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1 • La struttura del mercato italiano dei servizi di corporate e investment banking 41 ricerca di una dimensione internazionale rappresenta un passaggio obbligato per un duplice ordine di considerazioni. In primo luogo, la crescente internazionalizzazione del sistema produttivo italiano, anche se solo basata su una logica di export, spinge le imprese a cercare controparti finanziarie capaci di interagire con efficacia con un insieme di fabbisogni più articolato. Le banche di dimensioni maggiori devono quindi adeguare a questa nuova scala la propria offerta, per evitare il rischio di una migrazione della domanda verso quegli attori che, grazie a un’esperienza maturata da molti anni, operano su una scala global con maggiore efficacia. In secondo luogo, l’allargamento della dimensione dei mercati rappresenta una possibile leva di crescita della performance per la banca in quanto ne allarga la varietà e la diversificazione del portafoglio. La ricerca di nuove ASA e il confronto con competitori stranieri costituisce pertanto la vera sfida imprenditoriale cui sono chiamate le banche nazionali, che, raggiunta una sufficiente massa critica attraverso un percorso di aggregazioni domestiche, devono orientare la propria struttura verso quei settori, anche nuovi, che conducano a un ritorno adeguato sull’investimento. Bibliografia Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Banca d’Italia (1997), Indagine conoscitiva sui servizi di finanza aziendale, supplemento n. 1 al Bollettino n. 39/1997, anno VII. Bagella M., Morelli G. (1999), Gli istituti di credito speciale: da istituti di credito a intermediari specializzati, Milano, Angeli. Baravelli M. (1997), «Strategie competitive e organizzazione del corporate banking», in M. Baravelli, Le strategie competitive del corporate banking, Milano, Egea. Barca F. (1995), Imprese in cerca di padrone, Bari, Laterza. Boot A.W.A. 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Basare, infine, la valutazione sul metodo dei multipli è, nel caso di imprese start up e innovative, un esercizio ad alto rischio. Trattandosi di imprese a forte ma incerta crescita, i valori correnti delle variabili che fungono da base dei multipli non hanno grande significato, sempre ammesso che tali variabili possano essere individuate. Affinché un’impresa sia comparabile alla società da valutare, deve condividerne non solo i tratti caratteristici attuali, ma anche presentare un simile portafoglio di opzioni reali a disposizione del management, il che è oltremodo difficile. E poiché il contributo che le opzioni reali apportano al valore di queste imprese è consistente, gli errori a cui ci si espone utilizzando il metodo dei multipli possono risultare sostanziali. Bibliografia Black F. (1972), «Capital Market Equilibrium with Restricted Borrowing», Journal of Business, n. 45, pp. 444-454. Black F., Scholes M. 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Ne emergono sia un elevato livello di concentrazione dell’offerta di questi servizi, dal momento che le prime 10 istituzioni coprono, in genere, attorno al 60 per cento del controvalore complessivo delle offerte, sia il ricorrere nel tempo delle medesime istituzioni al vertice della classifica. Concentrazione del mercato e stabilità delle graduatorie sono il risultato di alcune peculiari caratteristiche di questo settore d’attività dell’intermediazione finanziaria, in particolare: a. la presenza di notevoli costi fissi, e quindi di economie di scala e di scopo per l’intermediario per effetto del ruolo dell’equity research, delle reti di distribuzione, delle reti informative; b. l’importanza della reputation e dell’immagine, asset che non si può costruire in poco tempo; c. l’importanza delle economie di esperienza (learning by doing); d. l’importanza delle relazioni con gli altri intermediari, con le autorità e con gli organi del mercato regolamentato. Le classifiche degli operatori nel settore dell’investment banking sono dette league tables e sono