Canto 30 paradiso :ESE_Divina Commedia
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Canto 30 paradiso :ESE_Divina Commedia
CANTO XXX Comincia il canto trigesimo del Paradiso. Nel quale l’autore scrive sé esser salito nel decimo cielo; dove prima in forma d’un fiume, poi in forma d’una rosa, vede la celeste corte, e in quella la sedia d’Arrigo imperadore; del quale e di Clemente papa Beatrice alcuna cosa gli predice. 1-9 Forse l’ora del mezzodì (l’ora sesta) arde lontano seimila miglia, e la terra proietta (china) il suo cono d’ombra fin quasi a distenderlo all’orizzonte (al letto piano), quando lo spazio celeste, per noi più lontano, incomincia a diventare tale che qualche stella non è più visibile fin quaggiù sulla terra; e non appena l’aurora, luminosa ancella del sole, avanza, ecco che il cielo spegne a una a una le sue luci (di vista in vista) fino alla più splendente. F 3 6 9 10-15 Similmente gli angeli trionfanti che sempre festeggiano intorno al punto divino che vinse il mio sguardo, sembrando racchiuso dagli ordini angelici che invece è Lui a circondare, poco per volta si sbiadirono alla mia vista: per cui il non vedere più niente e l’amore mi fecero voltare nuovamente gli occhi a Beatrice. 12 15 16-21 Se tutto quello che è stato detto di Beatrice fino a questo punto fosse riunito in un’unica lode, sarebbe insufficiente a descriverla ora. La bellezza che io contemplai va oltre (trasmoda) non solo alle nostre possibilità, ma io ho per sicuro che soltanto Dio suo creatore possa comprenderla fino in fondo. 18 21 22-27 Mi riconosco vinto da questo punto della narrazione, più di quanto mai un poeta comico o tragico sia stato superato (soprato) da un passo della sua opera; giacché, come il sole abbaglia la vista più fragile, così il ricordare la dolcezza di quel sorriso fa venir meno (scema) il mio intelletto a me stesso. 24 27 D. Alighieri, La Divina Commedia ©SEI, 2010 orse semilia miglia di lontano ci ferve l’ora sesta, e questo mondo china già l’ombra quasi al letto piano, quando ’l mezzo del cielo, a noi profondo, comincia a farsi tal, ch’alcuna stella perde il parere infino a questo fondo; e come vien la chiarissima ancella del sol più oltre, così ’l ciel si chiude di vista in vista infino a la più bella. Non altrimenti il trïunfo che lude sempre dintorno al punto che mi vinse, parendo inchiuso da quel ch’elli ’nchiude, a poco a poco al mio veder si stinse: per che tornar con li occhi a Bëatrice nulla vedere e amor mi costrinse. Se quanto infino a qui di lei si dice fosse conchiuso tutto in una loda, poca sarebbe a fornir questa vice. La bellezza ch’io vidi si trasmoda non pur di là da noi, ma certo io credo che solo il suo fattor tutta la goda. Da questo passo vinto mi concedo più che già mai da punto di suo tema soprato fosse comico o tragedo: ché, come sole in viso che più trema, così lo rimembrar del dolce riso la mente mia da me medesmo scema. I L F I U M E D I LU C E 30 33 36 39 42 45 48 51 54 57 60 63 66 69 Dal primo giorno ch’i’ vidi il suo viso in questa vita, infino a questa vista, non m’è il seguire al mio cantar preciso; ma or convien che mio seguir desista più dietro a sua bellezza, poetando, come a l’ultimo suo ciascuno artista. Cotal qual io la lascio a maggior bando che quel de la mia tuba, che deduce l’ardüa sua matera terminando, con atto e voce di spedito duce ricominciò: «Noi siamo usciti fore del maggior corpo al ciel ch’è pura luce: luce intellettüal, piena d’amore; amor di vero ben, pien di letizia; letizia che trascende ogne dolzore. Qui vederai l’una e l’altra milizia di paradiso, e l’una in quelli aspetti che tu vedrai a l’ultima giustizia». Come sùbito lampo che discetti li spiriti visivi, sì che priva da l’atto l’occhio di più forti obietti, così mi circunfulse luce viva, e lasciommi fasciato di tal velo del suo fulgor, che nulla m’appariva. «Sempre l’amor che queta questo cielo accoglie in sé con sì fatta salute, per far disposto a sua fiamma il candelo». Non fur più tosto dentro a me venute queste parole brievi, ch’io compresi me sormontar di sopr’a mia virtute; e di novella vista mi raccesi tale, che nulla luce è tanto mera, che li occhi miei non si fosser difesi; e vidi lume in forma di rivera fulvido di fulgore, intra due rive dipinte di mirabil primavera. Di tal fiumana uscian faville vive, e d’ogne parte si mettien ne’ fiori, quasi rubin che oro circunscrive; poi, come inebrïate da li odori, riprofondavan sé nel miro gurge, e s’una intrava, un’altra n’uscia fori. CA N TO X X X 28-33 Dal primo momento in cui io vidi i suoi occhi nella vita mortale, fino a questa visione, non mi è mai stato impedito (preciso) di procedere nel mio canto; ma qui è necessario che il mio cammino rinunci a tener dietro alla sua bellezza con la poesia, come ogni artista che sia giunto al suo limite estremo. 