non meno importanti gli istruttori della scuola che, in varia misura, hanno fornito
materiali di loro proprietà.
Chitral, 20 giugno 2001
Bene o male siamo arrivati all’hotel “Mountain Inn” di Chitral. Questa sarà la sede per la parte
teorica del corso e per gli esami finali. Ci siamo arrivati dopo un lungo viaggio: la sveglia alle 3.00
del mattino a casa; un’ora di automobile sino a casa di Claudio, a Buttrio; altre sei ore di autostrada
per arrivare a Roma; dieci lunghe ore di volo, con scalo a Parigi e arrivo a Lahore; altro volo di solo
un’ora – ma cinque in totale considerando le pratiche per il ritiro dei bagagli – per giungere allo
scalo finale in Pakistan, a Islamabad. Qui troviamo ad attenderci molti volti nuovi: tutti i
collaboratori pakistani del corso, con Betto. Tra loro c’è anche Ashraf Aman, il primo pakistano ad
essere arrivato in vetta al K2 negli anni ’70, che terrà una delle prime lezioni agli allievi. Partenza
immediata, senza neanche il tempo di bere qualcosa. Un altro interminabile percorso stradale di
oltre dieci ore in pulmino sino a Dir. L’alberghetto non era male, forse il suo pregio è stato
unicamente quello di averci concesso una doccia e il primo pasto decente dopo due giorni, assieme
alle prime poche ore di riposo distesi in un letto. Infine l’ultimo, interminabile giorno, per
percorrere gli ultimi 93 chilometri di orrendo sterrato che ci separavano ancora da Chitral, con il
superamento del Lowari pass (3140 mt.). Tutto ciò non è oramai che un vago ricordo. Immagini
nella memoria che avrebbero potuto venire fissate anche sulla pellicola delle nostre macchine
fotografiche, ma che resteranno in gran parte solo immagini nella mente, a causa delle pochissime
soste e delle troppe buche, che hanno limitato la nostra sindrome da scatto fotografico e reso
inutilizzabili tantissime diapositive.
Finora pochissimo tempo anche per guardare e gustare lo spettacolo del paesaggio naturale e umano
attorno a noi. Tutto ci è scivolato attorno in una nuvola di polvere, oltre le tendine in velluto del
pulmino. Per il momento non ricordo uno solo dei nomi degli aiuto-istruttori pakistani che sono con
noi. Per ora, di tutto questo viaggio, l’unica sensazione piacevole che mi ha colpito all’improvviso,
e che mi ha convinto di vivere la realtà e non un sogno, è stato quell’odore caldo e prorompente
che, alzandosi con prepotenza dal terreno assieme ad una vampata di aria calda, ha raggiunto i miei
sensi appena sono uscito dalla sala d’aspetto dell’aeroporto di Lahore. Un odore che mi ha pervaso
e si è insinuato ovunque. Un odore dolce e nauseante, intenso e pungente: un misto di terra, polvere,
spezie, sudore, alimenti cotti in mezzo a fogne a cielo aperto e lavati in acque putride, in mezzo ad
animali, bambini, uomini e donne. Qualcosa di sospeso tra sopravvivenza e misticismo. L’odore
dell’India! Un odore che chi ha respirato una volta non può più dimenticare.
Subito al lavoro! I tempi sono strettissimi. Bisogna rispolverare l’inglese arrugginito, aprire i bidoni
arrivati con il cargo, pieni di attrezzature alpinistiche e di viveri, preparare i libretti degli allievi.
Non ci resta che la sera tardi per scriverli, oggi faremo le foto a tutti, altrimenti con quei nomi in
Urdu chi di noi può sperare di ricordarsi qualcosa?
La mattina si inizia. Lezioni teoriche per gli allievi pakistani. Per noi, invece, tutto fuori dai bidoni
nel sotto portico. È un vero bazar; senza alcun dubbio il più ben fornito di Chitral. Inizia Betto, con
la sua lezione introduttiva, ma, nel frattempo, bisogna anche preparare tutti i carichi e organizzare il
viaggio con Babu, direttore e tuttofare dell’albergo, grande amico di Betto, e ricevere i
rappresentanti delle varie associazioni sponsor dell’iniziativa, e… quante altre cose daffare ancora.
Di Chitral non abbiamo visto per ora assolutamente nulla!
Al pomeriggio la notizia arriva come un fulmine a ciel sereno. Sembrerebbe che gli abitanti di
Shabronz, nella valle di Barum, non ci vogliano. O meglio, non vogliono gli allievi del corso,
provenienti dalle altre valli. Ora i responsabili del IUCN (Unione Internazionale per la
Conservazione della Natura) stanno tentando di risolvere la situazione in un incontro con le autorità
religiose che sobillano i valligiani. Intanto la polizia è andata a ritirare tutte le armi dal villaggio. La
legge che ne vieta la detenzione è appena stata varata dal governo e la polizia locale ha deciso di
iniziarne l’applicazione da un villaggio a caso: quello di Shabronz.
Noi non abbiamo nessuna voglia di salire alla valle contro il volere degli abitanti. Siamo qui per una
collaborazione internazionale e l’idea di essere scortati dai militari ci fa star male. In poche ore è
cambiato tutto il programma. Intanto si parla di rientrare in Italia addirittura il 22 luglio, e questo
per me sarebbe un bel problema. Poi si parla di spostare il corso in un’altra zona. Nella valle di
Shagroom, parallela dell’altra verso nord; lì ci accoglierebbero a braccia aperte. L’estate scorsa,
saputo del corso, hanno addirittura indirizzato una lettera all’associazione IUCN, per chiedere di
tenere il corso nella loro valle. Betto però è di idea contraria. Secondo lui sul lato della valle dov'è
possibile arrampicare su roccia non si accede al ghiacciaio, e viceversa, dove si trova un buon posto
per il ghiaccio non è possibile arrampicare su roccia. Servirebbe un ponte, che invece non c’è, per
poter attraversare l’impetuoso torrente che esce dalla bocca del ghiacciaio dividendo i due versanti
della valle.
Altra possibilità sarebbe quella di tenere tutto il corso al Baba Tangi, nell’alta valle di Mastuj.
Servono due volontari per un’esplorazione. Domani mattina alle 4.00 io e Carlo partiamo, per
raggiungere il villaggio di Lasht, accompagnati da Mahmood, uno degli aiuto-istruttori pakistani.
Saremo ospiti del padre di un nostro allievo e di lì risaliremo la valle del Baba Tangi, per valutare la
possibilità di piantare là il campo scuola. Siamo ancora ignari di quello che ci attende!
Intanto, tra un impegno e l’altro riesco a fare una capatina di mezz’ora in paese. L’ufficio della PIA
è chiuso al pomeriggio. Chissà quando riusciremo a prenotare il nostro volo di rientro in Italia. Ci
penseranno domani Claudio e Francesco. A loro toccheranno anche due lezioni teoriche, quella sui
materiali e topografia e orientamento. Noi in cambio ci beccheremo dodici ore di jeep su sterrato e
altre due levatacce consecutive. Credo proprio che il nostro viaggio in Pakistan non sarà per niente
rilassante.