predisposte da information providers specializzati quali Thomson, Bloomberg, Institutional Investor. I criteri di predisposizione sono complessi sia per l’identificazione delle operazioni ammissibili (eligible), sia per il riparto del controvalore tra le istituzioni finanziarie partecipanti. Al riguardo, è invalso l’uso di assegnare proporzionalmente a tutti i soggetti designati come bookrunner il controvalore complessivo dell’offerta, inclusivo, quindi, della tranche retail e senza riguardo all’ammontare collocato da ciascun intermediario. Bibliografia Allen F., Faulhaber G.R. (1989), «Signaling by Underpricing in the IPO Market», Journal of Financial Economics, n. 23, pp. 303-324. Bianchi L.A., Francesco V. 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Della struttura dei costi si è già detto trattando della remunerazione degli intermediari. La Tab. 8.16 (supra) illustra le prime 15 operazioni, in termini di ammontare, concluse nel mercato dei prestiti sindacati nel 2005. Bibliografia AA.VV. (2004), Bollettino Economico, n. 42, Banca d’Italia. AA.VV. (2001), The Changing Shape of Fixed Incombe Markets, BIS Working Paper, n. 104. AA.VV. (2004), BIS Quarterly Review, settembre. Banfi A., Di Pasquali F., Onado M., Zucchelli D. (2002), I mercati dei titoli di debito privati, Torino, Isedi. De Sury P. (1983), Le euro banche e i prestiti sindacati in euro-valute, Milano, Giuffrè. Fabozzi F. (2000), Bonds Markets, Analysis and Strategies, Englewood Cliffs, Prentice Hall. Levich R. (2001), International Financial Markets, New York, McGraw-Hill. McDonald R.P. 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European Private Equity and Venture Capital Association (EVCA) www.evca.com e www.evca. com/html/PE_industry/information.asp da cui è possibile accedere ai link alle associazioni di categoria dei principali paesi. British Venture Capital Association (BVCA) www.bvca.co.uk. U.S. National Venture Capital Association (NVCA) www.nvca.org. 454 Corporate e investment banking concordate anche attraverso la partecipazione di membri della workout unit al consiglio di amministrazione dell’impresa in crisi. Inoltre le workout units hanno sviluppato al loro interno un’attività specifica di finanziamento delle imprese in distress, nota come DIP financing17. L’evidenza sul DIP financing non mostra perdite particolari ma, al contrario, buoni margini di redditività, tanto che molte banche americane hanno ormai costituito al loro interno unità di DIP financing. Infine, è da notare in Italia la quasi totale assenza di un mercato secondario dei prestiti ristrutturati che consenta ai creditori che non intendono partecipare alla ristrutturazione di «liquidare» la loro posizione senza compromettere il risanamento dell’impresa. Bibliografia Arzac E.R. (1997), «PERCS, DECS and Other Mandatory Convertibles», Journal of Applied Corporate Finance, Spring. Associazione Bancaria Italiana (2000), Codice di comportamento banche-imprese in crisi, Roma, Bancaria Editrice. Barontini R. (1997), «Costi del fallimento e gestione della crisi nelle procedure concorsuali», in L. Caprio (a cura di), Gli strumenti per la gestione delle crisi finanziarie in Italia: un’analisi economica, Milano, Mediocredito Lombardo, Studi e Ricerche. Belcredi M. (1995), «Vent’anni di crisi di impresa in Italia: i risultati di un’indagine empirica», Finanza, Marketing e Produzione, n. 3. Berruti F. (1995), «La ristrutturazione del debito delle imprese in crisi. 