colmare il silenzio

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colmare il silenzio
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dialogo tra danilo kiš e fridrik rafnsson
archivio di saggi 12
colmare il silenzio
dialogo tra danilo kiš e fridrik rafnsson
© 2013 Massimo Rizzante
colmare il silenzio, dialogo tra danilo kiš e fridrik rafnsson
Qualche mese fa, durante un viaggio a Rejkyavík, il
mio amico traduttore Fridrik Rafnsson, conoscendo la
mia passione per l’opera di Danilo Kiš, mi dice: «Lo sai,
nel 1987, a Parigi, due anni prima che morisse, l’ho incontrato ed è nato un breve dialogo che non è mai apparso né nell’ex Iugoslavia né in Francia né altrove. Credo
che bisognerebbe farlo conoscere». Kiš, come si afferma
di certi musicisti, aveva un orecchio assoluto per i valori
letterari e anche quando conversava la banalità, che come
lui stesso sapeva è «indistruttibile quanto una bottiglia di
plastica», non riusciva a sfiorarlo. Ecco il dialogo tra un
islandese e l’ultimo scrittore iugoslavo... 3
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COLMARE IL SILENZIO
Fridrik Rafnsson: Lei è nato a Subotica nel 1935,
vicino alla frontiera ungherese. Dopo un’infanzia e un’adolescenza tra Ungheria e Montenegro, verso i vent’anni giunge a Belgrado, dove compie i suoi studi letterari,
laureandosi nel 1958. A partire dagli anni ’60 è lettore
di lingua serbo-crota a Strasburgo, poi a Bordeaux e
infine a Lille. Dal 1979 vive a Parigi. Che cosa desidera
aggiungere a questo rapido profilo biografico?
Danilo Kiš: Bisognerebbe forse precisare meglio le
mie origini, o piuttosto i due volti delle mie origini: la radice
ebreo-ungherese di mio padre; mia madre, invece, viene
dalla provincia montagnosa del Montenegro. L’incontro
di questi due individui di estrazione completamente diversa segna l’inizio della mia esistenza. Il peso di questa
duplice origine è sicuramente visibile nelle mie opere.
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FR: Lei, quindi, fin dall’inizio, ha parlato due lingue...
DK: Sì, parlavo due lingue fin da piccolo. Da una parte il
serbo-croato, la mia lingua materna e nella quale scrivo, e
dall’altra l’ungherese, che è la lingua di mio padre. Si può
dire perciò che possiedo una duplice coscienza linguistica.
FR: Un tratto caratteristico delle sue opere è che lei utilizza la sua lingua materna per parlare di suo padre. Che
posto occupa la sua figura?
DK: Per quanto strano ciò possa sembrare, la sua importanza è strettamente letteraria! Il suo vincolo con la
letteratura è duplice. In primo luogo, mio padre è nato
nello stesso luogo in cui ha visto la luce un certo Virág.
Quest’uomo è stato reso immortale da Joyce con il nome
di Bloom. Ebreo-ungherese come mio padre, Virág è poi
emigrato in Irlanda. In secondo luogo, vorrei ricordare
il legame che ho sempre avuto con la professione che
mio padre ha esercitato per tutta la vita. Ripeto spesso
che era uno scrittore, ma di un genere un po’ speciale.
La sua funzione di ispettore delle ferrovie consisteva nel
prendere nota delle fermate e degli orari dei treni e nel
trascriverli scrupolosamente. Quel tipo di enumerazioni, lungi dall’essere prive di senso, si possono incontrare
in diversi passi della Bibbia, nei Libri del Re, ad esempio.
FR: Lei era un bambino quando scoppiò la seconda
guerra mondiale e la sua vita, come quella di tanti altri bambini ebrei, era costantemente in pericolo. Una
volta mi ha detto che fu proprio durante quel periodo
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che, per cercare di dimenticare quegli orrori, cominciò
a scrivere alcune brevi storie...
DK: È così. Ma non sono purtroppo il solo. Si tratta di
un’esperienza che fin troppa gente ha dovuto sostenere.