Chitral, 23 giugno 2001
Due giorni intensi, ma indimenticabili. È il minimo che si possa dire delle due giornate appena
trascorse. Il tratto da Chitral a Buni è stato la parte più tranquilla del viaggio. Giunti a Buni
scopriamo che la strada nuova per Mastuj è interrotta da una frana e siamo costretti ad una
lunghissima e avventurosa deviazione lungo la strada vecchia, che corre sul lato opposto della valle.
Bisogna considerare che i termini “nuova” e “vecchia” in questa regione della Terra hanno subito
un deciso slittamento semantico. Non mi sembra infatti che si possa definire una strada il percorso
dell'alta valle di Mastuj! Passiamo in mezzo a villaggi disseminati lungo le morene e in ogni altro
possibile angolo verde della valle, rubato alle montagne.
Il problema, se così si può dire, per quanto riguarda la viabilità, inizia da qui. Giunti a Buni la strada
asfaltata finisce e inizia una specie di mulattiera - ma anche questa è una definizione
eccessivamente benevola - intagliate a mano su rocce franose. A momenti sembra quasi più una
linea immaginaria che attraversa morene di massi instabili, che scavalca canaloni lungo i quali la
furia di torrenti stagionali ha lascia una traccia più che evidente del proprio passaggio, che non un
percorso stradale. E quando va bene, questa “pista” – ecco forse l’unico termine che le si addice –
attraversa altopiani coperti di campi di grano dorato e d’orzo verde ancora da maturare. Attraversa
villaggi costituiti in gran parte da case di fango e sassi con il tetto di paglia. La larghezza massima
della carreggiata non supera mai di molto i due metri e gli incontri con le altre jeep, seppure
fortunatamente molto rari, riservano sempre momenti di panico. Le ruote di uno dei due mezzi
passano necessariamente vicinissime al baratro che si apre sull’orlo della pista. I mezzi si inclinano,
si sfiorano e, non si riesce a capire come, riescono a passare l’uno a fianco all’altro senza
precipitare, continuando la loro marcia a passo d’uomo, ognuno verso la rispettiva destinazione,
dopo un cordiale gesto di saluto scambiato tra i rispettivi drivers ed equipaggi.
Fino a Mastuj il viaggio procede abbastanza veloce: 4h e 30 minuti per percorrere circa 60
chilometri. Il paesaggio è mozzafiato. Per raggiungere l’abitato siamo costretti ad un lungo giro. Il
paese è sull’altro lato del torrente e bisogna superarlo nel punto più stretto della gola, dove un ponte
a campata unica - opera costruita in legno e cavi d’acciaio, sorretta da mastodontici plinti in
cemento armato - ci consente di entrare nell’ultimo centro abitato in contatto con il mondo
civilizzato. Dopo Mastuj, infatti, non ci sono telefoni e l’energia elettrica, dove c’è, viene ottenuta
con piccole turbine, ciascuna appena sufficiente ad un singolo villaggio.
Sul fondo della valle il torrente Laspur corre precipitosamente verso sud, per raggiungere il fiume
Chitral. Nella sua corsa ha scavato un canyon con pareti verticali di terra e ciottoli che delimitano
piccoli tratti di terreno coltivabile. Li sovrastano le pendici di montagne millenarie, con rocce di
colori bizzarri che passano dalle tonalità del marrone scuro, ai rossi, alle scale dei grigi, sino al
bianco, colore che domina sui ghiaioni che precipitano ripidissimi a valle per migliaia di metri,
tuffandosi tra i campi coltivati.
Da Mastuj ci vogliono altre otto ore per arrivare a Lasht. Siamo esausti e combattuti tra il guardarci
attorno e l’assecondare le palpebre che, stimolate dall’ondeggiare del mezzo di trasporto, tendono a
chiudersi. Costretti a muovere il sedere, per cambiare posizione e tentare di limitare così i dolori
intensi alla muscolatura dei glutei, che si propagano anche alla schiena e al collo. La strada diventa
sempre più incredibile e molte volte anche la nostra grande fiducia nell’autista, conquistata sul
campo nel corso di questo interminabile viaggio, ha dei momenti di cedimento. Non ci scoraggiamo
del tutto e documentiamo scrupolosamente i passaggi più arditi. Iniziamo a persuaderci pure del
fatto che, quasi sicuramente, le nostre ascensioni sulle montagne del Pakistan, saranno ridicole e
molto meno pericolose, se messe a confronto con i viaggi in jeep lungo questi itinerari.
Nell’alta valle di Mastuj, in fondo alle valli laterali, iniziano ad apparire sempre più spesso, fugaci
come dei flash, cime himalayane coperte di neve e ghiaccio, che sovrastano imponenti seracchi e
complessi ghiacciai pensili. Ad ogni attraversamento di villaggio la stessa scena: donne che dai
campi scappano in casa o si coprono il volto, anche se si trovano a centinaia di metri di distanza;
bambini che corrono a vedere, bambine indecise e combattute tra lo stimolo, dettato dalla curiosità,
di vedere gli occidentali – qui se ne vedono veramente pochi - e il timore e la diffidenza, insegnati
loro dagli adulti molto probabilmente fin da piccole. Un giorno, non molto lontano, dovranno quasi
certamente coprirsi il volto e nascondersi anche loro dallo sguardo degli estranei. Gli uomini, molto
cordiali, ci salutano tutti.
Nelle poche soste che l’autista ci impone, per bere il te o per fare rifornimento di carburante,
scattiamo altre foto. Solo oltrepassato il villaggio di Darband ci fermiamo per una sosta a
contemplare il paesaggio della valle verso sud. Anche lui è stanco. Ci racconta che qui si è svolta
una famosa battaglia tra le popolazioni del vicinissimo Afghanistan e quelle della regione di Chitral.
Tra le pareti altissime individuiamo due postazioni, scavate nella roccia, per controllare la valle dai
due lati. Sopra di noi s’innalzano montagne che sembrano dire con il loro aspetto selvaggio: qui
sopra nessuno ci ha mai messo piede! Più in basso, verso sud, i villaggi non si distinguono
nemmeno dal resto del paesaggio, quasi non fossero opera dell’uomo, ma piuttosto una parte
indistinta ed armonica dell’ambiente naturale originario. Con le loro abitazioni in fango si
confondono tra i boschetti di pioppi e betulle, sparsi a macchie nelle poche spianate verdi. Oramai
dovremmo essere vicini alla nostra meta – scopriremo ben presto che in realtà mancano ancora due
ore – ma in questa valle, che sembra insinuarsi tra le montagne all’infinito, strette gole, con
precipizi sospesi sul fiume, e slarghi più ampi, con campi coltivati, che la luce radente del tardo
pomeriggio illumina rendendo di un verde ancora più intenso, continuano ad alternarsi senza fine.
Giunti a Lasht ci fermiamo. È quasi sera. Troviamo subito la casa del nostro allievo. Il padre è
molto ospitale, ma è ammalato e ha la febbre. Domani con noi verrà un’altra guida ad
accompagnarci. Vanno a chiamarlo, si chiama Ibraim. Intanto noi diamo all’ammalato qualcosa per
calmare la febbre. Chissà se è solo un infreddatura o qualcosa di più grave. Da queste parti morire
giovani non è cosa affatto difficile. Non ci sono ospedali nel raggio di oltre cento chilometri e il
dottore qui passa di rado. Nessun tipo di medicinale disponibile, nemmeno il più banale. È molto
probabile che siamo più forniti noi dell’ambulatorio di Mastuj, quello che risulta essere il più
vicino. Piantiamo la tenda in giardino, sotto una pioggerellina, che scopriremo sarà l’unica di tutta
la nostra permanenza in Pakistan. Consumiamo una cena frugale, a base di minestra liofilizzata e
carne in scatola. Poi tutti a nanna.
