RICERCA: “LA GESTIONE DELLA DISABILITA` E DELLA MALATTIA

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RICERCA: “LA GESTIONE DELLA DISABILITA` E DELLA MALATTIA
SDA Bocconi
RICERCA: “LA GESTIONE DELLA DISABILITA’ E DELLA
MALATTIA IN AZIENDA”
Anno: 2008
Simona Cuomo, Adele Mapelli, Chiara Paolino.
Tratto da
Bombelli, Finzi (a cura di), Oltre il Collocamento obbligatorio, Guerini Associati, Milano,
2008.
Divisione Ricerche “Claudio Demattè”
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1. LA MALATTIA COME STIGMA
L’ipotesi che ha orientato i vari piani della ricerca concerne il tema dello “stigma” (Goffman, 1963); in particolare si è ritenuto di presupporre che la malattia e la disabilità, quali
due facce della stessa medaglia, siano considerate dalle culture organizzative come elementi di svalutazione delle capacità professionali degli individui. Quindi le persone disabili diventano oggetto di “stigma” risultando così implicitamente discriminate dai contesti
lavorativi per quanto riguarda sia l’ingresso nel mercato del lavoro sia le eventuali successive fasi di inserimento, gestione e sviluppo.
Il concetto di “stigma” risale addirittura alla cultura greca che definiva con questo termine
una serie di “segni” fisici tali da tipicizzare la condizione “morale” di coloro che li possedevano.
Il tema dello “stigma” è centrale negli studi di Erving Goffman che lo ha descritto, analizzato e sistemizzato nella sua opera principale (“Stigma. Notes on the Management of Spoiled Identity”, 1963).
Secondo Goffman, dall’antichità ai giorni nostri, ogni società stabilisce quali siano le caratteristiche che i suoi membri devono esibire per essere legittimati ad appartenerle. Questo meccanismo è il presupposto per creare quegli stereotipi e pregiudizi che condizionano
l’accettazione o meno di un individuo nel gruppo.
La società si dota quindi di strumenti per dividere le persone in categorie al fine di stimare
la loro identità “sociale” e, catalogandone gli attributi ordinari e naturali, predefinisce caratteristiche inequivocabili e condivise: con questo meccanismo, viene assegnata a ciascun
individuo un’identità sociale “virtuale” come proiezione di stereotipi puramente speculativa, per nulla confrontabile nei fatti. Confezionata con questa modalità, l’identità sociale
“virtuale” è una sorta di attribuzione potenzialmente retrospettiva, differente da quella che
Goffman definisce identità sociale “attuale” ovvero la categoria cui possiamo dimostrare
che la persona appartiene e gli attributi che è legittimo assegnarle.
Pertanto, quando la nostra mente conferisce ad una persona un attributo non desiderabile,
la declassa da persona “completa” a persona “segnata”. Tale attributo - definito anche come mancanza, handicap, limitazione – è uno “stigma” che produce una frattura tra
l’identità sociale “virtuale” e quella “attuale” e innesca varie forme di discrepanza come,
ad esempio, quella che spinge a riclassificare un individuo trasferendolo di categoria oppure a cambiare il giudizio sulle sue prospettive di avanzamento sociale.
L’individuo stigmatizzato possiede dunque un attributo negativo che è fonte di “discredito” e genera la categoria dei “diversi” che il gruppo dei “normali” tende ad alienare spezzando il carattere positivo che gli altri attributi dello stigmatizzato mantengono intatto.
Secondo Goffman, esistono tre tipi di stigma:
- le deformazioni fisiche
- gli aspetti criticabili del carattere (mancanza di volontà, disonestà, credenze malefiche, passioni sfrenate)
- connotati tribali (razza, religione, nazionalità)
In tutti questi generi di stigma spiccano le stesse caratteristiche sociologiche:
quell’individuo ha una diversità non desiderabile rispetto alle anticipazioni stereotipate del
gruppo di riferimento.
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Di conseguenza, in quel gruppo chi ha un rapporto con un individuo che presenta caratteristiche positive, rispetto alle sue anticipazioni, accoglie l’individuo in un rapporto sociale
ordinario; per contro, se l’individuo possiede una caratteristica negativa, rispetto alle anticipazioni, subentra lo stigma che inficia la successiva relazione.
Si crea così un’ideologia dello stigma idonea a spiegare pregiudizialmente l’inferiorità dello stigmatizzato ed utilizzata ormai nel linguaggio comune in cui parole come “demente”,
“bastardo”, “zoppo” non sono più impiegate nel loro significato letterale ma come metafora.
In questo contesto, il rapporto con lo stigmatizzato non si sviluppa su un piano di parità
ma, nel migliore dei casi, di “accettazione” e di “comprensione”; questo atteggiamento
buonista porta lo stigmatizzato a svalutare se stesso, a perdere la propria autostima, a reagire per difendersi: tutto ciò genera, in chi giudica, l’idea che il difetto sia la giusta “mercede” per qualcosa che lui o la sua tribù ha compiuto.
Quindi, dal punto di vista dell’interazione sociale ed organizzativa, la presenza di persone
stigmatizzate produce una situazione di “stasi” al limite della patologia relazionale: la persona oggetto di discredito si sente sempre più insicura ed incapace, mentre le persone che
screditano provano imbarazzo, senso di estraneità o addirittura rabbia.
Per contro, dal punto di vista delle reazioni soggettive,poichè la persona stigmatizzata più
difficilmente riesce, nel corso del tempo, a modificare l’opinione del contesto, tende a proteggersi sia usando lo stigma per ottenere vantaggi “secondari” (in chiave di protezione
emotiva) sia considerando la sua sofferenza come un privilegio nascosto (perché aiuta a
capire meglio la vita e la gente), sia riconsiderando i limiti delle persone “normali” (perché
sono loro ad essere “paralizzate” nel vedere, capire, ascoltare).
In sintesi, inquadrando il tema della disabilità come “stigma”, nell’ambito più ampio del
“diversity management”, come già accennato nel capitolo introduttivo, la ricerca è stata
strutturata per cercare una risposta articolata alle problematiche che la presenza di persone
disabili (per malattia e per handicap) solleva a livello sia sociale sia organizzativo.
La ricerca, infatti, è mirata, senza pretese di esaustività, a focalizzare l’incrocio tra gli atteggiamenti individuali della persona oggetto di stigma e i comportamenti
dell’organizzazione, partendo dall’ipotesi che l’esito di tale incrocio può risultare positivo
solo se poggia sulla presa di consapevolezza degli stereotipi presenti nella cultura socioorganizzativa e quindi sulla successiva possibilità di modificarne i contenuti e i comportamenti che ne scaturiscono.
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2. DISABILITA’ E MALATTIA: IL PUNTO DI VISTA AZIENDALE
Il capitolo intende analizzare il punto di vista delle aziende sulla gestione della disabilità e
della malattia in ambito lavorativo.
1. I PERCORSI DI GESTIONE DELLA DISABILITA’
1.1.Obiettivi ed aree di indagine
In questa parte della ricerca si è cercato di raggiungere tre obiettivi: in primo luogo, si è
voluto chiarire quali sono le più importanti prassi organizzative per una corretta gestione
del disabile in azienda, attraverso l’analisi della letteratura e la realizzazione di interviste
approfondite ai direttori del personale di alcune aziende italiane.
In secondo luogo, abbiamo voluto valutare quantitativamente, attraverso un questionario
inviato a 400 aziende sul tessuto nazionale, quanto queste prassi sono diffuse nel nostro
campione.
Infine, abbiamo cercato di capire se le prassi organizzative analizzate hanno effettivamente
un’influenza sull’integrazione del disabile in azienda e sulla sua percezione come risorsa
piuttosto che come ostacolo. Il focus sulle prassi organizzative, sulla loro diffusione ed effetti è importante da un punto di vista manageriale per offrire alle aziende degli spunti di
riflessione pratici al fine di migliorare la gestione del disabile e fare in modo che il suo inserimento sia di reciproco beneficio per l’organizzazione ed il disabile stesso.
Le prassi organizzative su cui la nostra ricerca si è focalizzata appartengono all’ambito
delle risorse umane e del clima organizzativo. Infatti, queste sono le due dimensioni che
sia la letteratura manageriale sulla disabilità sia le nostre interviste sul campo hanno confermato essere, in molteplici settori, le più importanti per l’integrazione del disabile e il
suo benessere organizzativo. Come verrà illustrato nei prossimi paragrafi, la nostra analisi
quantitativa mostra come queste prassi di gestione del personale e l’appropriato clima organizzativo non siano ben diffusi nel campione da noi considerato.
