recensioni e segnalazioni bibliografiche
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recensioni e segnalazioni bibliografiche
RECENSIONI E SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE 2007] FARFALLE NELL’EGEO 179 Die Karer und die Anderen. Internationales Kolloquium an der Freien Universität Berlin, 13. bis 15 hrsg. von Frank Rumscheid, Bonn, Habelt, 2009, pp. 258 s.i.p. Oktober 2005. isbn 9783774936324 La ricerca sulle realtà regionali dell’Anatolia antica suscita un interesse crescente, come mostra una produzione scientifica in costante aumento. Gli scavi, le ricerche sul campo, le campagne di survey, forniscono nuovi materiali allo studio e nuovi stimoli alla riflessione. Questa, in modo sempre più chiaro, si sviluppa in prospettiva interdisciplinare e diacronica, facendo interagire prospettive diverse (storiche, archeologiche, topografiche, linguistiche) e ampliandosi a considerare un arco cronologico non più limitato all’antichità classica. La Caria rappresenta per questi indirizzi un terreno particolarmente promettente: a partire dalle ricerche pionieristiche dei coniugi Robert si è aperto uno scenario nuovo, e che pone sfide importanti. Gli scavi non mancano di proporre scoperte anche clamorose: è dell’estate 2010 la notizia del rinvenimento di una importante sepoltura, forse ecatomnide, a Milas, ma anche il volume offre una serie di novità interessanti. La ricerca linguistica ha avviato la comprensione dei pur ostici documenti in lingua locale, la riflessione storica sta riconsiderando sia il reticolo evenemenziale, sia le forme dell’organizzazione sociopolitica, sia le interazioni culturali proprie della regione. Una regione che, pur se in qualche modo resa comprensibile dagli studi di antichistica, conserva qualche problema di definizione: sarebbero da conoscere meglio ad esempio quali fossero le percezioni antiche del popolo “Cario”, troppo spesso stretto in convenzionali stereotipi (i mercenari, gli schiavi) e per contro identificato con qualche incertezza (rispetto ai “Lelegi”, ma non solo: si pensi al dibattito sui Kares barbarophonoi in Omero). Come anche per altre aree dell’Anatolia, molti dei temi evocati sono presenti, magari solo per accenni, nel profilo che della Caria tracciò Strabone nella sua Geografia: basterebbero i riferimenti alle forme dell’insediamento “per villaggi”, che hanno guidato in età moderna l’interpretazione delle evidenze sul terreno, e che da tempo sono oggetto di ripensamento. Molti di questi temi di ricerca, se non tutti, trovano ora spazio nei contributi riuniti nel volume edito da Frank Rumscheid: nati come interventi per un convegno berlinese, i saggi sono stati poi stampati in forma talora molto ampliata. Alcu- ni sono corredati da molto abbondanti annotazioni e bibliografie, che costituiscono uno strumento di lavoro in sé utile. In questa sede si discuteranno in termini generali, senza riferimento ai singoli contributi, le questioni più rilevanti. Merito particolare dell’iniziativa è quello di aver impostato l’intera indagine in termini dinamici, indagando cioè la regione nel quadro delle ricche interazioni culturali dell’Anatolia, e in una prospettiva ampia, dalla preistoria all’età bizantina. Ciò è tanto più importante, in quanto la percezione moderna dei “regionalismi” può non coincidere con le realtà (o con le percezioni) antiche, e suggerire partizioni di ricerca non abbastanza corrispondenti alla realtà: ma una costante attenzione ai “contatti” preserva appunto da simile rischio, o grandemente lo limita. Pur nell’ampiezza dell’impresa, nel volume non vi è pretesa di completezza: come viene esplicitamente riconosciuto, ad esempio, la presenza caria in Egitto non è oggetto di specifica analisi, e anche i riferimenti alla fase post-ellenistica risultano (per altro comprensibilmente) ridotti. Un importante congresso tenutosi a Oxford, in contemporanea con quello di Berlino, era incentrato sulla Caria ellenistica: gli atti sono usciti di recente. Percorrendo le sezioni in cui i contributi sono suddivisi (contatti, cultura, indagini topografiche), chiara emerge la domanda di fondo, proposta nell’introduzione dell’editore: cercare di comprendere “che cosa differenziava i Cari dalle altre etnie e che cosa non” (p. vii). Ampia quindi, e metodicamente esemplare, la riflessione sulla “etnogenesi” caria. Si vede molto bene in questo caso in che modo si giungano ad integrare gli schemi teorici e l’individuazione dei “segni” materiali pertinenti. La formazione della cultura che poi si chiamerà caria viene indagata in un complesso incrocio fra teorie migratorie e ipotesi di apporti “locali”. L’ormai ricca serie di materiali rinvenuti nei siti ar cheologici della Caria, infatti, pone pur sempre un problema interpretativo e attributivo, nell’incontro e sovrapposizione di presenze minoiche, ittite, micenee e di altre culture ancora. La combinazione di evidenza materiale, dati documentari (le fonti ittite soprattutto) e tradizioni “storiche” (quelle sulle cosiddette migrazioni) appare delicatissima e spesso 180 RECENSIONI molto incerta. Un enorme lavoro è in corso su questi aspetti. Non stupisce che le soluzioni raggiunte non sempre siano concordemente accettate, e soprattutto colpisce il lettore un “dubbio metodico”. Se, come è giustamente e più volte ribadito in vari contributi, si è oggi consapevoli della difficoltà di identificare “etnicamente” i reperti, in quale misura vi è il rischio che la mappatura dei siti e soprattutto le attribuzioni dei reperti si fondino su interpretazioni obsolete, falsando il quadro generale? La questione “attributiva” riguarda anche i monumenti: tradizionale è ad esempio la denominazione di “edifici lelegi” per strutture pastorali che si rinvengono in gran numero nel territorio cario. Ora, anche facendo propria la più recente riflessione sulla discussa differenza tra “Lelegi” e “Cari”, resta che l’uso di una siffatta etichetta presuppone una lettura implicita del territorio: la divisione tra le aree urbanizzate abitate (in prevalenza) da “greci”, e le aree interne ad economia agricolo-pastorale in cui sono insediati i “barbari” (Cari o Lelegi, non