Daisy Franchetto Dodici Porte Lettere Animate Editore isbn
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Daisy Franchetto Dodici Porte Lettere Animate Editore isbn
Daisy Franchetto Dodici Porte Lettere Animate Editore isbn: Copyright Lettere Animate 2015 www.lettereanimate.com Lunar camminava nella notte umida da un tempo che sembrava infinito. La strada sterrata era bagnata e piena di sassi. Il piede scalzo si irrigidiva ogni volta che incontrava una pietra aguzza; l’altro, invece, la scarpa ce l’aveva. I capelli, lisci e lunghi, le si appiccicavano alla faccia, le ciocche bagnate aderivano al viso come fossero nastri. L’occhio sinistro era quasi chiuso e il labbro inferiore era gonfio. La giovane donna respirava in maniera affannosa e a tratti un brivido le correva lungo la schiena. L’abito era sporco di terra e strappato. Lo aveva comprato per andare alla festa dei sedici anni di Laura e lo aveva scelto dopo una lunga ricerca, svolazzante tra movimenti di stoffe e girovagare di colori in un piccolo negozio. Era un vestito perfetto, lei lo adorava. Quella sera tornò a casa felice e fece vedere a tutti il suo vestito nuovo. Era bella Lunar quando rideva. Adesso non pensava a nulla. Camminava, camminava e basta. Come se, di tutto il corpo, l’unica cosa che funzionasse davvero fossero le gambe piene di escoriazioni. Non c’erano emozioni, pensieri, immagini, sogni, odori, ricordi. Lunar era stata violentata. PRIMA PORTA 1 In ospedale Camminava Lunar e avrebbe potuto camminare per sempre, se non avesse visto una luce. La luce di una casa. Come un automa si diresse in quella direzione. Presto fu davanti al cancello: era chiuso. Le mani fredde si aggrapparono istintivamente alle sbarre di ferro del cancello, che si aprì senza sforzo, anzi si spalancò. La casa non era illuminata, sembrava grande e disabitata. Forse i proprietari non c’erano e chissà chi erano? Il pilota automatico, votato alla sopravvivenza, diede una gomitata ai dubbi, non era il momento delle domande. L’istinto diceva di andare. Una luce nell’ala destra si accese, come se qualcuno nella casa avesse avvertito la presenza della ragazza. Davanti alla porta d’ingresso, Lunar alzò il braccio per bussare, ma questo rimase un attimo sospeso prima che il pilota automatico prendesse di nuovo il sopravvento e decidesse di battere con tutta la forza che la disperazione può generare. Ci furono dei passi e poi la porta si aprì. Lunar fu colpita dalla luce calda e tenue. Il suo unico occhio aperto, abituato al buio, all’inizio non riuscì a mettere a fuoco nulla. Poi vide qualcosa: aveva davanti a sé una figura, alta e robusta, con una gonna lunga quasi fino ai piedi. Era una donna? Lunar non osava guardarla negli occhi né parlare. Poi si fece coraggio e alzò la testa, allora vide il viso. Anzi, più che il viso vide gli occhi, che la scrutavano gravi, sembravano di oro. Erano come percorsi da piccole fiamme e non si staccavano dai suoi. Lunar non riusciva a parlare, il suo pilota automatico si era nascosto da qualche parte, neppure lui riusciva a stare al cospetto di quegli occhi. A un tratto il viso della donna cambiò espressione e si aprì in un sorriso, il più bel sorriso che Lunar avesse mai visto, e la bocca parlò con voce profonda. «Che cosa posso fare per te?» domandò la donna. Lunar stava per balbettare qualcosa, la lingua era incollata al palato e ci voleva un po’ per prepararla alla parola. Una voce dietro la donna, una voce femminile e musicale, la distrasse: «Chi è, la ragazza?» Un lupo, perché quello era proprio un lupo, si era fatto strada con il muso tra le gonne della donna, e ora anche i suoi occhi gialli la fissavano. Era un enorme lupo grigio. «Ma cosa hanno fatto a questa povera bambina?» domandò con la sua voce fatta di note. «Cara Loba, lei è Lunar. Ha bisogno di noi ... » Lunar, che aveva seguito la conversazione tra il lupo e la donna a bocca aperta, sorretta ormai solo dalla fibra del vestito, sentì le forze venire meno e svenne. Al risveglio, Lunar si trovò sdraiata. L’occhio sinistro era ancora completamente chiuso e il corpo le faceva molto male ovunque. L’occhio destro però ci vedeva. Iniziò a guardarsi intorno. Il soffitto e le pareti erano bianche. Constatò di essere su un letto, tutto bianco anche quello. L’odore che sentiva, l’arredo scarno ed essenziale e i rumori di sottofondo non lasciavano dubbi in merito al luogo in cui si trovava: era in ospedale. Le nebbie che la avvolgevano al risveglio si diradarono velocemente e la consapevolezza di quello che era accaduto la colpì tutta in una volta. Era davvero un risveglio amaro e lei non sapeva che ne sarebbero seguiti molti altri. Per giorni si sarebbe svegliata sperando che quel che era accaduto non fosse realmente accaduto. Adesso ricordava tutto. La sera della festa tornava a casa con un amico che si era offerto di riaccompagnarla. Lei a piedi, lui la bicicletta a mano. Era bello e frequentava la sua stessa scuola, era di un anno più grande. Da mesi si guardavano nei corridoi durante l’intervello. Non c’era mai stata una buona occasione per parlare, lei era troppo timida per avvicinarsi. E lui? Troppo timido anche lui? Fatto è, che fino alla sera della festa non si erano mai parlati. Lui aveva approfittato di un momento in cui Lunar era sola, si era fatto avanti. Doveva aver aspettato almeno un paio d’ore, Lunar non era mai sola. Lei e le sue amiche si muovevano sempre in branco. Finalmente avevano parlato, e lui le era piaciuto. Non poteva essere diversamente, visto che da mesi fantasticava su di lui, costruendo nella mente ogni singolo particolare della vita e della personalità di quel ragazzo. Per lei era perfetto. Un osservatore attento, e non infatuato, avrebbe notato subito le discrepanze tra il suo prototipo mentale e l’originale in carne e ossa. Non era un genio della fisica, non era un campione sportivo, non si batteva per i diritti dei più deboli, non era dotato di una forza straordinaria né dell’umorismo di un comico da cabaret, però era carino e aveva fatto del suo meglio per sfoderare le sue qualità in cinque minuti. Purtroppo, di lì a poco, avrebbe dimostrato a Lunar che non soltanto non era perfetto, ma che aveva un paio di difetti niente male. Quando erano ricomparse le amiche-ancelle di Lunar, il ragazzo si era ritirato. Solo quando vide che Lunar stava per andare via da sola era ricomparso al suo fianco offrendosi di accompagnarla, “Tanto sono di strada” aveva detto. Una bugia, lo sapevano entrambi, ma le bugie all’inizio di una storia sono gradite e indispensabili, c’è sempre tempo per scoprire la verità. In realtà, la cosa era stata creata ad arte e, se lui non si fosse fatto avanti, una delle vestali sarebbe comparsa come per magia ad accompagnare Lunar. Camminavano vicini ed emozionati, lui trascinando la bici, parlando di nulla mentre attraversavano un bel tratto del parco. L’aria era fresca, ma non troppo, e profumata. Non c’era la luna, peccato, ma ci sarebbero state altre occasioni, sperava Lunar. Era talmente catturata dal momento, che non si accorse di nulla. Dal nulla, dal buio, un uomo si era materializzato davanti a loro. Un’ombra alta, quasi senza viso. L’ombra aveva un coltello. Il ragazzo balbettò qualcosa come un “Non abbiamo soldi” e l’ombra lo colpì con forza in viso sbattendolo a terra. Lunar era pietrificata dalla paura. Ferma, immobile, come sperasse di rendersi invisibile agli occhi dell’ombra. Il ragazzo si rialzò, un rivolo di sangue gli scendeva dal naso. Tremava. Velocissimo riprese la bici che era caduta con lui, montò in sella e scappò, lasciando Lunar sola a fronteggiare l’ombra. L’uomo davanti a Lunar sorrideva, un ghigno orribile. Lunar sentì qualcosa di caldo scenderle lungo le gambe, era urina. L’uomo vide il liquido incolore scendere lungo i polpacci della ragazza, ma registrò il fenomeno con aria indifferente. La preda era lì, facile da catturare. Non aspettò oltre. La afferrò per un braccio e la trascinò in una specie di tana tra la vegetazione. Il volto dell’uomo restava avvolto dall’oscurità, la ragazza