Inoltre, l’indagine mostra come il rapporto tra azienda e disabile in Italia sia ancora dominato da una relazione caratterizzata da stereotipi sul disabile e di natura transazionale, dove
il disabile non riesce ad essere visto, in modo diffuso, come una fonte di apprendimento e
vantaggio per l’azienda. Questi risultati sono importanti alla luce del fatto che le nostre analisi mostrano che investire su certe prassi di gestione delle risorse umane (GRU) e sulla
costruzione di un certo clima organizzativo è effettivamente efficace per l’integrazione e la
corretta percezione del disabile.
Nel suo complesso, l’indagine basata sull’elaborazione di un questionario che si appoggia
su un continuo confronto tra letteratura e interviste sul campo, e basata su un’elaborazione
statistica in grado di dare delle prescrizioni di comportamento alle aziende, rappresenta
una novità nel panorama della ricerca sulla disabilità. Finora, gli studi esistenti sono stati
primariamente di tipo teorico, o caratterizzati da una metodologia di ricerca per lo più qualitativa, che ha portato all’emergere di diversi modelli di relazioni. Tuttavia questi modelli
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non hanno ancora ricevuto un test su larga scala come quello che ci proponiamo di illustrare in queste pagine.
Rispetto alla struttura del capitolo, in primo luogo si descriveranno il contenuto e il ruolo
delle prassi di gestione delle risorse umane (GRU) e del clima organizzativo per
l’inserimento del disabile in azienda, in accordo con le principali ricerche di natura nazionale e internazione. In secondo luogo, verrà illustrato come le nostre interviste sul campo
siano state usate per validare e completare questa riflessione sul ruolo delle prassi di GRU
e clima organizzativo per la corretta gestione del disabile. In terzo luogo, verrà presentato
il nostro questionario e i risultati della nostra indagine quantitativa, in merito alla diffusione delle prassi organizzati per la gestione della disabilità nel nostro campione. Infine, verrà
presentato il modello di relazioni tra le prassi organizzative e la gestione del disabile, al fine di avvalorare l’assunto di base presente nella letteratura sulla disabilità che
l’investimento nelle prassi e nel clima organizzativo è di primaria importanza per
l’integrazione del disabile.
1.2. Il ruolo delle pratiche di gestione delle risorse umane e del clima organizzativo
per l’inserimento del disabile: la letteratura
L’importanza delle pratiche di GRU è emerso recentemente come tema fondamentale per
assicurare il corretto inserimento dei disabili in azienda (Klimoski e Donahue, 1997). I sistemi di gestione delle RU sono, infatti, in grado di coordinare e intervenire sia nelle relazioni tra persone livello di team e disabile-capo, sia nella struttura del sistema organizzativo.
Il modello elaborato da Klimoski e Donahue, riassunto nella figura di seguito, è utile per
illustrare quale sia il contenuto dei sistemi di gestione RU e i livelli su cui essi agiscano.
Figura 1. Il modello di Klimoski e Donahue (1997)
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In particolare, al di là della suddivisione tra iniziative a livello di sistema organizzativo e
di relazioni di team e capo-collaboratore, il modello chiarisce che, per un corretto inserimento del disabile, il sistema di GRU deve essere progettato su due dimensioni:
- la prima dimensione è specifica per il disabile, come si evince ad esempio dalla necessità che il supervisor della persona disabile riceva training e informazioni specifiche su come interagire con lui;
- la seconda dimensione riguarda invece la generalità dei dipendenti e non solo il disabile. Infatti, l’attenzione del modello è focalizzata anche sull’importanza delle
pratiche di GRU per promuovere i valori di collaborazione, tolleranza e sviluppo
per tutta l’azienda, come driver per la piena integrazione del disabile.
Un’analisi più puntuale delle diverse prassi contenute nel modello consente di far emergere
questa doppia dimensione e di individuare quali siano effettivamente le azioni da compiere
all’interno dei sistemi di GRU per il benessere del disabile.
Per quanto riguarda i sistemi di training, essi hanno attratto molta attenzione in letteratura, in quanto sono strumenti efficaci per abolire stereotipi e convinzioni precostituite riguardo al disabile e a come si debba interagire con lui.
Uno studio sulla gestione della disabilità nel settore alberghiero canadese (Groschl, 2007)
ha dimostrato come il training sia una delle pratiche fondamentali per l’integrazione del disabile stesso, perché è in grado di diffondere e far condividere informazione sulla disabilità
e allo stesso tempo è una prassi in grado di porre il disabile nella condizione di acquisire
competenze. Questo studio raccomanda dunque di adottare una sorta di filosofia “educativa” nella definizione dei piani di training, in modo che tutti i dipendenti possano maturare
la consapevolezza del fenomeno della disabilità e partecipare alla sua integrazione in azienda.
Il training emerge come pratica fondamentale, anche quando si parla della formazione del
supervisor (Jones, 1998). Il ruolo del supervisor è una figura critica perché è responsabile
in qualche modo del trattamento che ogni giorno il disabile riceve in azienda, potendo il
supervisor influenzare i comportamenti altrui. In particolare, il supervisor di un team dove
ci sia anche una persone disabile deve essere formato in merito alla legislazione vigente e a
quali siano le politiche dell’azienda in merito alla disabilità della persona; inoltre deve essere in grado di gestire episodi di discriminazione, siano essi più o meno evidenti attraverso la creazione di un micro-clima tollerante e supportivo all’interno del proprio team (Klimoski e Donahue, 1997).
Per quanto riguarda la selezione ed il recruitment, la letteratura indica come criticità fondamentali in questo ambito i seguenti aspetti:
- il recruitment deve essere condotto attivando molteplici canali e in particolar modo
tutti quegli enti collegati specificamente al collocamento del disabile;
- i compiti fondamentali e imprescindibili di una certa attività, rispetto ai compiti
collaterali, devono essere evidenziati e proposti ai candidati disabili;
- occorre prestare attenzione allo sviluppo di strumenti di selezione ad hoc per i disabili;
- il selezionatore deve essere consapevole dell’influenza che il suo atteggiamento ed
i suoi pregiudizi verso il disabile possono avere sul processo di selezione stesso
(Stone and Williams, 1997).
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Su quest’ultimo punto, vale a dire sull’importanza degli atteggiamenti del selezionatore, è
stata dedicata particolare attenzione. Infatti, uno studio condotto sugli atteggiamenti dei
datori di lavoro verso la disabilità, mostra che questi atteggiamenti o pregiudizi hanno
un’influenza sulla decisione di selezionare o meno il disabile. In questo studio, le aziende
che si erano rifiutate di selezionare un disabile erano anche quelle che a priori avevano espresso un giudizio negativo su di essi, come ad esempio la convinzione che avrebbero disturbato il lavoro dei colleghi (Wilgosh e Mueller). In base a questi risultati, è appropriato
che il selezionatore abbia ricevuto una formazione adattata o che abbia già esperienza nella
selezione del disabile in modo che sia consapevole di tutte le distorsioni in cui può incorrere. Infine, è importante che la selezione venga fatta in relazione al profilo di competenza
del disabile, piuttosto che in base ad un obbligo di legge o in base agli stereotipi che influenzano la possibilità di partecipare ad una certa famiglia professionale, come lo stigma
dell’aspetto fisico per tutti quei servizi in cui il personale di front-office sia critico.
Per quanto riguarda i sistemi di valutazione, è stato evidenziato come le valutazioni e le
aspettative sulla performance del disabile siano inficiate dagli stereotipi che
l’organizzazione ha sul disabile e in particolare sulla sua compatibilità con il tipo di lavoro
che gli è assegnato, piuttosto che determinate dalla valutazione delle sue effettive capacità.