fa qui differenza). L’interpretazione sociale ha ragione di essere corretta, ma non così l’individuazione “etnica”: importanti considerazioni al riguardo si leggono in vari lavori di A. Bresson (v. per esempio Les Cariens ou la mauvaise conscience du barbare, in Tra Oriente e Occidente. Indigeni, Greci e romani in Asia Minore. Atti del Convegno Internazionale, Pisa 2007, pp. 209-28). Ciò è tanto più notevole, in quanto implica le necessità di ricorrere a nuove chiavi di lettura del territorio. Come il convegno berlinese mostra ampiamente, fin dall’età più arcaica la Caria non rimase chiusa agli scambi culturali, esportando e importando saperi e tecniche. L’immagine classica (o ellenistica) dalla regione come terra di mercenari e schiavi appare ormai in tutta la sua riduttività: solo all’età ellenistica si colloca la scomparsa (o forse sarà meglio dire l’invisibilità) dell’etnocultura caria, su cui pesarono forse fattori di natura politica, che obliterarono tra l’altro anche il senso (se non il segno) della presenza ecatomnide. Differenti problemi solleva il fattore linguistico: lingua e alfabeto dei Cari costituirono effettivamente un elemento di più sicura identificazione, già per gli antichi: la prospettiva del convegno conduce a riflettere sulle relazioni con le altre lingue e culture presenti nell’area, e in particolare con il greco. Ma il fatto che già nel VII secolo il cario avesse un proprio alfabeto costituisce un altro segno importante di vitalità. Le ampie messe a punto proposte nel volume esplorano questioni propriamente linguistiche, ma anche esaminano le tipo- [RdA 34 logie testuali, i contesti dei rinvenimenti epigrafici, il problema dell’identificazione dei praticanti la scrittura (chi scrive, e per chi?). Altra questione è il peso del plurilinguismo: la questione fu ben intravista da Louis Robert molti anni or sono. Se oggi si è particolarmente sensibili al bilinguismo cariogreco, non andrebbero trascurati altri vettori, ossia le altre lingue epicoriche (il licio) e poi, con dominante importanza, il persiano. Per tutte queste dinamiche, la svolta ellenistica fu decisiva, e segnò la prevalenza ad ogni livello del greco, anche se la “scomparsa” dell’uso parlato non si lascia determinare con precisione. Nell’impossibilità di definire, anche in linea generale, i profili dei parlanti, sembra sensato notare che il tradizionalismo dei santuari locali svolse forse in tale contesto un ruolo di qualche momento. E i santuari sono appunto oggetto di ampia riflessione, sul piano sia dell’evidenza monumentale, sia della dimensione dei culti. Accanto ad apporti nuovi di documentazione e analisi, attraggono di nuovo l’interesse le questioni metodiche. A molti anni dalla sintesi di Laumonier, la strada percorsa è parecchia. Importante è l’osservazione secondo cui non va dato per scontato che le attestazioni regionali di un culto costituiscano per sé prova di una identità religiosa “regionale”: non solo perché la gran parte delle informazioni di cui si dispone è greca, quindi a rischio di deformazione nelle percezioni, ma anche (o soprattutto) perché la natura costituzionalmente “ibrida” della cultura caria implica anche in campo cultuale la presenza di apporti molteplici, che inducono a parlare di “un pantheon che si elabora in Caria”, appunto in termini dinamici e non rigidamente (ed etnicamente) definiti. Naturalmente, e lo si vede anche nei contributi presenti nel volume, la definizione delle “identità” locali dipende anche da pre-concetti radicati al di fuori dell’ambito propriamente “scientifico”: la spinta a considerare predominanti gli apporti esterni rispetto a quelli locali (si pensi al problema del progetto e delle maestranze attive a Labranda) appare talora controbilanciata dallo sforzo di valorizzare orgogliosamente un orizzonte “cario” anche nelle forme artistiche e monumentali più sviluppate. Nei contributi presenti nel volume entrano anche, evidentemente, questioni di interesse più direttamente storico: ampie discussioni sulle fasi antichissime, che mostrano in quale misura ogni discussione sui temi della presenza greca in Anatolia debba fare i conti non solo con la “storicizzazione” delle leggende (qualunque cosa con ciò 2010] RECENSIONI si intenda) e con l’evidenza archeologica. Si delinea in profondità una svolta profonda: l’analisi si sviluppa secondo una prospettiva che si potrebbe chiamare “anatolicocentrica”, in cui la costa egea non è la periferia di uno scacchiere centrato sugli insediamenti greci, ma la porzione di un grande areale anatolico (o mediterraneo-orientale) con autonoma dinamica geopolitica e culturale. Tale riorientamento delle prospettive comporta, sia concesso osservarlo, il riorientamento anche delle competenze degli studiosi: alcuni contributi del volume lo mostrano bene. Da questo deriva nuova luce anche per varie fasi della vicenda caria. A non voler parlare delle età antichissime, o anche delle guerre persiane, è il caso ad esempio della fase ecatomnide. In chi guardi ad essa da un osservatorio tradizionale della storia greca o dell’archeologia classica, alto è il rischio di fraintendimenti. Se le fonti greco-romane valorizzarono l’architettura della dinastia entro lo sviluppo dei linguaggi “classici”, resta doveroso interrogarsi sul dialogo tra le costruzioni promosse dai dinasti e il contesto anatolico. La co- 181 siddetta “rivolta dei satrapi”, interpretata secondo l’ellenocentrismo di un Isocrate, condurrebbe non troppo nascostamente a parteggiare per un Mausolo finalmente ribelle, in nome dell’hellenismos, al “grande malato” persiano. Ma lavori recenti hanno sottolineato quanto poco invece la sua defezione regionale costituisse un “problema” a livello centrale. Le scelte degli Ecatomnidi, lo si capisse o meno ad Atene, muovevano su una sorta di doppia agenda, con linguaggi diversi a seconda che ci si rivolgesse verso la Grecia o verso la Persia. Tale contesto non può essere trascurato, anche se è chiaro che la memoria successiva conservò meglio (o meno peggio), il lato “ellenico” rispetto a quello locale, o anatolico. Insomma, i differenti approcci tentati nei saggi del volume hanno in comune l’idea che, per quanto difficile sia studiare i Cari e comprenderne la specificità culturale, anche degli “altri” che vissero accanto e insieme a loro ormai non si può più fare a meno. Carlo Franco Vera Slehoferova Corpus Vasorum Antiquorum. Schweiz, Faszikel 8: Basel, Antikenmuseum und Sammlung Ludwig, Faszikel 4 Basel, Schwabe Verlag, 2009, pp. 78, di cui 13 di disegni (Beilagen); figg. nel testo 21; tavv. b/n 56. ISBN 978-3-7965-2636-7 Riprendendo l’argomento affrontato in un fascicolo uscito nel 1988, l’Autrice concentra la sua attenzione sulle ceramiche di produzione attica, portando anzitutto a compimento la rassegna dei vasi a figure nere in un capitolo nel quale vengono esaminate (per ultime, anziché all’inizio della sequenza secondo la consueta scansione cronologica) quindici coppe acquisite dopo la pubblicazione del primo fascicolo dedicato al Museo, curato da J.