poteva vederne solo i vaghi contorni. C’era un silenzio surreale, si poteva sentire solo il rumore del suo respiro e del suo cuore spaventato. Fragile cristallo calpestato. Ma qualcosa di selvaggio si risvegliò in lei, e cominciò a lottare con le unghie e con i denti, con tutta la forza che aveva in corpo. Ma non bastava. L’ombra si innervosì e diventò più violenta, la colpì più volte in viso. Il contatto di quelle grandi mani con la sua faccia fu uno shock: Lunar non era mai stata picchiata in vita sua. A quel punto smise di lottare e cominciò a piangere. Nemmeno delle lacrime l’ombra ebbe pietà, nessuna tenerezza attraversava il cuore di quella creatura da molto tempo. Le strappò il vestito con foga e rabbia e trafisse il suo corpo con violenza, senza mai guardarla in faccia. Lei si sentiva come senz’anima. Lunar era rimasta a terra ancora per molto tempo, quando l’uomo se ne fu andato. Non piangeva più, non pensava più, non sentiva più nulla ed era il vuoto. Non ricordava, ora, che cosa fosse scattato in lei, ma si era rimessa in piedi e aveva cominciato a camminare, senza meta. E poi era arrivata alla Casa. Ricordava anche quello che era capitato a quel punto, lo ricordava chiaramente, ma la sua mente continuava a dire che non era possibile. La donna con gli occhi d’oro e il lupo che parlava con voce come musica. Quella parte del ricordo non aveva senso, forse il trauma. I ricordi erano troppo pesanti, si girò su un fianco, si rannicchiò e pianse. Dopo poco la porta della stanza si aprì ed entrarono i suoi genitori. Erano due maschere di dolore e preoccupazione. Quando videro che si era svegliata, si fecero avanti e si sedettero vicino a lei. Le presero la mano entrambi. «Tesoro mio... » tentò di dire la mamma. Poi la voce fu interrotta da un sospiro e dal tentativo di trattenere il pianto. Gli occhi tradivano, però, tante lacrime già versate ed emozioni che non potevano essere contenute. Il padre stava in silenzio e la guardava, anche lui con gli occhi lucidi. Solo le labbra serrate esprimevano la rabbia che si agitava dentro di lui per quel che avevano fatto alla sua Lunar. Non dissero nulla, ma si abbracciarono tutti e tre e piansero assieme le lacrime che era giusto piangere. Stettero così, stretti, come se lo stare vicini servisse a fare da scudo al dolore e al mondo, fino a quando qualcuno bussò alla porta. Si staccarono allora un poco l’uno dall’altro. Il padre si asciugò le lacrime. «Avanti». Entrò l’infermiera. Aveva i capelli biondi e ricci, il viso non era giovane ma grazioso. Gli occhi azzurri avevano qualcosa di delicato e forte al tempo stesso. Entrò in silenzio, si fece avanti con il rispetto con cui ci si avvicina a un altare. «Buonasera, Lunar. Mi chiamo Martha e sono la caposala. Il medico stava aspettando che ti svegliassi per poterti visitare. Te la senti? » Lunar fece un cenno di assenso con il capo, e strinse ancora di più la mano della madre. «Bene» disse l’infermiera e uscendo aggiunse, «la polizia mi ha chiesto di chiamarli al tuo risveglio, posso aspettare dopo la visita, ma poi dovrò farlo». Guardò allora i genitori di Lunar, lei aveva lo sguardo spaesato, non aveva ancora pensato alla polizia. Il padre tornò a guardare gli occhi spaventati di Lunar. «Non ti lasceremo mai sola, neanche per un minuto, a meno che non ce lo chieda tu». Poi intervenne la madre: «Abbiamo già conosciuto gli agenti che si occuperanno di te, sono persone molto gentili e ci hanno assicurato che tutto si svolgerà rispettando i tuoi tempi». Matilda sapeva sempre dire le cose giuste per rassicurare la figlia. Una sua caratteristica quella di saper dire sempre la cosa giusta al momento giusto. Una dote apprezzata anche da Dago, suo marito. Dago e Matilda stavano insieme ormai da trent’anni. “Come passa il tempo!” si dicevano. Da trent’anni assieme e da trent’anni innamorati. Si erano conosciuti all'università, studiavano filosofia e fu amore a prima vista, sia quello per la filosofia, sia il loro. Una volta laureati avevano cercato assieme un lavoro e avevano finito per insegnare. Erano stati insegnanti per caso, ma l'avevano fatto con entusiasmo, scoprendo con il tempo che la vita aveva posto sulla loro strada qualcosa che non avevano mai considerato come una possibilità e che tutto si sposava perfettamente con la loro sensibilità e preparazione. Lunar era arrivata tardi nella loro vita. Matilda, anticonformista da sempre, non voleva avere figli all'inizio, poi tutto a un tratto si era decisa, convincendo anche Dago. Da quando Lunar era con loro, tutto era diventato completo, e l'avevano cresciuta cercando di darle il meglio, anche di se stessi. Erano migliorati per lei, si erano messi in discussione, avevano cambiato abitudini e smussato le rigidità. E adesso? Adesso qualcuno aveva spezzato brutalità la serenità della loro creatura, aveva vanificato il loro tentativo di farla crescere forte e fiduciosa nei confronti del mondo. La visita del medico, le domande, gli esami, gli esiti, i particolari da ricordare, tutto si susseguiva veloce e, anche se erano tutti molto rispettosi verso Lunar e la sua condizione, nulla poteva toglierle la brutta sensazione di essere come un topino da laboratorio, osservato e scrutato. A differenza di quanto capita a un topino in un laboratorio, tutto veniva fatto per Lunar, per farla stare bene e per catturare l’ombra colpevole della sua aggressione. Gli agenti che si occupavano del suo caso erano sicuri di catturare l’uomo, anche se Lunar si ricordava molti particolari: troppa paura quella notte e ora troppa voglia di dimenticare. Preziosi sarebbero stati a quel punto i ricordi dell’amico di Lunar, se ancora poteva essere definito amico chi scappa e tradisce così. La natura codarda del ragazzo aveva dato il peggio di sé. Quella sera era tornato a casa sconvolto ed era andato a rintanarsi in camera sua senza raccontare nulla a nessuno. Non aveva chiuso occhio, tutto preso dal sano senso di colpa, ma nulla era uscito dalla sua bocca fino a quando la mattina seguente, la madre, vedendolo turbato, e non credendo minimamente alla storia che il livido comparso sul suo viso fosse causato da una caduta in bicicletta, era riuscita a fargli raccontare tutto dall’inizio alla fine. Le mamme sanno sempre come farsi raccontare tutto, se lo vogliono. Fino a quella mattina, non si era mai resa conto della fragilità del figlio, ma decise di rinviare il problema a un altro momento. Lo caricò in macchina e lo portò alla polizia, intanto telefonò ai genitori di Lunar per sapere. E seppe. E una sensazione di svilimento la colpì, quando capì la gravità dell’accaduto: il figlio si sarebbe portato quella terribile colpa per sempre. Ricordando e raccontando, aveva però l’occasione di rimediare un po’. Questo la madre non mancò di farglielo presente. E il ragazzo aveva ricordato, quella sera la sua condizione era stata differente, rispetto a Lunar. Era spaventatissimo anche lui, ma aveva visto di più. Lui aveva guardato in faccia il mostro e, una volta caduto, aveva anche visto che cosa indossava. Riferì tutto: la figura alta, l’abito scuro, le scarpe lucide e nere, la barba scura e incolta, i lineamenti regolari, sottili e il suo ghigno orribile. E poi gli occhi chiari, senza anima, senza emozioni, perduti nel vuoto. A parte l’impossibilità di trasferire in un disegno il nulla che si rifletteva nello sguardo dell’ombra, ora questa aveva un volto. Un viso magro e cupo emergeva da un foglio di carta bianco nelle mani di Paul, l’agente di polizia che si occupava del caso di Lunar. Adesso bisognava trovarlo. Mentre alla stazione di polizia si andava costruendo l'immagine dell'ignobile ombra, per Lunar continuava la permanenza in ospedale. Non sarebbe durata ancora molto, l'avevano rassicurata tutti. Era davanti all’ascensore seduta in carrozzina, accompagnata dalla fedele Martha, che ormai sembrava passasse la vita in ospedale, quando arrivarono una donna e un bambino mano nella mano. Lunar aveva ancora il viso molto segnato dai lividi, e per non farsi vedere in quelle condizioni aveva