A questo proposito, la ricerca ha dimostrato che anche quando informazioni oggettive sul
livello di performance del disabile sono disponibili, i valutatori formano i loro giudizi comunque basandosi sui propri stereotipi sul fit tra il disabile ed il compito che deve svolgere
(Colella and Varma, 1999). Per questo, la letteratura esistente ha posto enfasi sul fatto che
il disabile sia meglio integrato in quelle aziende dove le aspettative sulla performance degli
individui siano esplicite e dichiarate, gli standard di valutazione non siano sottintesi, i feedback sulle attività svolte siano dati con regolarità e in tempo per migliorare il proprio
rendimento (Colella et al., 1997). Infatti, l’assenza di principi di valutazione espliciti e dichiarati può aumentare la probabilità che i valutatori siano portati ad un giudizio distorto, o
perfino, ad applicare criteri di valutazione diversi per i disabili rispetto agli altri dipendenti, mentre l’organizzazione dovrebbe capire che danneggia “il disabile sia quando lo valuta più positivamente di quando dovrebbe per evitare di comunicare feedback negativi, sia
quando lo penalizza perché basa la sua valutazione su stereotipi e pregiudizi” (Colella
and Varma, 1997: 48). Risulta infine importante che, al di là della valutazione del disabile,
gli stessi supervisor delle persone disabili vengano incentivati e valutati in modo da aumentare il loro commitment alla gestione del disabile.
A livello di relazione di gruppo e nel rapporto capo-collaboratore, la letteratura ha sottolineato l’importanza di strutturare interventi di team building, data la rilevanza della dimensione sociale del lavoro per le persone disabili (Liebowitz e DeMeuse, 1982). Per
quanto riguarda in modo specifico la relazione capo-collaboratore, è importante che questa
relazione sia impostata in termini di mentoring o che un mentore sia presente per la persona disabile (Colella et al., 1997; Jones, 1997). Infine, la letteratura ha mostrato come in una
relazione tra capo e collaboratore-disabile, il capo possa essere portato a valutare meno positivamente la relazione, in termini della sua capacità di capire i problemi, i bisogni e il potenziale di apprendimento del collaboratore disabile rispetto a quello abile. Inoltre si è dimostrato che questa distorsione negativa sulla qualità della relazione tra collaboratoredisabile e capo possa essere mitigata dal collaboratore disabile attuando “tattiche di influenza” verso il proprio capo, come ad esempio mostrarsi in accordo con il capo o coglieDivisione Ricerche “Claudio Demattè”
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re l’occasione di rendere un favore (Colella and Varma, 2001). Anche in quest’ottica si
può notare la rilevanza di pratiche di GRU in grado di riconoscere le distorsioni negative
esistenti nel giudizio sulla qualità delle relazioni capo collaboratore, e di promuovere un
ambiente lavorativo che metta il disabile stesso in condizione di minimizzare queste distorsioni.
Sulla base di quest’analisi della letteratura e dal confronto tra essa e le nostre interviste,
abbiamo elaborato la prima parte del nostro questionario relativo allo studio della diffusione delle pratiche di GRU che consentono l’integrazione del disabile in azienda. Come sarà
possibile evincere dalle domande da noi elaborate, ed illustrate nei prossimi paragrafi, esse
si basano sull’indagine di pratiche sia specifiche per la disabilità, sia in grado di influenzare tutti i membri dell’organizzazione in generale; queste pratiche inoltre comprendono tanto il livello organizzativo tanto quelle delle relazioni di gruppo e capo-collaboratore. In
particolare, abbiamo chiamato le pratiche relative ai disabili come “specifiche per la disabilità”, mentre per le pratiche di GRU per tutti i membri dell’organizzazione abbiamo utilizzato il concetto di GRU “basate sul commitment”. Le pratiche di GRU basate sul commitment, sono state, infatti, definite in letteratura come quelle più capaci di determinare un
ambiente lavorativo che favorisca lo scambio, la cooperazione e la fiducia tra i membri
dell’organizzazione (Collins and Smith, 2006) e quindi l’integrazione del disabile.
Anche la creazione di un clima e di una cultura che supportino all’inserimento del disabile è emerso come uno degli elementi del modello dei sistemi di GRU di Klimoski e Donahue. Tuttavia, il clima merita una puntualizzazione a sé stante, in quanto diversi contributi ne hanno enfatizzato l’importanza affinché i comportamenti dei membri
dell’organizzazione siano allineati con gli obiettivi aziendali e (Bowen and Ostroff, 2004)
e, in particolare, garantiscano il corretto inserimento del disabile (Stone and Colella,
1996). Inoltre la creazione di un “mindset”, di un sistema di valori e credenze comuni sul
disabile è stato enfatizzato come elemento cardine nella gestione della disabilità anche nelle nostre interviste.
Il clima organizzativo è dato dall’insieme delle regole, delle norme e dei valori che esprimono la visione che i membri dell’organizzazione hanno sulla loro attività e su come svolgerla (Collins and Smith, 2006). Più in particolare, la ricerca esistente ha evidenziato come
un clima in grado di stimolare la comunicazione, lo sharing delle informazioni tra persone
con e senza disabilità sia un elemento di successo dell’inserimento dei disabili stessi (Stone and Colella, 1996). Inoltre importanza è stata data alla necessità, all’interno del clima,
di avere delle regole, delle politiche formalizzate sulla gestione del disabile: “lo sviluppo
di una strategia proattiva (verso il disabile) necessità di essere supportata dai decisori
chiave nell’organizzazione e deve essere enfatizzata nei documenti aziendali, come il mission statement o la definizione dei valori dell’azienda” (Groschl, 2007: 684). Infine, la letteratura ha enfatizzato come un clima basato sui valori della reciproca accettazione, della
tolleranza, della cooperazione, fiducia siano di beneficio non sono per tutti i lavoratori, ma
in particolare per quelli con disabilità (Morrison and Von Glinow, 1990). Partendo da questa analisi, abbiamo formulato le domande del nostro questionario in modo da vedere
quanto siano diffusi nel nostro campione la presenza di clima specifico per il supporto della disabilità e un clima caratterizzato, più in termini generali, da fiducia, cooperazione e
partecipazione per tutta l’organizzazione.
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E’ da puntualizzare, poi, che il questionario conteneva anche domande relative al benessere organizzativo del disabile. In base alla letteratura (Stone e Colella, 1996), per misurare
il benessere del disabile abbiamo definito delle domande in merito a due fattori fondamentali: la sua integrazione all’interno dell’organizzazione e la sua percezione come risorsa
piuttosto che come ostacolo. L’indagine di questi fattori, ci ha consentito di poter valutare
se effettivamente le prassi di GRU e il clima organizzativo abbiano un effetto positivo
sull’inserimento del disabile in azienda.
1.3. Il ruolo delle pratiche di gestione delle risorse umane e del clima organizzativo
per l’inserimento del disabile: le interviste sul campo.
Come è emerso dal paragrafo precedente, al fine di comporre le domande per il nostro questionario, l’analisi della letteratura è stata affiancata da alcune interviste in profondità ad
alcuni direttori del personale. L’obiettivo di integrare la letteratura e le interviste qualitative è stato quello di definire in modo più puntuale ed approfondito le pratiche di GRU e di
clima e per verificare che queste dimensioni organizzative siano significative per il contesto italiano. Questo paragrafo sarà, dunque, dedicato ad illustrare brevemente come queste
interviste siano state condotte ed utilizzate per la nostra indagine.
Il processo di ricerca, infatti, ha previsto che dopo una prima analisi degli articoli principali sulle dimensioni organizzative in grado di influenzare la gestione del disabile si procedesse all’effettuazione delle interviste. Seguendo le procedure previste per la conduzione
delle interviste semi-strutturate (Flick, 2000), le interviste sono state tutte registrate e sbobinate e l’intervistatore si è premurato di prendere nota di tutti i dettagli rilevanti
dell’intervista, sia quelli relativi alle notizie oggettive fornite dagli intervistati, sia quelli
relativi alle impressioni soggettive sull’intervistato. Dato l’obiettivo di giungere a definizioni più precise e significative delle pratiche di GRU e del clima organizzativo (Flick,
2000), le interviste sono state codificate in tre step, con il supporto del software Atlas.ti.
In primo luogo, la codifica del testo è avvenuta secondo il metodo “line by line”, cioè ogni
periodo è stato analizzato in modo da estrarne dei codici, cioè dei concetti sintetici, che ne
riassumessero il significato. In secondo luogo, i codici sono stati ulteriormente raggruppati
in aree di significato più ampie che ne dessero una rappresentazione più sintetica ed efficace. Infine, questi stessi codici sono stati raggruppati nelle due famiglie delle prassi di GRU
e del clima.