-P. Descoeudres. Le coppe a figure nere sono precedute da diciassette vasi a figure rosse pervenuti nelle collezioni del Museo in anni recenti (e fino a tutto il 2005) mediante acquisti oppure attraverso donazioni, di cui nel testo vengono riferite modalità e bibliografia; nonché dalla discussione di otto tra lekythoi a fondo bianco e vasi plastici. I pezzi inediti sono tre; i rimanenti risultano già pubblica- ti, o quanto meno sono stati oggetto di precedenti menzioni. La descrizione dei vasi e dello stato di conservazione fornita da V. Slehoferova è estremamente accurata, e la definizione dei colori aggiunti è utilmente integrata dal riferimento alla scala cromatica Munsell; in sintonia con il criterio adottato negli ultimi fascicoli della serie tedesca del CVA le misure includono anche il peso e la capacità dei contenitori, sulla scia di formulazioni di metodo (richiamate in premessa) che sottolineano l’importanza degli aspetti metrologici e che trovano riscontro in studi specifici ugualmente attuali: si veda a titolo esemplificativo il lavoro condotto su una campionatura di olpai e oinochoai attiche a figure nere (e sulle coppe ad esse verosimilmente correlate) sul quale riferisce A. Clark, in Shapes and Uses of Greek 182 RECENSIONI Vases (7th-4th Centuries B.C.), a cura di A. Tsingarida, Bruxelles 2009, pp. 89-109. Anche il commento è competente e aggiornato, e similmente del più alto livello l’apparato illustrativo, comprendente oltre alle fotografie di C. Niggli e A. Voegelin disegni di profili, iscrizioni e graffiti, prevalentemente in scala 1:1, eseguiti dall’Autrice e rielaborati in formato digitale da A. Wurz. La monografia è completato da un indice di pittori, officine e gruppi, un indice iconografico, un indice epigrafico e un elenco di concordanze tra numeri d’inventario e tavole. Apre il fascicolo un’anfora del non comune tipo C, opera del Pittore di Syriskos, con due figure idealmente collegate tra loro – un atleta vittorioso e forse un giudice – ma isolate ciascuna su un lato del vaso, come nelle anfore dei grandi decoratori di vasi chiusi degli inizi del V secolo a.C. Segue uno stamnos con Orfeo colpito a morte dalle donne tracie, un tempo nella collezione Bolla, attribui to al Pittore della Dokimasia e inquadrabile verosimilmente nella fase tarda della parabola artistica del ceramografo (verso il 470-460 a.C.), quando, in base alle connessioni ravvisate con l’opera del Pittore di Berlino, secondo M. Robertson è possibile che egli abbia lavorato nella bottega del maestro. Alla storia di Orfeo si riferisce anche una oinochoe su cui la testa di prospetto del cantore mitico, già separata dal corpo, figura in un paesaggio roccioso in mezzo a due Muse, una delle quali legge un rotolo iscritto. Ad uno stamnos con scene d’inseguimento amoroso del Pittore di Deepdene, degli esordi del periodo classico (sul lato A, Poseidon e forse Amymone; sul lato B, Eos e Kephalos), segue il solo vaso noto di questa forma ascritto alla mano del Pittore dei Niobidi, con Trittolemo che compie una libagione al cospetto delle dee di Eleusi prima di partire per la sua missione civilizzatrice. È quindi la volta del documento più rimarchevole del fascicolo degno senz’altro di uno studio dettagliato: un monumentale cratere a colonnette alto oltre 50 cm, opera di notevole impegno anche per il modellatore, di cui viene accolta l’attribuzione di R. Guy (attestata peraltro in maniera indiretta) al Pittore di Pan. Sui due lati del vaso si distribuisce un’intensa mischia cui prendono parte Greci ed Amazzoni, con figure in parte sovrapposte tra loro ed a cui si sovrammettono le cornici laterali, con volti raffigurati di prospetto e di tre quarti, e con l’immagine di un caduto rappresentato da tergo, la cui testa è vista di scorcio (su quest’ultimo [RdA 34 aspetto cfr. M. Robertson, The Art of Vase-Painting in Classical Athens, Cambridge 1992, pp. 133, 195; J. H. Oakley, The Achilles Painter, Mainz 1997, p. 52, nota 188, con altri rinvii); alcuni scudi recano episemata dipinti in silhouette, altri sono rappresentati dall’interno. Si tratta di una di quelle raffigurazioni del tema, che così per l’impostazione di figure singole e gruppi come per l’impaginazione complessiva, si ritiene trasmettano riverberi di celebri opere scultoree o della grande pittura. Il fascicolo documenta anche le altre varietà del cratere: a calice e a campana. Un esemplare di quest’ultimo tipo, inquadrato nella fase matura del ceramografo Polygnotos, presenta Pelia in attesa della fatale immersione nel calderone di Medea; altri due, di cui uno amplia il dossier delle scene di tale soggetto assegnate al Pittore di Pothos, figura minore del tardo V secolo a.C., offrono rappresentazioni di momenti diversi del rito sacrificale. Tra le lekythoi emerge un esemplare di grandi dimensioni databile intorno al 460 a.C., con una rappresentazione di Aiace in procinto di togliersi la vita correlata dal primo editore K. Schefold al dramma sofocleo intitolato all’eroe, ed un’iscrizione su due linee in cui si celebra come ‘kalos’ Glaukon figlio di Leagros. Delle coppe si segnalano quella, ben nota, dipinta solo all’interno con l’immagine un barbaro addormentato, dubitativamente assegnata al Pittore delle Coppe di