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Terzo, nell’utilizzare gli strumenti derivati per la copertura di rischio occorre prestare attenzione alla possibilità di effetti collaterali. Coprire un rischio di transazione relativo al prezzo di acquisto delle materie prime tramite un acquisto di un contratto futures sulle stesse comporta l’assunzione di un’esposizione al rischio di interesse. Il prezzo del futures sulle materie prime risente, infatti, oltre che del valore del sottostante, anche del rendimento offerto dal mercato per impieghi monetari di pari scadenza. Quarto, anche se il mercato over-the-counter consente operazioni in strumenti derivati il cui valore dipende direttamente dal fattore di rischio finanziario che si intende coprire, può risultare conveniente ricorrere a strumenti esposti a un fattore diverso, purché altamente correlato con il primo, se su questi ultimi esiste un mercato più liquido. Per esempio, si può coprire un’esposizione sul dollaro canadese attraverso operazioni a termine sul dollaro americano (cross-hedge). Si riesce così a economizzare sui costi di transazione, tanto inferiori quanto più liquido è il mercato, seppure a costo della rinuncia a eliminare del tutto l’esposizione che si intende gestire. Tale possibilità è preclusa dalla correlazione meno che perfetta esistente tra il fattore di rischio originario e quello sottostante al contratto utilizzato per la copertura. Il rischio che residua, tanto inferiore quanto più elevata è questa correlazione in valore assoluto, è definito basis risk. Quinto, le misure di rischio, siano esse declinate come standard deviation, valore a rischio o shortfall probability, sono esprimibili solo in funzione di un orizzonte temporale di riferimento. Deve essere cura del risk manager far coincidere la scadenza dei contratti derivati trattati con quella dell’esposizione da coprire8. In caso contrario si genera un basis risk da gestire in modo consapevole, onde evitare perdite inaspettate, anche di notevole importo, come alcune esperienze di importanti imprese multinazionali hanno insegnato9. Bibliografia Black F., Scholes M. (1973), «The Pricing of Options and Corporate Liabilities», Journal of Political Economy, n. 81. Culp C.L., Miller M.H. (1995), «Metallgesellschaft and the Economics of Synthetic Storage», Journal of Applied Corporate Finance, n. 4. Dolde W. (1993), Use and Effectiveness of Foreign Exchange and Interest Rate Risk Management in Large Firms, University of Connecticut. Geczy C.E., Minton B., Schrand C. (1997), «Why Firms Use Currency Derivatives», Journal of Finance, n. 52. 8 Il prezzo di una materia prima o di una valuta da ricevere fra sei mesi evolve, infatti, in modo diverso da quello della stessa materia prima o stessa valuta da ricevere fra 12 mesi. 9 Uno dei casi più famosi è quello della Metallgesellschaft discusso da Culp e Miller (1995) e da Mello e Parsons (1995). 480 Corporate e investment banking Flood E. Jr., Lessard D.R. (1986), «On the Measurement of Operating Exposure to Exchange Rates: A Conceptual Approach», Financial Management, n. 15. Froot K.A., Scharfstein D.S. (1993), «Risk Management: Coordinating Corporate Investment and Financing Policies», Journal of Finance, n. 48. Hull J.C. (2000), Options, Futures and Other Derivatives, IV ed., Upper Saddle River, Prentice Hall. Jorion P. (2001), Value at Risk, II ed., New York, McGraw-Hill. Maksimovic V., Titman S. (1991), «Financial Reputation and Reputation for Product Quality», Review of Financial Studies, n. 2. 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(1992), «Interest Rate Swaps and Corporate Financing Choices», Journal of Finance, n. 47. 504 Corporate e investment banking n i rischi meteorologici non si prestano a essere agevolmente gestiti mediante coper- ture assicurative tradizionali66; n la copertura dei rischi catastrofali realizzata mediante derivati assicurativi non è molto diversa da quella ottenibile attraverso un trattato riassicurativo, pur essendo evidenziabili alcuni elementi distintivi67, sicché si potrebbe pensare che la domanda di derivati catastrofali sia in buona misura legata alle dimensioni e all’andamento dei prezzi del mercato riassicurativo. Anche dal lato dell’offerta i benefici dei potenziali sottoscrittori dei titoli possono essere diversi a seconda della natura del rischio sottostante: n i credit derivatives consentono a un investitore di costruire un portafoglio di attivi- tà finanziarie con dei profili di rischio/rendimento che meglio si adattano alle specifiche preferenze68, assumendo dei rischi di credito nei confronti di un