distolto lo sguardo, ma il bambino la fissava a bocca aperta e lei si sentiva addosso i suoi occhi ingenui e invadenti. L'ascensore sembrava non arrivare mai. Qualcosa cadde in corridoio e tutti si girarono a guardare, il bambino no, continuava a fissare Lunar. Anche la ragazza si era girata per vedere cosa fosse successo e aveva incrociato gli occhi del bambino. Si aspettava una di quelle domande molto dirette che i bambini sono abituati a fare e a cui solo pochi sanno rispondere con spontaneità. «Lui si chiama Maoleone... » disse invece il bambino mostrando a Lunar un leoncino di peluche, un leoncino con gli occhi gialli. La ragazza era rimasta senza parole, gli occhi gialli del leone le ricordavano gli occhi della donna e del lupo che aveva visto la notte in cui era stata aggredita. Non aveva più pensato a quello strano episodio, capitato in una notte che meritava di essere cancellata dalla memoria del mondo. Inoltre, tutto quel che riguardava quella casa le sembrava un sogno. Ora fissava il peluche senza dire nulla. Martha se ne accorse: «È un bellissimo leoncino» disse per togliere Lunar dall’imbarazzo. Il bambino fu soddisfatto del commento e restituì un sorriso alla ragazza e all'infermiera. Un sorriso così bello che persino Lunar ne fu contagiata. Martha la riportò in camera e la aiutò a mettersi a letto. Lunar sentiva di dover giustificare il suo comportamento con il bambino e iniziò: «Martha... mi dispiace per prima. Grazie di essere intervenuta. Non so spiegare cosa mi sia passato per la testa, quegli occhi gialli... » Qui si interruppe, andare avanti avrebbe comportato raccontare di più. «Forse quegli occhi ti hanno ricordato qualcosa» disse Martha. «Sì, forse sì» rispose Lunar con un timido sorriso, desiderosa di parlare d'altro per non dover dare spiegazioni. «Io La conosco» insistette invece Martha. Lunar non poteva credere a quello che sentiva. Forse non aveva capito bene. Stava per chiederle delucidazioni, quando bussarono alla porta e un'altra infermiera entrò: «Martha serve il tuo aiuto in sala». Martha fece per uscire, ma prima si voltò verso Lunar e disse sorridendo: «Ne parliamo più tardi». Lunar non stava nella pelle per l'emozione. Allora non era stato un sogno, aveva davvero visto qualcosa quella notte! Qualcosa di moderato dentro la sua testa le diceva di stare calma, che forse ancora non aveva capito a cosa si riferisse Martha. La sua parte dubbiosa era sempre pronta a mettere una buona parola quando si trattava di placare gli entusiasmi e di mettersi al riparo. Ma qualcosa di vivo e di curioso si agitava dentro di lei, qualcosa che non poteva smettere di fantasticare e di immaginare. Per qualche tempo riuscì anche a dimenticare il motivo per cui si trovava lì, in quel letto di ospedale. Come se inspiegabilmente qualcosa di bello e nuovo stesse per accadere nella sua vita. Quando arrivarono i genitori, la trovarono così: agitata e allegra. Non capivano il motivo di quello stato d'animo e ne erano un po' turbati, ma rivedere la figlia sorridere li alleggeriva di qualsiasi preoccupazione. Cominciarono anche a fare progetti per quando sarebbe uscita dall'ospedale: sarebbero andati a fare qualche gita insieme, magari a vedere qualche mostra interessante e al cinema, certo. Anche uno di quei film “privi di contenuto” sarebbe andato benissimo. Lunar pensava alla scuola, le piaceva l'idea di tornare a studiare, ma un po' meno quella di rivedere gli amici. Non se la sentiva ancora di affrontare gli sguardi, le domande o i silenzi imbarazzati. No, forse la scuola poteva attendere ancora un poco. «Ma certo!» dissero in coro Matilda e Dago. «Sì, puoi pensarci con calma, abbiamo tante altre cose da fare!» Si guardarono tutti e tre e scoppiarono a ridere: i suoi genitori non le avevano permesso di saltare un giorno di scuola mai, nemmeno con due metri di neve, nemmeno con la febbre. Ma adesso nelle loro vite qualcosa era cambiato per sempre e anche le idee dovevano cambiare. Sapevano che quel momento sereno era solo una piccola tregua, solo un attimo di ossigeno prima di tornare in apnea, allora godettero di quell'istante presente come soltanto nei momenti di forte dolore si può fare. Lunar stava con l'orecchio teso, sperando di sentire la voce di Martha, e tutte le volte che si apriva la porta sussultava. Ma Martha quel giorno non tornò più. Quando chiese all'infermiera del turno di notte dove fosse la caposala, questa le rispose che era già andata a casa da un pezzo e che sarebbe tornata l'indomani. Si sentì delusa. Perché se ne era andata senza un saluto e, soprattutto, senza dirle niente? Quella notte faticò ad addormentarsi, si era aggrappata alla speranza che Martha le rivelasse qualcosa che le avrebbe chiarito il mistero della casa e aveva sperato che questo avrebbe cambiato la realtà. Solo al prezzo di sentirsi fredda e apatica riusciva a superare i momenti in cui, contravvenendo a ogni suo comando, la mente tornava ai momenti terribili di quella notte. I pensieri si agitavano come insetti turbinosi intorno alle scene della violenza, e lei sentiva il cuore batterle forte in gola e il sudore scenderle lungo la fronte. Freddo e nausea. Non voleva più ricordare o sentire. Prima di quel momento, non aveva mai prestato attenzione a come anche il naso conservi una forma di memoria, e così ora si trovava a constatare che se non erano le immagini a tormentarla, erano gli odori a reclamare il loro diritto a essere “i primi della classe” e a dimostrare che anche loro ricordavano qualcosa. Bravi! E allora il pilota automatico votato alla sopravvivenza entrava in azione e spegneva la luce, si faceva il buio e lei non sentiva più nulla, almeno così si poteva vivere. Il mattino seguente, dopo una notte di lotte e inutili sonniferi somministrati dall'infermiera di turno, si era fatta strada quella calma apparente e piatta, senza dolore e senza speranza. E in questo stato la trovò Martha. «Buongiorno Lunar» disse Martha. «Buongiorno» rispose Lunar cercando di mostrarsi serena. «Ho saputo che non è stata una buona nottata per te, ti senti stanca?» chiese Martha con quell'aria serena che sempre la accompagnava. «Sì, un po'... » Lunar sperava che la risposta fosse sufficiente, ma in realtà avrebbe voluto dire: “Non so come uscirne, non so a che cosa aggrapparmi, sembra che dovrò rinunciare a me stessa per sempre, se voglio continuare a stare in questo mondo. E questa non è una via d'uscita!” Ma restò zitta, trattenendo le lacrime. «Mi dispiace non essere venuta ieri, prima di uscire. Ho visto che i tuoi genitori erano con te e non mi sembrava il caso di disturbare. Comunque, adesso sono qui». Lunar voleva dirle di lasciare stare, che tanto ormai nulla avrebbe potuto cambiare le cose, e che forse quello che aveva da dirle non era così importante. Martha però la pensava diversamente e chiuse la porta della camera. «Non abbiamo molto tempo, potrebbe entrare qualcuno e interromperci». La donna sembrò raccogliere le idee. Poi riprese: «Temevo che non ricordassi nulla, ma dopo la tua reazione ieri, ho capito. La notte in cui sei stata aggredita sei arrivata alla Casa, vero?» Scrutava Lunar. Attendeva un cenno. La ragazza era combattuta, non sapeva se voleva conoscere davvero il seguito del discorso. Poi però fece un lieve segno di assenso e Martha tirò un sospiro di sollievo. «Lo so che adesso per te è doloroso tornare a quella sera, ma è molto importante che io ti dica tutto. É il compito che mi è stato affidato, capisci?» No, Lunar non capiva. «Quando sei arrivata alla Casa, hai incontrato una donna, LaMamà. Ecco, LaMamà è... difficile in realtà dire chi è, ma sappi che lei ti può aiutare. Se lo desideri, lei ti aiuterà. Tanti anni fa ha aiutato anche me, in un momento in cui non sapevo più che cosa fare». Nel ricordare quel momento, un'ombra attraversò la luce degli occhi di Martha e Lunar intravide la stessa ombra che dal giorno dell’aggressione osservava nei suoi ogni volta che si guardava allo specchio. Fu questo a risvegliare la fiducia in ciò che la donna le stava dicendo. «Bada, Lunar, non è