34-45 Tanto bella che io l’affido a più capace voce (maggior bando) di quella della mia poesia (tuba), che sta portando a termine la sua difficile materia, Beatrice riprese con l’atteggiamento e la voce di una decisa guida: «Noi siamo usciti dal Primo Mobile, il più grande dei corpi fisici, all’Empireo, il cielo che è formato di pura luce: luce intellettuale, ricolma di carità; carità per il vero bene, ricolmo di gioia; gioia che supera qualunque dolcezza. Qui vedrai le due schiere del Paradiso (i beati e gli angeli), e la prima con l’aspetto che tu vedrai nel giorno del giudizio universale (a l’ultima giustizia)». 46-51 Come un fulmine improvviso che disperda (discetti) le facoltà visive, privando l’occhio della sua funzione di vedere altri oggetti diventati troppo intensi per lui, così io fui illuminato dalla luce divina che mi lasciò avvolto di una fascia del suo splendore tanto forte, che non scorgevo nulla. 52-54 «La carità di Dio, che appaga (queta) questo cielo, riceve sempre dentro di sé con questo benefico saluto, per rendere la candela adatta all’ardore del suo fuoco». 55-63 Queste poche parole non giunsero a me più velocemente, di quanto io mi accorsi di crescere al di là della mia precedente forza; e ripresi a vedere (raccesi) con una nuova capacità visiva tanto intensa, che non c’è nessuna luce così fulgente (mera), che il mio sguardo non potesse reggere; e vidi una luce fiammante di splendore in forma di fiume (rivera), tra due rive adornate (dipinte) di una stupenda fioritura primaverile. 64-69 Da questo fiume sprizzavano delle scintille ardenti, e andavano da ogni parte a porsi (si mettien) dentro i fiori, come rubini incastonati nell’oro; quindi, come se si fossero inebriate dei loro profumi, si rigettavano nel meraviglioso gorgo, e mentre una rientrava, altre ne uscivano. D. Alighieri, La Divina Commedia ©SEI, 2010 P A R A D I S O CA N TO X X X P A R A D I S O 70-75 «Il profondo desiderio che ora (mo) arde in te e ti stimola (urge) a sapere che cos’è ciò che vedi, mi rende tanto più felice quanto più è intenso (turge); ma è necessario che tu beva (bei) di quest’acqua santa, prima che la tua sete così forte possa essere saziata»: questo mi disse Beatrice, luce dei miei occhi. L A R O SA D E I B E ATI 72 75 76-81 E aggiunse: «Il fiume di luce e quelle faville (topazi) che si immergono e sprizzano da esso e i fiori delle ridenti sue rive sono prefigurazioni (umbriferi prefazi) della loro verità. Non è che tali cose siano di per sé imperfette (acerbe); piuttosto è un limite tuo, che non hai ancora occhi abbastanza potenti». 82-90 Non esiste bambino (fantin) che corra tanto velocemente con lo sguardo alla mammella (latte), se si sveglia tardi rispetto al solito, come feci io per rendere i miei occhi specchi ancora più efficaci, chinandomi sull’acqua di quel fiume che scorre (si deriva) affinché si diventi migliori (s’immegli) in esso; e non appena le mie ciglia (la gronda de le palpebre mie) ebbero bevuto quell’acqua, subito mi sembrò che (il fiume) da lungo che era fosse diventato circolare. 78 81 84 87 90 91-96 Quindi, come persone mascherate (stata sotto larve), che si rivelano diverse da come apparivano, se si tolgono le false sembianze nelle quali erano celati, così quei fiori e quelle faville si trasformarono in più gioiose letizie, di modo che io potei contemplare chiaramente i due cori (corti) del Paradiso. 97-99 O fulgore di Dio, grazie al quale io potei contemplare il sublime trionfo del regno della vera vita, concedimi la forza di ridirlo proprio come io lo vidi! 100-105 Nell’Empireo c’è un lume che rende visibile Dio (lo creatore) alle creature che trovano appagamento alla loro felicità solo nel contemplare Lui. Questa luce si estende in forma circolare, tanto che la sua circonferenza sarebbe troppo larga per cingere (sarebbe ... troppo larga cintura) il sole. 106-114 Tutto ciò che appare di tale luce ha origine (Fassi) da un raggio che si riflette sulla parte più alta del Primo Mobile, il quale trae da qui la vita e la forza. E come un colle si riflette in un lago posto ai suoi piedi (di suo imo), come se volesse vedersi tutto ornato, nel periodo in cui è ricco di erba e di fiori, così io vidi tutte le anime tornate in Paradiso riflettersi in quel lago D. Alighieri, La Divina Commedia ©SEI, 2010 93 96 99 102 105 108 111 «L’alto disio che mo t’infiamma e urge, d’aver notizia di ciò che tu vei, tanto mi piace più quanto più turge; ma di quest’acqua convien che tu bei prima che tanta sete in te si sazi»: così mi disse il sol de li occhi miei. Anche