La figura 2 fornisce un esempio di quale sia il risultato della codifica delle interviste. La
figura è relativa ai codici che rappresentano alcuni esempi di pratiche di GRU che gli intervistati hanno descritto come importanti per la gestione del disabile. Queste dimensioni e
la relativa rappresentazione grafica provengono dai tre step di codifica sopra descritti e
mettono in luce che, ad esempio, gli intervistati ponevano una certa enfasi sull’esistenza di
piani di mentoring e tutoring, sulla disponibilità di personale esperto nella gestione della
disabilità, sulla rilevanza di esplicitare in maniera chiara e formale i criteri di valutazione e
di sviluppo.
Figura 2. Un esempio di codifica delle interviste attraverso il software Atla.ti
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Andando più nello specifico di ciascuna pratica, la codifica delle interviste ha enfatizzato
che per le pratiche di GRU relative al training, le dimensioni importanti sono relative alla
diffusione di informazioni sulla disabilità, su come gestirla e alla capacità di superare pregiudizi e stereotipi sul disabile.
Per quanto riguarda il recruitment e selezione, i concetti emersi sono stati relativi alla necessità di attivare diversi canali di recruitment, tra cui le università e le ASL e di avere personale con competenze specifiche per la selezione del disabile.
Per quanto riguarda il clima, gli intervistati hanno posto molta enfasi sulla necessità che
l’ambiente organizzativo fosse in grado di supportare l’impegno del top management nella
gestione concreta della disabilità e che l’azienda includesse il tema della disabilità nei suoi
obiettivi e orientamenti strategici.
Come questi esempi dimostrano, le nostre interviste ai direttori del personale hanno confermato la visione e dato supporto al fatto che il disabile richieda in linea sia una gestione
specifica, sia che tutti i dipendenti siano allineati agli stessi valori e trattati con pratiche di
gestione omogenee. In particolare, queste interviste hanno permesso di raggiungere due
obiettivi. In primis, hanno avvalorato l’ipotesi che siano le GRU ed il clima ad avere un
ruolo strategico. In secondo luogo hanno permesso di specificare, con un maggior grado di
precisione cosa sono le pratiche di GRU e il clima organizzativo orientate alla disabilità e
hanno quindi garantito una formulazione molto precisa, e significativa per il nostro campione, delle domande contenute nel nostro questionario.
1.4. Il processo di ricerca attraverso il questionario ed i risultati
Come sopra evidenziato, il primo passo di questa fase della ricerca è stato definire le prassi
di GRU e di clima organizzativo in grado di facilitare l’integrazione e il benessere organizzativo del disabile. Il secondo passaggio della ricerca è consistito nell’elaborazione di un
questionario che coprisse tutte le prassi evidenziate, in modo da poterlo sottoporre al noDivisione Ricerche “Claudio Demattè”
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stro campione di aziende. Le domande sono state tutte formulate chiedendo ai rispondenti
il valutare il loro grado di accordo/disaccordo su una scale da 1 a 5.
Per avere un’ulteriore garanzia di validità del questionario, una volta redatto, questo è stato
sottoposto ad alcuni direttori del personale in modo che potessero darci dei feedback sulla
sua comprensibilità; abbiamo inoltre dato alle domande un ordine completamente casuale,
in modo da evitare alcune delle distorsioni più comuni che si verificano nella compilazione
di una survey di questo genere.
Il campione per questa indagine era composto da 400 aziende, di medio - grandi dimensioni, operanti sul territorio italiano. A tutte queste aziende è stato inviato il questionario via
mail con una covering letter che presentasse la ricerca, la committenza e garantisse
l’anonimato ai rispondenti. Le aziende che non avessero risposto entro le prime tre settimane dall’invio, sono state ricontattate telefonicamente e, in caso di richiesta, è stato loro
rimandato il questionario anche via fax. Un secondo recall telefonico è stato fatto a distanza di un’altra settimana. Il tasso di risposta totale è stato intorno al 15%, tasso da interpretare anche alla luce del fatto che la gestione della disabilità è un argomento delicato in termini etici e legali.
Dall’analisi dei dati che abbiamo raccolto, il quadro complessivo rivela una certa corrispondenza tra il modo che le aziende hanno di gestire la disabilità e il disagio e
l’insoddisfazione che i disabili stessi hanno usato per descrivere la loro vita lavorativa.
Diffusione delle pratiche di gestione risorse umane specifiche per la disabilità
La parte del questionario relativa alla diffusione delle pratiche di GRU per la disabilità includono domande in merito:
• al fatto che il recruitment del disabile avvenga attivando diversi canali di selezione (tra
cui le università, la provincia, gli enti sanitari specializzati);
• alla possibilità che il processo di selezione del disabile sia svolto da una persona esperta in quell’ambito e che quindi la selezione preveda competenze e procedure specifiche
e diverse dalla selezione della persona non disabile; al fatto che il disabile venga selezionato in base alle sue competenze;
• la possibilità che un membro della funzione del personale funga da mediatore tra il disabile e il manager di linea nel processo di selezione; la presenza di programmi di tutoring e mentoring specifici per il disabile;
• la presenza di un’attività di formazione e di condivisione delle informazioni che fosse
in grado di “educare” le persone non disabili ad interagire con i disabili e a superare i
loro stereotipi riguardo ad essi.
Come si evince dal grafico sottostante, per esempio, il 14% delle aziende adotta programmi di formazione e informazione per aiutare i dipendenti ad interagire con il disabile, il
19% delle aziende ha come tutor per il disabile una persona con esperienza in questo ambito, solo il 25% delle aziende seleziona il disabile in alle sue competenze.
E’ pur vero che più del 60% del campione attiva molteplici canali di recruitment e usa la
funzione del personale come mediatore nel processo di selezione. Tuttavia, essendo il nostro campione composto da aziende di medio – grandi dimensioni, questi dati potrebbero
essere attribuiti alle dimensioni aziendali, piuttosto che alla presenza di politiche gestionali
per la disabilità. Infatti, è più probabile che aziende di grandi dimensioni abbiamo come
prassi l’utilizzo di molti canali di recruitment, indipendentemente dalla loro filosofia di gestione del disabile. La riflessione che ne scaturisce è che gli investimenti specifici nella ge-
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stione della disabilità, come l’assunzione di selezionatori e tutor che abbiano maturato esperienza in questa attività o lo sviluppo di piani di formazione ad hoc, sono ancora poco
diffusi. Essi richiedono, infatti, di dedicare commitment economico e decisionale al benessere di una parte non maggioritaria della popolazione organizzativa, i disabili, e i cui benefici non sono ancora provati.
Figura 3. La diffusione delle pratiche di GRU
Diffusione delle pratiche di GRU basate sul commitment
1
0,9
0,8
0,7
0,64
0,64
0,6
0,5
0,42
0,41
0,4
0,32
0,3
0,25
0,19
0,2
0,14
0,1
0
intermediazione diversa selezione molteplici canali
HR
per abili e disabili
di recruitment
selezionatore
esperto
formazione per
superare
stereotipi
tutor esperto
selezione basata
sulle competenze
formazione per
interagire coi
disabili
La presenza di pratiche di GRU basate sul commitment è cruciale nella discussione sulla
disabilità, perché esse sono in grado di influenzare l’inserimento del disabile, influenzando
le capacità e i comportamenti di tutti i membri dell’organizzazione.
Gli items del questionario relativi alle pratiche di GRU per il commitment includono domande relative al fatto che la selezione dei dipendenti avvenga in relazione alla loro fit rispetto alla generalità dei valori aziendali e sulle loro possibilità di sviluppo piuttosto che
esclusivamente sulle competenze attuali; alla possibilità che esistano piani di tutoring
anch’essi orientati allo sviluppo del potenziale; all’esistenza di interventi di formazione in
grado di costruire la capacità dei dipendenti di lavorare in gruppo.
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Figura 4.Le pratiche di GRU basate sul commitment
1,00
0,90
0,80
0,70
0,61
0,53
0,60
0,50
0,47
0,41
0,40
0,30
0,20
0,10
0,00
tutoring basato
sul potenziale
selezione basata
sul fit con i valori
formazione per
team building
selezione basata
sul potenziale
Rispetto alle pratiche GRU specifiche per la disabilità, le pratiche GRU basate sul commitment risultano più diffuse nel nostro campione. Per esempio si osserva che selezionare i
dipendenti sulla base del loro potenziale e della loro affinità generale con l’organizzazione
risulta essere diffuso rispettivamente nel 61% e 53% delle aziende intervistate.
