Per aumentare gli stipendi meno peso fiscale

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Per aumentare gli stipendi meno peso fiscale
Lavoro
L’analisi di Franco Bosi, presidente dell’Unione industriali
di Pavia. “Serve una riforma del lavoro che agganci i salari
alla produttività”
“Per aumentare
gli stipendi meno peso
fiscale sulle imprese”
“E’ vero, gli stipendi dei lavoratori italiani sono tra i più bassi
d’Europa: addirittura la metà di
quelli dei tedeschi, come è emerso da un recente studio. Per far
lievitare i salari è necessario
operare una seria riforma del
mercato del lavoro, che alleggerisca notevolmente il peso fiscale
che oggi grava sulle imprese e
agganci una parte dello stipendio ai livelli di produttività”. E’
quanto afferma Franco Bosi,
presidente dell’Unione industriali della provincia di Pavia,
in questa intervista a “il Ticino”.
“Non ci si può limitare solo alla
discussione sull’articolo 18 – sottolinea Bosi -. E’ giusto trovare
forme di ammortizzatori sociali
per chi perde il posto. Però dobbiamo anche creare lavoro ed offrire delle opportunità ai giovani
che oggi sono senza un’occupazione e non possono fare i precari a vita”. Il presidente degli industriali pavesi si sofferma sui
possibili interventi del governo
Monti: “Il mercato del lavoro va
cambiato. In questi ultimi anni
sono state introdotte diverse tipologie di contratti atipici ed a
tempo determinato, quasi in risposta alla rigidità dell’attuale
legislazione troppo ancorata all’articolo 18: la conseguenza è
stata che i nuovi assunti sono
ormai quasi tutti precari. Si è
creata una società dove chi ha il
posto fisso è super-tutelato, a
differenza di tutti gli altri che
non godono delle stesse garanzie. Non vanno cancellate con un
colpo di spugna tutte le conquiste sociali realizzate nel corso
degli anni, ma oggi è necessaria
anche una certa flessibilità.
Questo non significa lasciare la
gente per strada: servono delle
tutele. Però non deve esserci
una rigidità tale da impedire alle aziende di crescere”. Bosi approfondisce la sua analisi. “L’articolo 18 ha indotto molte imprese a non ingrandirsi, per non superare il tetto dei 15 dipendenti.
Un tempo si diceva “piccolo è
bello”: oggi rischia di essere una
limitazione, perché con dimensioni limitate si fa fatica ad operare sui mercati internazionali e
ad accedere al credito. La riforma dovrà intervenire su tutti i
rapporti di lavoro: basta con i
contratti a progetto o altre forme di assunzione a tempo, che
rappresentano soltanto un antidoto all’articolo 18. Si deve ripartire rispettando i diritti dei
lavoratori, ma anche quelli delle
imprese che vogliono competere
sui mercati. Va prima di tutto
alleggerita la fiscalità. Come ha
riconosciuto anche il ministro
Fornero, oggi in Italia abbiamo
un costo del lavoro elevato e stipendi bassi rispetto al resto
d’Europa: è una contraddizione
che non può più reggere”. Da qui
la necessità anche di modificare
il modello salariale. “Una parte
dello stipendio dovrà essere legata alla produttività – afferma
Bosi -. Negli ultimi 15 anni l’Italia non ha retto il confronto con
gli altri Paesi dell’Europa occidentale: adesso dobbiamo recuperare posizioni. Oltre ai contratti collettivi nazionali, andranno quindi incentivati i contratti aziendali di secondo livello
con i quali si andrà a riconoscere
il “merito”: in azienda si dovrà
premiare chi “darà di più”, con
una competizione sana e corretta. E’ un passaggio fondamentale per tornare a produrre ed essere competitivi. Oggi, tra l’altro, c’è poca incentivazione economica per un dipendente che
voglia migliorare la propria posizione: è un sistema che va rivisto. Dobbiamo cercare di dare
stabilità al lavoro: non è più possibile accettare che così tanti
giovani siano assunti solo con
contratti “precari”. Però rimettiamo anche il Paese in condizione di poter lavorare. Prima di
tutto bisogna creare lavoro, favorendo gli investimenti dall’estero. Il governo deve creare le
condizioni perché si sviluppi l’economia. Gli italiani hanno ingegno, fantasia, capacità di fare:
ma il sistema in cui operano va
snellito e sburocratizzato”.
