recensioni e segnalazioni bibliografiche

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recensioni e segnalazioni bibliografiche
RECENSIONI
E SEGNALAZIONI
BIBLIOGRAFICHE
2007]
FARFALLE NELL’EGEO
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Die Karer und die Anderen. Internationales Kolloquium an der
Freien Universität Berlin, 13. bis 15
hrsg. von Frank Rumscheid, Bonn, Habelt, 2009, pp. 258 s.i.p. Oktober 2005. isbn 9783774936324
La ricerca sulle realtà regionali dell’Anatolia antica suscita un interesse crescente, come mostra una
produzione scientifica in costante aumento. Gli scavi, le ricerche sul campo, le campagne di survey,
forniscono nuovi materiali allo studio e nuovi stimoli alla riflessione. Questa, in modo sempre più
chiaro, si sviluppa in prospettiva interdisciplinare
e diacronica, facendo interagire prospettive diverse (storiche, archeologiche, topografiche, linguistiche) e ampliandosi a considerare un arco cronologico non più limitato all’antichità classica. La Caria
rappresenta per questi indirizzi un terreno particolarmente promettente: a partire dalle ricerche pionieristiche dei coniugi Robert si è aperto uno scenario nuovo, e che pone sfide importanti. Gli scavi
non mancano di proporre scoperte anche clamorose: è dell’estate 2010 la notizia del rinvenimento di una importante sepoltura, forse ecatomnide,
a Milas, ma anche il volume offre una serie di novità interessanti. La ricerca linguistica ha avviato
la comprensione dei pur ostici documenti in lingua locale, la riflessione storica sta riconsiderando
sia il reticolo evenemenziale, sia le forme dell’organizzazione sociopolitica, sia le interazioni culturali proprie della regione.
Una regione che, pur se in qualche modo resa
comprensibile dagli studi di antichistica, conserva qualche problema di definizione: sarebbero da
conoscere meglio ad esempio quali fossero le percezioni antiche del popolo “Cario”, troppo spesso
stretto in convenzionali stereotipi (i mercenari, gli
schiavi) e per contro identificato con qualche incertezza (rispetto ai “Lelegi”, ma non solo: si pensi al dibattito sui Kares barbarophonoi in Omero).
Come anche per altre aree dell’Anatolia, molti dei
temi evocati sono presenti, magari solo per accenni, nel profilo che della Caria tracciò Strabone nella
sua Geografia: basterebbero i riferimenti alle forme
dell’insediamento “per villaggi”, che hanno guidato in età moderna l’interpretazione delle evidenze sul terreno, e che da tempo sono oggetto di ripensamento. Molti di questi temi di ricerca, se non
tutti, trovano ora spazio nei contributi riuniti nel
volume edito da Frank Rumscheid: nati come interventi per un convegno berlinese, i saggi sono stati
poi stampati in forma talora molto ampliata. Alcu-
ni sono corredati da molto abbondanti annotazioni e bibliografie, che costituiscono uno strumento
di lavoro in sé utile. In questa sede si discuteranno in termini generali, senza riferimento ai singoli
contributi, le questioni più rilevanti.
Merito particolare dell’iniziativa è quello di aver
impostato l’intera indagine in termini dinamici, indagando cioè la regione nel quadro delle ricche interazioni culturali dell’Anatolia, e in una prospettiva ampia, dalla preistoria all’età bizantina. Ciò è
tanto più importante, in quanto la percezione moderna dei “regionalismi” può non coincidere con
le realtà (o con le percezioni) antiche, e suggerire
partizioni di ricerca non abbastanza corrispondenti
alla realtà: ma una costante attenzione ai “contatti”
preserva appunto da simile rischio, o grandemente lo limita. Pur nell’ampiezza dell’impresa, nel volume non vi è pretesa di completezza: come viene
esplicitamente riconosciuto, ad esempio, la presenza caria in Egitto non è oggetto di specifica analisi,
e anche i riferimenti alla fase post-ellenistica risultano (per altro comprensibilmente) ridotti. Un importante congresso tenutosi a Oxford, in contemporanea con quello di Berlino, era incentrato sulla
Caria ellenistica: gli atti sono usciti di recente.
Percorrendo le sezioni in cui i contributi sono suddivisi (contatti, cultura, indagini topografiche), chiara emerge la domanda di fondo, proposta nell’introduzione dell’editore: cercare di comprendere “che cosa differenziava i Cari dalle altre
etnie e che cosa non” (p. vii). Ampia quindi, e metodicamente esemplare, la riflessione sulla “etnogenesi” caria. Si vede molto bene in questo caso in
che modo si giungano ad integrare gli schemi teorici e l’individuazione dei “segni” materiali pertinenti. La formazione della cultura che poi si chiamerà caria viene indagata in un complesso incrocio
fra teorie migratorie e ipotesi di apporti “locali”.
L’ormai ricca serie di materiali rinvenuti nei siti ar­
cheo­logici della Caria, infatti, pone pur sempre un
problema interpretativo e attributivo, nell’incontro
e sovrapposizione di presenze minoiche, ittite, micenee e di altre culture ancora. La combinazione di
evidenza materiale, dati documentari (le fonti ittite
soprattutto) e tradizioni “storiche” (quelle sulle cosiddette migrazioni) appare delicatissima e spesso
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molto incerta. Un enorme lavoro è in corso su questi aspetti. Non stupisce che le soluzioni raggiunte non sempre siano concordemente accettate, e soprattutto colpisce il lettore un “dubbio metodico”.
Se, come è giustamente e più volte ribadito in vari
contributi, si è oggi consapevoli della difficoltà di
identificare “etnicamente” i reperti, in quale misura
vi è il rischio che la mappatura dei siti e soprattutto le attribuzioni dei reperti si fondino su interpretazioni obsolete, falsando il quadro generale?
La questione “attributiva” riguarda anche i monumenti: tradizionale è ad esempio la denominazione di “edifici lelegi” per strutture pastorali che
si rinvengono in gran numero nel territorio cario.
Ora, anche facendo propria la più recente riflessione sulla discussa differenza tra “Lelegi” e “Cari”,
resta che l’uso di una siffatta etichetta presuppone
una lettura implicita del territorio: la divisione tra
le aree urbanizzate abitate (in prevalenza) da “greci”, e le aree interne ad economia agricolo-pastorale
in cui sono insediati i “barbari” (Cari o Lelegi, non
fa qui differenza). L’interpretazione sociale ha ragione di essere corretta, ma non così l’individuazione “etnica”: importanti considerazioni al riguardo
si leggono in vari lavori di A. Bresson (v. per esempio Les Cariens ou la mauvaise conscience du barbare,
in Tra Oriente e Occidente. Indigeni, Greci e romani in
Asia Minore. Atti del Convegno Internazionale, Pisa
2007, pp. 209-28). Ciò è tanto più notevole, in quanto implica le necessità di ricorrere a nuove chiavi
di lettura del territorio. Come il convegno berlinese
mostra ampiamente, fin dall’età più arcaica la Caria
non rimase chiusa agli scambi culturali, esportando
e importando saperi e tecniche. L’immagine classica
(o ellenistica) dalla regione come terra di mercenari e schiavi appare ormai in tutta la sua riduttività: solo all’età ellenistica si colloca la scomparsa (o
forse sarà meglio dire l’invisibilità) dell’etnocultura caria, su cui pesarono forse fattori di natura politica, che obliterarono tra l’altro anche il senso (se
non il segno) della presenza ecatomnide.
Differenti problemi solleva il fattore linguistico: lingua e alfabeto dei Cari costituirono effettivamente un elemento di più sicura identificazione, già per gli antichi: la prospettiva del convegno
conduce a riflettere sulle relazioni con le altre lingue e culture presenti nell’area, e in particolare con
il greco. Ma il fatto che già nel VII secolo il cario
avesse un proprio alfabeto costituisce un altro segno importante di vitalità. Le ampie messe a punto
proposte nel volume esplorano questioni propriamente linguistiche, ma anche esaminano le tipo-
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logie testuali, i contesti dei rinvenimenti epigrafici, il problema dell’identificazione dei praticanti la
scrittura (chi scrive, e per chi?). Altra questione è il
peso del plurilinguismo: la questione fu ben intravista da Louis Robert molti anni or sono. Se oggi
si è particolarmente sensibili al bilinguismo cariogreco, non andrebbero trascurati altri vettori, ossia
le altre lingue epicoriche (il licio) e poi, con dominante importanza, il persiano. Per tutte queste dinamiche, la svolta ellenistica fu decisiva, e segnò
la prevalenza ad ogni livello del greco, anche se la
“scomparsa” dell’uso parlato non si lascia determinare con precisione. Nell’impossibilità di definire,
anche in linea generale, i profili dei parlanti, sembra sensato notare che il tradizionalismo dei santuari locali svolse forse in tale contesto un ruolo di
qualche momento.
E i santuari sono appunto oggetto di ampia riflessione, sul piano sia dell’evidenza monumentale,
sia della dimensione dei culti. Accanto ad apporti
nuovi di documentazione e analisi, attraggono di
nuovo l’interesse le questioni metodiche. A molti
anni dalla sintesi di Laumonier, la strada percorsa è parecchia. Importante è l’osservazione secondo cui non va dato per scontato che le attestazioni
regionali di un culto costituiscano per sé prova di
una identità religiosa “regionale”: non solo perché
la gran parte delle informazioni di cui si dispone è
greca, quindi a rischio di deformazione nelle percezioni, ma anche (o soprattutto) perché la natura costituzionalmente “ibrida” della cultura caria implica anche in campo cultuale la presenza di apporti
molteplici, che inducono a parlare di “un pantheon
che si elabora in Caria”, appunto in termini dinamici e non rigidamente (ed etnicamente) definiti. Naturalmente, e lo si vede anche nei contributi presenti nel volume, la definizione delle “identità” locali
dipende anche da pre-concetti radicati al di fuori
dell’ambito propriamente “scientifico”: la spinta a
considerare predominanti gli apporti esterni rispetto a quelli locali (si pensi al problema del progetto
e delle maestranze attive a Labranda) appare talora controbilanciata dallo sforzo di valorizzare orgogliosamente un orizzonte “cario” anche nelle forme
artistiche e monumentali più sviluppate.
Nei contributi presenti nel volume entrano anche, evidentemente, questioni di interesse più direttamente storico: ampie discussioni sulle fasi
antichissime, che mostrano in quale misura ogni
discussione sui temi della presenza greca in Anatolia debba fare i conti non solo con la “storicizzazione” delle leggende (qualunque cosa con ciò
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si intenda) e con l’evidenza archeologica. Si delinea in profondità una svolta profonda: l’analisi si
sviluppa secondo una prospettiva che si potrebbe
chiamare “anatolicocentrica”, in cui la costa egea
non è la periferia di uno scacchiere centrato sugli insediamenti greci, ma la porzione di un grande areale anatolico (o mediterraneo-orientale) con
autonoma dinamica geopolitica e culturale. Tale riorientamento delle prospettive comporta, sia concesso osservarlo, il riorientamento anche delle competenze degli studiosi: alcuni contributi del volume
lo mostrano bene. Da questo deriva nuova luce anche per varie fasi della vicenda caria. A non voler
parlare delle età antichissime, o anche delle guerre
persiane, è il caso ad esempio della fase ecatomnide. In chi guardi ad essa da un osservatorio tradizionale della storia greca o dell’archeologia classica,
alto è il rischio di fraintendimenti. Se le fonti greco-romane valorizzarono l’architettura della dinastia entro lo sviluppo dei linguaggi “classici”, resta
doveroso interrogarsi sul dialogo tra le costruzioni
promosse dai dinasti e il contesto anatolico. La co-
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siddetta “rivolta dei satrapi”, interpretata secondo
l’ellenocentrismo di un Isocrate, condurrebbe non
troppo nascostamente a parteggiare per un Mausolo finalmente ribelle, in nome dell’hellenismos, al
“grande malato” persiano. Ma lavori recenti hanno
sottolineato quanto poco invece la sua defezione regionale costituisse un “problema” a livello centrale.