Quindi, per quanto non siano presenti investimenti specifici per la disabilità, le aziende del
nostro campione mostrano una discreta diffusione di quelle pratiche di GRU che sono in
grado di beneficiare l’inserimento del disabile, attraverso il coinvolgimento della generalità dei membri dell’organizzazione.
Diffusione del clima organizzativo per la disabilità
Le pratiche sottostanti il clima organizzativo orientato alla disabilità comprendono
l’esistenza di politiche formalizzate per la gestione del disabile; il fatto che il disabile sia
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integrato sia nelle attività lavorative che extra-lavorative; il fatto che al top management
siano dati i giusti incentivi perché investano tempo, dedizione e siano in grado di mettere
in atto azioni concrete per il benessere del disabile. In particolare, la nostra indagine rivela
che le prassi meno diffuse sono quelle legate all’incentivazione dei manager ad investire
tempo ed energia nella gestione del disabile, infatti, solo 12% dichiara di avere un clima in
grado di incoraggiare i manager ad investire risorse nella gestione della disabilità.
Inoltre, solo il 27% delle aziende dichiara di avere politiche formalizzate per la gestione
del disabile, nonostante che la rilevanza di questa prassi nella letteratura esistente.
Figura 5. Il clima organizzativo e la disabilità
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1
0,9
0,8
0,68
0,65
0,7
0,6
0,5
0,39
0,4
0,3
0,27
0,2
0,12
0,1
0
esistenza di politiche
formali per la disabilità
integrazione del disabile
nelle attivitità lav.
top management
dedicato ad azioni
concrete
top managemet
garantisce tempo e
dedizione al disabile
integrazione del disabile
nelle attività extra
lavorative
Diffusione del clima orientato alla fiducia, alla collaborazione e alla comunicazione
All’interno delle prassi per la creazione di un clima orientato alla fiducia, alla collaborazione e alla comunicazione, coerentemente con la letteratura abbiamo incluso domande riguardanti la presenza di un ambiente in grado di:
• promuovere la partecipazione ai processi decisionali, alla creazione di informazioni,
alla comunicazione;
• di supportare la libertà di espressione, la correttezza nei rapporti di lavoro;
• di incoraggiare i membri dell’organizzazione a fare più di quanto richiesto.
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Figura 6. La fiducia, la collaborazione e a comunicazione
1,00
0,90
0,80
0,70
0,61
0,60
0,54
0,53
0,47
0,50
0,41
0,41
0,39
0,40
0,30
0,20
0,15
0,10
0,00
si promuove la
comprensione tra
colleghi
si fa più di quanto
richiesto
si promuove la
partecipazione alle
decisioni
si promuove il
valore della
condivisione
si incoraggia la
partecipazioni
alleinformazioni
si pomuove la
correttezza nelle
relazioni
libertà di
espressione
si incoragia la
comunicazione
Solo il 15% dichiara di avere un clima in grado di supportare la partecipazione nei processi
decisionali, circa il 40% delle aziende intervistate dichiara di avere un clima organizzativo
che favorisce la condivisione di esperienze, la correttezza, il “fare più di quanto richiesto”,
mentre più del 63% dichiara di favorire la libertà di espressione nelle relazioni tra colleghi.
Un’analisi globale su questi risultati ci porta ad osservare che il clima in grado di supportare le relazioni di fiducia e correttezza ‘tra pari’ sembra quello più diffuso, rispetto a quello
in grado di influenzare le relazioni capo-subordinato, sia per gli abili che per i disabili. Infatti, si osserva che l’integrazione del disabile nelle relazioni di lavoro ed extra-lavorative,
che sono solitamente di responsabilità dei pari, è molto diffusa. Allo stesso tempo, il comDivisione Ricerche “Claudio Demattè”
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mitment del top management alla causa del disabile è molto poco presente. Inoltre mentre
la condivisione, la comunicazione tra colleghi è abbastanza diffusa, la partecipazione ai
processi decisionali che implica il coinvolgimento di tipo “verticale” è poco presente.
Questa osservazione, unita alla scarsa presenza di politiche formalizzate per il disabile,
sembra essere indice di uno scarso investimento nella responsabilizzazione formale sulla
gestione del disabile, che appare più lasciata al dominio delle relazioni informali tra pari.
La percezione del disabile
Dopo aver definito le pratiche di gestione RU, abbiamo cercato di capire come le aziende
del nostro campione percepissero il disabile, con l’obiettivo di chiarire se la disabilità sia
percepita come una risorsa in grado di contribuire ed arricchire la vita e i risultati aziendali, oppure come un ostacolo, un impedimento allo svolgimento delle attività. Chiarire il
contenuto della percezione del disabile in base al frame della risorsa/ostacolo risulta importante, proprio perché gli stereotipi, le costruzioni cognitive sul disabile hanno un ruolo
fondamentale nel determinarne l’integrazione e il modo cui l’azienda si approccia alla sua
gestione (Stone and Colella, 1996).
Sulla base di queste considerazioni, abbiamo elaborato una serie di domande sulla percezione che includono il grado in cui il disabile e la sua attività in azienda siano percepiti:
come la possibilità di ottemperare ad un obbligo di legge; una fonte di entusiasmo e passione al lavoro; come un’occasione di apprendimento; come la possibilità di migliorare la
collaborazione, l’armonia nelle relazioni e la concretezza nello risoluzione dei problemi;
come la possibilità per l’azienda di ottenere un ritorno di immagine.
Alcuni dati significativi della nostra indagine sono che il 20% delle aziende dichiara di
percepire l’assunzione del disabile come un obbligo di legge, il 38% percepisce
l’assunzione del disabile come positiva in termini di ritorno di immagine, mentre la diffusione della percezione del disabile come risorsa organizzativa (come stimolo
all’apprendimento, alla collaborazione) è ancora poco diffusa.
La riflessione che emerge da questi dati è che il disabile sia ancora percepito secondo un
frame cognitivo di tipo “transazionale”, nell’ottica di uno scambio, in termini di immagine
e di obblighi legali, piuttosto che di un reciproco beneficio, in termini di possibilità di accrescere, grazie al disabile, nuove capacità e nuovi valori.
Figura 7. La percezione del disabile
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1
0,9
0,8
0,7
0,6
0,5
0,38
0,4
0,31
0,3
0,24
0,21
0,27
0,24
0,2
0,2
0,1
0
obbligo di legge
entusiaso e
passione
apprendimento
armonia nei
rapporti
immagine
collaborazione
concretezza
1.5. Il modello di relazioni e il suo test empirico
Dopo aver definito la diffusione delle prassi di GRU e di clima organizzativo nel nostro
campione, abbiamo elaborato, sempre sulla base dei contributi teorici analizzati, un modello di relazioni tra le prassi organizzative e l’integrazione e la percezione del disabile.
Il test del modello è finalizzato a chiarire se effettivamente investire nelle prassi organizzative sia una modalità efficace per assicurare la corretta gestione del disabile e rappresenta
un’innovazione nel contesto della ricerca manageriale sulla disabilità, che non ha ancora
testato, su larga scala, l’esistenza effettiva di queste relazioni.
Figura 8. Il modello di relazioni
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Sistemi di GRU
Clima
SGRU orientati
al Commitment
Clima orientato
alla collaborazione,
fiducia, eguaglianza
SGRU per la
disabilità
Percezione del
disabile
come risorsa
Clima orientato
alla disabilità
Benessere del
disabile
(integrazione,
soddisfazione)
Le relazioni da noi analizzate sono rappresentate nella figura 8. Il nostro obiettivo è chiarire se effettivamente le pratiche di GRU e il clima organizzativo, nelle accezioni da noi presentate nei precedenti paragrafi, abbiano un impatto positivo sulla percezione del disabile e
sul suo benessere organizzativo. In particolare, abbiamo cercato di capire se, come assunto
da diversi modelli teorici (Bowen and Ostroff, 2004), le pratiche di GRU influenzino la gestione del disabile attraverso la creazione di un clima organizzativo orientato alla fiducia e
alla disabilità. La nostra analisi è stata condotta con il software statistico “Stata” e la procedura utilizzata è stata quella indicata in letteratura per questo tipo di analisi.