determinato soggetto, senza dover sostenere i costi di raccolta, di compravendita del titolo e di concessione del credito69; n i catastrophe derivatives e i weather derivatives, configurandosi come titoli zero beta, consentono di migliorare il profilo di rischio/rendimento di un portafoglio70. Insieme a tali benefici vanno considerate le difficoltà che gli investitori potrebbero incontrare nella valutazione dei rischi puri sottostanti a tali strumenti. Tuttavia, mentre la valutazione del rischio di credito rientra nelle competenze necessarie di un investitore (o per lo meno di un investitore istituzionale), il rischio catastrofale e quello meteorologico sono di ben più difficile valutazione71. Bibliografia Artzner P., Delbaen F., Eber J., Heath D. (1999), «Coherent Measures of Risk», Mathematical Finance, vol. 9, n. 3. Blake D., Cairns A.J.G., Dowd K. (2006), Living with Mortality: Longevity Bonds and Other Mortality-Linked Securities, Cass Business School Pensions. 66 In effetti, la domanda di coperture mediante derivati meteorologici è cresciuta in modo significativo in seguito alla deregulation in atto nel mercato dell’energia. Se in passato le conseguenze sfavorevoli del rischio meteorologico potevano essere trasferite agli utenti attraverso un aumento dei prezzi, la maggiore competizione ha reso la leva del prezzo sempre più difficilmente utilizzabile, imponendo una maggior attenzione verso soluzioni alternative di copertura dei rischi, quali, appunto, i weather derivatives. 67 Misani sottolinea, con particolare riferimento ai derivati catastrofali negoziati in mercati regolamentati e costruiti su indicatori esterni, i bassi costi di transazione, l’assenza di adverse selection e moral hazard, il più contenuto rischio di default e l’estrema flessibilità, evidenziando, dall’altro lato, la possibilità di dar vita a coperture imperfette, a causa dell’esistenza di forme di basis risk (cfr. Misani 1999, pp. 91-94). 68 Al riguardo si rimanda in questo stesso volume al Capotolo 19. 69 Si veda Bruno (2004). 70 Sul punto (con riferimento specifico ai cat bonds) si veda Nocera (2001, pp. 226-234). 71 Il rischio catastrofale, addirittura, poiché non è gestibile attraverso il procedimento assicurativo, è difficilmente valutabile anche dalle stesse imprese di assicurazione. 15 • Dal financial risk management all’enterprise risk management 505 Bruno B. (2004), Il mercato secondario dei prestiti bancari, Roma, Bancaria Editrice. CFO (2002), Strategic Risk Management. New Disciplines, New Opportunities, Boston, CFO Publishing Corp. Corvino G.P. (1996), «Il risk management: obiettivi, struttura logica e processi», in G. Forestieri (a cura di), Risk management. Strumenti e politiche per la gestione dei rischi puri dell’impresa, Milano, Egea. Crowe R.M., Horn R.C. (1967), «The Meaning of Risk», Journal of Risk and Insurance, vol. 34. Culp C.L. 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Bibliografia La bibliografia rappresenta una selezione molto ristretta di testi e articoli la cui lettura è tuttavia essenziale per approfondire efficacemente alcuni dei concetti e delle tecniche riportate nel capitolo. La bibliografia è articolata per aree tematiche. Per quanto attiene alle riviste specializzate, segnaliamo Project Finance International, edita da International Finance Review Publications: la rivista, oltre a presentare articoli relativi alle novità del settore, riporta periodicamente anche le classifiche dei progetti e dei migliori intermediari finanziari a livello internazionale per attività di advisory, arranging e bond bookrunning. Infine, a livello di dati sul mercato del project finance, le due banche dati più utili e ricche di variabili sono LoanWare e ProjectWare prodotte da Dealogic. Testi e articoli di taglio istituzionale ed economico-finanziario Brealey R.A., Cooper I.A., Habib M.A. (1996), «Using Project Finance to Fund Infrastructure Investments», Journal of Applied Corporate Finance, vol. 9, n. 3. Bull P. (1995), «Capital Leasing in Project Finance», in H. Shaughnessy (a cura di), Project Finance in Europe, New York, Wiley. Caselli S., Gatti S. (a cura di) (2004), La finanza strutturata in Italia, Roma, Bancaria Editrice. Esty B.C. (2003), Modern Project Finance: A Casebook, New York, Wiley. Fabozzi F., Nevitt P.K. (1996), Project Financing, Londra, Euromoney. Gatti S. (1999), Manuale del Project Finance – Come disegnare, strutturare e finanziare un operazione di successo, Roma, Bancaria Editrice. Imperatori G. (1995), Il project financing – Una tecnica, una cultura, una politica, Milano, Il Sole 24 Ore. Lo Cicero M. (1996), «Project Versus Corporate Financing», Rassegna Economica, n. 4. Ruozi R., Caselli S., Gatti S., Monferrà S. 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Infine, un segmento del mercato regolamentato MOT, denominato Euromot, organizzato e gestito da Borsa Italiana SpA e un segmento del mercato regolamentato MTS, organizzato e gestito da MTS SpA, sono dedicati alla negoziazione di ABS. L’esistenza di un mercato secondario liquido di sbocco per i titoli, consentendo di aumentare la domanda potenziale, allargandola a quegli investitori istituzionali per i quali esistono dei vincoli nell’investimento in strumenti finanziari non quotati, aumenta l’appetibilità dell’operazione per gli originators, perché riduce i costi di raccolta delle risorse. Nonostante gli indubbi vantaggi di una quotazione in un mercato regolamentato, nessun originator, né privato né pubblico, al momento si è però servito dell’Euromot, preferendo a questo il mercato lussemburghese, funzionante mediante contrattazioni telefoniche o attraverso il circuito Reuters, oppure, nel caso degli emittenti pubblici, servendosi del circuito EuroMTS. La scarsa appetibilità di una quotazione sull’Euromot potrebbe essere dovuta all’assenza di intermediari disposti a operare come market makers sui titoli oltre che alla bassa standardizzazione delle caratteristiche delle emissioni di titoli finora perfezionate. Pertanto, una possibile modalità di soluzione dell’impasse potrebbe essere costituita da un «accordo» fra originators riguardante l’uniformità delle caratteristiche tecniche dei titoli ABS, sia in termini di scadenza che di modalità di determinazione della cedola (fenomeno che in Europa sta già verificandosi), oltre che dalla definizione di forme di incentivazione economica a favore degli specialists da parte degli originator dei titoli (Talete Creative Finance 2002). In effetti, sono solo le emissioni di ABS di originators pubblici caratterizzate dai volumi di emissione più elevati (come per esempio SCIP 2 e INPS serie 4-7a, con un volume emesso di 6.637 e 3.000 milioni di euro) a essere attualmente scambiate sull’MTS. 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In realtà, forme di credit enhancement fornite da terze parti esistono, in generale, solo nei casi in cui la struttura sia già di per sé di buona qualità creditizia; in altro caso, infatti, difficilmente si potrebbero trovare parti disposte ad assumersi il rischio di credito di una securitization dotata di un rating inferiore a quello della banca, se non a costi così elevati da rendere maggiormente conveniente la costruzione interna del meccanismo di credit enhancement. La securitization, quindi, attuata mediante il trasferimento di un determinato ammontare di rischi e di risorse economiche da parte della banca originator a una società esterna, non sempre migliora il profilo di rischio complessivo relativo a quest’ultima: solamente alcune strutture di securitization possono, infatti, fare sì che vi sia un’efficace riduzione del rischio di credito in capo alla banca originator. I credit derivatives, invece, proprio per la loro struttura specifica, consentono alle banche che acquistano protezione di attuare una protezione dal rischio di credito relativo a un determinato reference entity, realizzando, nel contempo, molti dei benefici rilevanti derivanti dalle operazioni di securitization (riduzione o eliminazione del costo del funding, diversificazione geografica o settoriale ecc.) a un costo inferiore (si pensi, a titolo di esempio, ai costi sostenuti dalla banca per organizzare un’operazione di securitization, quali costi amministrativi, di attribuzione del rating alla struttura ecc.). Bibliografia British Bankers Association (1998), BBA 1997/1998 Credit Derivatives Survey. British Bankers Association (2002), BBA 2001/2002 Credit Derivatives Survey. Caputo Nassetti F., Fabbri A. (2001), Trattato sui contratti derivati di credito, II ed., Milano, Egea. Das S.R. (1998), Credit Derivatives, New York, Wiley. Fabbri A. 