Le scelte degli Ecatomnidi, lo si capisse o meno ad
Atene, muovevano su una sorta di doppia agenda,
con linguaggi diversi a seconda che ci si rivolgesse
verso la Grecia o verso la Persia. Tale contesto non
può essere trascurato, anche se è chiaro che la memoria successiva conservò meglio (o meno peggio),
il lato “ellenico” rispetto a quello locale, o anatolico. Insomma, i differenti approcci tentati nei saggi
del volume hanno in comune l’idea che, per quanto difficile sia studiare i Cari e comprenderne la
specificità culturale, anche degli “altri” che vissero accanto e insieme a loro ormai non si può più
fare a meno.
Carlo Franco
Vera Slehoferova
Corpus Vasorum Antiquorum. Schweiz, Faszikel 8: Basel, Antikenmuseum und Sammlung Ludwig, Faszikel 4
Basel, Schwabe Verlag, 2009, pp. 78, di cui 13 di disegni (Beilagen); figg. nel testo 21; tavv. b/n 56. ISBN
978-3-7965-2636-7
Riprendendo l’argomento affrontato in un fascicolo uscito nel 1988, l’Autrice concentra la sua
attenzione sulle ceramiche di produzione attica,
portando anzitutto a compimento la rassegna dei
vasi a figure nere in un capitolo nel quale vengono esaminate (per ultime, anziché all’inizio della
sequenza secondo la consueta scansione cronologica) quindici coppe acquisite dopo la pubblicazione
del primo fascicolo dedicato al Museo, curato da
J.-P. Descoeudres. Le coppe a figure nere sono precedute da diciassette vasi a figure rosse pervenuti
nelle collezioni del Museo in anni recenti (e fino a
tutto il 2005) mediante acquisti oppure attraverso
donazioni, di cui nel testo vengono riferite modalità e bibliografia; nonché dalla discussione di otto
tra lekythoi a fondo bianco e vasi plastici. I pezzi
inediti sono tre; i rimanenti risultano già pubblica-
ti, o quanto meno sono stati oggetto di precedenti menzioni.
La descrizione dei vasi e dello stato di conservazione fornita da V. Slehoferova è estremamente
accurata, e la definizione dei colori aggiunti è utilmente integrata dal riferimento alla scala cromatica
Munsell; in sintonia con il criterio adottato negli ultimi fascicoli della serie tedesca del CVA le misure
includono anche il peso e la capacità dei contenitori, sulla scia di formulazioni di metodo (richiamate in premessa) che sottolineano l’importanza degli aspetti metrologici e che trovano riscontro in
studi specifici ugualmente attuali: si veda a titolo
esemplificativo il lavoro condotto su una campionatura di olpai e oinochoai attiche a figure nere (e
sulle coppe ad esse verosimilmente correlate) sul
quale riferisce A. Clark, in Shapes and Uses of Greek
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Vases (7th-4th Centuries B.C.), a cura di A. Tsingarida, Bruxel­les 2009, pp. 89-109.
Anche il commento è competente e aggiornato,
e similmente del più alto livello l’apparato illustrativo, comprendente oltre alle fotografie di C. Niggli
e A. Voegelin disegni di profili, iscrizioni e graffiti, prevalentemente in scala 1:1, eseguiti dall’Autrice e rielaborati in formato digitale da A. Wurz.
La monografia è completato da un indice di pittori, officine e gruppi, un indice iconografico, un indice epigrafico e un elenco di concordanze tra numeri d’inventario e tavole.
Apre il fascicolo un’anfora del non comune
tipo C, opera del Pittore di Syriskos, con due figure ideal­mente collegate tra loro – un atleta vittorioso e forse un giudice – ma isolate ciascuna su un
lato del vaso, come nelle anfore dei grandi decoratori di vasi chiusi degli inizi del V secolo a.C. Segue
uno stamnos con Orfeo colpito a morte dalle donne tracie, un tempo nella collezione Bolla, attribui­
to al Pittore della Dokimasia e inquadrabile verosimilmente nella fase tarda della parabola artistica
del ceramografo (verso il 470-460 a.C.), quando, in
base alle connessioni ravvisate con l’opera del Pittore di Berlino, secondo M. Robertson è possibile
che egli abbia lavorato nella bottega del maestro.
Alla storia di Orfeo si riferisce anche una oinochoe
su cui la testa di prospetto del cantore mitico, già
separata dal corpo, figura in un paesaggio roccioso in mezzo a due Muse, una delle quali legge un
rotolo iscritto.
Ad uno stamnos con scene d’inseguimento amoroso del Pittore di Deepdene, degli esordi del periodo classico (sul lato A, Poseidon e forse Amymone;
sul lato B, Eos e Kephalos), segue il solo vaso noto
di questa forma ascritto alla mano del Pittore dei
Niobidi, con Trittolemo che compie una libagione
al cospetto delle dee di Eleusi prima di partire per
la sua missione civilizzatrice.
È quindi la volta del documento più rimarchevole del fascicolo degno senz’altro di uno studio
dettagliato: un monumentale cratere a colonnette
alto oltre 50 cm, opera di notevole impegno anche
per il modellatore, di cui viene accolta l’attribuzione di R. Guy (attestata peraltro in maniera indiretta) al Pittore di Pan. Sui due lati del vaso si distribuisce un’intensa mischia cui prendono parte Greci
ed Amazzoni, con figure in parte sovrapposte tra
loro ed a cui si sovrammettono le cornici laterali,
con volti raffigurati di prospetto e di tre quarti, e
con l’immagine di un caduto rappresentato da tergo, la cui testa è vista di scorcio (su quest’ultimo
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aspetto cfr. M. Robertson, The Art of Vase-Painting
in Classical Athens, Cambridge 1992, pp. 133, 195; J.
H. Oakley, The Achilles Painter, Mainz 1997, p. 52,
nota 188, con altri rinvii); alcuni scudi recano episemata dipinti in silhouette, altri sono rappresentati
dall’interno. Si tratta di una di quelle raffigurazioni
del tema, che così per l’impostazione di figure singole e gruppi come per l’impaginazione complessiva, si ritiene trasmettano riverberi di celebri opere scultoree o della grande pittura.
Il fascicolo documenta anche le altre varietà
del cratere: a calice e a campana. Un esemplare
di quest’ultimo tipo, inquadrato nella fase matura
del ceramografo Polygnotos, presenta Pelia in attesa della fatale immersione nel calderone di Medea;
altri due, di cui uno amplia il dossier delle scene
di tale soggetto assegnate al Pittore di Pothos, figura minore del tardo V secolo a.C., offrono rappresentazioni di momenti diversi del rito sacrificale.
Tra le lekythoi emerge un esemplare di grandi
dimensioni databile intorno al 460 a.C., con una
rappresentazione di Aiace in procinto di togliersi
la vita correlata dal primo editore K. Schefold al
dramma sofocleo intitolato all’eroe, ed un’iscrizione su due linee in cui si celebra come ‘kalos’ Glaukon figlio di Leagros.
Delle coppe si segnalano quella, ben nota, dipinta solo all’interno con l’immagine un barbaro
addormentato, dubitativamente assegnata al Pittore delle Coppe di Chairias dell’Agorà; ed una per
la quale l’attribuzione a Hermonax, argomentata da
C. Isler Kerényi al momento della pubblicazione
del pezzo, è preferita dall’Autrice all’attribuzione
al Pittore di Tarquinia codificata nelle liste di J. D.
Beazley. L’esterno della coppa mostra da ambo i
lati una scena di simposio, sotto la quale si distende una predella raffigurante un fregio continuo di
calzature e recipienti potori resi in silhouette. Appartiene invece allo scorcio finale del V secolo una
coppa assegnata ad Aristophanes, la cui decorazione ha per soggetto Dioniso (raffigurato nell’interno) e il suo thiasos.
Oltre ad esemplari configurati a testa umana,
riferibili a classi di larga diffusione, i vasi plastici
comprendono una oinochoe e una lekythos di IV secolo sulle quali sono rappresentati in rilievo, rispettivamente, Dioniso (?) liricine ed Afrodite e Eros;
nonché un rhyton modellato a testa di cervo.
Per quanto attiene alle coppe a figure nere, a
parte due esemplari del Gruppo dei Comasti (su
questa categoria di personaggi vedi adesso T. J.
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Smith, Komast Dancers in Archaic Greek Art, Oxford
2010, in particolare pp. 35-40, 52-56, 63-66), si contano una coppa Siana del Pittore di Heidelberg con
all’interno Eracle che serra un braccio intorno al
collo del leone nemeo; una intermedia tra il tipo
Siana e la band cup, ornata con una testa di guerriero nel tondo e fregi animalistici all’esterno, probabilmente uscita dalla bottega di Lydos; quindi un
esemplare di forma ibrida, passato al Museo dalla
collezione Bosshard, con i busti di Atena e di un
guerriero dipinti sui due lati (alla bibliografia relativa a quest’ultimo documento va aggiunta la discussione di M. Iozzo nel volume In memoria di Enrico
Paribeni, Roma 1998, pp. 255-257, tav. LXX, 1-2).
Tra le coppe dei Miniaturisti si segnalano una
lip cup che reca su ciascun lato la firma del ceramista Xenokles; un esemplare con uno dei Dioscuri, identificato con Kastor grazie a un’iscrizione sinistrorsa nel medaglione interno; inoltre una band
cup con Achille presso l’altare di Apollo, in atto di
sollevare in una mano il corpo, nell’altra la testa
mozzata di Troilo e sul lato opposto gare atletiche,
che l’Autrice propone di correlare al lato A come
eventi dei giochi funebri in onore di Patroclo. Una
coppa Kassel presenta sul labbro motivi angolari a
‘z’ ritmati da piccole croci, in luogo della più co-
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mune sequenza di linguette; un esemplare con caratteristiche morfologiche e decorative intermedie
tra le coppe dei Miniaturisti e le coppe tipo A, che
reca su entrambi i lati scene di partenza di guerrieri
su carri, è attribuito al Pittore degli Spettri (Wraith
Painter); mentre due altri, inquadrabili nel suddetto tipo A, presentano il corrente schema ad occhioni associato a personaggi della cerchia dionisiaca. Il
vaso a figure nere più tardo preso in esame è una
coppa-skyphos ascritta al Gruppo Lańcut, databile
nell’inoltrato primo quarto del V secolo a.C.
Come accennato all’inizio, il fascicolo curato da
V. Slehoferova rispecchia, come era da attendersi,
il più elevato standard della collana del CVA; pertanto non deve ritenersi inficiato in misura sostanziale da occasionali incongruenze, refusi e nomi
talvolta ripetuti in maniera inesatta: si vedano ad
esempio le trascrizioni delle iscrizioni alle pp. 34 e
52; il termine oboloi, riportato anche nell’indice in
luogo del normale obeloi, pure attestato nel testo; i
nomi e le sigle Davis, Günter, Knaus, Mitschell, S.
Rudhart, van Vacano, Láncut, TesCRA anziché, rispettivamente, Davies, Güntner, Knauss, Mitchell,
J. Rudhart, von Vacano, Lańcut, ThesCRA.
Orazio Paoletti
Marco Giuman
MELISSA. Archeologia delle api e del miele nella Grecia Antica
(«Archaeologica», 148), Roma, G. Bretschneider Editore, 2008, pp. 287, figg. 23, tavv. XXVIII b/n. isbn 97888-7689-213-3
Solo recentemente è maturato anche tra gli studiosi del mondo antico un interesse specifico nei
confronti dell’ape e del miele, fino a non molto tempo fa poco considerati dalla letteratura archeologica, che li ha trattati solo in modo episodico o marginale.
Ad occuparsene in passato sono stati soprattutto
apicoltori o appassionati che a partire dal XVIII secolo, hanno approfondito alcuni aspetti come P. A.