Chairias dell’Agorà; ed una per la quale l’attribuzione a Hermonax, argomentata da C. Isler Kerényi al momento della pubblicazione del pezzo, è preferita dall’Autrice all’attribuzione al Pittore di Tarquinia codificata nelle liste di J. D. Beazley. L’esterno della coppa mostra da ambo i lati una scena di simposio, sotto la quale si distende una predella raffigurante un fregio continuo di calzature e recipienti potori resi in silhouette. Appartiene invece allo scorcio finale del V secolo una coppa assegnata ad Aristophanes, la cui decorazione ha per soggetto Dioniso (raffigurato nell’interno) e il suo thiasos. Oltre ad esemplari configurati a testa umana, riferibili a classi di larga diffusione, i vasi plastici comprendono una oinochoe e una lekythos di IV secolo sulle quali sono rappresentati in rilievo, rispettivamente, Dioniso (?) liricine ed Afrodite e Eros; nonché un rhyton modellato a testa di cervo. Per quanto attiene alle coppe a figure nere, a parte due esemplari del Gruppo dei Comasti (su questa categoria di personaggi vedi adesso T. J. 2010] RECENSIONI Smith, Komast Dancers in Archaic Greek Art, Oxford 2010, in particolare pp. 35-40, 52-56, 63-66), si contano una coppa Siana del Pittore di Heidelberg con all’interno Eracle che serra un braccio intorno al collo del leone nemeo; una intermedia tra il tipo Siana e la band cup, ornata con una testa di guerriero nel tondo e fregi animalistici all’esterno, probabilmente uscita dalla bottega di Lydos; quindi un esemplare di forma ibrida, passato al Museo dalla collezione Bosshard, con i busti di Atena e di un guerriero dipinti sui due lati (alla bibliografia relativa a quest’ultimo documento va aggiunta la discussione di M. Iozzo nel volume In memoria di Enrico Paribeni, Roma 1998, pp. 255-257, tav. LXX, 1-2). Tra le coppe dei Miniaturisti si segnalano una lip cup che reca su ciascun lato la firma del ceramista Xenokles; un esemplare con uno dei Dioscuri, identificato con Kastor grazie a un’iscrizione sinistrorsa nel medaglione interno; inoltre una band cup con Achille presso l’altare di Apollo, in atto di sollevare in una mano il corpo, nell’altra la testa mozzata di Troilo e sul lato opposto gare atletiche, che l’Autrice propone di correlare al lato A come eventi dei giochi funebri in onore di Patroclo. Una coppa Kassel presenta sul labbro motivi angolari a ‘z’ ritmati da piccole croci, in luogo della più co- 183 mune sequenza di linguette; un esemplare con caratteristiche morfologiche e decorative intermedie tra le coppe dei Miniaturisti e le coppe tipo A, che reca su entrambi i lati scene di partenza di guerrieri su carri, è attribuito al Pittore degli Spettri (Wraith Painter); mentre due altri, inquadrabili nel suddetto tipo A, presentano il corrente schema ad occhioni associato a personaggi della cerchia dionisiaca. Il vaso a figure nere più tardo preso in esame è una coppa-skyphos ascritta al Gruppo Lańcut, databile nell’inoltrato primo quarto del V secolo a.C. Come accennato all’inizio, il fascicolo curato da V. Slehoferova rispecchia, come era da attendersi, il più elevato standard della collana del CVA; pertanto non deve ritenersi inficiato in misura sostanziale da occasionali incongruenze, refusi e nomi talvolta ripetuti in maniera inesatta: si vedano ad esempio le trascrizioni delle iscrizioni alle pp. 34 e 52; il termine oboloi, riportato anche nell’indice in luogo del normale obeloi, pure attestato nel testo; i nomi e le sigle Davis, Günter, Knaus, Mitschell, S. Rudhart, van Vacano, Láncut, TesCRA anziché, rispettivamente, Davies, Güntner, Knauss, Mitchell, J. Rudhart, von Vacano, Lańcut, ThesCRA. Orazio Paoletti Marco Giuman MELISSA. Archeologia delle api e del miele nella Grecia Antica («Archaeologica», 148), Roma, G. Bretschneider Editore, 2008, pp. 287, figg. 23, tavv. XXVIII b/n. isbn 97888-7689-213-3 Solo recentemente è maturato anche tra gli studiosi del mondo antico un interesse specifico nei confronti dell’ape e del miele, fino a non molto tempo fa poco considerati dalla letteratura archeologica, che li ha trattati solo in modo episodico o marginale. Ad occuparsene in passato sono stati soprattutto apicoltori o appassionati che a partire dal XVIII secolo, hanno approfondito alcuni aspetti come P. A. P. Ray (Mémoire sur l’histoire des abeilles, “Journal de phisique” 24, 1784, pp. 117-129), o un secolo dopo, tra gli altri, A. Chiappetti (L’apicoltura presso gli antichi Greci e Romani, “Nuova Antologia” 15 settembre 1880) e R. Billiard (Notes sur l’abeille et l’apicul- ture dans l’antiquité d’aprés les ouvrages des auteurs grecs et latins, “Bulletin Société centrale d’apiculture et d’insectologie de Paris”, 1900, pp. 1-100). Più di recente non sono certamente mancati studi di notevole importanza che hanno tentato di ricostruire la storia del miele e delle api nell’antichità, anche se incentrati prevalentemente sull’apicoltura, come il lavoro di M. H. Fraser (Beekeeping in Antiquity, London 1931), interamente basato sull’analisi delle fonti classiche, e quello di H. Chouliara-Raïos (L’abeille et le miel en Égypte d’après les papyrus grecs, Jannina 1989), che approfondisce le medesime tematiche esaminando la ricca e nutrita documentazione papirologica greca dell’Egitto. Altri studi si sono in- 184 RECENSIONI vece concentrati più sugli aspetti della cultura materiale del miele, con l’intento di ricostruire tutte le attività ad esso correlate, come i lavori di R. Bortolin (Archeologia del miele, Mantova 2008) e di H. V. Harissis e A. V. Harissis (Apiculture in the Prehistoric Aegean. Minoan and Mycenaean Symbols Revisited, Oxford 2009). Più rari sono gli studi che sono stati dedicati all’ape ed al miele secondo un approccio ermeneutico di natura più propriamente archeologica e ciò contrasta con la notevole importanza che entrambi ebbero nell’antichità proprio in funzione delle straordinarie virtù e dei complessi valori simbolici che ad essi vengono attribuiti. Senza voler tralasciare la trattazione di A. B. Cook (The bee in greek mythology, JHS 15, 1895, pp. 1-24), i principali punti di riferimento sono ancora il lavoro di H. R. Ransome (The sacred Bee in ancient