un aiuto a buon mercato, te lo dovrai sudare. LaMamà può metterti a dura prova. Ma tu devi ricordare sempre che anche quando tutto sembra assurdo e troppo difficile, Lei Sa. È ‘Colei che tutto conosce’, non c'è nessuno che possa esserti d'aiuto quanto Lei». Lunar aveva ascoltato con attenzione, sentiva di potersi fidare di Martha, ma non riusciva a capire come avrebbe potuto aiutarla. Alla fine disse: «E come potrà essermi di aiuto? È una specie di psicologa o di assistente sociale? Perché di quelle ne ho già vista qualcuna in questi giorni». Martha scoppiò a ridere. «No», disse scuotendo le mani davanti al volto e trattenendo a stento il riso. «Scusa, rido perché ho immaginato per un attimo cosa avrebbe detto LaMamà nell'essere definita una psicologa». Lunar cominciava a sentirsi infastidita. «No, LaMamà non è una psicologa. Non usa tecniche... convenzionali o... conosciute... ha metodi suoi, diciamo». «Non lo so», iniziò a dire Lunar, «non ho voglia di parlare con degli estranei e non so se i miei genitori mi daranno il permesso». «Ah, quanto a questo non avrai bisogno di chiedere il permesso a nessuno, se parli con qualcuno di questa storia non potrai più raggiungere la Casa. E quanto ad aver voglia di parlarne, sta’ tranquilla, LaMamà non ti chiederà mai nulla. Lei Sa, ricordi?» «‘Lei Sa’?» Lunar cominciava a essere preoccupata. Ciò che le era capitato era ormai di dominio pubblico: «Chi gliel'ha raccontato?» «Nessuno, LaMamà Sa e basta». Martha capiva quanto fosse confusa Lunar, lo era stata anche lei la prima volta che aveva sentito quella storia. Le si avvicinò e, con la voce nuovamente calma e serena, disse: «Comprendo il tuo stato d'animo più di quanto tu possa immaginare. Non sei obbligata a fare nulla, anzi, non servirebbe. Se decidi di farlo, sappi che dovrai farlo da sola, non dovrai parlarne con nessuno né prima né dopo. Ma di una cosa puoi essere sicura, LaMamà ti aiuterà a sistemare le cose se lo vorrai». Lunar non sapeva se essere sollevata o preoccupata. Martha si avviò alla porta e uscendo disse: «Ti lascio ai tuoi pensieri, quel che dovevo fare l'ho fatto. Puoi prenderti tutto il tempo che desideri». Fece per uscire, quando Lunar la bloccò: «Aspetta! Come faccio a trovarla? Non ricordo dove sia la Casa». «Ah, non ti preoccupare. Quando sarai pronta, Lei ti troverà. O meglio, ti troverà La Loba. A proposito, non ti ho detto che è stata lei a portarti qui». «Chi?» «La Loba». «Il lupo che parla?» fece Lunar tra l'esasperato e l'incredulo, quella parte del suo ricordo non era stata toccata, ma sperava che almeno quello non fosse vero. «Sì, la lupa che... canta». Martha uscì dalla stanza. Lunar ebbe la certezza che nulla avesse un senso. In quel momento, nello spogliatoio dell’ospedale Martha era sola. Mentre si lavava il viso, china sul lavandino del bagno, sentì che qualcosa stava per accadere. Si voltò di scatto, ma nella stanza non c’era nessuno e tutto sembrava in ordine. Scosse la testa e sorrise tra sé. Tutta la storia di Lunar e il compito che le era stato affidato l’avevano resa un po’ nervosa. Era la prima volta che le capitava di fare da intermediario tra la Casa e il mondo esterno e aveva temuto di non essere in grado di portare a termine in maniera adeguata ciò che le era stato richiesto. Ma non c’era più niente di cui preoccuparsi. Aveva comunicato a Lunar tutto ciò che era importante e adesso spettava alla ragazza decidere. Si rese conto di non essersi asciugata il viso e ora l’acqua le stava inzuppando la maglietta. Prese un asciugamano e se lo portò al volto. Quando lo sollevò dagli occhi, vide che nello spogliatoio non era più sola e trasalì. «Quante volte ti ho già chiesto di non apparire così?» sbuffò. «Forse un paio di volte». Martha rivolse uno sguardo severo al suo interlocutore. «Hai fatto ciò che ti era stato chiesto?» «Sì», rispose Martha in un sospiro. «Come sta la ragazza?» «Fisicamente si sta riprendendo, ha un corpo sano, ma la sua anima è in pezzi». «Credi che procederà nel cammino?» «Non lo so, è fragile e impaurita». L’interlocutore annuì. «LaMamà ti ringrazia per quello che hai fatto». «È stato un piacere essere utile». «Ti saluto Martha, abbi cura di te, spero di rivederti presto». «Sì, ma annunciati la prossima volta». Risero. Prima di andarsene l’interlocutore si girò ancora una volta a guardare la donna. «Hai avuto la sensazione che la ragazza sapesse qualcosa della sua vera natura? Del suo passato?» Martha rise. «No, non sa niente di niente. L’opera di rimozione è stata compiuta con molta cura e lei è vissuta finora in un mondo protetto. Non sospetta nulla». «Questo in parte è un bene, e in parte un male». «Già». «Buonanotte, Martha». «Buonanotte, Loba». La donna rimase ancora un istante a osservare l’angolo buio dello spogliatoio in cui la grossa lupa era scomparsa. 2 Paul Il giorno in cui Lunar fu dimessa dall'ospedale, Martha, visibilmente commossa, era entrata nella stanza senza dire niente, le aveva preso il viso tra le mani e l'aveva baciata sulla fronte, poi l’aveva guardata con forza. Lunar aveva percepito l'energia e ricambiato con uno sguardo grato. Poi l'infermiera si era voltata verso i genitori che osservavano la scena con gli occhi lucidi e aveva raccomandato loro, in un sussurro, di essere fiduciosi e sereni per il futuro della figlia. Quindi, era uscita. Non si sarebbero mai più rivisti. Il ritorno a casa fu piacevole. La casa in cui Lunar viveva con i genitori non era grande, ma aveva tutto quello che si poteva volere da una casa in quei momenti, era quieta e accogliente. Matilda non era una massaia, ma sapeva tenere la casa ben pulita e organizzata. Non amava l'idea di dover ricorrere all'aiuto di qualcuno per le pulizie e aveva scelto una sistemazione su misura perché “non ha senso volere una casa enorme e poi non riuscire a prendersene cura!” La madre di Lunar aveva dato il meglio di sé: aveva anche sistemato la scrivania in entrata, dove regnava normalmente una beata confusione e raccolto dei fiori in giardino, cosa che non faceva mai perché “I fiori stanno bene dove stanno e non in un vaso!”. Avevano pranzato assieme e tutto per un po' sembrò tornato alla normalità. Dago e Matilda scrutavano Lunar cercando di non farle percepire la loro preoccupazione e le trasmettevano tutta la felicità che provavano nel riaverla lì con loro. Nel pomeriggio suonò il campanello, Matilda andò ad aprire e si trovò di fronte Greta, l'amica del cuore di Lunar. «Non ho telefonato prima di venire» disse imbarazzata, «sapevo che Lunar tornava oggi... lo so che magari non mi vuol vedere … però sono venuta lo stesso» riprese tutto in un fiato a testa bassa. Poi alzò lo sguardo speranzosa. Lunar aveva riconosciuto la voce ed era già nell’ingresso, anche lei imbarazzata. Si guardarono: l'una supplicando di poter essere ammessa a partecipare della sofferenza, l'altra chiedendo un abbraccio che non fosse di compassione. Greta mosse un passo e, come se gli argini di una diga si fossero rotti, le due amiche si corsero incontro abbracciandosi e stringendosi senza avere più voglia di lasciarsi. Matilda uscì dalla stanza. Chiacchierarono tutto il pomeriggio, Greta chiese a Lunar come si sentiva, senza andare oltre, quindi parlarono di tutto il resto: degli amici, della scuola, dei film e dei programmi per le vacanze. Furono molto attente a non nominare mai il ragazzo che tanto era piaciuto a Lunar. Greta non raccontò all'amica che “il coniglio”, come ormai lo chiamavano tutti, viveva in una sorta di isolamento dalla notte della violenza. Nessuno lo prendeva in giro e nessuno gli dava il tormento, ma nessuno voleva avere contatti con lui tranne quelli strettamente necessari per evitare di irritare i professori a scuola. Quando Greta se ne fu andata, Lunar era molto più serena. Adesso guardava al suo ritorno a scuola come a qualcosa di possibile, avrebbe avuto Greta e le altre amiche a proteggerla e a sorreggerla, come sempre del resto. Quella sera durante la cena squillò il telefono di casa, Dago andò a rispondere scocciato, come sempre quando qualcuno