P. Ray (Mémoire sur l’histoire des abeilles, “Journal de
phisique” 24, 1784, pp. 117-129), o un secolo dopo,
tra gli altri, A. Chiappetti (L’apicoltura presso gli antichi Greci e Romani, “Nuova Antologia” 15 settembre 1880) e R. Billiard (Notes sur l’abeille et l’apicul-
ture dans l’antiquité d’aprés les ouvrages des auteurs
grecs et latins, “Bulletin Société centrale d’apiculture
et d’insectologie de Paris”, 1900, pp. 1-100). Più di
recente non sono certamente mancati studi di notevole importanza che hanno tentato di ricostruire la
storia del miele e delle api nell’antichità, anche se
incentrati prevalentemente sull’apicoltura, come il
lavoro di M. H. Fraser (Beekeeping in Antiquity, London 1931), interamente basato sull’analisi delle fonti classiche, e quello di H. Chouliara-Raïos (L’abeille
et le miel en Égypte d’après les papyrus grecs, Jannina 1989), che approfondisce le medesime tematiche
esaminando la ricca e nutrita documentazione papirologica greca dell’Egitto. Altri studi si sono in-
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vece concentrati più sugli aspetti della cultura materiale del miele, con l’intento di ricostruire tutte le
attività ad esso correlate, come i lavori di R. Bortolin (Archeologia del miele, Mantova 2008) e di H.
V. Harissis e A. V. Harissis (Apiculture in the Prehistoric Aegean. Minoan and Mycenaean Symbols Revisited, Oxford 2009).
Più rari sono gli studi che sono stati dedicati
all’ape ed al miele secondo un approccio ermeneutico di natura più propriamente archeologica e ciò
contrasta con la notevole importanza che entrambi
ebbero nell’antichità proprio in funzione delle straordinarie virtù e dei complessi valori simbolici che
ad essi vengono attribuiti. Senza voler tralasciare la
trattazione di A. B. Cook (The bee in greek mythology, JHS 15, 1895, pp. 1-24), i principali punti di riferimento sono ancora il lavoro di H. R. Ransome
(The sacred Bee in ancient Times and Folklore, London
1937), e soprattutto l’eccellente ricerca di F. Roscalla
(Presenze simboliche dell’ape nella Grecia antica, Firenze 1998), che mira a ricostruire il processo simbolico che presiede alle problematiche storico-religiose
in cui l’ape ed il miele appaiono coinvolti.
È in quest’ultimo filone di studi che si inserisce
il testo di M. Giuman, il quale si propone di affrontare secondo un approccio globale l’analisi comparata dell’ape e del miele nel mondo greco antico,
offrendo un quadro di sintesi generale.
L’originale incipit tratto da un brano del Pinocchio di C. Collodi che parla del “paese delle api
industriose” offre all’A. l’opportunità di evidenziare il continuum semantico/simbolico dell’ape e
del miele, incarnando una pluralità di paradigmi
che consentono di trasferire sul piano del simbolo aspetti ed ambiti diversi, spesso antinomici. È
di questo continuum che l’A. si propone di rintracciare l’origine nel mondo greco − la maggior parte
dei termini ancora in uso che riguardano l’ape ed
il miele sono del resto di origine greca − attraverso
un’erudita ricerca che mira a coniugare fonti letterarie, immagini iconografiche e dati archeologici.
Come ben enunciato anche nella prefazione (pp.
ix-x), scritta da S. Angiolillo, e ribadito dall’A. stesso nell’Introduzione (pp. xi-xv), è “il sottile filo del
miele” a legare i sei capitoli in cui il libro è strutturato: proprio per il suo valore ambiguo e liminare, il miele (e dunque l’ape) consente di raccogliere
diverso materiale simbolico e di affrontare problematiche di natura diversa, quali la rappresentazione della morte, il rapporto simbolico tra morte e
vita ed il legame tra dato materiale, elaborazione
mitica e pratica cultuale.
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Secondo questa prospettiva di tipo ermeneutico,
il primo capitolo (pp. 3-37) funge da introduzione
ai temi che saranno trattati successivamente. Traendo spunto da una tavoletta cretese in Lineare B in
cui il miele compare come offerta ad una Signora
del Labirinto non chiaramente identificabile, l’A. riconosce nell’isola di Creta il luogo di partenza ideale per sviluppare la ricerca sul miele ed introdurre la figura di Melissa, il cui mito viene riportato
da uno scolio alla IV Pitica di Pindaro attribuito a
Mnasea di Patara, ma è anche raffigurato su una
delle tre coppe dipinte su fondo bianco dal pittore
Sotades, facenti parte del ricco corredo di una tomba ateniese (secondo quarto del V sec. a.C.) conservato al British Museum (L. Burn, Honey pots. Tree
white-ground cups by Sotades painter, AntK 28, 1985,
pp. 93-105). Anche le altre due coppe sono decorate con scene del mito correlate al miele, ma se
per una l’interpretazione di un episodio del mito
di Glauco è unanimemente accettata dalla critica,
meno certa è quella della terza coppa, conservata
in modo frammentario, in cui l’A. accetta di riconoscere il mito di Aristeo ed Euridice.
Sulla scorta di alcuni autori classici quali Semonide, Focilide, Esiodo, Omero ed Eliano, l’A. si accinge poi a delineare alcuni dei principali significati che riguardano la donna/ape, tra cui emerge
l’allegoria della sposa virtuosa, portatrice di un vivere più civile, al pari dell’alveare, quale immagine
trasfigurata di una società perfettamente ordinata,
che culmina con l’identificazione del potere regale.
La nascita delle api costituisce inoltre l’argomento
conclusivo di questo primo capitolo, anticipando
uno dei temi più complessi che verranno affrontati nel corso della ricerca, relativo al nesso tra api e
mondo dei morti: nel mito di Melissa, smembrata
per non aver voluto rivelare i segreti eleusini alle
altre donne, Demetra fa nascere le api dal corpo
della ninfa, mentre in quello dell’apicoltore Aristeo
ed Euridice, le api nascono da un toro morto che
non ha perso la propria linfa vitale. La natura ctonia dell’ape, intesa come principio di vita e di rinascita, è motivata alla luce delle reminescenze orfiche presenti nel de antro nympharum di Porfirio ed
in funzione della sua presenza alle origini del culto delfico, che l’A. tratterà nel corso del quinto capitolo; essa è però ancora più evidente nei miti in
cui emerge un esplicito nesso tra miele e serpente,
proprio come in quello di Glauco.
Con il secondo capitolo (pp. 39-65), l’A. cerca di
rintracciare, principalmente in ambito egeo-anatolico, le origini simboliche che presiedono all’iden-
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tificazione della donna/ape: il punto di partenza è
costituito da alcune laminette in oro ed elettro di
provenienza rodia e di età orientalizzante, su cui
sono rappresentate figure femminili che per metà
hanno il corpo di insetto: l’A. vi riconosce una figura sincretica che si innesta sul modello iconografico
della potnia theron di matrice mediterranea, la cui
origine viene motivata alla luce della singolare saga
di Telepino. Nella seconda parte di questo capitolo,
l’attenzione dell’A. è interamente rivolta all’isola di
Creta, di cui vengono prese in considerazione tutte le testimonianze materiali atte ad evidenziare la
costante presenza dell’ape come simbolo iconografico, primo fra tutte il famoso pendaglio di Mallia
con le due api affrontate che reggono un favo. È
dunque nel sostrato minoico che trova fondamento l’uso sacro del miele, così come è sempre l’isola
di Creta il luogo ideale per cogliere quel rapporto
simbolico privilegiato che intercorre tra le api e le
grotte, spiegato sulla scorta di alcuni passi omerici tratti dall’Odissea e del già citato de antro nympharum di Porfirio. Non è un caso che sia proprio
ubicata a Creta la grotta in cui Zeus viene nutrito
dal latte della capra Amaltea e dal miele delle figlie di Melisseo: il riferimento a questa leggenda
cretese consente all’A. di evidenziare il ruolo curotrofico delle api e di identificare nel miele, simbolo
di purezza e di incorruttibilità, il nutrimento ideale per gli dei, accanto al nettare, all’ambrosia ed al
latte (F. Aspesi, Il miele, cibo degli dei, in Saperi e sapori mediterranei: la cultura dell’alimentazione e i suoi
riflessi linguistici, Atti del Convegno (Napoli, 12-16 ottobre 1999), Napoli 2002, pp. 919-927).
Il terzo capitolo (pp. 67-94) è interamente dedicato al miele, di cui vengono ricordati i molteplici
usi: principalmente utilizzato come alimento per il
suo alto apporto energetico e nutritivo, era anche
largamente adoperato nella cucina come conservante e nella medicina, in virtù delle sue proprietà cicatrizzanti ed emollienti; quindi nella cosmesi e nella profumeria, ove costituiva un ingrediente
fondamentale nella confezione di unguenti e profumi. Oltre a ricordare le numerose qualità e l’origine divina del miele, l’A. ne sottolinea la profonda
ambiguità materiale, cui corrisponde la medesima
ambiguità sul piano semantico e simbolico. Contestualmente sviluppa ed approfondisce gli aspetti più concreti e pratici legati alla sua produzione,
concentrandosi, pur in modo sommario, sulle diverse tipologie di arnie e sulla loro funzione, descrivendo anche le caratteristiche dei luoghi deputati alla raccolta del miele, gli apiari.
185
Ne emerge un quadro in cui il miele spicca per
il suo straordinario apporto nutritivo, trattandosi di
un alimento completo che, sempre in virtù della sua
ambigua natura, rappresenta un prodotto di sintesi tra il mondo vegetale e quello animale. Per questo esso diviene anche il simbolo dell’abbondanza
e della fertilità e può essere associato a tutte quelle divinità che presiedono al potere fecondante della natura ed alla rinascita del ciclo vitale, di cui il
miele ne interpreta il valore ctonio. Di conseguenza, il miele si afferma come elemento connesso sia
alla vita come nutrimento, che alla morte, tanto che
oltre ad essere utilizzato nei rituali funebri, viene
anche impiegato per la conservazione dei cadaveri.
In ultimo, miele ed api sono celebrati da sempre
come i simboli dell’eloquenza e della poesia: secondo quanto tramandano le fonti, infatti, le api si sarebbero posate sulle labbra di Pindaro, di Platone e
di Sofocle per trasmettere loro il dono della parola
e della persuasione. Illuminante è la testimonianza di Seneca che in una delle Epistole a Lucilio illustra in modo esemplare questa metafora (L. Cicu,
Le api, il miele, la poesia. Dialettica intertestuale e sistema letterario greco-latino, Roma 2005).
L’approfondimento sul miele porta l’A. ad affrontare nel capitolo successivo (pp. 95-155) una serie di miti interamente incentrati su di esso, a partire da quello di Aristeo, che affronta basandosi su
un ricco repertorio iconografico, per proseguire con
il mito di Orfeo ed Euridice, con quelli di Glauco
e di Trofonio, e per concludere infine con quello di
Periandro e Melissa, la “sposa cadavere”: una vera
e propria “mitologia del miele” (Lévi-Strauss, Dal
miele alle ceneri. Oltre la contrapposizione tra “natura”
“cultura”, Milano 1970), cui fa da sfondo, sul piano
simbolico, il valore ctonio dell’ape.
In funzione della doppia accezione di donna e di
ape, Melissa intrattiene del resto varie relazioni tra
eroi e divinità; protagoniste del quinto capitolo (pp.
157-222) sono infatti le sacre api dell’olimpo, le Melisse. L’A. approfondisce il legame dell’ape con alcune tra le più importanti divinità femminili, prima
fra tutte Demetra, le cui sacerdotesse − le Melisse
appunto − sono tra le protagoniste delle Tesmoforie, in quanto proiezione metasimbolica del vivere
civile che, come già anticipato nel primo capitolo,
identifica nell’istituzione del matrimonio la principale espressione. Demetra rappresenta l’antitesi del
mondo selvaggio di Artemide (p. 159), alla quale l’A. dedica un’ampia e approfondita trattazione,
esaminando le api in relazione alle diverse forme
che la dea assume a seconda dei contesti geo­grafici:
186
RECENSIONI
oltre all’Artemide Britomartis e Dittinna, entrambe
venerate a Creta, l’A. sviluppa soprattutto il rapporto delle api con l’Artemide Efesia, per cui vale
la pena ricordare lo studio antesignano di Ch. Pichard (L’Éphésia, les Amazones et les abeilles, REA 42,
1940, pp. 270-285) e con l’Artemide Brauronia, figura sulla quale l’A. ha già avuto modo di cimentarsi
anche in altra sede (M. Giuman, Il dolce miele delle
orsette. I krateriskoi di Artemide Brauronia, una rilettura, in Ceramica attica da santuari della Grecia, della
Ionia e dell’Italia, Atti del Convegno Internazionale di
Studi [Perugia, 14-17 marzo 2007], Venosa 2009, pp.