Times and Folklore, London 1937), e soprattutto l’eccellente ricerca di F. Roscalla (Presenze simboliche dell’ape nella Grecia antica, Firenze 1998), che mira a ricostruire il processo simbolico che presiede alle problematiche storico-religiose in cui l’ape ed il miele appaiono coinvolti. È in quest’ultimo filone di studi che si inserisce il testo di M. Giuman, il quale si propone di affrontare secondo un approccio globale l’analisi comparata dell’ape e del miele nel mondo greco antico, offrendo un quadro di sintesi generale. L’originale incipit tratto da un brano del Pinocchio di C. Collodi che parla del “paese delle api industriose” offre all’A. l’opportunità di evidenziare il continuum semantico/simbolico dell’ape e del miele, incarnando una pluralità di paradigmi che consentono di trasferire sul piano del simbolo aspetti ed ambiti diversi, spesso antinomici. È di questo continuum che l’A. si propone di rintracciare l’origine nel mondo greco − la maggior parte dei termini ancora in uso che riguardano l’ape ed il miele sono del resto di origine greca − attraverso un’erudita ricerca che mira a coniugare fonti letterarie, immagini iconografiche e dati archeologici. Come ben enunciato anche nella prefazione (pp. ix-x), scritta da S. Angiolillo, e ribadito dall’A. stesso nell’Introduzione (pp. xi-xv), è “il sottile filo del miele” a legare i sei capitoli in cui il libro è strutturato: proprio per il suo valore ambiguo e liminare, il miele (e dunque l’ape) consente di raccogliere diverso materiale simbolico e di affrontare problematiche di natura diversa, quali la rappresentazione della morte, il rapporto simbolico tra morte e vita ed il legame tra dato materiale, elaborazione mitica e pratica cultuale. [RdA 34 Secondo questa prospettiva di tipo ermeneutico, il primo capitolo (pp. 3-37) funge da introduzione ai temi che saranno trattati successivamente. Traendo spunto da una tavoletta cretese in Lineare B in cui il miele compare come offerta ad una Signora del Labirinto non chiaramente identificabile, l’A. riconosce nell’isola di Creta il luogo di partenza ideale per sviluppare la ricerca sul miele ed introdurre la figura di Melissa, il cui mito viene riportato da uno scolio alla IV Pitica di Pindaro attribuito a Mnasea di Patara, ma è anche raffigurato su una delle tre coppe dipinte su fondo bianco dal pittore Sotades, facenti parte del ricco corredo di una tomba ateniese (secondo quarto del V sec. a.C.) conservato al British Museum (L. Burn, Honey pots. Tree white-ground cups by Sotades painter, AntK 28, 1985, pp. 93-105). Anche le altre due coppe sono decorate con scene del mito correlate al miele, ma se per una l’interpretazione di un episodio del mito di Glauco è unanimemente accettata dalla critica, meno certa è quella della terza coppa, conservata in modo frammentario, in cui l’A. accetta di riconoscere il mito di Aristeo ed Euridice. Sulla scorta di alcuni autori classici quali Semonide, Focilide, Esiodo, Omero ed Eliano, l’A. si accinge poi a delineare alcuni dei principali significati che riguardano la donna/ape, tra cui emerge l’allegoria della sposa virtuosa, portatrice di un vivere più civile, al pari dell’alveare, quale immagine trasfigurata di una società perfettamente ordinata, che culmina con l’identificazione del potere regale. La nascita delle api costituisce inoltre l’argomento conclusivo di questo primo capitolo, anticipando uno dei temi più complessi che verranno affrontati nel corso della ricerca, relativo al nesso tra api e mondo dei morti: nel mito di Melissa, smembrata per non aver voluto rivelare i segreti eleusini alle altre donne, Demetra fa nascere le api dal corpo della ninfa, mentre in quello dell’apicoltore Aristeo ed Euridice, le api nascono da un toro morto che non ha perso la propria linfa vitale. La natura ctonia dell’ape, intesa come principio di vita e di rinascita, è motivata alla luce delle reminescenze orfiche presenti nel de antro nympharum di Porfirio ed in funzione della sua presenza alle origini del culto delfico, che l’A. tratterà nel corso del quinto capitolo; essa è però ancora più evidente nei miti in cui emerge un esplicito nesso tra miele e serpente, proprio come in quello di Glauco. Con il secondo capitolo (pp. 39-65), l’A. cerca di rintracciare, principalmente in ambito egeo-anatolico, le origini simboliche che presiedono all’iden- 2010] RECENSIONI tificazione della donna/ape: il punto di partenza è costituito da alcune laminette in oro ed elettro di provenienza rodia e di età orientalizzante, su cui sono rappresentate figure femminili che per metà hanno il corpo di insetto: l’A. vi riconosce una figura sincretica che si innesta sul modello iconografico della potnia theron di matrice mediterranea, la cui origine viene motivata alla luce della singolare saga di Telepino. Nella seconda parte di questo capitolo, l’attenzione dell’A. è interamente rivolta all’isola di Creta, di cui vengono prese in considerazione tutte le testimonianze materiali atte ad evidenziare la costante presenza dell’ape come simbolo iconografico, primo fra tutte il famoso pendaglio di Mallia con le due api affrontate che reggono un favo. È dunque nel sostrato minoico che trova fondamento l’uso sacro del miele, così come è sempre l’isola di Creta il luogo ideale per cogliere quel rapporto simbolico privilegiato che intercorre tra le api e le grotte, spiegato sulla scorta di alcuni passi omerici tratti dall’Odissea e del già citato de antro nympharum di Porfirio. Non è un caso che sia proprio ubicata a Creta la grotta in cui Zeus viene nutrito dal latte della capra Amaltea e dal miele delle figlie di Melisseo: il riferimento a questa leggenda cretese consente all’A. di evidenziare il ruolo curotrofico delle api e di identificare nel miele, simbolo di purezza e di incorruttibilità, il nutrimento ideale per gli dei, accanto al nettare, all’ambrosia ed al latte (F. Aspesi, Il miele, cibo degli dei, in Saperi e sapori mediterranei: la cultura dell’alimentazione e i suoi riflessi linguistici, Atti del Convegno (Napoli, 12-16 ottobre 1999), Napoli 2002, pp. 919-927). Il terzo capitolo (pp. 67-94) è interamente dedicato al miele, di cui vengono ricordati i molteplici usi: principalmente utilizzato come alimento per il suo alto apporto energetico e nutritivo, era anche largamente adoperato nella cucina come conservante e nella medicina, in virtù delle sue proprietà cicatrizzanti ed emollienti; quindi nella cosmesi e nella profumeria, ove costituiva un ingrediente fondamentale nella confezione di unguenti e profumi. Oltre a ricordare le numerose qualità e l’origine divina del miele, l’A. ne sottolinea la profonda ambiguità materiale, cui corrisponde la medesima ambiguità sul piano semantico e simbolico. Contestualmente sviluppa ed approfondisce gli aspetti più concreti e pratici legati alla sua produzione, concentrandosi, pur in modo sommario, sulle diverse tipologie di arnie e sulla loro funzione, descrivendo anche le caratteristiche dei luoghi deputati alla raccolta del miele, gli apiari. 