Fede e mistero del dolore. 2 - che senso ha la sofferenza

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Fede e mistero del dolore. 2 - che senso ha la sofferenza
Fede e mistero del dolore. 2
- che senso ha la sofferenza? Guardiamo Gesù.
Nel suoi apostolato Gesù si è preso cura della sofferenza umana: la guarita, l’ha curata,
l’atteggiamento che ha avuto è stato quello del medico. Lui stesso si è paragonato a un
medico1. (altro che volere il dolore!).
Ma guardiamo il punto più importante: la passione di Gesù.
Gesù nella sua passione ha assunto tutta la sofferenza dell’uomo su di sé è l’ha trasformata
dandole un senso. Egli si è addossato i nostri dolori, non c’è dolore umano che egli non
abbia provato2. Tutti i nostro dolori, di tutti gli uomini del mondo, di ogni tempo egli li ha
sentiti su di sé e se li è caricati.
Gesù ha voluto addossarsi queste sofferenze in modo volontario e soffre da innocente. Cioè
non soffre a causa del suo peccato (non aveva peccato) ma perché sceglie liberamente di
portare i peso del nostro peccato, la conseguenza del nostro peccato che è il dolore fisico,
psichico e morale (=la lontananza da Dio).
- dunque Gesù innanzitutto non ha tolto questa condizione di sofferenza ma l’ha vissuta lui
per primo. Perché? Perché togliere il dolore e la morte con uno schiocco di dita avrebbe
voluto dire privarci della nostra libertà. Se il dolore viene dal peccato e il peccato dalla
nostra libertà eliminare il dolore avrebbe voluto dire togliere la nostra libertà, la storia fatta
anche dalla nostra libertà. Ma Dio rispetta la nostra libertà e la storia che con la nostra
libertà abbiamo fatto.
Libertà ---------- peccato ------------ dolore
Perché Dio non ci ha impedito di peccare? Perché ha creato l’uomo libero, anche di
rifiutarlo, affinché liberamente scegliesse di amarlo e non per costrizione3.
Quindi Gesù per prima cosa accetta la condizione dell’uomo, la fa sua, la assume, vi entra
dentro. Non la toglie con uno schiocco di dita. La situazione di dolore e di morte dell’uomo
non la toglierà con uno schiocco di dita ma la trasformerà e la redimerà proprio dall’interno,
da dentro, assumendola, accettandola e vivendola in maniera totalmente nuova.
- perché Gesù soffrendo e morendo cambia la situazione della sofferenza umana e la
trasforma? Perché egli fa del massimo male il massimo dono d’amore. “Tu mi uccidi? Io mi
dono a te”: non sei tu che mi strappi la vita, sono io che te la dono liberamente per stare
vicino a te. Il massimo male (l’uccisione di Dio) Gesù lo trasforma nel massimo bene: il
dono totale di sé per amore.
La sofferenza è stata legata all’amore, per questo è cambiata per sempre. È questo amore
che trasforma la sofferenza. Non è più sofferenza, è l’atto di amore più grande: il dono
totale della propria vita.
1
“Non sono i sani che hanno bisogno del medico ma i malati”.
Salvici doloris 19. Cf anche isaia 53
3
Cf. catechismo della chiesa cattolica,311 e 412.
2
1
Noi eravamo nel peccato e nella morte. Gesù che è Dio e il Dio-con-noi che poteva fare?
Cosa poteva fare lo sposo vedendo la sua sposa nella morte? Poteva solo andare da lei, lì
dove lei era. Doveva essere con lei, lì dove lei era, cioè nella morte. Non poteva stare
lontano da noi. È sceso nel massimo male dove eravamo soli.
Immaginate la condizione di peccato e di morte come uno scantinato buio e profondo: noi
tutti eravamo lì, lontani da Dio e soli. Eravamo scesi lì. Lui che poteva fare? Poteva
annullare la nostra libertà di volere scendere lì? Avrebbe annullato noi, la nostra storia.
Gesù vede lì la sua sposa, noi: che poteva fare? Solo scendere lì dove eravamo noi. E infatti
è sceso anche lui nella morte e nel peccato, nella lontananza da Dio, nella solitudine. E nel
suo scendere il peccato e la morte si trasformano, sono salvati, si riempiono della sua
presenza e del suo amore. Non sono più il luogo più lontano da Dio, un luogo di solitudine
estrema ma diventano il luogo più vicino a Dio, perché lui ora è sceso lì.