103-118), trattando di un peculiare tipo di offerte
rinvenute in tutta l’area del santuario di Brauron,
i krateriskoi, che l’A. ritiene facciano parte di un rituale di carattere libatorio che probabilmente prevedeva l’utilizzo di idromele. Nella parte conclusiva del capitolo, l’A. prende in considerazione il
rapporto tra il santuario di Delfi e l’ape delfica (la
Pizia), riesaminando sotto la guida di Pausania, le
quattro diverse fasi di costruzione del tempio, in
particolare la seconda quando esso risulta costruito dalle api con cera e piume d’uccello. In ultimo,
affronta anche l’enigmatico oggetto, l’omphalos delfico, che secondo l’A. rappresenta “tutto ciò che ben
si inserisce nel sistema cultuale e rituale dell’oracolo di Delfi: arnia, tomba, tumulo, ombelico o, meglio, l’insieme di tutte queste cose” (p. 219).
Nel capitolo conclusivo (pp. 223-249), l’A. riprende il corredo della c.d. Tomba di Sotades, di cui
offre una nuova interpretazione, ritenendo che appartenga ad una giovane donna, probabilmente iniziata ai riti misterici di Orfeo. A suggerirlo sono proprio le tre coppe dipinte su cui sono raffigurati tre
miti diversi (Glauco, Melissa, Aristeo ed Euridice),
ma tutti correlati al miele: è probabile che in questo modo si intendesse evocare un’offerta simbolica di miele quale strumento di rinascita ed alimen-
[RdA 34
to di immortalità. L’impiego del miele era previsto
anche in ambito religioso e funerario, costituendo
sin dai tempi più antichi una delle principali offerte
alle divinità ed alle anime dei morti, utilizzato per
le libagioni ancor prima del vino, totalmente puro,
in forma di dolce o addirittura di semplice favo. In
quanto simbolo di purezza e fonte di purificazione,
tuttavia, il miele si qualifica anche come cibo di rinascita iniziatica. A concludere il capitolo sono infine alcune riflessioni sullo Zeus Meilichios, una divinità ctonia, protettrice della fertilità del suolo e del
grano appena seminato, nei cui rituali doveva probabilmente essere utilizzato il miele.
In questa fitta rete di relazioni e di sottili richiami che dal mondo dei realia passano al piano simbolico e viceversa, emerge la notevole disinvoltura
con cui l’A., esperto conoscitore della mitologia e
della società greca, affronta in modo versatile il complesso sistema simbolico che si prefigura all’origine
dei miti trattati, mettendo a confronto fonti letterarie
con dati iconografici ed archeologici, ricorrendo talvolta all’utilizzo di schemi di sintesi per evidenziare i diversi livelli semantici e metaforici individuati.
Pur addentrandosi in un percorso estremamente vasto e per tale motivo anche rischioso, alla luce
di una lettura complessiva tutti i temi affrontati nei
singoli capitoli trovano un costante e puntuale filo
conduttore nella figura di Melissa, la donna/ape,
e nel suo frutto più straordinario, il miele: “metafore polisemiche di straordinaria efficacia” (p. xiii)
divengono entrambi lo strumento guida per affrontare miti, simboli, problematiche storico-culturali,
antropologiche e religiose, secondo un approccio
iconologico che permette all’A. di ricostruire un coerente ed articolato quadro simbolico, avvalendosi
di puntuali riscontri.
Raffaella Bortolin
AREZZO NELL’ANTICHITÀ
a cura di G. Camporeale, G. Firpo
(Accademia Petrarca di Lettere Arti e Scienze, Arezzo); Roma, G. Bretschneider Editore, 2009, pp. 293, figg.
nel testo, tavv. XVIII a colori. ISBN 978-88-7689-244-8
Il volume rappresenta la concretizzazione di un
percorso triennale che l’Accademia Petrarca di Lettere e Scienze di Arezzo ha perseguito in occasione
del bicentenario della fondazione (1810-2010).
Come enunciato nella premessa dai curatori,
l’obbiettivo è quello di mettere a disposizione uno
strumento consultabile sia dallo specialista, che vi
troverà un quadro aggiornato degli studi sulla cit-
2010]
RECENSIONI
tà di Arezzo, sia da un pubblico più ampio, grazie
ad alcuni accorgimenti di carattere redazionale in
grado di agevolarne la lettura (p. vii).
Due sezioni principali compongono l’opera. La
più corposa riguarda la storia delle ricerche e delle
scoperte sulla città antica; ad essa si aggiunge una
parte relativa alle più recenti indagini archeologiche nella provincia aretina.
La trattazione si apre con un contributo di Giovannangelo Camporeale, il quale ripercorre la storia di Arezzo sulla base delle notizie tramandate
dalle fonti storiografiche, a partire dall’Antichità,
quando la città è ricordata per la cinta muraria in
laterizi e la rinomata tradizione artigianale di manufatti metallici e ceramici. Sebbene nel Medioevo
l’interesse per gli Etruschi sembri progressivamente scemare, dagli scritti di questo periodo e delle
epoche successive traspare una forte consapevolezza del passato glorioso della città. Tale coscienza
raggiunge senza dubbio il proprio apice con l’Umanesimo e il Rinascimento, epoca dei grandi rinvenimenti bronzei raffiguranti la Minerva e la Chimera,
e continua nel Seicento, grazie ad un marcato interesse per i numerosi ritrovamenti epigrafici (pp.
3-14). A Cristina Cagianelli è affidato il compito di
tracciare i profili delle personalità che hanno contribuito a rendere Arezzo un centro di grande vivacità culturale durante il Settecento (pp. 15-26). È tuttavia con il secolo successivo che l’antiquaria lascia
il posto alle indagini sistematiche sul territorio ed
all’istituzione del Museo Pubblico di Arezzo, presso il quale si formerà uno st­udioso del calibro di
Gian Francesco Gamurrini, alla cui intraprendenza
l’archeologia aretina continua tuttora ad essere debitrice (S. Faralli, pp. 26-32).
Il profilo storico della città è articolato per tematiche che rispondono a livelli di approfondimento
differenti. Il percorso prende avvio da alcune nozioni di carattere geologico, con particolare attenzione all’origine ed allo sfruttamento delle risorse
minerarie offerte dal territorio (G. Tanelli, pp. 3338), per passare all’analisi delle evidenze preistoriche, inserite nel più ampio quadro regionale (F.
Martini, pp. 39-48).
Successivamente una discussione sulle numerose ipotesi che accompagnano il toponimo, condotta da Alberto Nocentini (pp. 49-54), introduce uno
dei capitoli più consistenti, nel quale il Camporea­
le ripercorre lo sviluppo della città in età etrusca,
“cedendo la parola” ai documenti, in particolare a
quelli archeologici (pp. 55-82).
In questa sezione traspaiono con chiarezza gli
187
intenti esplicitati nella premessa, soprattutto laddove lo studioso si sofferma sulla molteplice natura
delle fonti (archeologiche, letterario-storiografiche,
epigrafiche, archivistiche, toponomastiche, onomastiche, naturalistico-paesaggistiche), analizzando le
potenzialità conoscitive di ciascun tipo.
Un esempio eloquente è costituito dall’accurato
esame della lamina bronzea di Caso Cantovio, che
permette di aggiungere un tassello alla storia aretina di III sec. a.C. (G. Firpo, pp. 83-86).
La produzione artigianale annovera monumenti di primaria importanza per lo studio dell’arte
etrusca.
Nonostante la dispersione dei materiali e la lacunosità delle notizie riguardanti il rinvenimento
della maggior parte degli oggetti di provenienza
aretina, la tradizione della piccola plastica votiva in
bronzo costituisce una sorta di filo rosso che dallo scorcio dell’VIII secolo a.C. si snoda fino all’età
ellenistica. Tra le maglie di questo ordito a partire
dal V secolo a.C. si innestano le manifatture uscite
dalle botteghe di coroplasti, che almeno per tre secoli sono impegnate nell’elaborazione di programmi figurativi posti a decorazione dei luoghi di culto urbani ed extra-urbani (S. Bruni, pp. 87-104). Un
taglio differente è stato invece riservato da Luigi
Donati al suo saggio relativo all’importante ruolo
di mediazione svolto dalla Val di Chiana, e in particolare da Chiusi, che costituiva il passaggio obbligato verso l’Etruria meridionale. Da quest’area
arrivano ceramiche etrusco-corinzie, un’anfora del
Pittore della Crotalista, vasi attici, oreficerie e oggetti pertinenti alla sfera femminile. A questi si aggiungono prodotti di diretta fabbricazione chiusina, come i vasi in bucchero. Il centro aretino si pone
come polo ricettivo non solo di una serie di manufatti ma anche di idee, come attestano le necropoli, che restituiscono cippi, cinerari a forma umana,
sculture di sfingi e leoni posti a guardia del sepolcro, secondo il costume funerario proprio dell’area
chiusina (pp. 105-111).
Arezzo può vantare un ruolo di primo piano nel
dibattito che delinea i caratteri identificativi della cultura artistica etrusca. Senza dubbio una delle
pietre miliari di questo percorso è la statua bronzea della chimera, oggetto dello studio di Adriano
Maggiani (pp. 113-124), il quale porta a compimento il discorso iniziato un ventennio fa (A. Maggiani, La Chimera di Arezzo, in La Chimera e il suo mito,
a cura di P. Zamarchi Grassi, Firenze, 1992, pp. 5363) e ripreso una decina di anni dopo in occasione
della Mostra Etruschi nel Tempo, tenutasi proprio ad
188
RECENSIONI
Arezzo nel 2001 (A. Maggiani, La Chimera di Arezzo,
in Etruschi nel tempo. I ritrovamenti di Arezzo dal ‘500
ad oggi, a cura di S. Vilucchi, P. Zamarchi Grassi,
Firenze, 2001, pp. 57-59). Dopo aver costituito per
oltre cinque secoli il principale argomento per sostenere la etruscità della scultura, la presunta contrapposizione tra forme arcaizzanti (criniera a fiamma) e stilemi naturalistici (elaborazione delle forme
anatomiche) viene superata riconducendo tipo iconografico e stile ad un modello attico della fine del
V secolo a.C. L’analisi grafematica dell’iscrizione,
che riflette scelte apparentemente inconciliabili, implicherebbe secondo lo studioso un movimento di
persone da sud verso nord, dall’Etruria meridionale verso l’area settentrionale. Dunque, se il modello iconografico (come anche la componente piombifera della lega, che risulta costituita da minerali
provenienti dal Laurion) rimanda all’ambiente attico, mentre la dedica lega il donario ad un luogo di culto etrusco, acquista fondamento la proposta di guardare alla statua come ad un prodotto
modellato ed iscritto ad Arezzo verso l’inizio del
IV secolo a.C. da personalità artistiche differenti,
con ogni probabilità itineranti, sia magnogreche che
etrusche.
Anche la produzione ceramica costituisce uno
dei punti distintivi dell’artigianato aretino, in particolare quella a vernice nera, trattata da uno specialista come Jean-Paul Morel (pp. 125-134). Le
botteghe producono tra il IV e il II secolo a.C. manufatti non solo per il mercato regionale ma anche
per l’esportazione, svolgendo, insieme a Volterra,
un ruolo determinante alla nascita della “ceramica calena”. All’intraprendenza dei ceramisti, propiziata dall’alta specializzazione raggiunta, è da
attribuire il processo, da considerarsi tutto aretino, del passaggio dalla vernice nera a quella rossa. Questa produzione costituirà una delle massime espressioni artistiche di epoca imperiale, come
ha dimostrato in maniera esaustiva Francesca Pao­
la Porten Palange in uno dei capitoli successivi
(pp. 205-215).
