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I
Il maresciallo Giulio Alberti, comandante della
stazione dei carabinieri di Limone Piemonte, era fermo sul marciapiede della piazza del Comune a guardare le creste delle montagne, dal Monte Vecchio alla
Rocca dell’Abisso. Fino a due ore prima il celeste
del cielo contrastava con il verde pallido dei pascoli
in quota, la giornata dell’Assunta si trascinava stancamente verso la conclusione, come le precedenti di
quell’estate del millenovecentoquaranta.
In un niente il cielo si era tinto di viola scuro ingoiando i crinali, la pioggia battente aveva sferzato
il paesaggio, accompagnata dal bagliore dei lampi
che annunciavano il tuono, prima lontano, poi sempre più vicino. Scemata la violenza dell’acqua, la
nebbia era calata sul paese quasi a voler mettere ordine, a trasmettere calma. Improvvisamente alcune
folate di vento, cariche dell’odore dell’erba bagnata, avevano rimesso le cose a posto. Le ombre della sera si allungavano lentamente sulle vette: era il
momento in cui, tra il verde dei prati, il grigio delle
rocce e l’azzurro del cielo si insinuava la notte per
annunciare il suo arrivo che si sarebbe compiuto
di lì a poco. Presto la luna, carica di significati misteriosi, con la sua presenza dolce, ma in grado di
imporsi alla forza del buio, sarebbe rimasta l’unica
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luce per ricordare dove finivano le cime e dove iniziava il cielo.
Giulio Alberti aspirava a pieni polmoni il fumo
della nazionale senza filtro, al naso gli giungevano gli
odori della piazza, mescolati a quello pungente del
temporale appena passato. Cessata la pioggia, le finestre dei balconi si erano aperte lasciando intravedere
laboriose cucine gonfie degli aromi dei piatti particolarmente generosi per la festa della Madonna.
Tutto sembrava normale, anzi meglio, perché la
pioggia aveva rinfrescato e ridato vita al paesaggio
morso da giorni dal sole, la brezza a poco a poco
si spogliava dell’umidità dell’acqua e si vestiva del
frizzante del cielo sereno. La seconda metà di agosto
si annunciava ancora una volta come la parte più seducente dell’estate, quella in cui il caldo allieta, ma
non stanca, in cui i colori della natura riprendono vita
senza perdere tono, in cui la stagione dà il meglio di
sé prima di accomiatarsi del tutto. Il maresciallo guardava, ma non vedeva, avvertiva gli odori e i profumi,
ma non li apprezzava, concentrato com’era a scrutare
oltre il nero del cielo, al di là del confine con la Francia. Il fragore del tuono gli era rimasto nelle orecchie
a ricordargli il rombo del cannone. Pensava ai ragazzi
lassù che tribolavano d’estate a marciare contro un
nemico sconfitto. Cosa sarebbe successo in una stagione meno clemente e con un’armata vera a contrastare l’avanzata? Lo immaginava da tempo e ora ne
aveva la certezza. Per lui da quel giovedì di ferragosto
iniziava l’ultima parte di un’estate che forse non sarebbe stata l’ultima, ma certamente non ce ne sarebbero state altre così; il mondo stava cambiando, ma
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nessuno ancora conosceva il prezzo del mutamento,
salvo che sarebbe stato dannatamente caro e salato.
Un “buona sera maresciallo”, borbottato dal barbiere indaffarato a chiudere la bottega, lo aveva distolto dai suoi pensieri. Ricambiato il saluto e gettato
il mozzicone della sigaretta, si era incamminato per
raggiungere gli amici che lo aspettavano al Tripoli
per la cena. Tra questi c’era anche Luigi Grosso, l’ispettore della Omicidi di Torino, conosciuto l’anno
precedente nel corso di un’indagine dall’esito drammatico. Erano diventati amici, spesso si sentivano al
telefono. Alla fine il giovane poliziotto si era convinto
a trascorrere un periodo a Limone durante l’estate.