soggiunse: «Il fiume e li topazi ch’entrano ed escono e ’l rider de l’erbe son di lor vero umbriferi prefazi. Non che da sé sian queste cose acerbe; ma è difetto da la parte tua, che non hai viste ancor tanto superbe». Non è fantin che sì sùbito rua col volto verso il latte, se si svegli molto tardato da l’usanza sua, come fec’io, per far migliori spegli ancor de li occhi, chinandomi a l’onda che si deriva perché vi s’immegli; e sì come di lei bevve la gronda de le palpebre mie, così mi parve di sua lunghezza divenuta tonda. Poi, come gente stata sotto larve, che pare altro che prima, se si sveste la sembianza non süa in che disparve, così mi si cambiaro in maggior feste li fiori e le faville, sì ch’io vidi ambo le corti del ciel manifeste. O isplendor di Dio, per cu’ io vidi l’alto trïunfo del regno verace, dammi virtù a dir com’ïo il vidi! Lume è là sù che visibile face lo creatore a quella creatura che solo in lui vedere ha la sua pace. E’ si distende in circular figura, in tanto che la sua circunferenza sarebbe al sol troppo larga cintura. Fassi di raggio tutta sua parvenza reflesso al sommo del mobile primo, che prende quindi vivere e potenza. E come clivo in acqua di suo imo si specchia, quasi per vedersi addorno, quando è nel verde e ne’ fioretti opimo, L A R O SA D E I B E ATI 114 117 120 123 126 129 132 135 138 141 144 148 sì, soprastando al lume intorno intorno, vidi specchiarsi in più di mille soglie quanto di noi là sù fatto ha ritorno. E se l’infimo grado in sé raccoglie sì grande lume, quanta è la larghezza di questa rosa ne l’estreme foglie! La vista mia ne l’ampio e ne l’altezza non si smarriva, ma tutto prendeva il quanto e ’l quale di quella allegrezza. Presso e lontano, lì, né pon né leva: ché dove Dio sanza mezzo governa, la legge natural nulla rileva. Nel giallo de la rosa sempiterna, che si digrada e dilata e redole odor di lode al sol che sempre verna, qual è colui che tace e dicer vole, mi trasse Bëatrice, e disse: «Mira quanto è ’l convento de le bianche stole! Vedi nostra città quant’ella gira; vedi li nostri scanni sì ripieni, che poca gente più ci si disira. E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni per la corona che già v’è sù posta, prima che tu a queste nozze ceni, sederà l’alma, che fia giù agosta, de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia verrà in prima ch’ella sia disposta. La cieca cupidigia che v’ammalia simili fatti v’ha al fantolino che muor per fame e caccia via la balia. E fia prefetto nel foro divino allora tal, che palese e coverto non anderà con lui per un cammino. Ma poco poi sarà da Dio sofferto nel santo officio: ch’el sarà detruso là dove Simon mago è per suo merto, e farà quel d’Alagna intrar più giuso». CA N TO X X X di luce, distribuite su innumerevoli gradini circolari, stando tutto intorno sopra a esso. 115-117 E se il più basso di quei gradini riesce a contenere una luce tanto estesa, quale sarà l’ampiezza di questa rosa di beati nei suoi petali più esterni! 118-123 La mia vista non si perdeva nella grandezza e nell’altezza di quel luogo, anzi riusciva a cogliere tutta l’estensione e l’intensità di quella beatitudine. Nell’Empireo la vicinanza o la lontananza di qualcosa non aggiunge (pon) e non toglie nulla: poiché dove Dio governa direttamente, le leggi fisiche non contano nulla. 124-132 Al centro di quella rosa eterna che è disposta a gradini e si allarga e spande profumo di lode a Dio, sole che crea eternamente primavera (sempre verna), Beatrice condusse me, che ero come colui che vorrebbe parlare ma resta in silenzio, e mi disse: «Ammira quanto è grande la comunità di queste candide vesti (stole)! Osserva quanto si estende in cerchio il nostro regno; osserva i nostri seggi quanto sono pieni, dato che ormai poche anime si attendono qui. 133-138 E su quel seggio regale che tu guardi per la corona che vi è posta, siederà, prima ancora che tu venga a questo banchetto di felicità, l’anima, che in terra sarà imperiale (agosta), del nobile Arrigo, che verrà in Italia per riportarla sulla dritta strada prima di quando essa sia preparata ad accoglierlo. 139-141 La sordida avarizia che strega (ammalia) voi uomini, vi ha resi simili all’infante (fantolino) che muore di fame e scaccia da sé la balia. 142-148 E sarà a quel tempo capo (prefetto) della Chiesa (foro divino) un tale (Bonifacio VIII) che apertamente o nascostamente non farà lo stesso cammino con lui. Ma per poco tempo poi sarà tollerato da Dio sul trono pontificio: poiché egli verrà sprofondato (detruso) in quel luogo in cui Simon mago si trova per le sue colpe, e spingerà più in giù il papa di Anagni». D. Alighieri, La Divina Commedia ©SEI, 2010 P A R A D I S O