La questione relativa agli aspetti epigrafici è invece riservata a Luciano Agostiniani, il quale, attraverso l’analisi delle iscrizioni attribuite all’area aretina, conduce una sorta di breve ma efficace lezione
sulla lingua etrusca (pp. 135-141).
La parte relativa ad Arezzo etrusca si conclude
con l’ipotesi dell’esistenza di una zecca cittadina
della serie “della ruota” (F. M. Vanni, pp. 135-149)
e con una sezione relativa agli aspetti topografici della città che, se per il periodo etrusco costitui­
[RdA 34
sce una sorta di sintesi finale, richiamando tutti i
principali rinvenimenti, è funzionale ad introdurre
l’epoca romana (A. Cherici, pp. 151-168).
Il ruolo di Arezzo negli accadimenti che vedono
nel I secolo a.C. la definitiva integrazione dell’Etruria nella sfera romana è delineato da Marta Sordi,
alla cui memoria questo volume è dedicato (pp.
169-175).
Seguono due saggi che si soffermano sull’organizzazione amministrativa di Arretium all’indomani della vittoria sillana (G. Firpo, pp. 177-185) sino
al III secolo d.C., attraverso il supporto di una ricca documentazione epigrafica (M. Buonocore, pp.
187-196). Delineato il profilo storico, i contributi di
carattere monografico che presentano la città come
un centro di vivace attività artistica, anche in epoca romana, sono preceduti dal ritratto di Gaio Cilnio Mecenate, tratteggiato da Pierfranceso Porena
(pp. 197-204).
Ne emerge una personalità caratterizzata da luci
ed ombre, dove all’inossidabile amicitia per Ottaviano si affianca una “morbida, femminea, ostentata
passione per gli aspetti più ricercati dell’otium” (p.
202), tratto quest’ultimo da ricondurre ad una base
culturale fortemente imbevuta di richiami all’antica aristocrazia etrusca, dovuti all’appartenenza di
Mecenate alla gens dei Cilnii.
La produzione della tipica ceramica a vernice
rossa, come menzionato in precedenza, è presentata dalla Porten Palange (pp. 205-215) ed è completata da una breve annotazione di Giusto Traina
riguardante l’onomastica dei due ceramisti successori di Marcus Perennius: Tigranus e Barghates (pp.
217-218).
Alla fervida attività dei marmorari è dedicato
lo studio di Giandomenico De Tommaso, che analizza i monumenti restituiti dal suolo aretino, che
non contemplano solamente le numerose sculture
ma anche i sontuosi apparati musivi delle domus
dell’élite cittadina (pp. 219-225).
Come l’età etrusca, anche quella romana si chiude con una parte di carattere topografico, che in
questo caso è focalizzata sul sistema viario, il cui
quadro ricostruttivo è affidato alla competenza di
Giovanni Uggeri (pp. 227-235). Il percorso cronologico si conclude con la cristianizzazione della città, le cui problematiche sono esposte da Pierluigi
Licciardello, il quale riserva un occhio di riguardo alle dinamiche di riorganizzazione del territorio
(pp. 237-246), mentre Alberto Fatucchi approfondisce la questione delle pievi attraverso l’analisi dei
più antichi documenti d’archivio, relativi alle se-
2010]
RECENSIONI
colari contese territoriali tra i vescovi di Siena ed
Arezzo (pp. 247-252).
La seconda sezione del volume raccoglie i risultati delle più recenti indagini sul territorio aretino
a partire dall’area urbana per estendersi in senso
antiorario alle aree circostanti del Valdarno superiore (S. Vilucchi, pp. 255-261), di Castiglion Fiorentino (M. G. Scarpellini, pp. 261-264), della Valtiberina (M. Salvini, pp. 264-268), del Casentino e
della Valdichiana orientale (L. Fedeli, pp. 268-271).
Le ultime pagine sono dedicate ad illustrare brevemente la storia del Museo Archeologico Nazionale “Gaio Cilnio Mecenate”, che nasce il 22 marzo 1822 con il nome di “Museo di Storia Naturale
e di Antichità”. Silvia Vilucchi ripercorre la formazione delle collezioni sino agli interventi più recenti ed ai progetti in corso per la valorizzazione e l’integrazione dell’istituto museale all’interno
189
di un percorso archeologico che collega gli spazi
espositivi alle aree archeologiche cittadine (pp. 272277).
In conclusione, l’intento iniziale di offrire uno
strumento di facile comprensione per un pubblico di elevato livello culturale, non necessariamente specializzato nella materia, sembra pienamente
soddisfatto, grazie alla felice armonizzazione di tematiche a diverso livello di approfondimento. Ciò
è reso ancora più agevole dal supporto di utili apparati di indici delle fonti (p. 279) e dei nomi propri (pp. 281-293), che permettono una consultazione più rapida del volume. Inoltre, l’alta qualità
dell’edizione è confermata dalla generosità della
documentazione grafica e fotografica disseminata
nel testo, corredato da XXVIII tavole a colori.
Flavia Morandini
Valentina Vincenti
LA TOMBA BRUSCHI DI TARQUINIA
(“Materiali del Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia” XVII) (“Archaeologica” 150); Roma, G.
Bretschneider Editore, 2009, pp. 190, tavv. XXIII. isbn 978-88-7689-235-6
Oggetto poco dopo la metà del XIX secolo di
scavi assai poco sistematici, cui è seguita la dispersione e la perdita di parte degli affreschi e dei materiali del corredo, la Tomba Bruschi di Tarquinia
è rimasta per lungo tempo in uno stato di quasi
totale oblio.
Ora, grazie alla ricostruzione di Valentina Vincenti, che aveva già offerto qualche anticipazione
in due precedenti contributi (V. Vincenti, La Tomba
Bruschi di Tarquinia: recupero di un contesto, in Scavo nello scavo. Gli Etruschi non visti, Catalogo della
Mostra, Viterbo 2004, a cura di A. M. Sgubini Moretti, Roma, 2004, pp. 188-198; V. Vincenti, La Tomba
Bruschi di Tarquinia, in Pittura ellenistica in Etruria.
Immagine, linguaggio, messaggi. Giornate internazionali di studio, Perugia 17-18 marzo 2006, “Ostraka”,
XVI, 1, 2007, pp. 93-103), questo monumento dalla storia travagliata viene riproposto al dibattito
scientifico.
Già al momento della scoperta, avvenuta nel
1864 in località Calvario, la tomba presentava consistenti danni dovuti al crollo del soffitto e di una
delle pareti, presto aggravati dall’azione di deturpatori clandestini e dal rapido degrado degli agenti atmosferici. Tali condizioni sfavorevoli indussero alla realizzazione di una documentazione grafica
sommaria ed allo strappo di alcuni tratti di affreschi, per consentire l’immediato reinterro del monumento.
Dopodiché il sepolcro, la cui appartenenza alla
gens Apunas è assicurata dalla presenza di iscrizioni
(che trovarono posto nel CIE già alla fine dell’Ottocento), rimase nella letteratura archeologica solo
per le sue pitture.
A quasi un secolo di distanza dalla scoperta, nel
1963, un tentativo di incursione nella necropoli tarquiniese da parte di tombaroli, prontamente sventato grazie all’intervento delle autorità statali, portò
allo scavo di una tomba a camera, nella quale furono raccolti sarcofagi e alcuni frammenti di ceramiche e di affreschi. A questa tomba fu dato il nome
di “Tomba Giudizi”.
Solo dopo lo strappo degli afrreschi e la loro ricomposizione presso l’Istituto Centrale del Restau-
190
RECENSIONI
ro apparve chiaro che la c.d. “Tomba Giudizi” non
era altro che l’ottocentesca “Tomba Bruschi”.
Nonostante la sua posizione topografica sia nuovamente stata dimenticata dopo il secondo reinterro, le ricerche dell’A. hanno consentito di collocarla
definitivamente all’interno dell’area della necropoli
del Calvario (Tav. II). L’accurato e paziente restauro delle pitture e di una parte (cinque) dei sarcofagi ha suggerito un tentativo di restituzione dello
stato originario della Tomba, che è stata presentata
al pubblico in occasione della recente mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma (Etruschi. Le antiche
metropoli del Lazio, a cura di Mario Torelli e Anna
Maria Moretti Sgubini, Roma, 2008).
Dopo la presentazione dei dati relativi alla scoperta (pp. 1-5) e la storia degli studi (pp. 5-10), l’A.
affronta lo studio della tomba. Nel capitolo intitolato “L’architettura e il sistema decorativo”, la prima parte è dedicata alla ricostruzione dell’architettura del monumento attraverso l’ausilio di tutti
i dati disponibili (un disegno del Mariani eseguito
al momento della “prima” scoperta dell’ipogeo, le
notizie apparse sui giornali del tempo, le fotografie
di scavo del 1963, gli affreschi conservati al Museo
Nazionale di Tarquinia). L’analisi di questi elementi
conduce verso modelli collocabili entro la seconda
metà del IV secolo a.C. (pp. 11-18). Alla descrizione analitica di ciò che rimane degli affreschi è invece riservata la seconda parte, dalla quale emerge
che la tecnica pittorica e l’utilizzo della quadricromia denotano già una precisa conoscenza delle innovazioni artistiche di ascendenza greca di età ellenistica (pp. 19-39).
Nella sezione “Iconografia e iconologia” (pp.
41-72), l’A. si sofferma dapprima sui temi rappresentati, adducendo per essi confronti puntuali e ripercorrendone gli sviluppi all’interno della pittura
etrusca. Nello specifico, dopo il fregio ad onde e
delfini, ampio spazio è dedicato all’iconografia del
corteo magistratuale. Questo schema, nato in seno
alla cultura etrusca, troverebbe la sua prima manifestazione all’inizio del IV secolo a.C. con la Tomba dei Pigmei. Secondo un recente studio di Maurizio Harari, infatti, il giovane munito di virgae sulla
spalla sinistra non sarebbe altro che un apparitor, il
quale caricherebbe la processione di una valenza
magistratuale (M. Harari, La Tomba N. 2957 di Tarquinia, detta “dei Pigmei”: Addenda et Corrigenda, in
Pittura parietale, pittura vascolare. Ricerche in corso tra
Etruria e Campania, Atti della Giornata di Studio, Santa Maria Capua Vetere, 28 maggio 2003, a cura di F.
Gilotta, pp. 79-91). Il motivo, confinato inizialmen-
[RdA 34
te a porzioni di pareti come corollario di altri temi
(Tomba Golini I e II, Tomba degli Hescanas, Tomba degli Scudi), s’impone come soggetto principale del ciclo pittorico verso la fine del IV e la prima metà del III secolo a.C. (Tomba Bruschi, Tomba
del Convegno, Tomba del Tifone), per poi regredire progressivamente ad un ruolo marginale (Tomba del Cardinale, Tomba 5512, Tomba dell’Orco I)
e trasferirsi sui singoli sarcofagi, ad indicare lo status del sepolto (Tomba Giglioli, Tomba degli Anina). Le ultime rappresentazioni risalgono al I secolo a.C. sulle urne volterrane.
Il tema del corteo magistratuale è interrotto
sull’angolo tra la parete di sinistra e quella di fondo da una scena di toeletta femminile (? kosmè ?, pp.
58, 69), che rappresenta un unicum nella pittura funeraria etrusca (ma non in quella campana) e che
sembra corrispondere alla posizione del sarcofago
della defunta ursm[nai], in linea con l’usanza tipica
del III secolo a.C. di affrescare una porzione di parete in relazione alle arche deposte al di sotto.
Se la serie dei “particolari iconografici” (p. 57)
individuati ed analizzati, tra cui la scena appena
menzionata, sembra non offrire saldi agganci cronologici, l’indagine relativa ai “particolari antiquari” (p. 61) propone degli spunti interessanti. È il
caso dell’impugnatura bilobata della spada di tipo
celtico, attestata in Etruria alla fine del IV - inizio del
III secolo a.C., dei dettagli della veste e dei gioielli di larthi ursm[nai], delle calzature indossate dai
personaggi maschili, che confermano tale ambito
cronologico.