Penso che succeda di frequente che ci si metta a scrivere
spinti da una sorta di bisogno, da una specie di sofferenza
che si tenta di attenuare o di mitigare attraverso la scrittura.
FR: Sarebbe in grado di datare i suoi primi tentativi letterari?
DK: Quando ho cominciato a scrivere non sapevo ancora quel che facevo. Mi ricordo di aver scritto la mia prima
poesia in ungherese, all’età di dieci anni. Aveva per argomento la fame, per la semplice ragione che avevo fame.
Tutta la mia famiglia soffriva la fame e sentivo il bisogno di parlare di cibo, del pane soprattutto. Quei versi,
naturalmente, non avevano alcun valore, ma allo stesso
tempo fu un debutto perfettamente realista! Nello stesso periodo, siccome avevo una cotta per una ragazzina
della mia età, ho scritto per lei una breve poesia d’amore. Forse in quel componimento si trova il germe di tutto
ciò che ho partorito successivamente, e cioè un insieme
di riflessioni e di disgrazie quotidiane. Tuttavia, non mi
consideravo affatto un poeta. Avevo piuttosto l’impressione di registrare dei versi che provenivano dalla coscienza delle persone, dei versi che esistevano già: il mio
compito era semplicemente quello di metterli sulla carta.
FR: Ha molte traduzioni al suo attivo. Quando ha cominciato a tradurre ?
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DK: Ho cominciato a tradurre quando, dopo la guerra,
sono tornato in Montenegro con mia madre e mia sorella. Ci arrivammo dopo che mio padre era morto ad Auschwitz. Mi sono ritrovato improvvisamente catapultato
nel serbo-croato, lingua che, dopo aver vissuto in Ungheria, non conoscevo bene. Frequentavo una scuola dove
si insegnava in serbo-croato, e fu allora che cominciai a
pormi alcune domande sulle lingue. Traducevo molto
dall’ungherese al serbo-croato, perché mi piaceva. Più
tardi, dopo aver appreso il francese e il russo, ho continuato a tradurre per puro divertimento. Nutrivo il sogno
di diventare poeta e leggevo tutto quel che potevo trovare sull’arte poetica. Per fortuna tutto questo non durò
molto. Scoprii infatti l’opera del poeta ungherese Endre
Ady. Mi impegnai a tradurlo e così fui in grado di soddisfare il mio bisogno di scrivere poesia. Ho detto “per
fortuna”, perché credo che quando ho qualcosa d’importante da dire la esprimo meglio in prosa che in versi.
FR: Non si può certo dire che si sia occupato di autori di poco conto! Corneille, Lautréamont, Baudelaire,
Verlaine, Queneau fra i francesi. Mandel’štam e Cvetaeva fra i russi...
DK: Sì. Quando mi divertivo a tradurre una parte del Cid
di Corneille ho avuto l’idea di mostrare il mio lavoro a
della gente di teatro di Belgrado. La cosa è andata bene e
mi hanno domandato di finire la traduzione. Lo stesso è
successo con Lautréamont. Mi capita anche oggi di tradurre dei testi che mi vanno a genio. Del resto, penso che
la traduzione sia un ottimo esercizio per la formazione
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degli scrittori. Lo consiglio a tutti coloro che hanno qualche conoscenza delle lingue straniere. Credo poi che un
romanziere abbia tutto l’interesse a tradurre poesia. Imparerà, senza tanti giri di parole, ad andare all’essenziale.
FR: Il suo ultimo libro, Enciclopedia dei morti, contiene
nove racconti. Si tratta di una raccolta di tipo classico?
DK: Non proprio. I racconti sono tutti legati tra loro,
benché siano ambientati in epoche differenti e in luoghi
diversi. Ciò che li unisce è lo stile e l’argomento. Enciclopedia dei morti non è né un romanzo, la cui costruzione sarebbe molto diversa, né un numero determinato
di racconti che ho riunito in un unico volume. Si potrebbe definire questo libro come una variazione su alcuni
temi. Ciò vale anche per Una tomba per Boris Davidovic.ˇ
FR: Variazioni su alcuni temi come i libri, l’amore e la
morte, ad esempio?