Dio
Noi
- Lui è sceso portandoci la sua compagnia e la sua amicizia anche lì, proprio lì, nella
sofferenza e nella morte. Gesù ci salva non togliendo la sofferenza ma trasformandola da
luogo maledetto e senza Dio a luogo in cui Dio è presente massimamente. Non ci salva dalla
sofferenza ma nella sofferenza. Non togliendola ma trasformandola, redimendola. Non ci
salva dalla morte ma nella morte. Non togliendola ma trasformandola. Ci salva come?
Portando la sua compagnia e il suo amore anche lì, soprattutto lì dove mancava, dove
eravamo andarti a cacciarci scappando da lui. Cosicché il dolore e la morte non sono più un
luogo maledetto e lontano dall’amore di Dio (dove eravamo fuggiti peccando) ma il luogo
in cui l’amore di Dio si manifesta più grandemente, il luogo dove è più grande amore di
Dio.
Egli trasforma il massimo male (il dolore, la morte, l’uccisione del figlio di Dio) nel dono
più grande di amore: “mi uccidi? E io mi dono a te!” trasformo la tua uccisione nel mio
dono a te. Cosicché la morte non è più l’uccisione di lui ma il suo dono libero a me, per me.
Lui sta lì con noi, anche nella morte, allora la morte è trasformata, non siamo più soli come
prima. Allora la morte ci fa meno paura perché non è più luogo di solitudine ma luogo della
sua massima vicinanza.
Non ci salva dalla sofferenza ma nella sofferenza. Da quando lui ha sofferto quando noi
soffriamo non siamo più soli, anzi siamo nel luogo più vicino a lui, il luogo dove possiamo
sperimentare la sua massima vicinanza, il suo massimo amore, proprio lì perché lì lui è con
noi.
La salvezza non è che non c’è più la morte ma che nella morte non siamo più soli. La morte
non ci fa forse paura perché temiamo di essere soli? È la solitudine che rende ancora più
spaventosa la sofferenza. Il suo scendere con noi nella sofferenza e nella morte trasforma
per sempre il dolore. Non sarà mai più luogo di solitudine, ma luogo della sua massima
vicinanza e amore. Ci aspetta lì in fondo! Ci fa meno paura.
Da quando lui è sceso lì la morte è stata trasformata, non è stata tolta, ma è stata
trasformata.
Adesso la sofferenza e la morte hanno il loro senso e il loro valore, eccome. Qual è? La
vicinanza di Dio, l’amore con cui Gesù le ha vissute, il dono di sé totale di Gesù. Nella
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croce di Gesù l’umana sofferenza è stata redenta. Non è più come prima, soffriamo ancora,
ma non più come prima. Ora c’è Gesù vicino a noi, col suo massimo amore. Non è più un
luogo lontano da Dio ma il luogo dove possiamo incontrarlo perchè lui è anche lì,
soprattutto lì. Non c’è più solitudine, neanche nella sofferenza, neanche nella morte. C’è
Gesù che è passato per primo.
- capite allora che quando soffriamo il significato è cambiato?
1) primo perché siamo nel luogo più vicino a Gesù, al suo amore
2) secondo perché possiamo fare anche noi della nostra sofferenza il dono più grande di
noi, il nostro amore più grande
la chiesa ci dice che diventiamo partecipi della sofferenza redentrice di Gesù. Vuol dire che
la nostra sofferenza si è unita alla sua: innanzitutto perché lui si è unito alla nostra, per dono
gratuito suo. Significa allora che anche noi abbiamo sempre la possibilità di unire la nostra
sofferenza alla sua. E allora anche la nostra acquista il grande senso di essere l’amore più
grande che possiamo donare, il dono di noi stessi più grande che possiamo fare. Noi
possiamo accorgerci che quando soffriamo lui è unito a noi e possiamo partecipare al suo
amore soffrendo e amando anche noi. È questo il senso e il valore della sofferenza: l’amore
che ci sta dentro il soffrire, l’amore che trasforma il soffrire.