Ci alziamo all'alba. La salita di esplorazione al Baba Tangi ci impegnerà per oltre cinque ore.
Dislivello complessivo 1000 metri, dalla quota di 3300 metri del villaggio di Chitisar, ai 4300 metri
della morena sotto il ghiacciaio. In realtà la nostra guida ci ha fatto entrare in una valle parallela a
quella che avremmo dovuto percorrere per giungere sotto il Baba Tangi, ma questo lo scopriremo la
sera dopo, consultando con più attenzione la cartina topografica della zona. La prima parte della
valle è unica ed entrarci all’alba è un’esperienza che può essere paragonata ad un viaggio onirico.
Dopo essere scesi all’interno della gola dall’altopiano che sovrasta il villaggio, percorrendo uno
strettissimo e ripido canale scavato in mezzo ad una serie di calanchi dalle forme incredibili,
continuiamo la marcia sull’inclinato versante destro – l'unico percorribile – camminando su una
traccia di sentiero di forse dieci centimetri, scavata abilmente da qualcuno, non si capisce a quale
scopo, su pendii di sabbia nera e ghiaie instabili. Duecento metri più in basso l’impetuoso torrente
che scende dai ghiacciai a monte ci fa intuire immediatamente come qui non siano permesse
distrazioni. Alla fine del pendio, una parete a strapiombo non lascia alcun dubbio sull’esito di uno
“scivolone”; se non muori di paura prima, probabilmente non fai nemmeno in tempo a sentire
l’acqua gelida bagnare la tua pelle. Ibraim ci precede abilissimo con le sue scarpe da ginnastica
“stile Superga” in plastica. Con il suo lungo zappino, usato con maestria in appoggio laterale, ci
rende evidente come nella scala evolutiva delle tecniche e dei materiali di alpinismo, lui rappresenti
una sorta di isola preistorica: il primo stadio di un progresso che forse qui non arriverà ancora per
molto tempo. Indietro, invece, il nostro aiuto-istruttore pakistano Mahmood ci preoccupa. Sin
dall’inizio lo si è visto pericolosamente insicuro e la distanza tra noi e lui ci costringe a continue
soste. Alla fine del primo tratto di gola, un ponte di ghiaccio perenne ci permette di superare il
torrente e passare sull’altro lato del canyon. Saliamo sotto pareti verticali immense, formate da
rocce instabili e giungiamo ad un pianoro, dove la valle si divide in due, coperto da alberi di betulla
e da una vegetazione che, a 3500 metri di quota, sembrerebbe impossibile che possa esistere.
Solamente ora capiamo il senso dell’incredibile sentiero. Anche se a noi sembra assurdo, quassù ci
portano a pascolare gli animali! Ogni metro fertile del terreno vicino al villaggio è riservato agli
umani e questi sono i pascoli alti per mucche, pecore e capre. Finalmente possiamo riempire le
borracce. Ci voleva proprio, perché iniziavo a sentire il bisogno di un po’ di liquidi. Mi sono
svegliato con un leggero cerchio alla testa, come del resto anche Carlo. Non credo sia dovuto alla
quota. Molto più probabilmente la causa è dovuta alle troppe sveglie all’alba e alla stanchezza
accumulata nei viaggi di trasferimento degli ultimi quattro giorni, o più semplicemente alle
allucinanti strade pakistane. Superata l’oasi, seguiamo il ramo sinistro della valle. Il Baba Tangi è
molto più avanti e iniziamo a risalire un’immensa morena instabile. Scattiamo le prime foto e
guardiamo dove sarebbe possibile piantare il campo scuola. Siamo oramai a 4000 metri di quota. Il
posto non è un gran che per il corso. Un ultimo sforzo per rimontare ancora un risalto della morena
e vedere cosa c’è sopra. Arriviamo a 4300 metri. Dopo aver superato un ultimo ripidissimo canalino
di fango, sassi e ghiaccio, giungiamo ad un altro pianoro da cui la guida ci indica una cima che
secondo lui è il Baba Tangi. Mi sembra molto strano. La montagna sembra troppo facile. La parete
nord presenta uno scivolo di neve, alto non più di 800 metri, con una pendenza di cinquanta,
sessanta gradi al massimo. Da dove siamo noi alla cima dovrebbero mancare ancora circa 2200
metri di dislivello e questo è possibile, ma per una montagna di 6500 metri l’aspetto non è dei più
maestosi. Scattiamo le ultime foto e iniziamo la discesa. Sarà l’ultima volta che vedremo quella
montagna. Quando raggiungeremo la cima del Barum Zom, due settimane più tardi, vedendo in
lontananza la piramide maestosa del Babatangi e ci convinceremo di non averla mai vista prima. La
discesa sembra più lunga della salita. Gran finale con la risalita del canalino tra i baranci e, dopo
una pausa di pochi minuti su un delizioso prato verde dietro al villaggio di Chitisar, ripartiamo in
direzione di Mastuj per telefonare e comunicare a Betto, quanto prima, l’esito dell’esplorazione.
Non oggi comunque. La strada è lunga e per il momento ci limitiamo ad avvicinarci quanto più
possibile a Chitral.
Facciamo tappa al villaggio di Wasam, dove veniamo ospitati in un giardino per piantare la nostra
tenda. Come al solito veniamo subito circondati da un sacco di bambini curiosi. Visto che siamo
all’interno del giardino di una casa, è probabile che siano tutti figli del proprietario. Prepariamo la
minestra e la consumiamo quasi al buio, tra ombre fugaci che ci osservano da dietro il muro della
casa, poi andiamo a dormire. La giornata è stata intensa. L’indomani, dopo essere discesi a Mastuj
telefoniamo e riferiamo quanto visto. Poi, subito in marcia. Rientriamo a Chitral giusto in tempo per
il pranzo. Oramai la decisione è presa: si va a Barum. La salita finale dovremo farla là e potrebbe
essere il piccolo Tirich. Partiamo domani mattina. Bisogna rifare tutti i bagagli e i bidoni!
Shagrom, 26 giugno 2001
Sembra proprio che questa Scuola non riesca a decollare. Non riusciamo a trovare una valle che ci
permetta di iniziare il corso. Arrivati a Owir, il villaggio subito sotto Shabronz, dopo un viaggio di
4 ore, scopriamo che a nulla sono servite le riunioni e l’opera della polizia. I problemi non sono
ancora finiti. Alcuni militari ci hanno accompagnato, ma la loro presenza è puramente di facciata. Si
perde ancora un giorno in inutili riunioni con il prefetto, missioni al villaggio, dove incontrano i
capi. Niente da fare. Tutto il villaggio è sulla strada e non ci lasceranno passare. O meglio: noi
siamo ben accetti, ma gli allievi provenienti dalle altre valli della regione di Chitral assolutamente
no. L’opinione di Betto è che i signorotti della zona intendano tenere la popolazione isolata dalla
realtà esterna il più a lungo possibile e non vedano di buon occhio l’iniziativa. Probabilmente per
sfruttarli meglio e per il timore che questo tipo di attività possa cambiare, in qualche modo, gli
equilibri secolari del luogo. Il potere religioso non è estraneo alla vicenda: per loro noi
rappresentiamo il “progresso”. Altro problema: l’organizzazione che ci finanzia, l’Unione
Internazionale per la Conservazione della natura, ha un conflitto aperto con la gente della valle, e
questa è una forma di vendetta, nella quale noi veniamo involontariamente coinvolti.