DK: Sì, questi tre temi attraversano tutte le mie opere.
FR: Perché i libri?
DK: Soprattutto perché mi servo di libri per incorniciare l’immaginazione. In altre parole, utilizzo alcuni documenti fittizi e reali per limitare la mia immaginazione,
per rendere l’opera più concreta. Bisogna convincere chi
legge che ciò che si sta narrando ha avuto luogo per davvero, poiché il lettore è continuamente assalito dal dubbio sulla verità e sull’esattezza di quanto sta leggendo. I
documenti, nelle mie opere, possiedono questa funzione. Che essi siano veri o falsi non è affatto importante.
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FR: Non è un gioco sleale nei confronti del lettore?
DK: Guardi, io sono uno scrittore jugoslavo, cittadino
di un paese comunista, e se voglio che le mie opere siano pubblicate devo prendere le mie precauzioni. Non
getto polvere soltanto sugli occhi dei lettori, ma anche
su quelli della censura. Faccio in modo che tutto ciò
che scrivo abbia l’aria di essere stato pubblicato altrove.
Così nessuno può accusarmi di aver deviato dalla linea
del partito. Proprio per questo nei miei libri le fonti non
sono mai citate. Ciò equivarrebbe a scoprire gli altarini!
FR: Lei tratta le fonti a suo piacimento e ne crea di nuove. Ma in questo modo non le sembra di prendere in
giro gli storici?
DK: Lo spero! Non bisogna dimenticare che la Storia
nei paesi comunisti, in particolare quella dei campi di
sterminio nazisti, è invenzione pura e semplice. Se per
caso vi si trovano menzionati, è per mezzo di formule
vuote, e tutto ciò che è falsificabile si ritrova falsificato.
FR: I ruoli dello storico e dello scrittore sono perciò
inconciliabili?
DK: Sì. Aristotele diceva che la finzione era più vicina alla verità di quanto non lo fosse la storia dell’umanità. Noi scrittori abbiamo per missione, fra le altre cose, quella di colmare i silenzi lasciati dalla Storia.
FR: Pensa che gli uomini continueranno a leggere libri?
DK: Sì, senza dubbio. L’esperienza che acquisiamo
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attraverso la lettura aggiunge sapore alla nostra esperienza vissuta, e le due formano un tutto. L’umanità conserva la sua esperienza nei racconti popolari e
nei libri. La maggior parte degli europei che amano
leggere leggono gli stessi libri, e ciò costruisce un’esperienza comune che chiamiamo cultura. Per questo nei miei romanzi si parla di libri. I libri non sono
poi così presenti nei libri, ed io ho voluto rimediare.
FR: Lei però evoca anche la possibilità che il libro rappresenti un pericolo...
DK: Sì. Il pericolo viene da quelli che io chiamo «gli
uomini di un solo libro». Parlo di coloro che leggono e rileggono lo stesso libro, che credono ciecamente a ogni sua parola. Che si tratti di un libro
marxista, fascista, di economia, della Bibbia, del Corano o di qualsiasi altro la faccenda non cambia.
FR: Nelle sue opere ci sono spesso personaggi alla ricerca di se stessi, o meglio che tentano di fuggire da se
stessi, cambiando luogo, nome... I problemi esistenziali
sono per lei così importanti?
DK: No, no! Cambiare nome è ormai moneta corrente.
Basta accendere la radio o la televisione per sentir parlare di terroristi che si infiltrano da un paese all’altro sotto
falsa identità. I rivoluzionari di cui parlo in Una tomba
per Boris Davidovicˇ s’ispirano tutti a personaggi reali.
FR: I critici francesi l’hanno a volte avvicinata al Nouveau roman. Che ne pensa?