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Wiley. 666 Corporate e investment banking quanto nelle cartolarizzazioni sintetiche mancano quelle problematiche legali, fiscali e regolamentari dovute al trasferimento dell’attivo allo SPV. Inoltre, gli unici flussi di cassa tra lo sponsor e lo SPV sono rappresentati dai premi a fronte del credit default swap e dall’eventuale pagamento dello SPV a favore dello sponsor in caso di credit event verificatosi su uno o più reference entities appartenenti al portafoglio cartolarizzato. In una cartolarizzazione classica, invece, il portafoglio ceduto genera dei cash flows che devono essere collegati ai pagamenti delle cedole dei titoli emessi e che devono pertanto essere amministrati dal servicer. Più in generale, il portafoglio cartolarizzato non necessita di una gestione ad hoc nella cartolarizzazione sintetica, in quanto esso rimane «materialmente» all’interno dello sponsor: ciò che rileva per quest’ultimo è solamente l’evidenziazione del trasferimento dei rischi in capo a ciascun reference entity appartenente al portafoglio. Un ulteriore vantaggio delle cartolarizzazioni sintetiche rispetto alle cartolarizzazioni classiche è costituito dal fatto che è possibile effettuare operazioni di importi consistenti, cartolarizzando una parte non rilevante del portafoglio (solitamente inferiore al 15 per cento dell’intero ammontare), ricorrendo così al mercato delle obbligazioni per importi modesti: in questo modo, lo sponsor riduce significativamente i problemi di liquidità del mercato degli asset backed securities e i costi di collocamento. Inoltre, nel caso di operazioni di cartolarizzazione classica volte alla riduzione del capitale regolamentare assorbito per la banca sponsor, vengono eliminati dal bilancio della banca gli impieghi verso le società «migliori» con rating molto elevato, al fine di accrescere l’efficienza dell’utilizzo del capitale proprio: infatti, a fronte di un rendimento limitato dovuto al basso grado di rischio, questo tipo di attività assorbe un ammontare rilevante di capitale regolamentare, dal momento che, come osservato in precedenza, il coefficiente di patrimonializzazione delle banche previsto dagli accordi di Basilea non tiene conto della qualità creditizia dell’attività detenuta. Inoltre, in generale, tali operazioni prevedono meccanismi di credit enhancement forniti dalla banca stessa che tendono a diminuire la rischiosità complessiva dell’operazione per gli investitori. Queste caratteristiche fanno sì che la maggior parte di questo tipo di cartolarizzazioni goda di un rating molto elevato, che le rende «appetibili» agli investitori, ma al contempo rendono la banca «impoverita» di risorse di elevato standing creditizio, accrescendo, in generale, il suo profilo di rischio complessivo. Bibliografia Basel Committee on Banking Supervision (2004), International Convergence of Capital Measurement and Capital Standards: a Revised Framework, Bank for International Settlements, June. Caputo Nassetti F., Fabbri A. (2001), Trattato sui contratti derivati di credito, II ed., Milano, Egea. Citigroup (2003), Synthetic Arbitrage CDOs, June. Goldberg H.H. (1987), «Asset Securitization and Corporate Financial Health», in Moody’s Investor Service, Special Comment, December. Goldman Sachs (2002), The CDO Market: 2001 Review and Outlook for 2002, January. 20 • Le cartolarizzazioni sintetiche 667 JP Morgan (2001), CDO Handbook, May. 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