Soffrire – in sé stesso- rimane uno sperimentare il male: non ha niente di salvifico in sé
stesso. Ma soffrire insieme a Cristo, sentendo il suo amore, e imparando anche noi ad amare
come lui, ci fa vivere la sofferenza trasformata nel nostro più grande desto d’amore, la
massima realizzazione di noi stessi: “nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita
per i propri amici”. Noi possiamo unirci a lui perchè lui per primo si è unito a noi.
Questo significa accettare di soffrire e amare nella sofferenza = offrirla. Vuol dire viverla
come Cristo, viverla come il più alto gesto d’amore che possiamo fare.
- questo richiede conversione = un imparare a.
Ciò non toglie che se anche non riusciamo a vivere la sofferenza con l’amore di Gesù, la
sofferenza comunque è già stata redenta perché lui è disceso vicino al nostro soffrire col suo
amore. Il viverla come lui sarebbe la pienezza della vita nostra e della salvezza. Rimane
sempre un obbiettivo mai raggiunto pienamente. Però sarebbe il nostro massimo bene.
- esempi di vivere la sofferenza come Cristo, con l’amore di Cristo:
- non mi chiudo in me stesso
- non diminuisco il mio amore per gli altri e per Dio
- continuo a riconoscere Dio come colui che mi vuole bene (nella sofferenza è normale
sentirsi meno amato da Dio: mi raccomando la distinzione tra sentire e credere!!!)
tutto ciò è difficilissimo. Infatti una sofferenza veramente accettata mi santifica.
- sintesi:
- la sofferenza non vien da Dio ma dal peccato
3
-
Cristo ha accettato la sofferenza trasformandola nel più alto gesto d’amore (l’ha
redenta)
anche noi possiamo vivere la sofferenza (che resta un male) in questo modo nuovo,
come la forma più alta di amore. Si impara pian piano, pianissimo, pianissimissimo.
- indicazioni concrete per vivere la sofferenza, altrui e propria:
- quando incontriamo la sofferenza nostra o altrui ci ribelliamo. Ebbene è giusto.
Ricordo che la sofferenza non rientra nel piano di Dio. Accettare la propria
ribellione. È giusto urlare “perché?”
- meglio non rimuovere la sofferenza. Meglio non fare finta che non ci sia. È peggio
perché poi agisce da sotto il tavolo. La vita diventa tutta una fuga per non incrociarla.
Meglio dirsi: c’è e io posso prendermene cura.
- Ci vuole tempo per accettare la sofferenza. Il tempo per rimarginare una ferita non è
il nostro tempo, è il tempo della ferita. Accettare non vuol dire un atteggiamento
rinunciatario e passivo. Vuol dire piuttosto prendere atto che c’è una ferita. C’è e me
ne prendo cura. Se la ferita è mia mi prendo cura di me.
- Accettare vuol dire prendersene cura = accogliere la ferita. Non è passività. Quando
siamo noi a soffrire occorre accogliere la ferita = accogliersi; prendersene cura =
prendersi cura di noi. Come faceva Gesù coi malati. Come il buon samaritano.
Immaginate di avere dentro un uomo ferito: bisogna accoglierlo con delicatezza,
avere cura di lui. Un bambino o una bambina che piange non la prenderete a schiaffi.
Immaginate di averlo dentro: ascoltatela, abbracciartela, prendetevi cura di lei. Anche
se piange ascoltatela, ascoltate la vostra ferita. E ora prendetevi cura di lei, del
bimbo/bimba ferita che vi portate dentro. Trattelo come lo avrebbe trattato Gesù.
Solo se riusciremo ad accettare e prenderci cura della nostra ferita potremo fare
altrettanto con la sofferenza altrui. Se non accettiamo le nostra ferita on riusciremo
mai ad accettare neanche quelle altrui.
- esprimete la tristezza e la rabbia che la ferita vi provoca: potete! Parlatene con
qualcuno di fiducia, fatevi accompagnare nel rielaborare la vostra ferita.
- E infine pian pianino, pianissimo, pianissimissimo imparate a trasformare la
sofferenza in amore. Imparando ad amare nella sofferenza, cioè a fare dono di sé
nella sofferenza, come Gesù. Fare della sofferenza il luogo del più grande nostro
amore. Questa è la conversione: imparare ad amare. È lunga e difficile. È la via che
ci propone Gesù.
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