I nostri risultati hanno confermato che esiste effettivamente una relazione positiva tra le
prassi organizzative considerate ed il benessere e la percezione positiva del disabile. Inoltre confermano che le pratiche di GRU influenzano benessere e percezione, non direttamente, ma attraverso la creazione di un clima organizzativo orientato alla fiducia e alla disabilità. In particolare dalle nostre analisi emerge che è, in particolare, la creazione di prassi di GRU orientate al commitment per tutti i dipendenti che garantisce la creazione di un
clima adeguato e il benessere del disabile.
Più nel dettaglio, la tabella 1 mostra l’effetto delle pratiche di GRU e del clima organizzativo (nelle due tipologie sopra menzionate) sul benessere organizzativo del disabile.
Tabella 1. Effetti delle pratiche di GRU e del clima sul benessere del disabile
** indica che la variabile è statisticamente significativa
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Come si vede dal Modello 1, le pratiche di GRU orientate al commitment hanno un effetto
positivo e significativo sul benessere del disabile, mentre le pratiche di GRU orientate alla
disabilità hanno un effetto positivo, ma non statisticamente significativo.
Le due dimensioni di clima sono hanno entrambi un effetto positivo e statisticamente significativo (modello 2).
I risultati riassunti nel modello 3 ci mostrano che la relazione tra le pratiche di GRU e il
benessere del disabile non è diretta, ma passa attraverso la creazione di un clima organizzativo favorevole. Infatti, come previsto dalla letteratura, quando il clima e le pratiche di
GRU sono considerate nello stesso modello, le pratiche di GRU perdono di significatività,
effetto che la letteratura considera a supporto del fatto che le pratiche di GRU influenzino
il benessere del disabile attraverso il clima organizzativo.
La tabella 2 conferma l’esistenza dello stesso trend di relazioni, quando si considera
l’effetto delle pratiche di GRU e di clima sulla percezione del disabile come risorsa piuttosto che come ostacolo.
Tabella 2. Effetti delle pratiche di GRU e di clima sulla percezione del disabile come risorsa
** indica che la variabile è statisticamente significativa
Questi risultati inducono diverse riflessioni e prescrizioni di comportamento.
La prima considerazione è che un’efficace gestione del disabile passa per la creazione sia
di un clima supportivo della disabilità, sia di un clima organizzativo orientato alla fiducia e
alla collaborazione per tutti i dipendenti. Le aziende che vogliano assicurare il corretto inserimento del disabile potranno quindi usare, tra le loro leve, il monitoraggio del clima organizzativo e la promozione di quelle iniziative che siano in grado di sostenerlo. Tra queste iniziative, rientra, in accordo ai nostri risultati, l’investimento in pratiche di GRU basate sulla costruzione del commitment verso l’organizzazione e quindi in grado di dare priorità a dimensioni come la consonanza di valori tra l’individuo e l’organizzazione, al potenziale di sviluppo dell’individuo, alla sua capacità e di crescita e di instaurare relazioni proficue all’interno dell’organizzazione.
1.6. Conclusioni
La ricerca condotta per analizzare il punto di vista delle aziende sulla gestione della disabilità ha consentito di enucleare quali sono le prassi organizzative fondamentali per la gestione del disabile, di monitorarne la loro diffusione nel tessuto delle aziende italiane e di
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dare valenza empirica al fatto che la dimensione organizzativa possa effettivamente influenzare in modo positivo la gestione e l’integrazione del disabile in azienda.
I risultati del nostro questionario hanno dimostrato che le prassi organizzative in grado di
promuovere l’integrazione del disabile non sono ancora diffuse in modo capillare nel tessuto italiano. Per quanto si sia riscontrato un certo avanzamento per quanto riguarda alcune
pratiche di GRU come il recruitment o la selezione, la gestione del disabile sembra ancora
un fenomeno demandato alla responsabilizzazione dei “colleghi” e del “gruppo di lavoro”
del disabile, mentre manca ancora una responsabilizzazione formale del top management e
incentivi sostanziali per esso che possano assicurare al disabile una gestione coerente e
continuativa. Inoltre le aziende riconoscono solo raramente l’importanza della gestione
della disabilità all’interno dei propri valori e del loro orientamento strategico.
Infine, il problema del superamento degli stereotipi nei confronti della disabilità non ha
ancora ricevuto un’attenzione e interventi organizzativi sufficienti, nonostante il problema
della stereotipizzazione del disabile sia uno dei maggiori ostacoli al suo inserimento nella
vita lavorativa (Stone and Colella, 1997).
La nostra indagine conferma che i passi da compiere sono nella direzione della creazione
di un ambiente organizzativo permeato dai valori della fiducia, della cooperazione, del
commitment e, in particolar modo, in grado di supportare la responsabilizzazione formale
della gestione del disabile.
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2. I PERCORSI DI GESTIONE DELLA MALATTIA
2.1. Il campione, la metodologia e le aree di indagine
In questa parte della ricerca sono stati intervistati gli attori aziendali che, con ruoli e finalità differenti, sono coinvolti nel processo di gestione della malattia: amministratori delegati,
direttori del personale, capi linea, addetti alla segreteria legale, psicologi aziendali.
Si è scelto di indagare aziende di grandi dimensioni già sensibili sul tema della diversità:
nonostante ciò, durante la costruzione del campione di indagine si sono evidenziate forti
difficoltà nel trovare realtà aziendali e testimoni disponibili ad essere intervistati in profondità sull’argomento della malattia: basti pensare che sono state contattate 20 aziende,
ma solo 8 hanno accettato di supportarci nella ricerca. Questa difficoltà, che costituisce un
segnale implicito della scarsa disponibilità delle aziende rispetto alla discussione sul fenomeno, non ci ha quindi agevolato nella raccolta di casi esemplari e di buone prassi.
Per quanto riguarda la metodologia, è stato utilizzato un protocollo di intervista semi strutturata con domande aperte, che è servito come traccia comune delle interviste.
Le aree indagate sono state tre:
• le risposte organizzative: quali sono le prassi più o meno codificate che le aziende
tendono ad utilizzare nella gestione della malattia?
• la relazione individuo/organizzazione: come avviene la comunicazione della malattia
da parte del lavoratore? Come reagisce il contesto relazionale dei colleghi e dei capi?
Ci sono impatti sulla performance lavorativa?
• la ristrutturazione del sé: dopo aver vissuto la malattia, quali cambiamenti avvengono a livello soggettivo? Cambia ed in che modo il contratto psicologico che lega il lavoratore colpito da malattia grave o invalidante e la sua sfera professionale?
Figura 1. Le aree di indagine
LE RISPOSTE ORGANIZZATIVE
LA RELAZIONE INDIVIDUO/ ORGANIZZAZIONE
LA RISTRUTTURAZIONE
DEL SE’
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2.2. I casi di malattia
Un primo elemento oggettivo lampante attestato dai dati che le aziende di volta in volta ci
hanno comunicato, è che i casi di malattia e/o patologia grave con tendenze invalidanti sono numericamente pochi. Una delle possibili spiegazioni di questa evidenza è da rintracciarsi nel fatto che “in generale se si può, si cerca di non dire nulla alla azienda”; oltre a
questo, la stragrande maggioranza di comunicazioni che arrivano alle aziende riguarda malattie prettamente fisiche: “alcune malattie non vengono dichiarate…alcolismo, droga e
tutte le dipendenze non vengono rese note, sia nel caso in cui riguardino direttamente i dipendenti, sia nel caso in cui siano colpiti i familiari più vicini”.
L’esiguità dei casi trova poi un’ulteriore spiegazione nella dismissione da parte di molte
grandi aziende dei reparti produttivi, ove in passato si registrava il maggior numero di incidenti: “la nostra azienda, sino a quattro o cinque anni fa, aveva alle proprie dipendenze
molti operai che lavoravamo nei laboratori con turni sulle 24 ore. Allora, l’incidenza sulle
giornate di assenza per malattia era veramente molto elevata. Successivamente, con la
chiusura dei laboratori, la media si è abbassata per il personale restante, nella maggior
parte impiegatizio”.