La tematica del ciclo pittorico, che fa riferimento al viaggio dei defunti verso il mondo dei morti,
sembra riservare un ruolo di particolare rilevanza
alla partecipazione femminile all’interno del corteo
magistratuale, non solo per quanto riguarda larthi
ursm[nai], dipinta mentre è intenta a specchiarsi,
ma anche per ciò che concerne la raffigurazione di
altre due donne di dimensioni maggiori rispetto ai
personaggi maschili, requisito che denota particolare rilevanza all’interno della gerarchia della gens.
Il significato di siffatte teorie, ampiamente dibattuto in letteratura, è stato letto come la trasposizione pittorica di processioni reali oppure come
la rappresentazione di cortei fittizi, a scopo puramente funerario, che avrebbero luogo nell’Aldilà.
Nell’ultimo contributo relativo alla questione (M.
Menzel, A. Naso, Raffigurazioni di cortei magistratuali
in Etruria. Viaggi nell’aldilà o processioni reali?, in Pittura ellenistica in Etruria. Immagine, linguaggio, messaggi. Giornate internazionali di studio, Perugia 17-18
2010]
RECENSIONI
marzo 2006, “Ostraka”, XVI, 1, 2007, pp. 23-43), gli
studiosi proponevano che tali cerimonie dovessero
rifarsi ad eventi della vita reale, la cui raffigurazione all’interno delle tombe si carica di un prevalente
significato commemorativo. A questo proposito V.
Vincenti suggerisce l’assimilazione tra funus e viaggio nell’oltretomba “… considerando che, nel mondo etrusco, non c’era frattura, ma continuità tra le
due vite …” (p. 72).
Strettamente legati alle travagliate vicissitudini
dell’ipogeo, segnalati solamente in maniera parziale e reinterrati durante il primo scavo, i sarcofagi
vennero recuperati durante la riapertura della tomba e trasportati al Museo di Tarquinia senza essere nè inventariati nè documentati, condizione che
lascia pertanto adito ad alcune incertezze di attribuzione. Si tratta di quattordici pezzi in tutto, generalmente frammentari, che l’A. ha diviso in due
gruppi: uno tipologicamente afferente alla classe
delle Stehende Figuren, tutte femminili, compreso
entro un orizzonte cronologico che va dal 340 al
300 a.C. (nn. 1-5), l’altro, disomogeneo, che raccoglie esemplari ognuno con caratteristiche peculiari, tra i quali riveste particolare interesse un sarcofago maschile con scena di corteo magistratuale
(225-175 a.C.) (nn. 6-9). Non compare purtroppo la
raffigurazione del coperchio 8, identificato nel magazzino del Museo di Tarquinia e corrispondente
al tipo con columen centrale e acroteri agli angoli.
Inoltre, mancano all’appello cinque sarcofagi, la cui
presenza fu registrata, se pur con brevi descrizioni,
nello scavo degli anni Sessanta. Fotografie eseguite
in quella circostanza hanno consentito di riconoscere la presenza di frammenti di ceramica a vernice
nera e di alcuni frammenti metallici (ora dispersi)
(pp. 73-98). Sulla base di notizie contenute in documenti ottocenteschi, è stata proposta con grande
prudenza una provenienza dalla tomba per una testina femminile in bronzo, conservata al Museo Nazionale di Tarquinia (pp. 98-100).
L’ultima parte è riservata alle iscrizioni (pp.
101-127), fortunatamente ricopiate al momento della prima apertura della tomba e pubblicate poco
dopo sul CIE, visto che delle tredici originarie se ne
conservano oggi solamente due. Alla proposta ricostruttiva di una parte dell’albero genealogico della
famiglia degli Apunas, si accompagna un approfondimento relativo alle attestazioni del gentilizio (o
meglio dei gentilizi costruiti sulla stessa base apu)
a partire dall’età arcaica. La concentrazione maggiore si verifica tra il IV e la prima metà del III secolo a.C. in ambito tarquiniese, connotando la fa-
191
miglia come un esponente della classe dirigente,
grazie all’associazione del suo nome a quella di altre gentes, con le quali doveva aver intessuto una
politica matrimoniale mirata al controllo dell’ager
tarquiniensis.
In seguito le attestazioni compaiono in misura
quantitativamente maggiore in Etruria settentrionale, in particolare a Perugia e a Volterra, dove il
nomen è riscontrabile fino al II-I secolo a.C.
Il capitolo conclusivo si divide tra la discussione
riguardante lo stile (pp. 129-134) e quella sulla cronologia (pp. 134-140). Le considerazioni di tipo stilistico sono volte a sottolineare la compresenza negli affreschi delle correnti “disegnativa”, riservata
alle figure umane, con una maggiore cura per la riproduzione dei membri della gens, e “plastica”, destinata agli animali ed agli oggetti, in linea con le
tendenze proprie della pittura etrusca di età ellenistica e ascrivibili alla presenza di più artisti operanti all’interno dell’ipogeo.
La tomba sarebbe dunque stata costruita verso
il terzo venticinquennio del IV secolo a.C., come è
indicato dai sarcofagi più antichi, mentre la realizzazione della sua decorazione pittorica sarebbe posteriore, come dimostrano le lacune sulle pareti che
indicano la presenza di arche addossate. All’interno
del panorama artistico relativo alla pittura tarquiniese, il ciclo pittorico della Tomba Bruschi si posizionerebbe tra la Tomba del Convegno e la Tomba
del Tifone, in un orizzonte collocabile tra la fine del
IV secolo a.C. e l’inizio del successivo. Tale cronologia risulta conforme anche a quanto è stato possibile concludere dallo studio delle iscrizioni, secondo le quali il gentilizio continuerebbe a comparire
a Tarquinia solo fino al II secolo a.C., quando anche l’ipogeo cessa di essere utilizzato.
Infine, due appendici completano la trattazione.
La prima è dedicata alla raccolta sistematica di tutti
i documenti relativi alla tomba (carteggi, annotazioni, notizie apparse su quotidiani, atti burocratici),
che hanno costituito il filo conduttore dell’intera
opera, in qualità di prezioso e fondamentale supporto alla ricostruzione dell’ipogeo e del suo contesto, vista l’assenza di una documentazione di scavo precisa ed adeguata (pp. 141-165). La seconda
riporta brevemente le tecniche utilizzate durante gli
interventi di restauro (pp. 167-169).
Il volume è corredato da un apprezzabile apparato di tavole.
Flavia Morandini
192
RECENSIONI
[RdA 34
Claudia Lucchese
Il mausoleo di Alicarnasso e i suoi maestri
(“Maestri dell’Arte classica” I), Roma, Giorgio Bretschneider Editore, 2009, 14,5 × 21, pp.
br. XIV. ISBN 978-88-7689-219-2
L’ouvrage de Claudia Lucchese consacré au
mausolée d’Halicarnasse est une excellente synthèse concernant le monument. Après un bref contexte historique et géographique, réalisé, entre-autre,
grâce aux textes d’Hérodote, Strabon, Pline l’Ancien, Vitruve et Diodore de Sicile, l’auteur s’intéresse au satrape Mausole de Carie. L’ouvrage est ensuite divisé en trois grands chapitres: le monument
funéraire, le message politico-culturel de celui-ci et
son impact dans la littérature et l’épigraphie.
Le chapitre “Monument funéraire de Mausole” commence naturellement par un historique de
son étude. Il débute avec l’insertion du monument
dans la (ou les) prestigieuse(s) liste(s) des Sept Merveilles du monde antique. L’étude scientifique du
mausolée ne débuta réellement qu’au XIXe siècle.
Claudia Lucchese après avoir présenté la mission
de l‘archéologue britannique C. Newton, passe assez rapidement à la mission danoise du professeur
Kristian Jeppesen qui a débuté en 1966. Elle utilise abondement la riche bibliographie de ce chercheur. Elle parvient à synthétiser les théories de la
mission danoise et à la présenter de manière claire et précise. L’étude architectonique est évidemment basée sur les résultats des fouilles de Jeppesen
mais également sur les publications de Pedersen,
Zahle, Hoepfner et Waywell. Elle fait également appel, lorsque cela est nécessaire, aux anciennes théories de Fritz Krischen. Pour la description de la décoration du monument (frises, statues …), l’auteur
utilise l’étude de Waywell (British Museum) mais
présente également son point de vue. Elle revient
notamment sur la question du nombre d’artistes
qui réalisèrent les frises. Pour elle, la présence de
fragments comportant des lettres différentes ne fait
pas références aux quatre “maîtres” cités par Pline l’Ancien et Vitruve mais fait partie d’un système d’assemblage des différents éléments de décoration. Claudia Lucchese se montre sceptique quant
à la présence de deux phases dans la décoration (la
première datant de l’époque de Mausole et le seconde de l’époque d’Alexandre le Grand). Ensuite,
l’auteur s’intéresse à l’architecte du mausolée. Ce
point est évidemment basé sur le texte de Vitruve.
xi-172,
fig. 15 pl.
Nous regrettons qu’elle n’ait pas plus développé la
question de Satyros mentionné par Pline à Alexandrie (époque de Ptolémée II Philadelphe). La liste
des sept merveilles ayant très probablement été réalisée à Alexandrie, le choix d’y introduire le mausolée était peut-être lié à ce personnage. Rappelons
que le restaurateur du temple d’Artémis d’Ephèse,
Deinokrates de Rhodes était le principal architecte
d’Alexandrie (Strabon, Géographie, XIV, 22-23). Le
chapitre se termine par une étude assez complète des sculpteurs. Pour Pline l’Ancien, ils étaient
quatre: Léocharès, Timothée, Bryaxis et Scopas. Vitruve cite, quant à lui, un cinquième nom: Pythius.
Elle écarte rapidement Praxitèle, mentionné par Vitruve car ce dernier n’était pas actif au moment de
la construction du mausolée. Claudia Lucchese ne
prend évidemment pas les textes antiques au premier degré. Grâce à l’analyse des frises et des statues conservées au British Musem elle remet en cause, à juste titre, la vision antique: un artiste par face.
Il y a bien des différences entres les éléments de
la célèbre frise des Amazones. Il semble bien difficile de croire que Scopas réalisa la totalité de la
face orientale de la décoration du tombeau. Claudia
Lucchese n’exclut pas le fait que Scopas a pu former des sculpteurs Cariens.
Le deuxième chapitre est consacré aux messages politique et culturel véhiculés par le mausolée d’Halicarnasse. Il débute par l’étude des thèmes
iconographiques. La taille de l’édifice est le premier
élément. Son gigantisme tranche avec les sépultures des satrapes antérieurs. Le monument fait partie d’un ensemble, il est lié à la construction de la
nouvelle capitale de la satrapie. Claudia Lucchese remarque ensuite que certaines scènes du décor se retrouvent aussi ailleurs dans l’empire perse,
notamment sur le sarcophage des pleureuses retrouvés dans la nécropole royale de Sidon. Elle remarque ensuite d’autres éléments typiques à l’art
hellénisant de l’Orient (sarcophages de Sidon, sarcophage de Çan). Elle compare ensuite l’Amazonomachie avec les combats entre Grecs et Perses.
Le choix de ce thème attesterait donc de l’hellénisme de Mausole. Le satrape serait même assimilé à
2010]
RECENSIONI
la puissante figure d’Héraclès. Si Claudia Lucchese
veut voir en Héraclès un dieu civilisateur, attestant
de la supériorité des Grecs sur les Barbares, on peut
aussi voir en Héraclès un dieu faisant la synthèse entre Orient et Occident. En effet, les historiens
grecs et romains assimilèrent très tôt le dieu phénicien Melqart avec le héros Héraclès (nombreuses attestations épigraphiques, Arrien, Eudoxe de
Cnide cité par Athénée de Naucratis, Quinte-Curce,
Cicéron …). Claudia Lucchese conclut que le tombeau visait à héroïser et autocélébrer Mausole. Ensuite, l’auteur s’intéresse aux constructions qui ont
inspiré les architectes du Mausolée. Elle présente
donc le monument des néréides de Xanthos dont
les liens avec le mausolée semblent indiscutables.
