una nuova costituzione per il kenya

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una nuova costituzione per il kenya
UNA NUOVA COSTITUZIONE PER IL KENYA
Domenica 17 Febbraio 2008 14:32
di Agnese Licata
Una nuova costituzione entro l’anno. A un mese e mezzo dalle elezioni che hanno portato il
Kenya allo scontro etnico, è questo il primo, limitato, risultato ottenuto dalla diplomazia
internazionale. Dopo settimane di trattative – guidate con fatica dall’ex presidente Onu Kofi
Annan (oggi tra i rappresentanti dell’Unione Africana) – l’annuncio di un accordo tra i due ex
candidati alla presidenza, Mwai Kibaki e Raila Odinga, arriva in un momento in cui gli scontri tra
kikuyo e luo non sembrano spegnersi. E arriva poco dopo le perentorie (nonché tardive)
dichiarazioni di George W. Bush: “Deve esserci uno stop immediato alle violenze”, affiancate
dalla decisione di far sedere anche il segretario di Stato Condoleezza Rice al tavolo delle
trattative. Se l’iniziativa abbia contribuito a sbloccare i negoziati o sia stato semplicemente un
modo per garantire agli Stati Uniti di rientrare in partita, garantendosi un futuro diritto
d’ingerenza nel nuovo assetto del Kenya, non è dato saperlo. Che qualche “sospetto” sia
lecito, è dimostrato dal ruolo a dir poco marginale che gli Usa hanno giocato nei momenti
immediatamente successivi alle elezioni del 27 dicembre, quando centinaia, migliaia di kikuyo,
venivano uccisi come vendetta per un voto che aveva dichiarato la riconferma del luo Kibaki.
“Sospetti” che si fanno ancora più concreti se si considera che gli Stati Uniti sono il principale
partner commerciale del Kenya, con oltre 900 milioni di dollari l’anno.
È probabile che Geroge W. Bush abbia sperato fino all’ultimo di salvare uno dei suoi alleati
anti-terrorismo in giro per il mondo, Kibaki appunto. Durante la campagna elettorale per le
presidenziali keniane, infatti, Bush non aveva fatto mistero di non avere molta simpatia per lo
sfidante Odinga, “colpevole” di raccogliere anche i voti dei musulmani.
Continua a rimanere in silenzio, invece, la Cina, fedele a una politica di “non interferenza” che
trova in Sudan e nel Darfur la sua massima applicazione. In ogni caso, la pressione
internazionale su Kibaki è stata fin da subito forte: Unione africana, Unione europea, Nazioni
unite e Gran Bretagna hanno spinto e stanno spingendo affinché si arrivi a un governo
provvisorio di unità nazionale che porti il Paese a un nuovo assetto istituzionale (che affianchi
alla figura del presidente anche quella di un presidente del consiglio) e a nuove elezioni.
La paura è di perdere l’ultimo Stato in grado di giocare un ruolo di stabilizzazione tra le nazioni
della costa ovest. Un’area, questa, che da anni vede conflitti endemici. In Somalia, ad esempio,
dove il governo provvisorio si è dimostrato incapace di garantire la popolazione dal doppio
fronte dei signori della guerra e delle truppe islamiche. E poi il Sudan, con l’inarrestabile
conflitto in Darfur. Mentre ad est, Uganda, Ruanda e Repubblica democratica del Congo
rappresentano una delle zone africane storicamente più instabili.
La guerra civile che sta minacciando il Kenya e che finora, secondo la Croce Rossa, ha
causato mille morti e circa seicentomila dispersi, è scoppiata all’indomani del voto, dopo le
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accuse di brogli dello sconfitto, Odinga. Del resto, erano gli stessi risultati elettorali ad essere
dichiaratamente incoerenti. I 95 seggi su 210 assegnati al partito d’opposizione di Odinga – più
del doppio rispetto a quelli del partito di Kibaki – sembrava essere la dura risposta dei keniani
alla corruzione del governo di Kibaki.
Peccato però, che al conteggio dei voti per il rinnovo del presidente, sia stata dichiarata la
vittoria di Kibaki. La classica ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso di contrasti e odi tra i
luo, seconda tribù del Kenya ma discriminati fin dall’assegnazione delle terre all’indomani
dell’indipendenza dalla Gran Bretagna, e i kikuyo, tribù del presidente e detentrice del potere
economico del paese.
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