interrompeva il pasto. Lunar e Matilda si erano guardate sorridendo, mentre l'uomo alzava la cornetta. Seguirono una serie di “sì”, “certo” e “va bene”. Finita la telefonata, Dago tornò a sedersi a tavola. Sospirò, quasi a liberarsi di un peso, e disse che avevano trovato l'autore della violenza, che lo avevano fermato e che ora era in carcere. Erano assolutamente certi che fosse l'uomo giusto, aveva anche confusamente ammesso il reato, ma adesso c'era bisogno di Lunar, doveva andare là la mattina successiva a riconoscere l'uomo. Il conforto e il sollievo per l'arresto si mescolavano alla paura e all'angoscia di dover rivedere quell'ombra mortifera. Non c'era scelta però, era necessario incontrare di nuovo l'incubo. Lunar dormì molto poco quella notte, la fronte sudata e il cuore in accelerazione. All'alba, si alzò e scese in soggiorno, si sdraiò sul divano con la sua coperta preferita. Poco dopo scesero anche la madre e il padre che nel viso e sotto gli occhi portavano gli stessi segni di patimento della figlia. Quando arrivarono alla stazione di polizia, trovarono Paul ad attenderli, uno degli agenti che si erano occupati del caso. Era un uomo minuto, con gli occhi azzurri, gli occhiali e la barba sempre ben curata. Assomigliava molto di più a un avvocato che a un poliziotto. In effetti, Paul veniva da un'ottima famiglia della città con una lunga tradizione di avvocati e notai rispettati. Nella famiglia di Paul, tutti erano destinati a diventare avvocati o notai, veniva lasciata solo la libertà di decidere a quale ambito dedicarsi “perché è importante seguire le proprie attitudini!”, era solito dire il nonno di Paul che a quasi novant’anni reggeva ancora le sorti della famiglia. Paul era l'ultimo dei fratelli, bravo a scuola e rispettoso dei valori famigliari, nessuno si aspettava che proprio lui avrebbe dato scandalo. Aveva seguito l'iter previsto con puntualità, anzi, laureandosi prima dei fratelli. Poi un giorno, quando nessuno si aspettava più sorprese, a un pranzo di famiglia aveva annunciato: «Brindiamo!» aveva detto alzando il bicchiere di vino. E tutti avevano alzato il bicchiere, sperando si trattasse dell'annuncio del fidanzamento con Silvya, la donna che tutti speravano sposasse. Certo, era strano che l’annuncio fosse dato senza la presenza di Silvya, ma erano così fiduciosi che quel figlio li avrebbe sempre resi orgogliosi che non sospettarono di nulla, fino a che Paul non annunciò di aver superato la selezione per entrare in polizia. I sorrisi si spensero piano, solo la nonna continuava a sorridere, forse comprendendo poco di quel che accadeva. Le fu delicatamente abbassato il braccio che ancora teneva alzato il calice. Il nonno aveva preso subito la parola: «Che cosa significa questo, Paul?» «Significa che non diventerò un avvocato, ma un poliziotto» aveva detto il giovane con calma, come se dovesse spiegare qualcosa di nuovo a un bambino. «Ma perché?» aveva ribattuto il nonno con un tono incredulo. «Perché non voglio diventare un avvocato. So che per voi non è concepibile e non voglio la vostra comprensione o il vostro appoggio, sarebbe chiedere troppo. So che da oggi non mi potrò più aspettare di essere aiutato, ma ho deciso e niente mi farà tornare sui miei passi». La famiglia ascoltava in silenzio, Paul era così diverso da come era sempre apparso ai loro occhi. Quando quel ragazzo docile era diventato un uomo capace di decidere della sua vita e di rispondere delle proprie scelte? La svolta per Paul era arrivata un anno prima, ma nessuno aveva voluto vederla. In quel periodo era inspiegabilmente inquieto e faticava a dormire. Una notte, aveva deciso che non fosse utile rimanere a fissare il soffitto aspettando una risposta ai suoi turbamenti ed era uscito sotto gli occhi preoccupati del maggiordomo che, per discrezione, non disse nulla. Si era avviato nel parco, dove era solito andare a correre e passeggiare, e osservò che aveva raramente frequentato quel luogo di sera, non era un luogo che i suoi avrebbero approvato a quell'ora: se la sera ci si voleva divertire, c'erano i bei locali del centro e l'esclusivo club di cui tutti erano stimatissimi soci. Passeggiava godendosi l'aria fresca della notte e il silenzio, la luna faceva capolino tra le foglie. Sentì delle voci, non riusciva a distinguere cosa dicessero, però provenivano da poco più avanti, proprio nella direzione in cui lui stava andando. Man mano che si avvicinava, il volume delle voci si alzava e il tono si faceva più chiaro. Erano voci minacciose che imprecavano e a tratti perdevano il controllo. Paul sentì di dover essere prudente. Più prudente ancora sarebbe stato andarsene, ma qualcosa di impellente lo spingeva ad andare avanti, doveva vedere. Si nascose dietro a un cespuglio e vide un gruppo di ragazzi molto robusti che facevano cerchio intorno a uno più giovane e minuto che si trovava inginocchiato in mezzo a loro. I ragazzi in piedi erano tutti armati, chi di un lungo coltello, chi di una mazza. Uno di loro, che sembrava il capo, formulava minacce e domande, cui il ragazzo in ginocchio, che aveva la faccia tumefatta per i colpi ricevuti, rispondeva a monosillabi, con un tono calmo. Ciò rendeva gli altri molto nervosi. A un tratto, il capo fece cenno a uno dei suoi e questi tirò fuori una pistola. Paul, da dietro le piante, trasalì. Non aveva mai visto una pistola vera prima di allora. L’arma venne puntata alla tempia del ragazzo in ginocchio che, quando sentì il freddo del metallo toccare il viso, ebbe per la prima volta un sussulto e alzò lo sguardo verso quelli che lo circondavano. Per un attimo fu il terrore, poi il capo disse, prendendo il ragazzo per il colletto: «Adesso cosa dici, faccia di merda? Hai capito che non stiamo scherzando?» Dopo lo lasciò andare e ordinò all'altro di togliere la pistola dalla tempia. Seguirono ancora delle minacce e l'avvertimento che la prossima volta non sarebbe stato tutto un gioco. Prima di andarsene, uno di loro colpi il ragazzo alla testa con una mazza, questo rovesciò gli occhi all'indietro e cadde su un lato. Quando furono lontani, Paul, con il cuore in gola, corse verso il ragazzo a terra. Non aveva più di dodici anni, era ancora più piccolo di quello che pareva da dietro il cespuglio, dalla testa gli usciva del sangue. Paul si sentì un essere meschino, per essere rimasto a guardare senza fare nulla, ma sapeva anche che indifeso com'era avrebbero probabilmente picchiato anche lui. Forse per mettere a tacere il senso di colpa, prese tra le braccia il ragazzo e, senza controllare se qualcuno di quei bestioni fosse ancora nei paraggi, si incamminò veloce. Fu così che legò indissolubilmente la sua vita a quella di Gregorio, che di anni ne aveva undici, spacciava droga e viveva nella parte più miserevole della città, quella che Paul non sapeva nemmeno esistesse. Portò Gregorio all'ospedale più vicino. Vista la situazione, fu subito chiamata la polizia. Arrivarono due agenti che gli fecero molte domande e che, un po' stupiti, risposero anche a qualche domanda posta da Paul: da dove veniva quel ragazzo? Perché era stato selvaggiamente picchiato? Scoprì così che quasi tutti i ragazzini di quella zona erano coinvolti in attività di spaccio, furto e altri crimini. Chi non partecipava attivamente copriva gli altri o teneva la bocca chiusa per paura delle rappresaglie delle varie bande. Gregorio era un caso conosciuto: Marcus, il fratello maggiore, faceva parte di una delle bande più forti, non si seppe mai perché a un certo punto decise di uscirne. Ma da una banda non si esce mai, solo la morte, comunque sopraggiunga, mette fine al patto indissolubile tra gli affiliati. Il fratello di Gregorio aveva pagato con il massimo della pena la sua diserzione. L'avevano trovato impiccato nel bagno di una stazione di servizio. La vendetta fu ancora più dura del previsto perché venne fuori che Marcus doveva del denaro al Guercio, il capo. Costrinsero Gregorio, che all'epoca aveva nove anni, a saldare il conto del fratello lavorando per loro. Fu così che Gregorio entrò nel giro e iniziò a