185 Ne emerge un quadro in cui il miele spicca per il suo straordinario apporto nutritivo, trattandosi di un alimento completo che, sempre in virtù della sua ambigua natura, rappresenta un prodotto di sintesi tra il mondo vegetale e quello animale. Per questo esso diviene anche il simbolo dell’abbondanza e della fertilità e può essere associato a tutte quelle divinità che presiedono al potere fecondante della natura ed alla rinascita del ciclo vitale, di cui il miele ne interpreta il valore ctonio. Di conseguenza, il miele si afferma come elemento connesso sia alla vita come nutrimento, che alla morte, tanto che oltre ad essere utilizzato nei rituali funebri, viene anche impiegato per la conservazione dei cadaveri. In ultimo, miele ed api sono celebrati da sempre come i simboli dell’eloquenza e della poesia: secondo quanto tramandano le fonti, infatti, le api si sarebbero posate sulle labbra di Pindaro, di Platone e di Sofocle per trasmettere loro il dono della parola e della persuasione. Illuminante è la testimonianza di Seneca che in una delle Epistole a Lucilio illustra in modo esemplare questa metafora (L. Cicu, Le api, il miele, la poesia. Dialettica intertestuale e sistema letterario greco-latino, Roma 2005). L’approfondimento sul miele porta l’A. ad affrontare nel capitolo successivo (pp. 95-155) una serie di miti interamente incentrati su di esso, a partire da quello di Aristeo, che affronta basandosi su un ricco repertorio iconografico, per proseguire con il mito di Orfeo ed Euridice, con quelli di Glauco e di Trofonio, e per concludere infine con quello di Periandro e Melissa, la “sposa cadavere”: una vera e propria “mitologia del miele” (Lévi-Strauss, Dal miele alle ceneri. Oltre la contrapposizione tra “natura” “cultura”, Milano 1970), cui fa da sfondo, sul piano simbolico, il valore ctonio dell’ape. In funzione della doppia accezione di donna e di ape, Melissa intrattiene del resto varie relazioni tra eroi e divinità; protagoniste del quinto capitolo (pp. 157-222) sono infatti le sacre api dell’olimpo, le Melisse. L’A. approfondisce il legame dell’ape con alcune tra le più importanti divinità femminili, prima fra tutte Demetra, le cui sacerdotesse − le Melisse appunto − sono tra le protagoniste delle Tesmoforie, in quanto proiezione metasimbolica del vivere civile che, come già anticipato nel primo capitolo, identifica nell’istituzione del matrimonio la principale espressione. Demetra rappresenta l’antitesi del mondo selvaggio di Artemide (p. 159), alla quale l’A. dedica un’ampia e approfondita trattazione, esaminando le api in relazione alle diverse forme che la dea assume a seconda dei contesti geografici: 186 RECENSIONI oltre all’Artemide Britomartis e Dittinna, entrambe venerate a Creta, l’A. sviluppa soprattutto il rapporto delle api con l’Artemide Efesia, per cui vale la pena ricordare lo studio antesignano di Ch. Pichard (L’Éphésia, les Amazones et les abeilles, REA 42, 1940, pp. 270-285) e con l’Artemide Brauronia, figura sulla quale l’A. ha già avuto modo di cimentarsi anche in altra sede (M. Giuman, Il dolce miele delle orsette. I krateriskoi di Artemide Brauronia, una rilettura, in Ceramica attica da santuari della Grecia, della Ionia e dell’Italia, Atti del Convegno Internazionale di Studi [Perugia, 14-17 marzo 2007], Venosa 2009, pp. 103-118), trattando di un peculiare tipo di offerte rinvenute in tutta l’area del santuario di Brauron, i krateriskoi, che l’A. ritiene facciano parte di un rituale di carattere libatorio che probabilmente prevedeva l’utilizzo di idromele. Nella parte conclusiva del capitolo, l’A. prende in considerazione il rapporto tra il santuario di Delfi e l’ape delfica (la Pizia), riesaminando sotto la guida di Pausania, le quattro diverse fasi di costruzione del tempio, in particolare la seconda quando esso risulta costruito dalle api con cera e piume d’uccello. In ultimo, affronta anche l’enigmatico oggetto, l’omphalos delfico, che secondo l’A. rappresenta “tutto ciò che ben si inserisce nel sistema cultuale e rituale dell’oracolo di Delfi: arnia, tomba, tumulo, ombelico o, meglio, l’insieme di tutte queste cose” (p. 219). Nel capitolo conclusivo (pp. 223-249), l’A. riprende il corredo della c.d. Tomba di Sotades, di cui offre una nuova interpretazione, ritenendo che appartenga ad una giovane donna, probabilmente iniziata ai riti misterici di Orfeo. A suggerirlo sono proprio le tre coppe dipinte su cui sono raffigurati tre miti diversi (Glauco, Melissa, Aristeo ed Euridice), ma tutti correlati al miele: è probabile che in questo modo si intendesse evocare un’offerta simbolica di miele quale strumento di rinascita ed alimen- [RdA 34 to di immortalità. L’impiego del miele era previsto anche in ambito religioso e funerario, costituendo sin dai tempi più antichi una delle principali offerte alle divinità ed alle anime dei morti, utilizzato per le libagioni ancor prima del vino, totalmente puro, in forma di dolce o addirittura di semplice favo. In quanto simbolo di purezza e fonte di purificazione, tuttavia, il miele si qualifica anche come cibo di rinascita iniziatica. A concludere il capitolo sono infine alcune riflessioni sullo Zeus Meilichios, una divinità ctonia, protettrice della fertilità del suolo e del grano