Elle étudie les rapports entre l’empereur perse et
les satrapes. Enfin, elle termine ce point par l’un
des premiers “mausolées” de l’histoire, le tombeau
de Cyrus II, situé à Pasargades. Mausole se montra donc ambitieux et très libre vis-à-vis du pouvoir
perse achéménide. Après avoir étudié la question
de la volonté “dynastique” de Mausole, Claudia
Lucchese présente l’influence du tombeau sur les
monuments funéraires des IVe et IIIe siècles avant
notre ère. Elle présente, à juste titre, le tombeau au
lion de Cnide, le mausolée de Belevi.
Le dernier chapitre plus bref est un outil pour
le chercheur. Claudia Lucchese cite les principaux
textes qui évoquent le célèbre tombeau. Elle présente une version grecque ou latine et une traduction
du texte. Outre les textes incontournables de Cicéron, Vitruve, Pline l’Ancien, Pomponius Mela, Lucien de Samosate et Pausanias, elle présente également des textes moins célèbres tirés notamment
des œuvres d’Antipater de Thessalonique, Valère
Maxime, Aulu-Gelle. La liste pourrait se dire complète si on y ajoutait Isidore de Séville (Etymologiæ
XV, 11.3). Enfin, elle cite trois inscriptions épigraphiques en grec.
L’ouvrage comporte une très bonne bibliographie. Seuls quelques articles semblent absents
mais cela ne nuit en rien à la qualité du travail de
Claudia Lucchese:
R. Martin, Le monument des Néréides et l’architecture funéraire, “Revue archéologique”, 1971, f. 2,
p. 327-337.
193
J.-C. Richard, «Mausoleum»: D’Halicarnasse à Ro­me,
puis à Alexandrie, “Latomus” 39, 1970, p. 370388.
P. Roos, Rock-tombs in Hecatomnid Caria and Greek
architecture, dans Architecture and society in Hecatomnid Caria. Proceedings of the Uppsala Symposium 1987, ed. T. Linders, P. Hellström, Uppsala, 1989, p. 63-68 (Acta Universitatis Upsaliensis
Boreas. Uppsala Studies in Ancient Mediterranean and Near Eastern Civilisations, 17).
Un index des planches et des photos complètent
cette synthèse. Si l’ouvrage de Claudia Luc­chese
n’est pas totalement novateur, il a le mérite de présenter une synthèse complète décrivant le mausolée d’Halicarnasse. Elle a très bien synthétisé les recherches de l’équipe danoise de K. Jeppesen. Elle
a complété ces résultats par une intéressante analyse idéologique du célèbre édifice carien. Signalons également la récente publication d’un ouvrage qui permet de mieux comprendre le contexte
carien: Henry (O.), préface de P. Debord, Tombes
de Carie. Architecture funéraire et culture carienne.
VI e - IIe siècle av. J.-C., Rennes, 2009 (Archéologie &
Culture).
Si la synthèse est claire et précise, il serait intéressant de poursuivre cette étude en analysant notamment les tombes de Labraunda. La sépulture
d’Idrieus, bien que postérieure au mausolée permet de mieux comprendre l’agencement des appartements funéraires. L’étude des tumuli de Geriş
et d’Assarlık pourrait également compléter cette recherche (A. M. Carstens, Tomb Cult on the Halikarnassos Peninsula, “American Journal of Archaeology”, v. 106, n. 3, 2002, p. 391-409.
Afin de disposer de documents clairs pour comparer l’iconographie des sarcophages de Sidon, signalons la réimpression anastatique, en 1987, de la
mission de fouilles ottomanes qui les mit au jour:
O. Hamdy Bey, Th. Reinach, Une nécropole royale à
Sidon. Fouilles de Hamdy Bey, 2 vol. Paris, 1892 [réed.
anastatique: Istanbul, 1987] (Archaeology and art
Publications, Reprint Series, n. 4).
Marco Cavalieri
194
RECENSIONI
[RdA 34
Gemme dei Civici Musei d’Arte di Verona
A cura di Gemma Sena Chiesa
Testi di A. Magni, G. Sena Chiesa, G. Tassinari
(“Collezioni e Musei Archeologici del Veneto” 45), Roma, G. Bretschneider Editore, 2009, pp. 249, tavv. 66.
isbn 9788876892592
Frutto di quegli interessi antiquari che animarono la vita culturale di Verona tra XVIII e XIX secolo, e dei quali l’opera a stampa del Maffei e il Museo che da lui prese il nome restano il segno più
evidente, è l’ampia raccolta di gemme incise e paste vitree (2368 esemplari, cui si aggiungono 247
zolfi) confluite nel patrimonio della città a seguito
di acquisti, e soprattutto di donazioni da parte di
eminenti personaggi locali: raccolta rimasta sinora
del tutto inedita, e della quale in questa sede una
ampia selezione, poco meno della metà dell’intero
complesso, viene per la prima volta edita scientificamente.
In un capitolo introduttivo Gemma Sena Chiesa ci informa delle ragioni che portarono alla composizione della raccolta stessa: fondamentalmente
l’acquisto della collezione del conte veronese Jacopo Verità (1744-1827), forte di quasi 1700 pezzi; acquisto avvenuto nel 1842, a distanza quindi di alcuni anni dalla la morte del proprietario, che ad essa
aveva dedicato cure e un catalogo-inventario.
Ad essa si associano in seguito nuclei collezionistici minori, dei quali non è possibile distinguere la fisionomia (tra questi probabilmente un lotto
di un’altra collezione settecentesca veronese, quella di Jacopo Muselli), oltre ad acquisti diversi, che
portano la raccolta alla attuale consistenza.
La mancanza di una affidabile documentazione
che registri le diverse fasi delle acquisizioni rende
assai arduo distinguere i vari nuclei presenti all’interno della raccolta; per i quali inoltre non sono disponibili informazioni precise circa le modalità di
reperimento dei materiali da parte dei proprietari;
la sostanziale impossibilità di ricostruire la provenienza, sia collezionistica che eventualmente di scavo, dei singoli esemplari ha costretto le Autrici ad
una presentazione complessiva del materiale stesso, ordinato in due grandi sezioni, la prima dove
sono insieme commentate le gemme e le paste antiche, ordinate per tematiche; la seconda dedicata
agli esemplari moderni, a loro volta invece separati tra intagli e vetri, e articolati per gruppi stilistici
o di possibile origine. Tutte le sezioni sono intro-
dotte da ampie ed estesamente informate premesse orientative.
Se pure privo, come meglio si dirà più avanti, di
presenze di particolare pregio intrinseco o di particolare valore sul piano iconografico e documentario, l’insieme qui offerto presenta notevoli ragioni
di interesse, peraltro strettamente legate ad una serie di fattori problematici che ne condizionano fortemente l’apprezzamento sul piano scientifico.
Innanzi tutto, come si è già detto, non sembra
possibile ricostruire in dettaglio, sulla base della
documentazione disponibile, la fisionomia dei diversi nuclei che si sono aggregati nella attuale raccolta; il che impedisce di ricollegare con certezza i
materiali agli interessi, ai movimenti sul mercato,
ad eventuali indagini sul terreno dei singoli proprietari. Mancano in definitiva notizie di qualsiasi
genere sulle modalità di acquisizione e di provenienza delle gemme.
Ciò è tanto più imbarazzante se si tiene conto
della particolare composizione della raccolta, anche
considerata nel suo complesso: la quasi totalità degli esemplari appartiene ad una produzione di tipo
corrente, di livello medio, se non medio-basso, e in
buona misura è rappresentata da esemplari in vetro; ma soprattutto tra questi ultimi, al termine della attenta lettura qui condotta, è apparsa una consistente presenza di esemplari moderni, anch’essi
– diversamente dai tanti casi di grandi collezioni
note – di livello molto basso, in ampia parte addirittura di esemplari non finiti.
La compresenza, nelle raccolte glittiche nobiliari dell’età neoclassica, accanto ai più pregevoli
esemplari antichi, di lavori moderni, sia essi intesi
come copie di pezzi più famosi, o anche di invenzioni nuove, che rielaborano temi e spunti formali
dei maestri del passato, è fenomeno ben noto, che
ha dato luogo ad un artigianato artistico fiorente, e
nomi come quelli dei Pichler, di Cades, Marchant,
Girometti sono solo i più famosi tra i tanti di coloro che in Italia e all’estero tra la seconda metà del
XVIII secolo e i primi decenni del successivo misero il loro magistero al servizio della colta clien-
2010]
RECENSIONI
tela del Grand Tour; così come casi estremi, quale
quello ben noto della collezione Poniatowski, documentano quale peso potesse avere, nella composizione di una raccolta, la sezione moderna, in ragione di motivazioni diverse: nel caso della collezione
Poniatowski per una bulimica ansia di completezza iconografica.
È del pari ben noto, e ampiamente indagato (si
veda qui il quadro riassuntivo di G. Tassinari, pp.
145-148, 171-174), il fenomeno della riproduzione
di intagli e cammei, sia antichi che moderni, attraverso diversi media – cera, zolfo, scagliola, vetro,
anche carta – e per diversi fini: collezionistici, documentari, di studio, oltre che di semplici surrogati delle gemme autentiche, scopo questo che appare esclusivo nella produzione antica, anche questa
fiorente, di repliche in vetro di gemme lavorate
ad intaglio o cammeo. Officine specializzate, come
quelle del Lippert, di James Tassie, di Tommaso
Cades, di Bartolomeo e Pietro Paoletti, alimentano
una produzione che, elegantemente confezionata e
accompagnata da più o meno esaurienti commenti
antiquari, diviene indispensabile complemento delle biblioteche patrizie, nonché, più tardi, di quelle
delle Accademie e delle Università europee.
In questa produzione, i cui esiti, per il volgere
del gusto, saranno in seguito diffusamente e confusamente introdotti nel mercato, andranno ovviamente distinte le matrici in vetro, eseguite dal positivo tratto dall’intaglio (antico o moderno che sia)
originale, destinate alla produzione seriale dei calchi in positivo, dalle repliche in vetro – quindi negative – degli intagli stessi, talvolta imitative delle
tonalità e della policromia della pietra, e destinate alla collezione. Le prime sono generalmente ben
riconoscibili perché – specie nella fase più avanzata – sono fornite di un profilo inciso più ampio
dell’intaglio, destinato a produrre nel calco una sorta di filettatura o cornice che ne delimita i contorni (si vedano i calchi dello studio Paoletti, quelli di
Würzburg), e conservano un ampio margine che ne
facilita la presa e l’utilizzo; queste, come le repliche negative in vetro, possono, in casi di particolare
vicinanza e fedeltà all’originale, essere anche introdotte in una raccolta museale a scopo documentario, meritando un’attenzione particolare, specie nel
caso in cui l’originale sia da considerarsi perduto.
Con procedimento similare venivano prodotte le
repliche degli esemplari glittici a rilievo, i cammei,
ugualmente diffuse nelle collezioni del periodo.
Bisogna pertanto essere molto riconoscenti alla
curatrice del catalogo e alle sue collaboratrici per
195
aver voluto affrontare un compito così delicato,
quello appunto di prendere in considerazione un
materiale di così difficile lettura e ad una prima
impressione non particolarmente attraente; un materiale – quello moderno − troppo spesso trascurato nelle edizioni delle grandi raccolte glittiche del
passato.
Come si è detto, compito preliminare delle Autrici è stato quello di distinguere gli esemplari antichi da quelli moderni, commentati in catalogo rispettivamente da Alessandra Magni e da Gabriella Tassinari.
Data la qualità del materiale, cui sopra si è accennato, e la possibilità di esaminarlo solo nella
riproduzione fotografica, circostanze queste che
rendono impossibile affrontare un commento di
dettaglio sui singoli pezzi, si è preferito, assumendo
la nota esperienza delle due Autrici e della coordinatrice dell’opera come garanzia delle conclusioni
offerte dal testo, soffermarsi su qualche considerazione generale.