spacciare droga. Paul ascoltava sconcertato il racconto e le sue domande erano così ingenue che, a un certo punto, uno degli agenti gli chiese dove fosse vissuto fino a quel momento. Paul rispose che era stato in un altro mondo. Ed era vero. Era seduto su una sedia fuori dalla stanza di Gregorio, in attesa che gli dicessero qualcosa sulle condizioni del ragazzo, quando arrivò una donna avanzando con un passo marziale lungo il corridoio dell'ospedale. Non era molto alta, ma sembrava si stesse avvicinando una montagna mentre camminava sicura verso di lui. I capelli lunghi e neri ondeggiavano fluenti e gli occhi scuri scintillavano, illuminando un viso non bello. Si chiamava Pedra. Era l'assistente sociale del distretto e tutti tremavano quando avevano a che fare con lei. Così fu anche per i due poliziotti che erano rimasti a piantonare la stanza, per timore che qualcuno tornasse a finire il lavoro iniziato con Gregorio. La donna li inchiodò al bancone dell'ospedale e iniziò a incalzarli con una mitragliata di domande, cui gli agenti rispondevano tentando di farle notare, invano, che lei era l'assistente sociale e non doveva condurre un'indagine sul caso. Tutto inutile, la donna non si placò finché non li ebbe spremuti come limoni. Solo allora si volse verso Paul e lo aggredì chiedendogli come mai un damerino come lui fosse in quella parte del parco a quell'ora. Paul rispose con semplicità che stava facendo una passeggiata e Pedra sgranò gli occhi incredula, poi scoppiò in una risata fragorosa. I due agenti non sapevano più da che parte volgere lo sguardo, sicuri che Pedra avrebbe fatto a brandelli quell'uomo gentile dalla faccia pulita. «Ma chi credi di prendere in giro? Nessuno se ne va a spasso al chiaro di luna in quella zona. O sei uno spacciatore o sei un acquirente» lo incalzò subito Pedra. Inaspettatamente, Paul, che normalmente era un essere mite, sfoderò una grinta che non sapeva di possedere, forte della certezza di non aver fatto nulla di male e della sua conoscenza del diritto. «Senta, non so chi sia lei, ma non ho intenzione di subire un processo nel corridoio di un ospedale. Non sono tenuto a giustificarmi. Non conosco la zona, tutto qua. Sono solo uno sprovveduto, di questo sono consapevole. Però, se non le è chiaro, ho soccorso il ragazzo e adesso sono qui in pena per la sua sorte. Quindi, mi dica come facciamo ad aiutarlo, invece di aggredirmi!» Lasciò tutti i presenti a bocca aperta, compreso se stesso. Non si era mai espresso con tale decisione e, soprattutto, aveva appena detto di voler aiutare il ragazzo, cosa che gli era stata chiara solo dopo averla pronunciata. All’alba della mattina successiva, Paul tornava a casa a piedi dopo la notte trascorsa in ospedale con Gregorio, cercando di riflettere su quanto era successo. Svoltò nella via dove abitava, le case erano ancora avvolte nel torpore del sonno. Quanto era accaduto la notte precedente faceva sembrare tutto nuovo e quell’alba appariva magica. Perciò, non gli sembrò poi così strano che un enorme lupo dalla voce musicale sbucasse dal nulla e gli chiedesse di seguirlo. Gregorio se la cavò con poco: qualche punto di sutura e un po' di convalescenza. Molto più difficile fu il percorso per toglierlo dalla strada. Viveva con una vecchia zia che, straziata dai dolori della vita e dal destino triste cui andavano incontro i suoi cari, si era rifugiata in un mondo di demenza. In quei due anni, Gregorio si era talmente indurito, che non si riusciva ad afferrarlo in nessun modo. In più, covava dentro di sé un crescente desiderio di vendetta che gli faceva assumere delle posizioni suicide nei confronti della banda, motivo per cui era stato picchiato quella notte. Si era trasformato in un kamikaze. Non potendo uscire vivo dalla situazione, aveva deciso di demolirla da dentro, a costo della sua vita se fosse stato necessario. Se Gregorio era un bambino di pietra, Pedra non era certo da meno. Era mossa da una volontà incrollabile e per lei era diventata una missione salvare quei bambini, più di tutti Gregorio che era fratello di Marcus, il suo amore clandestino. Era stata lei la causa della diserzione di Marcus e, indirettamente, della sorte terribile cui era andato incontro il piccolo Gregorio. Nulla l'avrebbe fermata dal tentare di salvare quel ragazzino. Poteva poi contare su un nuovo aiuto: Paul. Con i suoi occhialini e il fare discreto e gentile, si era lanciato anima e corpo in quella battaglia. Quando c'era da sporcarsi le mani, si buttava a capofitto. Lui, che non aveva mai conosciuto quella realtà infernale, non aveva più voglia di raccontarsi bugie. E, visto che aveva deciso di voler essere onesto con se stesso, non poteva nemmeno negare di essersi innamorato follemente di quella donna di pietra, ma calda come la lava. Fu così che Paul lasciò il suo preconfezionato destino da avvocato e divenne un poliziotto, creando lo scompiglio nella famiglia. Se perse la sua famiglia, nel tempo ne acquisì numerose altre. Le famiglie dei bambini che aiutava a uscire dal giro della malavita, ma anche le nonne, mamme, zie, padri, che i figli li avevano perduti per sempre e che chiedevano giustizia e verità. Non fu mai più solo. 3 Lucàs Lunar fu condotta lungo il corridoio della stazione di polizia da Paul, che le teneva la mano sulla spalla. Ai genitori non fu permesso di accompagnarla. Quando Paul le pose la mano sulla spalla e iniziò ad avanzare con lei lungo il corridoio, avvertì qualcosa di particolare. Tante volte negli anni aveva accompagnato e guidato dei giovani, fuori e attraverso situazioni difficili, ma era la prima volta che provava una sensazione simile. Lunar aveva qualcosa di diverso. Il poliziotto sentì che non la stava solo accompagnando a un riconoscimento doloroso, ma che la stava portando verso l’inizio di qualcosa. Quei pochi passi verso la saletta dove sarebbe avvenuto il riconoscimento sembrarono durare un'eternità, come nei sogni in cui tenti di raggiungere qualcosa, e non lo raggiungi mai. La mano calda di Paul sulla sua spalla infondeva serenità in Lunar, ma il cuore le batteva veloce e sentiva un formicolio sul viso. I rumori dei loro passi echeggiavano nel corridoio deserto, mentre la porta della saletta si avvicinava. A mano a mano che procedeva, Lunar cominciò a sentire un sussurro appena percettibile. Pensò che il flebile suono arrivasse da qualche stanza lì vicino, ma mentre avanzava si rese conto che quei suoni provenivano dalla saletta verso cui si stavano dirigendo. Davanti alla porta Paul si fermò e la guardò, lei non si voltò perché era troppo concentrata a mantenere la calma. «Ti senti pronta?» «Sì, entriamo». Non era vero, ma una strana attrazione la stava pervadendo come se qualcosa la chiamasse e la spronasse a entrare. Il vocio continuava, come un sussurrare monotono. Paul aprì la porta ed entrarono. Nella stanza, lucida e asettica, c'erano un orologio che segnava le undici e un quarto, una scrivania con un microfono e tre sedie. Su una sedeva Augusto, il collega di Paul, un omone alto e robusto che ispirava simpatia. Augusto andò incontro a Lunar e le strinse forte la mano facendole scuotere tutto il corpo, aveva sempre difficoltà a dosare le forze. Il sussurro continuava e si era alzato leggermente di volume. Lunar si sentiva confusa: nella stanza non c'era nessuno a parte loro tre. Chi parlava? «Sento un suono, un rumore, come... un vociare, da dove viene?» domandò Lunar. «Io non sento nulla, ma forse arrivano delle voci dalle altre stanze» rispose Paul con semplicità. A quel punto al poliziotto fu chiaro che Lunar stava per avere un incontro importante. Decise di mantenersi vigile, ma di non interferire. Lunar si fece bastare la risposta, ma era sicura che le voci provenissero proprio da lì, forse proprio da quello specchio nero che avevano di fronte. La fecero accomodare nella sedia al centro, mentre Paul e Augusto sedevano ai lati. Nella stanzetta entrarono altri due agenti che avrebbero poi firmato i verbali del riconoscimento come testimoni. Fu detto a Lunar di stare tranquilla perché non poteva