Di lì a tre giorni doveva rientrare in città e visto l’andazzo delle cose chissà se e quando avrebbero potuto
rivedersi! Nella settimana passata insieme avevano
parlato molto e di tutto, in particolare della sciagurata
dichiarazione di guerra del dieci di giugno. Condividevano idee e pensieri, sommessamente e con prudenza, manifestavano perplessità per un regime che,
vestito da operetta, inconsultamente aveva gettato la
nazione nel dramma del conflitto. Le parole del Duce
pronunciate in quel maledetto lunedì di inizio estate
erano ridicole e grottesche, ma altrettanto devastanti
per i risultati che stavano producendo. La campagna
contro la Francia non era che il primo assaggio. A
parte la vigliaccata di attaccare un paese già arreso,
era chiaro come il nostro esercito fosse impreparato
per qualsiasi azione bellica, anche la più scontata e
banale. La perfida Albione ci stava aspettando! Con il
cuore gonfio e la mente piena di questi pensieri, Giulio Alberti percorreva la piazza alla volta del Tripoli
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dove sperava che la compagnia, il vitello tonnato, le
cipolle ripiene e le pesche all’amaretto e cioccolato lo
distogliessero dagli orrori del mondo.
L’hotel era situato in via Grandi, che bruscamente
si staccava dalla strada principale nei pressi dell’osteria della Punta. Un centinaio di metri e si raggiungeva l’ingresso della sala da pranzo. Di fronte all’uscio,
sul margine opposto del vicolo, una sorta di balconata
prospiciente la scala che immetteva in via Roma fungeva da dehors dell’albergo. Lo spazio era ricoperto
da una vite vergine le cui foglie scintillavano bagnate
dalla pioggia alla luce fioca di un lampione. Appoggiato alla ringhiera di ferro battuto, Luigi Grosso attendeva l’amico con una sigaretta in una mano e un
bicchiere di pastis nell’altra.
“Eccoti Giulio, i tuoi amici sono ancora su in camera. Io avevo voglia di due tiri e di un po’ di aperitivo all’anice. In una serata come questa, magica e triste,
ci si può lasciar andare a delle piccole trasgressioni.
Non temere, non voglio certo ubriacarmi, solo che oltre sentire profumi, ascoltare le voci del passeggio,
farmi rapire dalla luna, desideravo anche un gusto
particolare in bocca.”
“Se le tue pazzie sono tutte qui, amico mio, ti accontenti di poco e puoi concederti il bis.”
La porta della sala da pranzo si era aperta lasciando intravedere la sagoma slanciata e affettata del maître
dell’ hotel che annunciava che i loro commensali avevano preso posto a tavola. Erano due coppie, una di
lontani parenti del maresciallo, l’altra di vecchi amici. Costoro tutti gli anni trascorrevano il periodo di
ferragosto a Limone. Alberti e Grosso si erano acco-
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modati e subito la conversazione e la cena avevano
disteso gli animi e sciolto le favelle.
Le cipolle ripiene stavano per passare dalla teglia
ai piatti quando improvvisamente, dalla porta di servizio, aveva fatto irruzione in sala un uomo di circa
sessant’anni, sudato, trafelato. La sua corporatura, com­
posta da un faccione lunare, sormontato da una specie di palla da bigliardo, e da un pancione debordante
contenuto invano da bretelle sfilacciate, dominava il
locale:
“Maresciallo, maresciallo, ispettore, meno male che
vi ho trovati, il brigadiere Rizzo mi ha detto che eravate qui e... scusate mi sono permesso di disturbarvi.
Il brigadiere è già sul posto con il Reverendo parroco,
hanno chiamato anche il dottore!”
L’ispettore: “Ma... non è il sagrestano?”
Alberti: “Certo è lui, non capisco cosa sia successo!”
Poi rivolto al nuovo venuto: “Si calmi Battista, si
spieghi meglio!”