2.3. Le risposte organizzative
La gestione delle assenze e dei permessi
La prima problematica che l’azienda si trova a dover gestire riguarda la gestione delle assenze e dei permessi che, inevitabilmente e necessariamente, la persona che si ‘scopre’ malata è portata a richiedere.
Per quanto concerne i permessi o le assenze giornaliere, per lo più relativi al ricovero o alla
terapia, non sussistono particolari problemi organizzativi in quanto generalmente l’azienda
ha il tempo per potersi organizzare al suo interno.
La maggiore criticità riguarda invece le assenze, in particolare quelle “dell’ultimo minuto”
oppure quelle “in cui la persona sta a casa per 3 giorni, poi ritorna in ufficio per poi stare
a casa per altri 3”. L’imprevedibilità, infatti, non consente alle aziende di potersi attrezzare con sufficiente anticipo per tamponare l’assenza.
Infine, nei casi in cui si rende necessaria una assenza prolungata nel tempo, l’azienda può
rispondere in diversi modi, e cioè attraverso:
• il ridimensionamento delle attività: “nei casi in cui i dipendenti ne hanno fatto esplicita richiesta si è valutato assieme al medico aziendale un’altra posizione o un orario
diverso. Per esempio, si tende a sollevare il dipendente dal turno notturno”;
• la ricollocazione delle attività sui colleghi “che spesso è più gradita al malato. Tutto
sommato, la situazione informale che va a ricollocare le attività sui colleghi, di fare
rete e di coprire quanto possibile, è la situazione più tollerata”;
• l’assunzione di personale con contratto a tempo determinato;
• la dotazione del cellulare con scheda aziendale: nel caso di un dipendente con la moglie malata di tumore, l’azienda, su esplicita richiesta del lavoratore, lo ha dotato di un
telefonino con la scheda aziendale: “ciò ha consentito al nostro dipendente di continuare a seguire una grande commessa con un importante cliente”;
• l’utilizzo della posta elettronica e l’invio della documentazione aziendale per tenere
aggiornate le persone anche da casa.
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Le prassi codificate
Dalle interviste realizzate emerge che non esistono meccanismi di intervento strutturato
nella gestione della malattia: “Non esistono prassi ma la gestione ‘caso per caso’ sia per
eventi di ‘malattia’ che colpiscono i dipendenti che per la cura dei loro familiari”.
In una multinazionale americana esistono delle linee guida codificate per la Direzione del
Personale per la gestione delle persone ‘malate’ che si assentano per lunghi periodi; tra
queste:“non si possono cambiare né reparto, né attività; la sua attività viene eventualmente e temporaneamente riassegnata ad un collega; non si può dare una valutazione delle
prestazioni, performance, potenziale, etc. negativa durante il periodo di malattia; il reinserimento viene gestito attraverso l’eventuale dotazione di strumenti tecnologici di supporto o il ridisegno delle attività concordato insieme alla persona”.
In generale, data la variabilità delle situazioni, il tema è affidato ad una gestione ‘ad personam’.
Esistono invece alcune prassi più generali sulla cura dei dipendenti:
• campagne di prevenzione interne che facilitano i dipendenti da un punto di vista economico e logistico;
• la presenza di un medico aziendale e/o di uno psicologo che spesso riveste un ruolo
fondamentale sia sotto un profilo di aiuto concreto che di sostegno umano;
• il rimborso di spese mediche: “intorno alla metà del 1999 abbiamo stipulato una assicurazione di rimborso spese mediche che dà la possibilità ai dipendenti di integrare il
servizio sanitario nazionale: rimborso di visite specialistiche, ricoveri ospedaliero
(diaria pubblico o polizza che copra interventi nel privato fino ad un certo tetto di spesa), rimborso completo del ticket senza franchigia. Tutto ciò è esteso all’intero nucleo
familiare…Normalmente questi sono benefit dei dirigente qui estesi a tutta la popolazione dipendente”;
• la polizza vita: “In azienda, sin dagli anni settanta è stata introdotta la polizza vita solo per gli operai. Intorno agli anni ottanta è stata allargata a tutti i dipendenti.
L’azienda si fa carico di una annualità di retribuzione del dipendente in caso di decesso. Il dipendente può integrare con contributo (non superiore a 0,25 per mille mensile)
per prolungare le annualità a due o tre anni di stipendio. I beneficiari sono decisi
dall’assicurato”;
• supporti economici: “la nostra azienda ha sempre affrontato queste situazioni cercando di salvaguardare, oltre al posto di lavoro, anche la retribuzione. Per legge,
l’azienda, trascorsi sei mesi di assenza dal lavoro, ha l’obbligo di mantenere il posto
lavoro, ma non è più obbligata a corrispondere la retribuzione. In tutti questi anni, noi
non ha mai seguito queste prescrizioni ed abbiamo sempre corrisposto al dipendente la
retribuzione fino alla guarigione o, purtroppo, fino al decesso”;
• fondi: in una grande multinazionale, per volontà dell’amministratore delegato, è stato
istituito un fondo ad hoc da utilizzare per aiutare colleghi o familiari di colleghi in difficoltà soprattutto legate alle malattie.
Esiste inoltre un gruppo di ‘risposte organizzative’ che non sono codificate né formalizzate
ma sono invece lasciate alla pura informalità: si parla a questo proposito di accoglienza,
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solidarietà, supporto che vengono offerti spontaneamente da parte dei colleghi o dei capi
alle persone malate.
2.4. La relazione individuo/organizzazione
La comunicazione della malattia
Appena una persona capisce di essere malata, il primo comportamento nei confronti della
azienda è quello di evitare di dire e di comunicare la cosa: “la persona preferisce aspettare, attendere di sapere qualcosa in più sul decorso della propria malattia, vedere se ce la
può fare ugualmente a portare avanti le proprie attività e compiti”.
Solamente quando la malattia si complica, la persona decide di comunicare la situazione in
prima battuta ai responsabili e capi diretti; in un secondo momento, viene fatta la comunicazione ufficiale alla direzione del personale: “la mia direzione del personale ne viene a
conoscenza perché riceve le certificazioni mediche”.
La relazione con capi e colleghi
“Un comportamento tipico del malato è quello di non osare chiedere aiuti agli altri…non
si vuole pesare sugli altri, per cui solo in caso di forte necessità si chiede una mano ai colleghi”.
Il supporto morale in generale non viene negato a nessuno anche se da più interviste emerge chiaramente che è più facile offrirlo e viene più spontaneo nei confronti di chi innanzitutto lo chiede direttamente o fa comunque capire di volerlo e a chi ‘si fa voler bene’: “è
più facile supportare una persona simpatica”; “si aiuta più volentieri chi si dimostra cordiale”; “se la persona è angosciante viene evitata”; “la persona in questione si fa voler
bene molto facilmente per cui da parte mia e dei colleghi non è difficile entrare in relazione positiva con lei”.
“Al figlio di una nostra collega è stato diagnosticato un sarcoma tra i più aggressivi. La
collega è una persona molto forte e tenace che non ha mollato il lavoro se non quando ne
aveva necessità assoluta. A livello umano tra i colleghi vi è un rapporto affettivo molto
forte…si è pianto insieme a lei più e più volte…”
Solamente in un caso è emerso un atteggiamento di ostilità e di poca collaborazione da
parte di un capo: “Una collega piuttosto giovane, con una malattia oncologica, dopo qualche mese di assenza voleva rientrare in servizio nonostante non avesse ancora terminato
le cure. Il Dirigente non voleva concederle un rientro graduale. Lei ha contattato le psicologhe aziendali ed ha così potuto ricevere tutte le informazioni necessarie per un rientro
graduale di 5 ore al giorno con assenze per i periodi di cura chemioterapia. È stata anche
rassicurata per quanto riguarda le assenze nelle giornate in cui non se la sentiva di venire
al lavoro. Il Dirigente è stato poi informato sui diritti che spettavano alla dipendente”.
Gli impatti sulla performance lavorativa
Rispetto alla performance lavorativa si è riscontrata una difficoltà diffusa nella sua misurazione oggettiva: quello che si riscontra solitamente è nel breve, una minore lucidità ed una
maggiore stanchezza fisica e mentale.