Rimane un’altra possibilità: salire nella valle parallela, ovvero quella di Owir, a cercare un posto
adatto al Corso. Claudio e Francesco vanno a vedere e ci riferiscono che secondo loro è fattibile.
Anche i due trekker di Mountain Wilderness, Vincenzo ed Edoardo, venuti con noi dall’Italia ed
arrivati da Chitral dopo un giro di cinque giorni, sono convinti che il posto vada bene. Partiamo
immediatamente, interrompendo una lezione pomeridiana sui nodi e le corde doppie, avviata su un
mastodontico albero per cercare di non perdere tempo prezioso inutilmente. Due Jeep sono pronte
per noi quattro istruttori; gli altri ci raggiungeranno domani mattina con i portatori, mentre noi,
precedendo il gruppo a piedi, cercheremo un posto adatto per lo svolgimento del Corso. È il
tramonto. Il paesaggio è stupendo e per un momento mi estraneo dai problemi in cui mi trovo
coinvolto. Gusto in solitudine lo spettacolo, mentre saliamo con i mezzi lungo la strada sterrata.
L’incanto purtroppo dura poco. All’altezza del tornante dove si entra nel villaggio di Shabronz, una
folla inferocita ci attende e ci minaccia, urlando con dei bastoni in mano e intimandoci di tornare
indietro. Veniamo colti da alcuni attimi d’indecisione. Sembra che l’autista voglia girare la
macchina e tornare indietro davvero per assecondarli. Scendiamo e andiamo a piedi verso la curva.
Superiamo la gente che ci viene incontro minacciosa. L’allievo che ci accompagna è del villaggio.
È molto scosso e va a parlare con qualcuno. L’autista fa retromarcia e supera il tornante. Risaliamo
e proseguiamo, ma le sorprese non sono ancora finite. Giunti al villaggio successivo, sotto il
ghiacciaio di Owir, troviamo anche lì alcuni anziani contrari al fatto che il Corso venga svolto lassù.
Il loro comportamento mi sembra logico; non vogliono grane con i vicini. Poche discussioni;
ricarichiamo tutto e ripartiamo verso il basso.
Dopo un’ora siamo di nuovo al campo a ripiantare la tenda al buio, mentre raccontiamo della veloce
avventura agli altri. L’allievo di Shabronz con il figlio abbandona il Corso e rientra al villaggio. Ci
hanno detto che piangeva. L’indomani mattina le sue attrezzature, ricevute a prestito per la durata
del corso, ci vengono recapitate al campo. Siamo demoralizzati e demotivati dal rifiuto di chi, in
teoria, dovrebbe essere contento di riceverci. Ma si deve tentare ancora.
Il mattino seguente arrivano nove Jeep da Chitral e si riparte nuovamente. Obiettivo la valle di
Shagrom, dove non ci dovrebbero essere problemi. Sette lunghe ore di viaggio, su strade molto
simili a quelle viste nell’alto Mastuj e siamo finalmente tra gente che ci accoglie come amici. Un
attimo di commozione: l’incontro tra Pinelli e la sua guida di gioventù, Sher Khan. Il suo nome, lo
sguardo intenso e gli occhi azzurri non sono gli unici elementi che proferiscono autorità alla sua
figura. Tutto in lui è austero e incute soggezione. Lui è il guardiano della valle del Tirich Mir.
Nessuno è salito di qua o ha esplorato una qualsiasi delle valli laterali a sua insaputa. Domani ci
farà da guida. Gli allievi piantano il campo, mentre noi istruttori veniamo ospitati a casa di
Abdullah, un nostro allievo, figlio dell'Imam del villaggio. Conosciamo il maestro del paese. Qui
Betto è di casa e tutti vengono a salutarlo. La cena e l’ospitalità sono splendide. Dormiamo in casa
su bellissimi tappeti afgani. Al mattino si parte verso il campo Scuola. Ci aspettano due giorni di
marcia. Il nostro gruppo non passa inosservato, anche se saliamo in ordine sparso lungo la valle.
Oltre a noi cinque e ai diciotto allievi, abbiamo al seguito 52 partatori, due cuochi, oltre a Babu, che
organizza ogni cosa a perfezione e a Sher Khan come guida.
Campo Scuola Atak Gol (4040 mt.), 28 giugno 2001
Dopo aver sostato una notte nel campo intermedio, a 3500 metri, alla base del Atak Gol,
l’imponente ghiacciaio che scende dai massicci del Tirich, con un percorso di oltre venti chilometri,
questa mattina siamo partiti all’alba per cercare un luogo dove allestire il campo per il corso. La
morena che sale sul fondo della valle è infinita. Si sale di quota molto lentamente. Dopo circa
un’ora rimontiamo sul ghiacciaio; le discussioni con la guida sono continue e il rapporto molto
difficile. Non capisce una sola parola di inglese e crede che la nostra sia scarsa fiducia nelle sue
capacità. Estrae dalla borsa che porta a tracolla un vecchio quaderno, sgualcito e ingiallito dal
tempo, ci mostra le sue referenze. Scritti su pagine semi distrutte ci sono giudizi dalla firma
autorevole: Kurt Diemberger, Gianni Comino, Guido Machetto. Non capisce che noi non vogliamo
mettere in dubbio la sua capacità di guida, ma stiamo solamente ispezionando le varie parti del
ghiacciaio, per individuare le varie possibilità di effettuare le esercitazioni su ghiaccio con gli
allievi: esploriamo crepacci; ne osserviamo le pareti laterali. Dopo quattro ore di marcia Sher Khan
ci dice di continuare ancora per circa 15 minuti, o almeno così a noi sembra di capire, mentre lui
torna indietro a vedere se arrivano i portatori. Salendo sulla destra, superato il campo detto dei
polacchi, vediamo, tra le rocce laterali e il ghiacciaio, una spianata di sabbia e ci dirigiamo lì. Il
torrente che esce da sotto il ghiaccio e la divide da noi è insuperabile e siamo costretti a rinunciare.
Torniamo indietro, convinti che l’unica possibilità sia quella di fermarsi al campo visto prima, ma
arrivati là troviamo tutti che discutono con la nostra guida e capiamo che la strada fatta da noi
cinque non era quella giusta. All’altezza del campo dei polacchi avremmo dovuto traversare il
ghiacciaio in diagonale verso l'altro versante e non proseguire diritti.