essere vista al di là del vetro, solo loro potevano vedere. I suoni, invece, non potevano passare né da una parte né dall'altra, tranne che con l'uso del microfono. Il riconoscimento sarebbe durato il tempo occorrente a Lunar a dare una risposta, poi sarebbe tutto finito e l'avrebbero riportata dai genitori. Lunar ascoltò con attenzione quel che le veniva spiegato, ma era molto confusa. Da dove venivano allora i suoni che sentiva? Forse davvero si ingannava e provenivano da altre stanze. Augusto accese il microfono e disse a qualcuno di procedere. Passò qualche secondo e si accese una luce al di là dello specchio nero dove comparve una stanza grigia, spoglia e lustra come quella in cui si trovavano loro. Al centro c’era una sedia, e seduto sulla sedia un uomo che indossava una tuta blu; aveva le mani e i piedi ammanettati, dietro di lui stavano due guardie. L'uomo, immobile sulla sedia, teneva la testa china, i capelli gli coprivano il viso. Augusto disse alle guardie di fargli alzare la testa. Videro che una delle guardie si avvicinava all'uomo e gli parlava, lui ciondolava la testa. Allora la guardia gli disse ancora qualcosa e questo di scatto alzò il viso con una smorfia. Lunar rivide ancora una volta gli occhi senza vita di quella sera. Sebbene le avessero detto che non poteva essere vista, aveva la chiara sensazione che l'uomo la stesse guardando, anche se i suoi occhi chiari sembravano perduti in qualche luogo lontano. Solo la bocca, con la sua smorfia di disgusto, comunicava qualcosa. Sebbene indossasse la tuta blu, Lunar non poteva fare a meno di vedere il nero intorno a lui, e poi c’era quel sussurrare di voci continuo. Le voci fecero silenzio e anche il tempo sembrò fermarsi. Tutto era attutito e Lunar non riusciva nemmeno più a percepire se stessa. Come se fosse cessata ogni sua volontà, non poteva più disporre del suo corpo, solo di una parte molto piccola della sua mente. Fu allora che capì che non le restava altra scelta che ascoltare. Il sussurro fu sostituito da una voce, una voce maschile. Era la voce dell'uomo che l'aveva aggredita, questo lei lo poteva dire con chiarezza, anche se non ricordava di averlo mai sentito parlare, solo che il modo di parlare era diverso, come fuori dal tempo. La voce iniziò a parlarle chiaramente. «Ascolta Lunar, mi chiamo Lucàs e ti voglio raccontare qualcosa di me. Sono nato per errore 27 anni fa. Mia madre e mio padre vivevano in una casa modesta in periferia e non mi volevano. Si erano sposati da poco, ma non erano felici. Si erano legati perché sembrava che non ci fosse altra scelta che sposarsi o vivere soli e additati dalla gente. Poco dopo il matrimonio mio padre sfoderò la sua natura violenta e mia madre la sua propensione alla depressione. Normali reazioni a una vita di costrizioni e di infelicità cui nessuno dei due aveva mai trovato il modo di ribellarsi, credo. Quando mio padre era ubriaco e violento costringeva mia madre a fare l'amore, e fu in una di quelle occasioni che io fui concepito. Per mia madre fu l'ennesimo colpo scoprire di essere incinta di quell'uomo orribile che la prendeva con la forza e che per il resto del tempo cercava di dimenticarsi della sua esistenza. Decisero di tenermi perché erano stati educati a pensare all'aborto come a un peccato terribile e perché così sarebbero state felici le loro famiglie e zittiti i vicini che vociavano del loro matrimonio in crisi. Non avrebbero potuto prendere una decisione peggiore di questa: decidere di rovinare un'altra vita, oltre alla loro. Nonostante mia madre, per riuscire ad andare avanti, abbia iniziato a bere già durante la gravidanza, io venni al mondo dopo nove mesi. Venivo curato, lavato e sfamato senza il minimo amore. Mia madre svolgeva il suo compito con diligenza come l'avrebbe svolto una macchina. Mio padre non mi degnava di uno sguardo, purché non piangessi. In tal caso, si avventava sulla culla con rabbia e mi strillava di smetterla. Credo di aver imparato quasi subito l'arte dell'invisibilità. Cercavo di dare il minor disturbo possibile e di non farmi sentire, vivendo una vita da topo che si muove silenzioso lungo le pareti della casa per non farsi scoprire. Purtroppo, il mio silenzio non fu sufficiente, a mano a mano che crescevo il solo fatto che io fossi in casa creava disturbo. Ero testimone delle sbornie dei miei genitori, delle violenze ingiustificate di mio padre, della debolezza di mia madre e questo bastava ad attirarmi le sue attenzioni non proprio affettuose. Ogni scusa era buona per picchiarmi, insultarmi, umiliarmi. Non c'era nulla che io potessi fare o non fare per evitare di essere molestato. Mia madre non interveniva mai in mio favore, in parte perché lui l’avrebbe picchiata e in parte perché pensava che me la fossi cercata venendo al mondo. Gli anni trascorrevano mentre io vivevo in un mondo parallelo, distante dalle persone e tenuto alla larga da chiunque. Tutti sapevano quel che accadeva in casa mia, ma nessuno parlava o diceva nulla, finché le cose restavano confinate in quelle quattro mura non c'era bisogno di scomporsi. Del resto, anch'io contribuivo a non creare problemi. A scuola ero un alunno diligente, il fatto di non avere altro da fare o a cui affezionarmi mi fece diventare uno studioso. Mi rendevo conto che l’intelligenza e l’istruzione erano le uniche possibilità che mi rimanevano per poter un giorno lasciare quel luogo. Ero diventato anche un esperto nel dissimulare i lividi che mio padre mi procurava, una volta andai a scuola con un maglione in estate pur di nascondere i segni sulle braccia. Nessuno faceva caso alle mie bizzarrie. C'era qualcosa che nascondevo e che sapevo non sarei riuscito a nascondere per sempre. Una bestia nera stava crescendo dentro di me, viveva acquattata nel profondo del mio animo e si nutriva di tutto il dolore, le ingiustizie, il disinteresse, la violenza di cui ero oggetto. Cresceva, lo sentivo. Non le davo modo di uscire, ma sapevo che un giorno sarebbe stata abbastanza forte e non sarei più riuscito a dominarla. Avvenne un giorno di primavera, avevo diciassette anni. Non ho mai capito per quale motivo, una ragazza del mio corso avesse deciso di essermi amica. Si chiamava Esmeralda. Era arrivata da poco e forse all’inizio non sapeva nulla di me. Ma qualche voce doveva esserle arrivata, e aveva senz’altro notato che nessuno mi rivolgeva mai la parola. Indifferente a tutto questo, tentava sempre di starmi vicina e di coinvolgermi in qualcosa. Era una ragazza carina, solare, decisa, forte. Non ho mai avuto il coraggio di chiederle che cosa la spingesse verso di me, temevo di essere oggetto di qualche scherzo o di qualche esperimento. Io la tenevo lontano, non sapevo nemmeno come fare amicizia. Mi sentivo terrorizzato dal suo calore, dal suo sorriso. Poi, piano piano qualcosa si è mosso ed io ho iniziato a rispondere, se pur goffamente, ai suoi richiami. Andavamo insieme in biblioteca e a passeggiare; lei mi accompagnava a vedere i terribili film che piacevano solo a me e, una volta fuori dal cinema, mi prendeva in giro ma non mi sentivo ferito, perché c'era affetto anche in quello. Non le parlavo mai dei miei genitori o della mia opprimente condizione, non le parlavo mai nemmeno della mia parte nera, lei non avrebbe capito e poi, da quando la conoscevo, le cose andavano meglio... mi pareva. Mi invitò anche a casa sua, sudavo freddo la prima volta che varcai quella soglia. Mi sentivo un animale al macello ed ero certo che sarebbe stata la fine della nostra amicizia. Lei poteva, per qualche motivo, essere cieca circa la mia natura e la mia origine, ma i suoi genitori no. Invece, fui accolto con calore nella loro bella casa. I suoi erano benestanti, ma mantenevano uno stile di vita semplice. Il padre era una persona molto istruita e mi sorpresi a scambiare con lui idee su molti argomenti. Stavo davvero bene in quella casa, ero sempre il benvenuto. Temevo che qualcosa potesse rompere l'idillio. Facevo sempre in maniera di tenere lontana Esmeralda da casa mia. Un giorno, però, lei venne a trovarmi. Doveva assolutamente