Una storia di libertà di Roberto Fiorini Domenica. Tua madre ti
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Una storia di libertà di Roberto Fiorini Domenica. Tua madre ti
Una storia di libertà di Roberto Fiorini Domenica. Tua madre ti chiama perché è pronto in tavola. Ti presenti in cucina come se niente fosse, la tua calma estrema è direttamente proporzionale ai fuochi d'artificio che ti esplodono nello stomaco. Non ci devi pensare. Porti la forchetta alla bocca e mastichi il tuo pasto come se fosse cartone. Non ti ricordi nemmeno cosa hai mangiato. Ti alzi e te ne vai in camera tua, in attesa. Stanotte hai sognato che era già finito tutto, chissenefrega del risultato. Almeno ti eri tolto il pensiero. Guardi l'orologio e diventi un tutt'uno con la lancetta dei secondi, ti ci senti appeso, immagini di essere tu a spostarla ogni volta. Ogni minuto che passa è un minuto in meno da aspettare, ma ti è sembrato anche un tempo infinito. Giri per casa senza una meta, ti fermi alla finestra, osservi la gente indifferente che attraversa sulle strisce per non finire sotto una macchina. Beati loro, che hanno trovato da fare. Hai trent'anni e ancora non ci hai fatto l'abitudine, ogni volta è un'emozione che sale fino alla gola e ogni volta ha un'intensità diversa. La maggior parte dei tuoi amici, anzi quasi tutti, ancora non si spiegano il perché di questa tua tensione, preferiscono altre gioie, altre strade per divertirsi. Sentieri artificiali, lastricati di false, vuote ed evanescenti emozioni. Per te no, l'adrenalina che sale è la tua ragione di vita, uno dei pochi momenti in cui ti senti davvero parte di un mondo reale. Il tuo umore dipende dall'esito di stasera. A volte ci pensi, provi a chiederti perché sia così importante per te. Questa domanda una risposta non ce l'ha, è importante per te perché lo è e basta, non è razionale né il tifo né la tua tensione. È forse una questione d'appartenenza e di distinzione, ti senti diverso da tutti gli altri perché sei parte di un gruppo, quando scopri che qualcuno ha la tua stessa “malattia”, è come rincontrare un amico che non vedi da una vita. Sai che in qualche modo ha condiviso con te dolori e gioie, sai che nell'abbraccio della vittoria s'era stretto anche lui con te, sai che piangeva con te per le delusioni, che gli uscivano le tue stesse lacrime amare. E cominci a ricordare, ti tornano alla mente le prime partite che hai visto allo stadio, quella meraviglia che provavi quando entravi e sentivi l'abbraccio collettivo di tutta quella gente, tu piccolo sulle spalle di papà non capivi la differenza tra giocare in casa e fuori. Per te andare allo stadio significava dover aspettare 45 minuti per mangiare il gelato. E poi addormentarti accanto a mamma. Con l'abbraccio di tutti quelli che avevi intorno. Ma poi avevi cominciato a guardare tutta quella gente, avevi cominciato a capire cosa fosse il fuorigioco e ti domandavi come facesse l'arbitro a non averlo ancora capito. Questo, però, te lo domandi ancora. È uno dei grandi misteri della vita. E poi la domenica: per i tuoi compagni di classe e per i tuoi amici, il giorno del picnic, della gita fuori porta, dei ristoranti e delle scampagnate; per te, il giorno più importante della settimana, da cui dipende tutta la settimana successiva. Per te la settimana inizia di domenica. Come fanno gli altri a non capirlo, ormai hai rinunciato a chiedertelo. Perso nei tuoi pensieri, ritrovi la ragione (se così si può definire) un attimo prima di uscire. Mancano circa due ore e mezza, e per te è già troppo tardi. Prendi lo stesso cappotto, la stessa sciarpa, esegui scrupolosamente gli stessi movimenti che, credi, ti portino fortuna ogni settimana. Se la tua squadra ha perso a volte molto probabilmente la colpa è dei tuoi rituali fatti in maniera imprecisa. È una verità indiscutibile. Prendi la macchina e parti, speri di trovare solo tifosi della tua squadra per scambiarti saluti e incoraggiamenti. Ma anche di incontrare quelli della sponda opposta, per sfidarli con sguardo di superiorità. Il cuore batte, lo senti in gola, lo Stadio Olimpico si avvicina. Mancano due ore alla partita. Ancora due ore. Le due ore più lunghe della tua vita, ogni volta. Maledici il giorno in cui hai cominciato a tifare, te ne chiedi i motivi, ti domandi perché dovrebbe valerne la pena, pensi di aver buttato i tuoi soldi. Poi entri nello stadio. Sali le scale che ti permettono l'ingresso in curva e scordi tutto. Osservi quei colori, quelle bandiere, gli occhi della gente pieni di gioia. E capisci. Capisci che fai parte di un mondo fantastico, esclusivo, che solo chi è intorno a te in quel momento può capire. E cominci a cantare. Lo fai in maniera quasi inconsapevole. La voce ti esce con il respiro ed ha lo stesso ritmo del battito del tuo cuore. In un batter d'occhio arriva l'ora X. Mentre entrano i giocatori, prendi la sciarpa e la stendi in aria, cantando l'inno più bello del mondo. La tua voce diventa un tutt'uno con quella degli altri. Siete il dodicesimo in campo. Siete la forza vera di questa squadra. Senza di voi, non esisterebbe nulla. Fischio d'inizio. Poi di quello che è successo non ricordi nulla. Gol. La rete si è gonfiata. Vivi tutto come se fosse già un ricordo. La vista si annebbia. Il cuore ti arriva alla testa. Abbracci chiunque ti sia vicino in quel momento. Ed il canto diventa un urlo, un grido che libera tutto lo stress accumulato nel corso della settimana. Un istante come quello è irripetibile. Un istante come quello non te lo può dare nulla di materiale. Quella è la tua droga, l'unica sostanza stupefacente che conosci è quell'istante inimitabile. Ma che ne sanno i tuoi amici che si sballano in discoteca o sotto casa, cos'è l'adrenalina. Poveri ragazzi, cosa si perdono. Si perdono la vita, si perdono quell'istante, si perdono la gioia sana di esultare per un gol. Se ti fossi sballato anche tu prima della partita, forse nemmeno ricorderesti quella gioia. Non ricorderesti i tuoi pensieri in quel momento, i tuoi ricordi di bambino, le persone che una volta ti portavano allo stadio e che ora non ci sono più, la forza di andare avanti e gridare con la voce e con il cuore. La partita finisce e hai vinto. Tu hai vinto, ora puoi gridare al mondo che sei il più forte. Abbracci tutto lo stadio. Per almeno un mese sei la persona più felice del mondo. E tutto per una partita. Non serve nient'altro. Per un po' sei il re del quartiere, hai sempre l'ultima battuta, cammini a un palmo da terra, tutti ti rispettano, tutti hanno timore delle tue parole, c'è sempre un sano sfottò con gli avversari. Perché hai vinto. Una partita che vale uno stato d'animo, una ragione di vita. E stai bene, stai benissimo, non hai bisogno di nient'altro. La tua droga? Quella squadra, quei colori che uniti ti ricordano gioie e dolori, che ti danno gioie e dolori. Ma la sfida è sempre aperta, il cuore è pronto a battere forte, pronto ad emozionarsi. Per il prossimo derby.