Seguiamo i portatori e dopo circa un’ora di marcia su una costellazione di sfasciumi di rocce
granitiche, con massi instabili di dimensioni enormi, arriviamo in una spianata incredibile di sabbia
nero-bruna finissima. La sua ampiezza ci costringe ad altri dieci minuti di marcia, per raggiungere
l’ombra, sotto le pareti di granito che la sovrastano. Il luogo è stupendo. Posto all’incrocio tra il
ramo principale del ghiacciaio inferiore del Tirich e un suo ramo laterale, che scende da una delle
creste del Tirich est. È circondato su due lati da un argine, formato da massi di morena che dovremo
risalire ogni volta per rimontare il ghiacciaio secondario che useremo come terreno per le
esercitazioni, e costeggiato sul quarto lato, a nord verso in ghiacciaio principale, da un impetuoso
torrente color rosso-marrone. È qui che piazzeremo il Campo Scuola. Unico problema: la mancanza
di un torrente d’acqua pulita che ci costringerà ad un quotidiano lavoro di prelievo d'acqua dal
nevaio dietro il campo. Con tutta l’acqua che corre su questo ghiacciaio è una vera beffa! Subito
sotto al campo, invece, gradito miraggio apparso durante l’ultimo tratto di salita, c’è un bellissimo
lago glaciale, raggiungibile in dieci minuti, dove, dopo aver piazzato la tenda e aperto i bidoni e gli
zaini, corro per un bagno da sogno: il primo soddisfacente dopo cinque giorni.
Campo base Shuguri Chikar (mt. 4045), 8 luglio 2001
Finalmente un momento di relax. Il corso è finito e possiamo prender fiato. È stata un’esperienza
unica e intensa, sia dal punto di vista tecnico-alpinistico, sia dal punto di vista umano; l’insieme si è
rivelato, però, anche molto impegnativo. L’arrivo in vetta al Barum Zom (5500 mt.), ieri, con gli
abbracci dei 18 allievi e l’acclamazione “to the italian friends”, fatta dall’intero gruppo a noi quattro
istruttori, si è rivelato senza dubbio il momento più emozionante di tutto il periodo passato assieme
in questa valle. Più o meno nello stesso momento I due nostri aiuto-istruttori pakistani, Afzel,
Javeed e Raza, assieme al Direttore, hanno raggiunto la vetta di un’altra cima vergine di 5300 metri,
nominata Shogurili Zom. Si sono così degnamente conclusi dieci giorni che hanno rappresentato
senza dubbio per tutti noi, allievi e istruttori, un momento di crescita individuale e che rimarranno
un ricordo gradevole e duraturo.
I sette giorni di lezioni su roccia e ghiaccio, tenute sul ghiacciaio “Lower Tirich Glacier” a 4200
metri di quota hanno provato il fisico di tutti e alcuni di noi hanno avuto anche qualche problema
con la salute. Fortunatamente il gruppo si è ricomposto e tutti hanno partecipato agli ultimi due
giorni di lezioni e all’esame finale. Le montagne attorno ci hanno trasmesso allo stesso tempo gioia
– ci sentivamo fortunati di trovarci in un posto simile – ma hanno costituito anche una tortura, visto
che non potevamo salirne nessuna, costretti a tenere le esercitazioni pratiche sul ghiacciaio.
Così, dopo essere scesi al Campo Scuola al termine della giornata di esami, preparate le nostre cose
e smontate le tende, alle 11 di sera siamo partiti per tentare la salita di un canalone di ghiaccio alto
circa 500 metri che ammiravamo da giorni. Una volta raggiunta una forcella e salita la cresta di
roccia soprastante, di cui era difficile valutare le difficoltà, saremmo dovuti giungere in cima ad una
montagna di oltre 5000 metri di quota e, una volta ridiscesi alla base della parete, avremmo dovuto
poi raggiungere gli altri al campo Atak, costeggiando le pareti del lato destro del ghiacciaio, senza
attraversarlo, come invece avevamo fatto in salita per raggiungere il campo scuola. Questo era il
nostro piano.
Purtroppo le cose non sono andate così. Una volta risalita la morena per la quinta volta, e aver
traversato il ghiacciaio al buio per giungere all’attacco, una fragorosa scarica di sassi ha rotto il
silenzio della notte stellata, facendo crollare il nostro sogno e demolendo le nostre certezze di salita.
Dietro front, si torna indietro. Siamo tutti convinti che sia meglio rinunciare e desistere
dall’impresa. Il caldo dei giorni scorsi che ci ha consentito di lavorare sul ghiacciaio in maniche
corte a oltre 4000 metri di quota e grazie al quale abbiamo fatto i nostri tuffi al lago, ha trasformato
quello che era un invitante scivolo ghiacciato in un pericoloso percorso per i sassi e, come
scopriremo alle prime luci dell’alba, quel nastro bianco ha assunto un colore grigio-nero alquanto
repulsivo. Tre ore di sonno nel sacco a pelo all’aperto e poi via verso valle.
Altre cinque ore di marcia ci attendono, per raggiungere il prossimo campo e poi da lì, salita la
Valle laterale nota con il nome di Andren Atak Gol, l'ultimo campo dove trascorrere questi ultimi
giorni tra le montagne del Pakistan. Dopo i saluti di questa mattina, gli allievi sono scesi portando
via buona parte del campo e il nostro direttore “Betto”. Siamo rimasti solo noi quattro e il cuoco.
Rivedremo qualcuno di loro tra qualche giorno a Chitral, dove riceveranno i diplomi e gli verrà reso
noto l’esito dell’esame. Domani ci attende una giornata di riposo: per scattare ancora qualche foto;
immergerci in qualche lettura; iniziare la sistemazione dei bagagli. Poi, se tutto andrà bene,
dopodomani raggiungeremo una cima mai scalata, nota localmente con il nome di Bindugul Zom
(5300 mt.), percorrendo la parete Nord. Una complessa ascensione su ghiaccio, costellata di
seracchi e crepacci che già visti con il binocolo dal campo base, lasciano molti dubbi e poche
certezze sul successo dell’ascensione. La salita di ieri al Barum Zom ci ha ridato la voglia di
provare un'altra volta.
Kalash Valley 12 luglio 2001
Sembra proprio che questo corso sia caratterizzato dai tempi stretti e dell’incertezza del domani.
L’unica giornata che ha avuto ritmi regolari, strano a dirsi, è stata proprio quella della salita!
Sveglia alle 02.30, colazione veloce e dopo la lunga risalita della morena sovrastante il campo base
e un tiro di corda sul seracco frontale del ghiacciaio quasi al buio, siamo arrivati all’attacco, a 4700
metri di quota, alle 5.30. La prima parte del percorso di avvicinamento, scelto da Claudio e
Francesco durante una breve perlustrazione fatta il giorno dell’arrivo, ci ha fatto risparmiare un’ora
di morena, ma ci ha costretto ad indossare l’imbracatura prima del previsto, per superare
l’inaspettato ostacolo del seracco alle prime luci dell’alba, e ad affrontare un percorso nei meandri
dei suoi crepacci soprastanti. Per fortuna siamo riusciti a superare la crepaccia terminale della
parete giusto prima del sorgere del sole. Nell’unico punto in cui era possibile passare, in
corrispondenza di un canale laterale, a sinistra del seracco pensile, esposto però a continue scariche
di sassi dall’alto. Scariche che, come avevamo osservato durante la precedente ascensione con gli
allievi, iniziavano a verificarsi nel momento in cui i primi raggi del sole colpivano la parte alta della
parete. Il loro frastuono ci ha accompagnato durante tutta la salita ed è stato uno stimolo a
percorrere in fretta tutto il tratto iniziale della via.