dirmi una cosa, non ricordo nemmeno che cosa. Non poteva attendere il giorno dopo a scuola e voleva farmi una sorpresa. Suonò il campanello. Le aprì mia madre, già abbastanza ubriaca a quell'ora. Io sentii la voce di Esmeralda e corsi alla porta, in tempo per non far notare alla mia amica le condizioni di mia madre e per allontanare quella donna sciupata dall'ingresso. Io ed Esmeralda parlavamo sulla porta. Tentavo di tagliare corto per timore che qualcuno uscisse di casa o che iniziassero a urlare, tanto che Esmeralda cominciò a preoccuparsi. «Che cosa c'è? sei strano» continuava a dire. Volevo solo che se ne andasse. Sentii i passi di mio padre che venire verso la porta, allora dissi a Esmeralda di andarsene. Troppo tardi, lui era già lì. Aprì la porta completamente ubriaco, aveva addosso i suoi soliti abiti sporchi e puzzava. «Allora ragazzo, tua madre dice che c'è una tua amichetta» biascicò, «io le ho detto: ma che cosa dici brutta cretina, quel frocio di tuo figlio non può avere un'amichetta. E invece... eccola qua. Sembra anche carina, fammi vedere …» Esmeralda era a bocca aperta. Mio padre si fece avanti e le prese un braccio. Io, io a quel punto non ero più io. Una rabbia mai provata prima mi scuoteva e mi faceva muovere e parlare. Mi misi tra mio padre ed Esmeralda, le dissi di andare a casa e che ci saremmo visti il giorno dopo. Lei indietreggiò e sentii che si allontanava lentamente, ma credo che vide mio padre colpirmi in pieno volto. Persi l'equilibrio e caddi. Allora lui iniziò la sua lunga sequela di insulti. Mi avventai su di lui. Fino ad allora, non avevo mai osato ribellarmi. Scoprii che ero più forte. Iniziai a colpirlo e a colpirlo, finché la sua faccia non fu una maschera di sangue. Credevo di averlo ucciso, mia madre era in piedi vicino a me e rideva a crepapelle. È l'ultima immagine che mi rimane dei miei genitori. Sentii una sirena che si avvicinava e la polizia arrivò in pochi secondi: il vicinato aveva rotto il muro di silenzio l'unica volta in cui avevo deciso di non subire più. Fui arrestato. Il processo fu veloce, nessuno venne e testimoniare per gli anni di violenze e soprusi e il mio difensore in tribunale fece il minimo indispensabile. Aveva casi più importanti e meglio retribuiti di cui occuparsi. Non ero riuscito a uccidere mio padre, e mi misero in una specie di carcere minorile che tutti si ostinavano a definire ‘istituto per giovani difficili’, ma che si presentava come una prigione e lasciava nell’anima la stessa sensazione di logoramento. Non ebbi più notizie di Esmeralda fino a qualche anno fa, ma meglio sarebbe stato crederla morta, perché quando la rividi fu per me l'inizio di un inesorabile declino. Nel momento in cui varcai la soglia di quell’istituto, ebbi la certezza che ogni speranza di gioia futura, semmai ce ne fosse stata, rimaneva fuori da quei cancelli. Mi chiesi se l’avrei ritrovata una volta uscito, come un cane fedele attende il padrone, o se l’avrei vista volare via. Nel dubbio non mi girai nemmeno una volta a guardare indietro. Gli anni di istituto furono meno tragici di quello che si può credere, per me. Abituato allo schifo della mia casa non fu difficile adattarmi agli scarafaggi e all'odore di latrina. L'isolamento mentale nel quale ero caduto mi permetteva di sopportare la solitudine e la tristezza. Intorno a me c'era un misto di rispetto e di paura. Il crimine per cui ero stato inviato lì mi aveva procurato una fama da duro, il mio continuo silenzio e la mia aria da folle tenevano lontano chiunque. Era anche girata la voce che fossi posseduto. Lasciai che dicessero e, per quel che è la mia vita ora, direi che può anche essere vero. Gli anni di reclusione mi diedero molto tempo per studiare e mi diplomai con ottimi voti. Il mio comportamento schivo e la mia propensione allo studio mi valsero il permesso di occuparmi della biblioteca dell’istituto in alcuni giorni della settimana, così ebbi il permesso di muovermi negli spazi con una certa libertà. Un piccolo angolo di vita vera in quella prigionia. Stavo per diventare maggiorenne e si avvicinava il tempo della mia libertà, cosa di cui non sapevo che fare, quando arrivò nell’istituto un nuovo psicoterapeuta. Quello che c'era prima era stato talmente picchiato e minacciato che alla fine aveva deciso di chiudersi nel suo studio nelle giornate in cui doveva prestare servizio, attendendo che accettassero la sua richiesta di trasferimento. Il nuovo psicoterapeuta fece subito sapere a tutti che era arrivato. Guidava una vecchia macchinina gialla, che doveva montare lo stesso motore di un trattore, perché lo si sentiva arrivare da chilometri di distanza. Quando scese dalla macchina nel cortile centrale, provocò l'ilarità di tutti. Era alto quasi due metri e robusto, sembrava impossibile che la sua mole potesse essere contenuta da quella scatoletta di latta. Indossava scarpe da ginnastica logore, un paio di jeans e un maglione rattoppato; aveva la barba incolta e i capelli brizzolati che si spargevano scomposti sulla testa. In quel luogo, dove tutti indossavano una divisa, chi da recluso, chi da inserviente, quell’uomo rappresentava un elemento di disordine. Incurante delle risate e dei commenti di vario tipo che gli piovevano addosso, ci salutò sorridendo con un profondo inchino. Io lo osservavo dalla mia stanza e considerai che sarebbe stata sufficiente un'ora per fargli perdere il sorriso e un paio di giornate con noi ‘bravi ragazzi’ per fargli passare completamente la voglia di lavorare. Quindi non lo degnai più di uno sguardo, con ogni probabilità non sarei mai riuscito nemmeno a vederlo da vicino. Seppi che voleva essere chiamato dottor Jones. Contro ogni mia previsione, quell'omone sorridente riuscì a guadagnarsi il rispetto di tutti dopo due giorni. La prima volta che decise di fare una passeggiata nei corridoi e di visitare il cortile dell’istituto durante la nostra ora d’aria, un gruppo scelto di ragazzoni, quelli più cattivi e creativi quanto a brutalità, andarono a dargli il benvenuto. Gli si pararono davanti, nessuno di loro era alto quanto lui, ma erano comunque di più. Gli dissero di stare lontano da loro, se voleva continuare a godere di buona salute. Lui per tutta risposta chiese chi fosse il capo. Si fece avanti uno dei ragazzi, uno di quelli che mettevano paura solo a guardarlo in faccia. Il dottor Jones non gli lasciò nemmeno il tempo di dire qualcosa, gli tirò un gancio montante che lo fece volare qualche metro più in là. Gli altri rimasero senza parole e immobili, il personale di sorveglianza non reagì per non essere coinvolto, ma osservava da vicino ciò che stava accadendo. La tensione si poteva tagliare con una lama. In momenti del genere, non si sa se la situazione precipiterà in una sommossa o se passerà come l’annuncio di un temporale mai scoppiato. Il dottor Jones disse con tutta calma che lui non era lì per mantenere la salute ma per fare il suo lavoro, e che l'avrebbe fatto, che a loro piacesse o meno. Quindi, assunse la sua consueta espressione serena e continuò il suo giro come un turista in una chiesa, salutando qua e là quasi conoscesse tutti. Si creò curiosità intorno a quell'uomo. I bene informati raccontarono che, come aveva già dimostrato, il nuovo dottore era uno abituato a lavorare con i casi impossibili e in luoghi impossibili. Da anni lavorava dove nessuno voleva stare, ovunque andasse creava scompiglio per i suoi metodi poco ortodossi, ma tutti lo lasciavano fare perché era l'unico a ottenere dei risultati. Quanto a me, desideravo solo tenermi il più lontano possibile da quell'orso dedito alla boxe. Invece, un pomeriggio mi capitò di essere convocato nel suo studio. Non potevo rifiutarmi di vederlo, ma potevo fargli passare la voglia di avere a che fare con me. Nessuno resisteva davanti al mio silenzio e alla mia indifferenza e poi il mio aspetto creava una certa inquietudine. Quando entrai nel suo ufficio, lo trovai che armeggiava intorno a un vaso con dentro una pianta. «Prego Lucàs, siediti. Ti piacciono le piante?» mi disse senza guardarmi.