Venerdì, 2 marzo 2012
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Riformare il lavoro in tempo di crisi
La giusta regolazione dei rapporti di lavoro è indispensabile per tutelare la dignità della persona del lavoratore, per una equa distribuzione della ricchezza
prodotta, per una leale concorrenza tra le imprese. Ma sul tavolo che si è aperto di recente tra governo e parti sociali vi sono questioni ulteriori e in parte
nuove per il diritto del lavoro, importanti anche per l’economia generale. Si
tratta di comprendere come esso possa contribuire ad attrarre nuovi investimenti nel Paese per creare nuova occupazione; salvaguardare e promuovere il
reddito e la professionalità di chi perde il posto di lavoro; gestire un potenziale
conflitto di interessi, non più tra classi sociali, ma tra generazioni. Negli ultimi
mesi qualcosa di positivo è accaduto. Lo scorso 28 giugno Confindustria e le
confederazioni dei lavoratori, Cgil inclusa, hanno sottoscritto un accordo che riconosce maggiori spazi di azione ai contratti collettivi aziendali, mentre detta
le condizioni perché questi vincolino tutti i lavoratori dell’impresa, iscritti o
non ai sindacati stipulanti, evitando sul punto contenziosi inutilmente dispendiosi. La stessa vicenda Fiat mostra che in Italia è ancora possibile effettuare
ingenti investimenti per ambiziosi piani industriali, anche a diritto invariato,
se solo si consente una maggiore aderenza della regolazione dei rapporti di lavoro alle esigenze del singolo contesto produttivo. Non devono poi trascurarsi
le risorse che le Regioni possono offrire ad esempio in tema di formazione professionale e di supporto alla ricollocazione dei lavoratori disoccupati. Una recente proposta legislativa regionale della Lombardia in materia intende sostenere eventuali accordi sindacali aziendali o territoriali anche in deroga alla
legge, ai sensi dall’art. 8, l. n. 148/2011, al fine di migliorare la competitività
delle imprese. E’ infine degli ultimi giorni il varo di un decreto legislativo di
promozione del lavoro fornito dalle agenzie di somministrazione, le quali svolgono un’ utile funzione di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro.
Quanto alla prossima agenda di governo, non vi sono ancora punti fermi. Si è
accennato all’ipotesi di “contratto unico” o comunque ad una decisa riduzione
delle tipologie contrattuali. In realtà, a ben vedere, potrebbe trattarsi più che
altro di valorizzare contratti già esistenti come l’apprendistato, per favorire
l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, o di rivederne le condizioni di utilizzo, come per il contratto a termine, nel senso di riservarlo ad esigenze oggettivamente temporanee della produzione. E’ ormai evidente il desiderio del governo di riformare la disciplina sanzionatoria dei licenziamenti privi di giusta
causa o giustificato motivo di cui all’art. 18 dello statuto dei lavoratori (per
unità produttive con oltre quindici dipendenti). A tale proposito, si deve osservare che una simile protezione non ha eguali in ordinamenti esteri anche a noi
vicini (e certo non meno civili del nostro sul piano dei rapporti di lavoro) e rischia di penalizzare le nostre imprese. L’applicazione dell’articolo ha poi evidenziato effetti distorsivi per i cospicui risarcimenti, proporzionali alla durata
dei processi, a cui un datore di lavoro può essere condannato magari a distanza di anni, anche a causa di una regola – quella del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, cioè per ragioni economiche – di non facile interpretazione. L’ultimo tassello concerne gli ammortizzatori sociali, ovvero le provvidenze
economiche per i lavoratori sospesi dal lavoro o licenziati per crisi di impresa.
La posta in gioco è seria e l’equilibrio non facile: se non è più accettabile il regime attuale della cassa integrazione straordinaria – nei frequenti casi in cui essa mantiene a lungo sospesi rapporti di lavoro evidentemente destinati ad
estinguersi – dovranno comunque congegnarsi nuovi strumenti di sostegno al
reddito di applicazione universale, con l’interrogativo sulle modalità di finanziamento. Da un lato gli obiettivi di riduzione del debito pubblico sconsigliano
l’intervento della fiscalità generale; dall’altro un aumento del costo del lavoro a
carico delle forze produttive appare al momento gravoso. Potrebbe allora tentarsi una soluzione di compromesso su di un modello misto. Il nodo è proprio
qui: in un tempo di instabilità dei rapporti di lavoro la protezione del lavoratore nel “mercato”, nel periodo tra una occupazione ed un’altra, è una sfida urgente e complessa che questo governo deve affrontare e risolvere.
Alessandro Repossi
([email protected])
Marco Ferraresi
(Ricercatore di diritto del lavoro
dell’Università di Pavia)
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