Il primo tiro sul seracco si è rivelato entusiasmante: un muro di 75° alto circa una quarantina di
metri con ghiaccio ottimo. A causa della quota, tra un innalzamento in piolet ed un altro, si sarebbe
desiderato fermarsi e recuperare il fiato più volte. Pochi scatti fotografici in velocità, per togliermi
prima possibile dalla traiettoria di qualche “sasso fuori rotta”. Gustiamo la salita e lo spettacolo
attorno a noi. È fatta. Io e Claudio arriviamo in vetta al Bindugul Zom alle 13.00 precise, come
prospettato; Carlo e Francesco circa un’ora prima, perché hanno percorso molti tratti più di noi di
conserva. A noi non è sembrato fosse molto sicuro.
I 600 metri di dislivello che abbiamo superato lungo la parete Nord, con circa 14 tiri di corda da 60
metri – uno sviluppo complessivo di circa 900 metri, sono stai molto tecnici e complessi, anche se
non estremi. La pendenza era variabile, dai 55° ai 65°, con piccoli risalti a 70° in prossimità dei
molti crepacci che la interrompevano. Dove dal basso sembrava ci fosse un deciso calo della
pendenza e ci aspettavamo di procedere velocemente, quasi camminando, in realtà ci siamo trovati
dinanzi ad un vastissimo crepaccio che spaccava la parete in due. La strada era sbarrata da
un’immane seracco strapiombante e l’unica possibilità è stata quella di percorrere il precario ponte
di neve che chiudeva il “bucone” per due lunghezze di corda verso destra, assicurati su tratti
minuscoli di ghiaccio affiorante, che non si sapeva bene cosa avessero sotto! Arrivati proprio sopra
il grande seracco di destra, che aveva sovrastato la nostra salita nella prima parte dell’ascensione,
un altro tratto vicino alla cresta ovest tra dei “penitentes” di piccole dimensioni e gli ultimi 100
metri in piolet sul ghiaccio del filo di cresta. Una salita bellissima, una parete magica. Il caldo si fa
sentire e sembra quasi impossibile di essere a 5300 metri senza maglione. Ci rilassiamo. Il Tirich,
alle nostre spalle, domina con i suoi 7710 metri tutte le altre montagne attorno; sembra essere
vicinissimo.
L’idea di aver scalato una cima vergine è molto strana. Viene da chiedersi: cosa provo di diverso?
Forse non c’è niente di diverso, visto che le salite su ghiaccio possono essere sempre come una
prima, ma il fatto di non sapere nulla di quello che si troverà più in alto, di non conoscere la
difficoltà della lunghezza di corda successiva, di non essere nemmeno sicuri di quale possa essere la
reale altezza della parete, ed il fatto di trovarsi da soli in una valle sperduta dell’Hindu Kush, ad
anni luce da qualsiasi mezzo tecnologico della civiltà post-industriale, rende questi momenti magici.
Foto di gruppo e via, giù lungo la cresta ovest in corda doppia. Ripercorriamo il pendio di ghiaccio
salito giorni prima con gli allievi e, dopo aver “ravanato” per l’ultima volta lungo gli immensi
cumuli di massi dell’infinita morena sottostante, arriviamo al campo alle sei di sera. Bisogna subito
rifare i bidoni! L’indomani si riparte per Chitral.
Al mattino si disfano le tende. I portatori alle 6.00 sono già arrivati. Il numero dei bidoni rimasti è
superiore al previsto e dobbiamo concordare un extra del prezzo per il trasporto a valle. Si parte per
Shagroom alle 8.00. Alle 12.00 siamo al villaggio. Pranziamo a casa del maestro, in attesa
dell’arrivo dei portatori con il carico e lui, gentilissimo, ci aiuta anche a fare i conti. Tutto OK! Le
jeep sono pronte e si parte. L’ultimo viaggio infinito, sei ore di cui oltre tre lungo le bestiali piste
“espostissime” di sterrato delle valli dell'Hindu-Kush.
Arriviamo a Chitral sani e salvi alle 17.30, ma non c’è tregua. Sognavamo una doccia e, invece, il
carico dell’attrezzatura alpinistica, da spedire con il cargo in Italia, deve essere pronto tra un’ora.
Tutto da rifare! Apriamo i bidoni devastati dalla nausea di dover pensare già a dividere il bagaglio
in vista del rientro a casa. Alle 19.30 è tutto pronto. Gli allievi rimasti si avvicendano nelle nostre
stanze per chiederci come è andata la salita. Sono entusiasti del corso e del diploma ricevuto. Shifa,
il più bravo, ora è Guida Alpina. Ci consegnano in regalo un cappello Chitrali in lana, come ricordo.
Un pensiero gentilissimo che ci commuove. Si va a cena. La giornata è finita, ora il pensiero va al
ritorno a casa. Le cartoline che devo ancora finire di scrivere le ho comprate ieri mattina. È stata
l’unica giornata quasi interamente libera della nostra permanenza i terra pakistana. Poco tempo da
dedicare all’acquisto dei regalini, ma senza esagerare. Alle 11.00 eravamo già operativi alla sede
della PIA e grazie a Betto e ad una sua conoscenza di Islamabad, forse riusciremo a partire per
Roma il 15 luglio, anziché il 18, come previsto. Tre giorni di anticipo: niente male.
Finalmente alle 14.00, con solo tre ore di ritardo, si parte per la Valle dei Kalash, con Shifa che
vuole fare il turista con noi e Quaid E Azam, un allievo Kalash che ci ospiterà nella sua rest-house.
Il viaggio è breve e dopo un ora e mezza, superati i soliti controlli di polizia, entriamo nel villaggio
e ci sistemiamo nella rest-house che pur non essendo un granché, ha il pregio di trovarsi in un posto
molto fresco e piacevole della valle, in mezzo al verde e vicino al torrente, appena prima del centro,
dove invece le solite fogne a cielo aperto rendono l’aria poco gradevole. Finalmente un momento di
relax. Finisco di scrivere le cartoline e domani scatterò le ultime venti foto che mi sono rimaste.
Questa sera ci è stata preannunciata una festa. Vedremo di cosa si tratta.
Lahore, 15 luglio 2001
Le dodici ventole della sala di aspetto dell’aeroporto di Peshawar scandiscono il nostro ultimo
trasferimento in Pakistan. Che spreco! Basterebbe un “Pinguino De Longhi” per rinfrescare tutta la
sala. Oggi ci si è alzati alle 5.00 e alle 6.30 siamo ancora nella hall del “Gulberg Palace”, il lussuoso
hotel offertoci dalla PIA, come passeggeri in transito. L’aereo in partenza per Roma è in ritardo di
oltre un’ora e partirà, se va bene, solo alle 9.00. Solo oggi possiamo essere certi di poter rientrare in
Italia tre giorni prima. Ieri, dopo essere partiti da Chitral in aereo, grazie al miglioramento delle
condizioni atmosferiche in pianura – contrariamente a quanto accadeva al nord, il sud è stato
devastato da abbondanti piogge e sorvolare il Lowari Pass non era possibile fino a due giorni fa –
siamo sbarcati a Peshawar, dove, grazie ad un terminale informatico collegato in tempo reale al
computer centrale della Pakistan International Aerlines, abbiamo ricevuto conferma delle
prenotazioni telefoniche fatte da Chitral due giorni prima.