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DK: Ho poche cose in comune con i detentori del Nouveau roman. I miei scritti sono più vicini alle loro teorie
che alle loro opere. Sono completamente d’accordo con
loro quando dicono che bisognerebbe rivedere molte
cose del corpus romanzesco del XIX secolo e che sarebbe necessario mandare all’aria la costruzione dei personaggi, l’uso dello spazio e altre cose ancora. Hanno
anche avviato alcune innovazioni interressanti rispetto
alla lingua scritta. Quel che mi rende totalmente diverso da loro è ciò che chiamo «l’oggetto magico». Con
questo termine intendo quel tipo di attenzione che sono
solito dare a certi oggetti – una vecchia macchina da cucire, una lampada –, che assumono così una dimensione
poetica, la quale gioca un ruolo determinante nel corso
del romanzo. L’ironia occupa un posto importante nelle
mie opere, cosa che non appartiene per nulla agli autori
del Nouveau roman. Posso tranquillamente fare mie le
parole di Claude Simon: «La mia sola difficoltà è cominciare, continuare e finire una frase». Aveva visto giusto.
Tuttavia, malgrado la mia adesione a certe loro idee, ho
sempre faticato moltissimo a leggere i loro romanzi. Con
una eccezione: L’amante di Marguerite Duras, che del
resto si può difficilmente ricollegare al Nouveau roman.
FR: Quali altri autori hanno esercitato la loro influenza
sulla sua opera?
DK: Lo scrittore deve conoscere ciò che è stato scritto prima di lui per dare vita alla propria invenzione, è evidente! È impossibile non leggere autori come Joyce, Proust
e Queneau, per citare solo qualche nome a caso. D’altra
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parte, ho delle forti affinità con alcuni scrittori jugoslavi
come Andric, Krleža, Crnjanski. Il Nouveau roman franˇ una parte di ciò che bisogna conoscere.
cese non è che
È sempre difficile stabilire una lista di questo tipo. Una
maestra mi disse una volta: «A vederti, non si crederebbe che in questi ultimi tempi hai divorato chili di patate
e cotolette di maiale, eppure sono davvero parte di te!».
FR: Da qualche anno i francesi sono attratti dalla cultura dell’Europa centrale che si è sviluppata sulle rovine
dell’Impero Austro-ungarico. Come spiega questa improvvisa infatuazione?
DK: I francesi, e non solo loro, stanno scoprendo la
cultura di quella parte del mondo che un tempo era
parte dell’Impero Austro-ungarico. L’Europa centrale
è un concetto allo steso tempo ricco e sfocato che copre cose estremamente importanti nel campo letterario
e artistico. Si tratta di un mondo che fino a poco tempo
fa non era neppure considerato europeo, o che si fingeva d’ignorare. Tale malinteso è stato corretto da Milan
Kundera e da altri che hanno attirato l’attenzione sulla
singolarità di questa parte d’Europa. In tempi ancora
recenti la cultura di questi paesi era assimilata a quella
russa, cosa del tutto aberrante! La letteratura dell’Europa centrale è un contesto che mi appartiene. È la sola
etichetta che possa accettare. Non sono uno scrittore
ebreo perché non sono un credente. Ho vissuto gli orrori della guerra, ma non sono uno scrittore ebreo, anche se gli ebrei hanno un loro posto nella mia opera.
Mi sento a mio agio fra gli autori dell’Europa centrale,
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poiché è un crogiolo di lingue e di popoli che formano
una cultura, o piuttosto, «un insieme di culture» che si
arricchiscono mutualmente e sono maestre nell’arte di
non prendersi sul serio.
(a cura di Massimo Rizzante)
Le opere di Danilo Kiš in italiano
Giardino, cenere (1965), tr. di L. Costantini, Adelphi 1986 ; Dolori precoci (1970), tr. di L. Costantini, Adelphi 1993 ; Clessidra (1972), tr. di
L. Costantini, Adelphi 1990 ; Una tomba per Boris Davidovicˇ (1976),
tr. di L. Avirović, Adelphi 2005 ; Enciclopedia dei morti (1983), tr. di
L. Costantini, Adelphi 1988 ; Homo poeticus (1972, 1974, 1978, 1983,
1990) tr. di D. Badnjević, Adelphi 2009.
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www.massimorizzante.com