appena seminato, nei cui rituali doveva probabilmente essere utilizzato il miele. In questa fitta rete di relazioni e di sottili richiami che dal mondo dei realia passano al piano simbolico e viceversa, emerge la notevole disinvoltura con cui l’A., esperto conoscitore della mitologia e della società greca, affronta in modo versatile il complesso sistema simbolico che si prefigura all’origine dei miti trattati, mettendo a confronto fonti letterarie con dati iconografici ed archeologici, ricorrendo talvolta all’utilizzo di schemi di sintesi per evidenziare i diversi livelli semantici e metaforici individuati. Pur addentrandosi in un percorso estremamente vasto e per tale motivo anche rischioso, alla luce di una lettura complessiva tutti i temi affrontati nei singoli capitoli trovano un costante e puntuale filo conduttore nella figura di Melissa, la donna/ape, e nel suo frutto più straordinario, il miele: “metafore polisemiche di straordinaria efficacia” (p. xiii) divengono entrambi lo strumento guida per affrontare miti, simboli, problematiche storico-culturali, antropologiche e religiose, secondo un approccio iconologico che permette all’A. di ricostruire un coerente ed articolato quadro simbolico, avvalendosi di puntuali riscontri. Raffaella Bortolin AREZZO NELL’ANTICHITÀ a cura di G. Camporeale, G. Firpo (Accademia Petrarca di Lettere Arti e Scienze, Arezzo); Roma, G. Bretschneider Editore, 2009, pp. 293, figg. nel testo, tavv. XVIII a colori. ISBN 978-88-7689-244-8 Il volume rappresenta la concretizzazione di un percorso triennale che l’Accademia Petrarca di Lettere e Scienze di Arezzo ha perseguito in occasione del bicentenario della fondazione (1810-2010). Come enunciato nella premessa dai curatori, l’obbiettivo è quello di mettere a disposizione uno strumento consultabile sia dallo specialista, che vi troverà un quadro aggiornato degli studi sulla cit- 2010] RECENSIONI tà di Arezzo, sia da un pubblico più ampio, grazie ad alcuni accorgimenti di carattere redazionale in grado di agevolarne la lettura (p. vii). Due sezioni principali compongono l’opera. La più corposa riguarda la storia delle ricerche e delle scoperte sulla città antica; ad essa si aggiunge una parte relativa alle più recenti indagini archeologiche nella provincia aretina. La trattazione si apre con un contributo di Giovannangelo Camporeale, il quale ripercorre la storia di Arezzo sulla base delle notizie tramandate dalle fonti storiografiche, a partire dall’Antichità, quando la città è ricordata per la cinta muraria in laterizi e la rinomata tradizione artigianale di manufatti metallici e ceramici. Sebbene nel Medioevo l’interesse per gli Etruschi sembri progressivamente scemare, dagli scritti di questo periodo e delle epoche successive traspare una forte consapevolezza del passato glorioso della città. Tale coscienza raggiunge senza dubbio il proprio apice con l’Umanesimo e il Rinascimento, epoca dei grandi rinvenimenti bronzei raffiguranti la Minerva e la Chimera, e continua nel Seicento, grazie ad un marcato interesse per i numerosi ritrovamenti epigrafici (pp. 3-14). A Cristina Cagianelli è affidato il compito di tracciare i profili delle personalità che hanno contribuito a rendere Arezzo un centro di grande vivacità culturale durante il Settecento (pp. 15-26). È tuttavia con il secolo successivo che l’antiquaria lascia il posto alle indagini sistematiche sul territorio ed all’istituzione del Museo Pubblico di Arezzo, presso il quale si formerà uno studioso del calibro di Gian Francesco Gamurrini, alla cui intraprendenza l’archeologia aretina continua tuttora ad essere debitrice (S. Faralli, pp. 26-32). Il profilo storico della città è articolato per tematiche che rispondono a livelli di approfondimento differenti. Il percorso prende avvio da alcune nozioni di carattere geologico, con particolare attenzione all’origine ed allo sfruttamento delle risorse minerarie offerte dal territorio (G. Tanelli, pp. 3338), per passare all’analisi delle evidenze preistoriche, inserite nel più ampio quadro regionale (F. Martini, pp. 39-48). Successivamente una discussione sulle numerose ipotesi che accompagnano il toponimo, condotta da Alberto Nocentini (pp. 49-54), introduce uno dei capitoli più consistenti, nel quale il Camporea le ripercorre lo sviluppo della città in età etrusca, “cedendo la parola” ai documenti, in particolare a quelli archeologici (pp. 55-82). In questa sezione traspaiono con chiarezza gli 187 intenti esplicitati nella premessa, soprattutto laddove lo studioso si sofferma sulla molteplice natura delle fonti (archeologiche, letterario-storiografiche, epigrafiche, archivistiche, toponomastiche, onomastiche, naturalistico-paesaggistiche), analizzando le potenzialità conoscitive di ciascun tipo. Un esempio eloquente è costituito dall’accurato esame della lamina bronzea di Caso Cantovio, che permette di aggiungere un tassello alla storia aretina di III sec. a.C. (G. Firpo, pp. 83-86). La produzione artigianale annovera monumenti di primaria importanza per lo studio dell’arte etrusca. Nonostante la dispersione dei materiali e la lacunosità delle notizie riguardanti il rinvenimento della maggior parte degli oggetti di provenienza aretina, la tradizione della piccola plastica votiva in bronzo costituisce una sorta di filo rosso che dallo scorcio dell’VIII secolo a.C. si snoda fino all’età ellenistica. Tra le maglie di questo ordito a partire dal V secolo a.C. si innestano le manifatture uscite dalle botteghe di coroplasti, che almeno per tre secoli sono impegnate nell’elaborazione di programmi figurativi posti a decorazione dei luoghi di culto urbani ed extra-urbani (S. Bruni, pp. 87-104). Un taglio differente è stato invece riservato da Luigi Donati al suo saggio relativo all’importante ruolo di mediazione svolto dalla Val di Chiana, e in particolare da Chiusi, che costituiva il passaggio obbligato verso l’Etruria meridionale. Da quest’area arrivano ceramiche etrusco-corinzie, un’anfora del Pittore della Crotalista, vasi attici, oreficerie e oggetti pertinenti alla sfera femminile. A questi si aggiungono prodotti di diretta fabbricazione chiusina, come i