Esperienza, assurda, ma tipicamente orientale, quella prenotazione del biglietto di rientro per
l’Italia, fatta a Chitral con l’aiuto di un improbabile addetto della compagnia di bandiera locale,
costretto a lavorare oltre le sue abitudini consuete a causa della nostra presenza. A parte questo,
incredibilmente, gli ultimi due giorni nella regione di Chitral sono trascorsi in tranquillità. La festa
dai Kalash non è stata come ce l’aspettavamo. Interessanti i balli, ma squallido il posto in cemento
armato, costruito per ballare sopra il villaggio: una specie di scheletro senza pareti di una nostra
discoteca. Il giro nella valle è stato molto interessante e ci ha permesso di scattare foto delle
bellissime donne e ragazze Kafiri con costumi stupendi, ma per capire qualcosa di questo popolo
abbiamo dovuto aspettare il rientro a Chitral.
La sera, durante l’ultima nostra cena al “Mountain Inn”, abbiamo conosciuto un amico di Betto, che
fa il paleoantropologo e che vive nella valle dei Kalash da tredici anni. Ci ha rivelato molti aspetti
poco noti e niente affatto confortanti della loro realtà sociale. Un miscuglio di interessi economici e
di opposizioni politiche, che nascondono rischi ed insidie per la sopravvivenza della cultura e delle
tradizioni di questi discendenti di Alessandro Magno. E che rischiano di venir travolte dalle spinte
nazionaliste di partiti filo-greci, dall’interesse per il turismo sessuale dei pakistani (le donne
vengono importate da fuori) e alle loro bramosie alcoliche (la valle dei Kalash che non sono
musulmani è l’unica del Pakistan dove si possono trovare alcolici. Il loro vino però è pessimo).
L’ultimo appuntamento nostro ufficiale in Pakistan è stato l’invito a pranzo dal principe ereditario
della regione di Chitral. Un anziano signore che ci ha ricevuto nella sua casa. Ovvero, nel suo
giardino, dove preserva gelosamente e con tenacia dal caldo torrido molte piante e alberi, che gli
sono stati inviati da tutto il mondo. L’incontro, come l’aspetto del principe e il suo abbigliamento,
sono stati tipicamente inglesi. Durante il pranzo, dopo le domande di cortesia poste da Pinelli sulle
origini della sua famiglia e su altri aspetti legati alla storia della valle, ci ha ringraziati per aver
dedicato il nostro tempo ad un’iniziativa che potrà aiutare il suo popolo. I suoi occhi chiari non
hanno lasciato trapelare nessuna emozione, se non, addirittura un certo educato distacco. Con la sua
vecchia piccozza, usata come bastone da passeggio, guarda dall’alto del suo giardino i bambini che
giocano nel torrente che esce dalla valle dei Kalash. Firmiamo il libro dei visitatori, lasciandolo solo
nel suo isolamento “principesco” dalla realtà che lo circonda.
Uscendo mi chiedo come poteva essere da giovane e quanta della sua apparente bonarietà sia reale,
quanta invece sia solo il frutto della vecchiaia che avanza inesorabile anche per lui, come per tutti.
L’ultimo giorno in Pakistan è trascorso tra il dubbio di non poter aprire l’automobile di Claudio una
volta giunti a Roma – la chiavi le aveva dimenticate in uno degli scarponi dentro ad uno dei bidoni
spediti a Islamabad, da dove sono giunte solo grazie alla cortesia di un socio di Mountain
Wilderness, che ce le ha consegnate al nostro arrivo all'aeroporto di Lahore – e la sofferenza per il
caldo umido e opprimente di Peshawar, 37° alle nove del mattino. Gran finale in un negozio di
musica, chi alla ricerca di cd tipici pakistani, chi per far man bassa di cd pirata di musica
“occidentale” a prezzo ridicolo, trastullati dalle melodie orientali e dall’aria condizionata. Gli ultimi
dieci controlli di polizia stamattina all’aeroporto e una sauna finale nella sala d’aspetto, hanno fatto
scomparire la nostalgia dei bei momenti trascorsi tra le montagne dell'Hindu-Kush.
Ora, con la prospettiva di altre dieci ore di aereo più il viaggio Roma-Trieste in automobile, rimane
solo un desiderio che diventa sempre più prepotente: arrivare a casa il più presto possibile!
Relazione tecnica del Corso
L'attività svolta durante il Corso, sia quella teorica che quella didattica, è stata resa possibile grazie
al contributo economico degli enti e delle fondazioni che hanno a cuore la salvaguardia
dell'ambiente Himalayano e lo sviluppo eco compatibile delle popolazioni che vi vivono. Il Corso,
approvato ufficialmente dal Ministero delle Minoranze, Cultura, Turismo e Sport, è stato finanziato
in parte da Montain Wilderness International, dal Club Alpino Accademico Italiano, dalla
Commissione Nazionale Scuole di Alpinismo e Scialpinismo e in parte dal "Mountain Areas
Conservancy Project" (MACP) of Pakistan, dal "International Union Conservancy of Nature"
(IUCN), dal WWF Pakistan, dal "Aga Khan Rural Support Programme" e dal "Himalayan Wildlife
Foundation".
Il numero effettivo di partecipanti è stato di 18 allievi. Per varie ragioni, infatti alcuni non si sono
presentati o si sono ritirati prima dell'inizio delle lezioni pratiche.
Ha diretto il Corso Carlo Alberto Pinelli, che oltre ad essere il Coordinatore Generale di Mountain
Wildernesse International è anche un veterano dell' Hindu-Kush: ha compiuto infatti molte prime
ascensioni su vette di oltre 7000 metri della zona. È Accademico del Club Alpino Italiano.
Gli istruttori, tutti italiani, sono stati: Carlo Barbolini di Firenze, membro di Mountain Wilderness,
Accademico e direttore della Scuola Centrale di Alpinismo del CAI; Francesco Cappellari di
Padova, Accademico e istruttore della Scuola Centrale di Alpinismo del CAI; Giorgio Gregorio di
Trieste, membro di Mountain Wilderness, istruttore della Scuola Centrale del CAI, direttore della
Scuola Nazionale di Alpinismo "Emilio Comici" della Società Alpina delle Giulie, Sezione di
Trieste del CAI; Claudio Rossi di Buttrio (UD), Accademico, istruttore della Scuola Centrale di
alpinismo del CAI e direttore della Scuola di Alpinismo e Scialpinismo di Tolmezzo.
Hanno collaborato come aiuto-istruttori: Afzel Sherazee; Javeed Sherazee; Raza ul Mustafa;
Mahmood Rashid. Tutti provenienti da Lahore e membri di Mountain Wilderness. Ci si è avvalsi,
inoltre della collaborazione di Babu Mohammad, di Chitral, come sopraintendente del Campo
Scuola.