“Scusatemi, ma sono sconvolto. È accaduta una
disgrazia! Marianna Dalmasso, la figlia di Andrea e
Lucia, quella che abita nella casa vicino alla chiesetta
della Madonnina, è stata trovata morta. Il cadavere
l’hanno rinvenuto due signore. Una è la Monticone,
sa, quei villeggianti che affittano in via Mazzini da diversi anni, l’altra è la moglie del colonnello Anselmo.
Non ho capito cosa siano andate a fare a casa della
ragazza!”
Grosso: “Dai andiamo, hai capito Giulio di chi si
tratta?”
Alberti, osservando sconsolato le cipolle nel piatto:
“Certo, muoviamoci.”
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Usciti dal locale, dopo pochi metri avevano seminato il corpulento sacrestano. La gioventù dell’ispettore e la prestanza del maresciallo erano troppo per il
poveretto che stentava a camminare anche in discesa,
vinto dal peso del pancione.
Grosso: “Dimmi qualcosa Giulio.”
“Marianna Dalmasso, ventuno o forse ventidue an­
ni, figlia di Andrea Dalmasso e Lucia Beltrando, due
fratelli più vecchi di lei entrambi sotto le armi. I genitori sono con le bestie alle maire della Valletta proprio
perché mancano braccia in famiglia, lei è, o meglio
era, a servizio da anni presso questi signori Monticone, gente di Torino che frequenta Limone da anni.”
“Quindi la giovane era da sola?”
“Direi di sì, gli anni scorsi con lei restava la madre e il padre faceva la spola tra la casa in paese e
l’alpeggio, mancando i figli i vecchi hanno dovuto
arrangiarsi, come tutti di questi tempi e non è che
l’inizio!”
“Già, non è che l’inizio!”
Con queste riflessioni i due erano arrivati in fondo al paese.
La piazzetta dove si trovava la cappella era in effetti un quadrivio dove confluivano via Genova, via
Cuneo e via Mazzini e da cui si staccava una strada sterrata che collegava lo slargo con la statale. Lo
spazio, guardando verso valle, era chiuso sulla sinistra dal cimitero, sulla destra dalla casa dei Dalmasso, in mezzo la chiesetta.
Ad attenderli sulla porta c’era il parroco don Falco. L’abito talare metteva in risalto la corporatura
massiccia del sacerdote, il viso largo dai lineamenti
asciutti e squadrati gli conferiva autorevolezza, i ca16
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pelli brizzolati pettinati all’indietro con cura davano
ordine alla persona rendendola piacevole a guardarsi.
Si era mosso verso di loro denotando affanno e apprensione, tanto che la sua voce notoriamente stentorea si perdeva in un sussurro:
“È dentro in cucina, morta, mi ha avvisato la moglie del colonnello, mi sono precipitato qui e ho detto
a Battista di avvertirla. Il brigadiere è arrivato immediatamente e mi ha riferito di aver spedito il sacrestano a cercarvi. Manca ancora il dott. Atzori, è andato
il signor Monticone su al preventorio a prenderlo con
l’auto, per fare prima.”
L’ispettore e il maresciallo, con un cenno del capo,
avevano annuito.
La casa dei Dalmasso era come tante: cucina al
piano terra, una scala interna che portava su un soppalco dove si trovavano tre camere da letto, una per
i genitori, l’altra per i maschi, la terza, angusta, per
Marianna, i servizi in giardino.
Tra il tavolo e il lavandino giaceva il corpo della giovane, bocconi sul pavimento, come adagiata o
come se fosse scivolata lentamente. Apparentemente
tutto era in ordine, nulla faceva pensare alla tragedia.
Grosso e Alberti, ritti accanto al cadavere, si erano scambiati uno sguardo di intesa.
Grosso: “Giulio, credo l’abbiano ammazzata, guarda il collo!”
“Ho visto, solo non capisco se sia stata strozzata
o strangolata, ce lo dirà il medico!”
“Mi sembra strangolata, ma aspettiamo il dottore, nel frattempo guardiamoci attorno, a questa gente penseremo poi.”
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