Gli esemplari antichi della collezione veronese –
660 quelli selezionati per questa edizione, dei quali
circa un quarto in vetro – testimoniano, come si è
già detto, una produzione seriale, estesa dall’avanzata età repubblicana (II sec. a.C.) sino agli inizi del
III sec. d.C.; il repertorio tematico è anch’esso corrente: emergono, per pregio formale e anche per
qualità della pietra, una corniola frammentaria con
busto di Dioniso, Cat. 186, della metà del I sec. a.C.,
il frammento con testa di Zeus in ametista Cat. 36,
la corniola con Vittoria Cat. 345, l’onice zonata con
testa di Medusa in profilo Cat. 534; interessante, per
la tematica di forte impegno ideologico, l’eliotropio
con trofeo e prigionieri Cat. 378. Ampia parte del
materiale è riconducibile ad officine di Aquileia e
ad un orizzonte di produzione locale.
Quanto detto in generale vale anche per i 364
esemplari moderni, rappresentati da gemme e Glaspasten (si adotterà qui di seguito la terminologia,
introdotta da Erika Zwierlein Diehl e accolta nel
presente volume, secondo la quale il termine di Glaspaste indica la replica moderna di un esemplare
antico, mentre Glasgemme designa la replica antica
dell’esemplare antico; termini resi in italiano rispettivamente come “pasta vitrea” e con il meno felice
“gemma vitrea”), dove il rapporto tra vetri e gemme sale a due terzi: si tratta di materiali di qualità
assai modesta – nel caso delle gemme si segnalano
appena gli intagli Cat. 729, 731-733 – e, nel caso dei
vetri, quasi sempre tecnicamente imperfetti, spesso
non rifiniti. Tra le Glaspasten emerge solo per qua-
196
RECENSIONI
lità tecnica la Medusa Strozzi Cat. 796, ineludibile
icona di qualsiasi gliptoteca settecentesca.
Paradossalmente è proprio la prevalenza di materiale di seconda scelta che rende interessante questa collezione, e che suscita problemi, del resto ben
impostati nelle introduzioni alle diverse sezioni del
catalogo: si tratta in sostanza di capire il senso alla
base dell’operazione collezionistica – sia essa riconducibile al conte Verità, come anche ad altri suoi
colti concittadini – prima di derubricarla al rango di
fenomeno “provinciale”, inferiore per qualità alle
grandi imprese urbane o di dimensione internazionale (ma si ricordi che anche le paste della collezione Stosch sono in prevalenza di cattiva qualità);
nonché di comprendere il significato, in sé e per sé,
e l’origine della forte componente moderna.
Se il complesso degli esemplari antichi, infatti, alla luce delle analisi e delle considerazioni di
Alessandra Magni, appare facilmente inquadrabile in un’ottica di collezionismo locale, e quindi in
questo senso interessante – se pure in termini generali − per il rapporto con il bacino di provenienza, è proprio la sezione moderna quella che desta i
maggiori interrogativi: interrogativi di cui si dimostra ben consapevole Gabriella Tassinari nelle sue
parti introduttive.
Non sembri superfluo ritornare, sia pure molto
schematizzando, allo stemma complesso cui si accennava più sopra, la griglia entro la quale vanno
incasellati i singoli esemplari in esame.
Da un lato abbiamo, come si è detto, la produzione antica di intagli e cammei, dai quali possono
derivare repliche in vetro antiche (le Glasgemmen),
che hanno l’evidente finalità di fornire un surrogato più economico dell’originale, e che per noi,
in assenza di questo, assumono pari importanza
documentaria.
Dall’altro abbiamo la produzione moderna di intagli e cammei, comprendenti copie fedeli di famosi originali antichi, come anche composizioni nuove, a questi più o meno liberamente ispirati; questa
è affiancata dalla produzione di repliche moderne
in vetro (Glaspasten) tratte dagli esemplari antichi,
sia in pietra che in vetro, come anche dagli stessi
esemplari moderni, che a loro volta, come si è detto, includono copie di gemme antiche.
La produzione degli esemplari moderni in vetro può essere animata da scopi diversi:
A. la fabbricazione di matrici per la produzione di calchi in zolfo, gesso, etc., destinati alla composizione di gliptoteche di interesse collezionistico,
[RdA 34
come anche scientifico: materiali ben riconoscibili
per caratteristiche tipologiche (si pensi solo alla già
citata raccolta Paoletti), in genere realizzati in vetri
monocolori di forte effetto e ovviamente destinati
all’uso di bottega, se pure in tempi più recenti divenuti essi stessi oggetto di interesse collezionistico per l’implicito valore documentario;
B. la fabbricazione di copie; tra le quali si comprendono:
B.1. le copie di qualità, ben rifinite nel contorno,
realizzate anche queste con vetri fortemente colorati e di effetto decorativo, talvolta imitativi delle
caratteristiche di una pietra antica: esemplari destinati a essere messi in circolazione come antichi, o
come dichiarate imitazioni, sia a scopo collezionistico, sia per essere montati come consapevole surrogato dell’esemplare antico (qui ad es. gli esemplari Cat. 797, 800, 801: eccezionale il caso della
citata Medusa Strozzi Cat. 796, non rifinita);
B.2. copie scadenti, ma rifinite, e quindi comunque destinate all’uso (la maggior parte degli esemplari Cat. 789-1025);
B.3. copie, in generale di qualità scadente, non
rifinite, ovvero con presenza del margine, resto della colata di fusione (ad es. Cat. 793, 803, 808, etc.).
È ben chiaro innanzi tutto che la preliminare distinzione tra intagli antichi e moderni resta ancora oggi sostanzialmente affidata all’esame autoptico, e quindi alla particolare esperienza e capacità
percettiva dello studioso stesso, e che ciò è tanto
più grave nel caso, più complesso, della distinzione
tra Glasgemme e Glaspaste: ciò nell’attesa di un progresso nell’uso della strumentazione tecnica tale da
consentire a ogni studioso di sottoporre ad analisi
di laboratorio il materiale vitreo di cui sono composti tutti gli esemplari oggetto della sua attenzione. Rimane quindi un serio problema la scelta di
un criterio di interpretazione e analisi del materiale comprensibile nel gruppo B.
Gabriella Tassinari si è mossa in questo campo con molta prudenza, proponendo per gli intagli delle ampie partizioni stilistiche, e riconoscendo
francamente i casi di incerta distinzione tra antico
e moderno (Cat. 752-788); per la serie in vetro, il
gruppo B, ha cercato innanzi tutto degli appigli oggettivi, che ha in parte trovato, identificandone gli
originali: tra questi spiccano esemplari (gemme e
vetri) della collezione Stosch (Cat. 789-793), come
anche calchi delle raccolte Dehn-Dolce (Cat. 794-
2010]
RECENSIONI
796), della Cades (Cat. 797-99), intagli di Giovanni
Pichler (Cat. 800-801). Tutto il resto (Cat. 804-1023) è
organizzato secondo la classificazione stilistica del
possibile originale, non identificato, e non sempre
distinguibile tra antico e moderno. Non sembra ci
siano spunti per spingersi oltre il limite sul quale
si è attestata l’Autrice.
Qui si vuole solo accennare a un paio di questioni, in primis quella delle Glaspasten con margine espanso, ovvero non rifinite: in generale, salvo
come si è detto l’eccezione della Medusa Strozzi, tutti prodotti di cattiva qualità, dall’aspetto di
“scarti” di bottega. Su quali elementi, in assenza di
dati di provenienza e di dirimenti analisi di laboratorio, si basa la classificazione come Glaspaste, per
esemplari derivanti da prototipi antichi, invece che
come scarto di produzione di una bottega antica? In
questo senso sono stati giudicati ad es. i vetri Cat.
389 o 538, ugualmente con resto di colata.
Chi scrive ha in altra sede (Un tesoro recuperato.
Gemme, vetri e lavori in pietra dura da una collezione
privata, in Aquileia e la glittica di età ellenistica e romana, Atti del convegno 19-20 giugno 2008, a cura di
G. Sena Chiesa e E. Gagetti, Trieste 2009, pp. 281292), nel corso di una rapida presentazione di una
eterogenea collezione di materiali glittici, interpretato come antico un piccolo gruppo di vetri con
bordo espanso (p. 284, tav. III, 9-12), rappresentativi di una trentina di esemplari), soprattutto sulla base di una valutazione complessiva dell’intera raccolta, che comprendeva una ampia quantità
di materiali diversi – tra i quali anche vetri di altra tipologia – provenienti da scavi, verosimilmente clandestini.
I termini del problema sono brevemente riassunti da Gabriella Tassinari nel presente catalogo
alle pp. 173 s. e più estesamente sviluppati in A.
Magni, G. Tassinari, Gemme vitree, paste vitree, matrici vitree, in I Convegno interdisciplinare sul vetro nei
beni culturali e nell’arte di ieri e oggi (Parma, novembre 2008), Parma 2009, pp. 105-108, dove si accenna
ai casi noti – certamente pochi – di gemme a margine espanso provenienti da scavi; tra questi emerge per interesse il recente, ben documentato rinvenimento di esemplari di questo tipo in connessione
con una officina vetraria (su cui M. Pradelli, Il rinvenimento di nove gemme nel suburbio di Bologna romana, in Aquileia e la glittica, cit., pp. 335-339). La soluzione proposta da G. Tassinari, qui a pp. 171 s., o
in Gemme vitree, cit. a p. 107, è che i vetri a margine espanso siano prodotti per lo più moderni, destinati ad essere conservati in una collezione o uti-
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lizzati per montature in anello, oltre che per altri
scopi diversi: il che, nel caso degli esemplari veronesi, così scadenti, appare poco plausibile.
La questione si lega ovviamente al problema
della definizione del luogo di produzione per le
Glaspasten moderne; sull’argomento è tornata infine
ancora più di recente la stessa Tassinari (Osservazioni sulla produzione di paste vitree nel XVIII secolo e il
caso di Venezia, JGS 52, 2010, pp. 167-199), con un
ulteriore, ampio e documentato quadro riassuntivo
di tutto il fenomeno, nel quale si indica infine, sulla scia di una diffusa opinione, Venezia come centro produttivo di questi esemplari in vetro.
Che Venezia, con Murano, sede storica dell’arte
vetraria e gelosa custode dei suoi segreti, sia stata effettivamente sede di questa particolare forma
di industria artistica, e ben prima del XVIII secolo, è ampiamente probabile, quanto indimostrabile
su base documentaria, nonostante il notevole impegno qui dispiegato; né può essere sottovalutato
il ruolo svolto da altri centri – Roma per prima –
in un fenomeno che ebbe anche spesso dimensione privata ed amatoriale, oltre a svilupparsi nella dimensione di bottega familiare; né tantomeno
appare chiarito, almeno sulla base degli esemplari – tutti di alta qualità − che illustrano quest’ultimo contributo, provenienti oltre che dalla raccolta
veronese da quella del Civico Museo Archeologico Giovio di Como, in via di pubblicazione dalla
stessa studiosa, il significato della presenza di tanto
materiale di secondo rango nella raccolta del conte
Verità, come in quelle dei suoi concittadini. Queste
in definitiva, certo ispirate dagli esempi del grande collezionismo internazionale, sembrano nel loro
complesso fortemente legate, come bene conferma
anche la sezione antica, ad un desiderio di conservazione di memorie e testimonianze locali. Il che,
come si diceva più sopra, ne costituisce in definitiva motivo di pregio.
Ci si augura che l’estensione delle ricerche ad
altre raccolte coeve, come quella di Como citata, e
la disponibilità di nuove, più attente edizioni dei
materiali moderni conservati nelle collezioni storiche del XVIII e XIX secolo, consenta alle due Autrici di questo impegnativo volume di fornire definitive risposte a questi problemi, non del tutto
marginali per la ricerca archeologica. Quanto sopra detto servirà intanto a chiarire quale difficile,
delicato compito sia stato qui affrontato, e felicemente assolto.
Carlo Gasparri