In generale poi si evidenziano alcuni comportamenti che accomunano le persone che riescono a guarire dalla malattia e che quindi rientrano nella propria posizione organizzativa:
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tra questi, una minore dedizione temporale e minore focalizzazione mentale sull’attività
lavorativa.“Prima il lavoro era per lei prioritario ed aveva una dedizione molto elevata…
ad esempio, era disposta senza alcuna richiesta o pressione a sacrificare alcuni aspetti
della sua vita privata, adesso che è rientrata questo non avviene più. Non è solo una questione di ore spese è anche una questione di focalizzazione mentale. Ho avvertito il passaggio dalla passione per il lavoro ad una normale esecuzione del lavoro”. Ed ancora: “il
lavoro non è più al primo posto…non si pensa più alla carriera ma al lavoro come necessità economica e psicologica”
Solo in un caso, il diretto responsabile di una persona malata rientrata al lavoro, dichiara di
avere notato un miglioramento in termini di capacità: “Ha una capacità di relativizzare
pazzesca, attacchi di isteria per questioni di lavoro di certo non ci sono più. E’ diventato
una persona molto equilibrata e stabile. Questo lo trasmette a tutti quelli che gli stanno
intorno…maggiore equilibrio e stabilità anche con i clienti”.
2.5. La ristrutturazione del sé
Durante la malattia: la motivazione a rimanere
Due i sentimenti che i malati lasciano trasparire ai diversi interlocutori aziendali: il primo è
la voglia di esserci, di continuare ad esserci: il lavoro per molti diventa un antidoto alla
malattia, una evasione: “venire al lavoro, a detta degli stessi malati, è un modo per non
pensare alla malattia: a casa la mente si fissa troppo, come un tarlo, sulla malattia”; “il
dipendente ha espresso la volontà a rimanere molto legata alla realtà del lavoro, credo
per aggrapparsi di più alla vita” .
Il secondo sentimento più diffuso, strettamente collegato al primo, è il timore di essere sostituiti: “nel caso di una nostra dipendente, la grave patologia diagnosticata e la conseguente previsione di assenza dal lavoro prolungata nel tempo aveva indotto l’azienda ad
organizzarsi per una totale sostituzione. Avendo l’intervento chirurgico scoperto una situazione di minore entità, la persona è rientrata dopo tre settimane usufruendo solo dei
giorni di permesso per la terapia…E’ un po’ un paradosso: l’azienda in questo caso si era
mossa in modo più strutturato per far fronte alla situazione, ma la voglia di essere presente, di esserci, di riprendere il proprio lavoro dell’interessata ha vanificato la possibilità
data di restare a casa. Posso supporre che possibili cause di tale comportamento possano
essere il timore, il fastidio di vedere una persona che potenzialmente poteva sostituirla”.
Il rientro: cambia il contratto psicologico
Generalmente, l’aver vissuto una esperienza così pesante dal punto di vista psicologico,oltre che fisico, come quello della malattia ha delle profonde ripercussioni sulla propria
identità: si parla a questo proposito di una revisione del contratto psicologico che lega la
persona al proprio lavoro, revisione che può essere più meno complessa, e più o meno duratura nel tempo.
Tra gli effetti di questa ristrutturazione della propria identità, ci può essere la richiesta di
part time anche per brevi periodi, richiesta dettata talvolta per favorire un reinserimento
graduale al lavoro dettato all’esistenza di problemi fisici legati ai postumi della malattia,
oppure in altri casi per un cambio di atteggiamento più generale nei confronti della vita.
“Una nostra dipendente a mio diretto riporto, al rientro al lavoro dopo la malattia, ha
cambiato atteggiamento, direi verso la vita…mi ha detto chiaramente che la sua scala dei
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valori, dopo questa esperienza, era cambiata e che voleva lavorare a part time. La vita
privata in generale, ma in particolare la sua famiglia e i figli avevano acquisito molta più
importanza e priorità di quanto non se ne rendesse conto prima... La sua richiesta non è
stata subito accolta perché non era chiaro se il ruolo permettesse questa soluzione. Trascorso un anno, capito che organizzativamente poteva funzionare, è stato concesso un
part-time di tipo orizzontale di sei ore al giorno”.
“Dopo essersi confrontati con la morte i valori cambiano e io credo in modo credo definitiva. In questi due anni e mezzo trascorsi dal suo rientro è rimasta stabile e io credo sia
irreversibile”.
Un lavoratore che è stato colpito da una malattia che ne ha compromesso la deambulazione, ha richiesto la possibilità di telelavorare: “per lui è fondamentale continuare a lavorare, per cui ci stiamo pensando…Stiamo studiando quanto necessario a livello informatico
e la scelta delle attività telelavorabili”.
Un dato interessante che abbiamo riscontrato in diverse realtà aziendali è che molte persone rientrate dalla malattia, diventano un punto di riferimento importante per colleghi che si
trovano a vivere la medesima situazione: “adesso che è rientrata, ha acquisito un ruolo di
‘mamma’ nei confronti di altri colleghi che prima non aveva…molte persone malate anche
con malattie meno gravi vengono da lei a trovare confronto. Questo è un fenomeno chiaro,
e lei sembra svolgere questo ruolo molto volentieri”. Si crea così attorno ad essi una rete
di auto-aiuto che rimane però, ancora una volta, a livello informale.
2.6. Riflessioni conclusive
La gestione dei lavoratori che ad un certo punto della propria vita professionale si trovano
a vivere situazioni personali di malattia e/o di patologia grave, con tendenze invalidanti, si
caratterizza come una dinamica aziendale particolarmente delicata e al tempo stesso complessa.
La delicatezza si riferisce agli aspetti soggettivi, emotivi, psicologici che il tema inevitabilmente viene a toccare.
La complessità invece è data dall’interrelazione di diversi aspetti:
• l’aspetto normativo, vale a dire le leggi che regolano il fenomeno;
• l’aspetto procedurale, i meccanismi e le procedure che le organizzazioni si sono date
per gestire i casi di malattia che si verificano al proprio interno;
• l’aspetto culturale/relazionale, le prassi non codificate, gli usi ed i costumi del contesto sociale aziendale.
Lasciando sullo sfondo l’aspetto normativo (che riguarda in primis il rispetto delle norme e
delle leggi in materia) che, seppur presente ed importante, non rappresenta il focus di questa parte della ricerca, ci sembrava interessante focalizzare l’attenzione sugli altri due aspetti, quello procedurale e quello culturale/relazionale.
Nelle aziende del nostro campione che, è bene ricordare, sono aziende di grandi dimensioni e complessità organizzativa è molto presente l’aspetto procedurale che potremmo definire ‘tradizionale’; la maggior parte di queste, infatti, ha ritenuto utile creare, ovviamente
all’interno dei vincoli dati dalla legge, meccanismi operativi, procedure, policy aziendali
per normare più nel dettaglio alcuni aspetti del fenomeno. La prevenzione, il rimborso delDivisione Ricerche “Claudio Demattè”
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le spese mediche, la polizza vita, i supporti economici in caso di malattia anche protratta
nel tempo rientrano in questa tipologia di intervento organizzativo che è sicuramente importante, ma che probabilmente non riesce a dare risposta alle esigenze più prettamente
emotive e psicologiche delle persone. Non emergono infatti procedure aziendali più innovative riguardanti la vera e propria gestione della malattia: probabilmente la variabilità ed
imprevedibilità delle situazioni rende difficile la creazione ed applicazione di regole standard. Solamente in una azienda, ad esempio, è emersa la presenza di uno psicologo aziendale che supporta ed accompagna il malato nella fase di reinserimento al lavoro.
Per quanto riguarda poi l’aspetto culturale/relazionale, questo si presenta nella sua complessità di intreccio tra valori aziendali e valori testimoniati e agiti dagli individui direttamente coinvolti nella gestione della malattia. Il dato che emerge dalle interviste è che spesso la risposta organizzativa è lasciata molto alla discrezionalità di chi è direttamente in
contatto (capo o collega) con la persona che vive ‘la malattia’. Come a dire che la presa in
carico del problema è lasciata al libero arbitrio delle persone: non solo, spesso il supporto,
la solidarietà non scattano finché il bisogno latente non trova piena espressione diventando
domanda esplicita di aiuto da parte di vive la malattia.
In tale situazione, sembra consolidata la convinzione che la gestione della malattia non
possa che essere ad personam, caso per caso, nel particolarismo delle singole esperienze,
senza aspettative di supporti esterni e senza la percezione di essere parte di processi generali che necessitano invece di confronti diffusi e di suggerimenti di approccio.
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