Le lezioni teoriche si sono tenute a Chitral durante i primi quattro giorni di svolgimento del corso e
successivamente al campo base della montagna. I relatori erano esperti altamente qualificati,
provenienti dalla stessa Chitral, da Lahore, da Islamabad, dalla regione dello Swat e dall'Europa. Un
ringraziamento particolare va alla Signora Isobel Shaw, venuta a Chitral da Ginevra e la cui
presenza ha dato lustro al progetto. Le lezioni teoriche impartite agli allievi sono state:
Presentazione del corso - Carlo Alberto Pinelli (Mountain Wilderness)♣
Storia e cultura delle valli dell'Hindu-Kush - dott. Inayaullah Faizi (IUCN)♣
Organizzazione di una spedizione eco compatibile - Ashraf Aman (Mountain Wilderness)♣
Principi generali di ecologia - Attah Elahi (MACP-WWF)♣
Vegetazione dell'Hindu-Kush - Mohammad Ali (MACP)♣
Deforestazione e risorse alternative - Mohammad Ayaz (MACP)♣
Geografia e Geologia dell'Hindu-Kush - Afzel Sherazee (Mountain Wilderness)♣
Il rapporto con il turista straniero - Isobel Shaw (IUCN)♣
Storia dell'alpinismo nell'Hindu-Kush - Nasirullah Awan (Pakistan Alpine Club, Vice-President)♣
Aspetti medici dell'alpinismo d'alta quota - dott. Javeed Sherazee (Mountain Wilderness)♣
Pronto soccorso e soccorso in montagna - dott. Javeed Sherazee (Mountain Wilderness)♣
Morfologia dei ghiacciai e loro pericoli - Calrlo Alberto Pinelli (Mountain Wilderness)♣
Topografia e orientamento - Claudio Rossi (Scuola Centrale CAI)♣
Equipaggiamento e materiali - Francesco Cappellari (Scuola Centrale CAI)♣
Le esercitazioni pratiche si sono svolte su un ramo laterale del ghiacciaio inferiore del Tirich Mir,
ad una quota compresa tra i 4100 e i 4300 metri, durante dieci giornate di lezione, dal 29 giugno al
7 luglio. Gli argomenti trattati sono stati:
Installazione di un campo in alta quota e problemi di inquinamento♣
Nodi e modi di legarsi♣
Tecnica individuale di progressione su roccia♣
Tecnica di assicurazione e progressione in cordata♣
Discesa in corda doppia e risalita lungo la corda♣
Posa e smantellamento di corde fisse♣
Tecnica individuale di progressione su ghiaccio♣
Tecnica di auto arresto in caso di scivolata♣
Procedimento su ghiacciaio♣
Tecniche di assicurazione su ghiaccio e procedimento della cordata♣
Tecnica di trattenuta in caso di caduta nel crepaccio e recupero del compagno♣
Discesa in corda doppia su ghiaccio e neve con recupero del chiodo e del corpo morto♣
Rimozione del campo e smaltimento differenziato dei rifiuti.♣
Alla fine del corso sono stati effettuati esami pratici, sullo stesso ghiacciaio nel corso di una
giornata, ed una sessione di esami teorici, a Chitral.
Durante il corso sono state compiute le seguenti ascensioni:
♣ 7 luglio 2001 Barum Zom (5500 mt.) - versante Nord e cresta Nord-Ovest. Difficoltà AD,
dislivello 1250 mt. Dal campo base alla vetta. Discesa: lungo la via di salita. Prima ascensione
assoluta: C. Barbolini, F. Cappellari, G. Gregorio, C. Rossi, con 18 allievi.
7 Luglio♣ 2001 Shogurili Zom (5300 mt.) - versante Nord e cresta Nord-Est. Difficoltà AD-,
dislivello 1050 mt. Dal campo base alla vetta. Discesa: lungo la via di salita. Prima ascensione
assoluta: C:A: Pinelli, Afzel Sherazee, Javeed Sherazee, Raza ul Mustafa.
10 luglio 2001♣ Bindugul Zom (5300 mt.) - parete Nord. Difficoltà TD, dislivello complessivo
1250 mt.; 600 mt. dalla crepaccia terminale alla vetta. Discesa: lungo la cresta Ovest con tre corde
doppie da 60 metri e poi come per gli itinerari precedenti, con difficoltà AD. Prima ascensione
assoluta: C. Barbolini - F. Cappellari (c.a.) e G. Gregorio - C. Rossi (c.a.).
L'11 luglio a Chitral, alla presenza del principe Kush Ahmed ul Mulk, è stata effettuata la cerimonia
di consegna dei Diplomi, al Mountain Inn Hotel.
Hanno conseguito il Diploma di Guida Alpina:
- Mr. Suleiman Shah Asif, di 31 anni, del villaggio di Beleem (Laspur-Mastuj)
- Mr. Muhammad Shifa, di 32 anni, del villaggio di Sost (Hunza)
Hanno conseguito il Diploma di Guida Alpina (Livello Base):
- Mr. Ishanullah, di 25 anni, di Chitral
- Mr. Iqbal Murad, di 30 anni, del villaggio di Wasich (Turko)
- Mr. Fida Hussein, di 32 anni, del villaggio di Khogozi (Chitral)
- Mr. Jalal ud Din, di 23 anni, del villaggio di Shimshal (Hunza)
- Mr. Mahboob Ali, di 31 anni, del villaggio di Lasht (Yarkhun-Mastuj)
- Mr. Qaid e Azam, di 26 anni, del villaggio Kalash di Rumbur (Chitral)
- Mr. Abdullah, di 25 anni, del villaggio di Shagrom (Mulkho)
- Mr. Shaukat Ali Khan, di 25 anni, del villaggio di Buni, (Mastuj)
- Mr. Sifat Ali Khan, di 23 anni, del villaggio di Raman (Laspur-Mastuj)
- Mr. Sabit Rahim, di 23 anni, del villaggio di Shimsal (Hunza)
- Mr. Farad Aziz, di 37 anni, del villaggio di Shahi Bag (Chitral)
Hanno conseguito il Diploma di Assistente Guida Alpina:
- Mr. Hamid Ullah, di 32 anni, del villaggio di Shagrom (Mulkho)
- Mr. Nazir Ahmad, di 31 anni, del villaggio di Shagrom (Mulkho)
- Mr. Ghulam Farooq, di 35 anni, di Chitral
Hanno conseguito il Diploma di Portatore D'Alta Quota:
- Mr. Sarwar Ghazi, di 30 anni, del villaggio di Langasht (Turkho)
- Mr. Nasirullah, di 24 anni, del villaggio di Kuju (Chitral)
LE FOTO
valle Mastuj confluenza Shabronz
strada Mastuj
Bambini Scuola Owir
bambina Shabronz
prova scarponi allievi
bazaar Chitral
paesaggio serale da Owir
ponte strada shagrom
Valle verso Shagrom
La Guida Sher Khan
lezione passi
istruttori Tirich glacier
laghetto campo scuola: che bagni a 4000 metri!
verso Shogurili + Bindugul Zom
tracciato via normale Barum Zom
foto vetta Barum Zom
tracciato parete Nord Bindugul Zom
seracco iniziale Bindugul Zom
Sulla parete Nord del Bindugul Zom
il traverso del seracco intermedio
Bindugul Zom dal Platò sotto Barum Zom ( la cresta di discesa)