vasi in bucchero. Il centro aretino si pone come polo ricettivo non solo di una serie di manufatti ma anche di idee, come attestano le necropoli, che restituiscono cippi, cinerari a forma umana, sculture di sfingi e leoni posti a guardia del sepolcro, secondo il costume funerario proprio dell’area chiusina (pp. 105-111). Arezzo può vantare un ruolo di primo piano nel dibattito che delinea i caratteri identificativi della cultura artistica etrusca. Senza dubbio una delle pietre miliari di questo percorso è la statua bronzea della chimera, oggetto dello studio di Adriano Maggiani (pp. 113-124), il quale porta a compimento il discorso iniziato un ventennio fa (A. Maggiani, La Chimera di Arezzo, in La Chimera e il suo mito, a cura di P. Zamarchi Grassi, Firenze, 1992, pp. 5363) e ripreso una decina di anni dopo in occasione della Mostra Etruschi nel Tempo, tenutasi proprio ad 188 RECENSIONI Arezzo nel 2001 (A. Maggiani, La Chimera di Arezzo, in Etruschi nel tempo. I ritrovamenti di Arezzo dal ‘500 ad oggi, a cura di S. Vilucchi, P. Zamarchi Grassi, Firenze, 2001, pp. 57-59). Dopo aver costituito per oltre cinque secoli il principale argomento per sostenere la etruscità della scultura, la presunta contrapposizione tra forme arcaizzanti (criniera a fiamma) e stilemi naturalistici (elaborazione delle forme anatomiche) viene superata riconducendo tipo iconografico e stile ad un modello attico della fine del V secolo a.C. L’analisi grafematica dell’iscrizione, che riflette scelte apparentemente inconciliabili, implicherebbe secondo lo studioso un movimento di persone da sud verso nord, dall’Etruria meridionale verso l’area settentrionale. Dunque, se il modello iconografico (come anche la componente piombifera della lega, che risulta costituita da minerali provenienti dal Laurion) rimanda all’ambiente attico, mentre la dedica lega il donario ad un luogo di culto etrusco, acquista fondamento la proposta di guardare alla statua come ad un prodotto modellato ed iscritto ad Arezzo verso l’inizio del IV secolo a.C. da personalità artistiche differenti, con ogni probabilità itineranti, sia magnogreche che etrusche. Anche la produzione ceramica costituisce uno dei punti distintivi dell’artigianato aretino, in particolare quella a vernice nera, trattata da uno specialista come Jean-Paul Morel (pp. 125-134). Le botteghe producono tra il IV e il II secolo a.C. manufatti non solo per il mercato regionale ma anche per l’esportazione, svolgendo, insieme a Volterra, un ruolo determinante alla nascita della “ceramica calena”. All’intraprendenza dei ceramisti, propiziata dall’alta specializzazione raggiunta, è da attribuire il processo, da considerarsi tutto aretino, del passaggio dalla vernice nera a quella rossa. Questa produzione costituirà una delle massime espressioni artistiche di epoca imperiale, come ha dimostrato in maniera esaustiva Francesca Pao la Porten Palange in uno dei capitoli successivi (pp. 205-215). La questione relativa agli aspetti epigrafici è invece riservata a Luciano Agostiniani, il quale, attraverso l’analisi delle iscrizioni attribuite all’area aretina, conduce una sorta di breve ma efficace lezione sulla lingua etrusca (pp. 135-141). La parte relativa ad Arezzo etrusca si conclude con l’ipotesi dell’esistenza di una zecca cittadina della serie “della ruota” (F. M. Vanni, pp. 135-149) e con una sezione relativa agli aspetti topografici della città che, se per il periodo etrusco costitui [RdA 34 sce una sorta di sintesi finale, richiamando tutti i principali rinvenimenti, è funzionale ad introdurre l’epoca romana (A. Cherici, pp. 151-168). Il ruolo di Arezzo negli accadimenti che vedono nel I secolo a.C. la definitiva integrazione dell’Etruria nella sfera romana è delineato da Marta Sordi, alla cui memoria questo volume è dedicato (pp. 169-175). Seguono due saggi che si soffermano sull’organizzazione amministrativa di Arretium all’indomani della vittoria sillana (G. Firpo, pp. 177-185) sino al III secolo d.C., attraverso il supporto di una ricca documentazione epigrafica (M. Buonocore, pp. 187-196). Delineato il profilo storico, i contributi di carattere monografico che presentano la città come un centro di vivace attività artistica, anche in epoca romana, sono preceduti dal ritratto di Gaio Cilnio Mecenate, tratteggiato da Pierfranceso Porena (pp. 197-204). Ne emerge una personalità caratterizzata da luci ed ombre, dove all’inossidabile amicitia per Ottaviano si affianca una “morbida, femminea, ostentata passione per gli aspetti più ricercati dell’otium” (p. 202), tratto quest’ultimo da ricondurre ad una base culturale fortemente imbevuta di richiami all’antica aristocrazia etrusca, dovuti all’appartenenza di Mecenate alla gens dei Cilnii. La produzione della tipica ceramica a vernice rossa, come menzionato in precedenza, è presentata dalla Porten Palange (pp. 205-215) ed è completata da una breve annotazione di Giusto Traina riguardante l’onomastica dei due ceramisti successori di Marcus Perennius: Tigranus e Barghates (pp. 217-218). Alla fervida attività dei marmorari è dedicato lo studio di Giandomenico De Tommaso, che analizza i monumenti restituiti dal suolo aretino, che non contemplano solamente le numerose sculture ma anche i sontuosi apparati musivi delle domus dell’élite cittadina (pp. 219-225). Come l’età etrusca, anche quella romana si chiude con una parte di carattere topografico, che in questo caso è focalizzata sul sistema viario, il cui quadro ricostruttivo è affidato alla competenza di Giovanni Uggeri (pp. 227-235). Il percorso cronologico si conclude con la cristianizzazione della città, le cui problematiche sono esposte da Pierluigi Licciardello, il quale riserva un occhio di riguardo alle dinamiche di riorganizzazione del territorio (pp. 237-246), mentre Alberto Fatucchi approfondisce la questione delle pievi attraverso l’analisi dei più antichi documenti d’archivio, relativi alle se- 2010] RECENSIONI colari contese territoriali tra i vescovi di Siena ed Arezzo (pp. 247-252). La seconda sezione del volume raccoglie i risultati delle più recenti indagini sul territorio aretino a partire dall’area urbana per estendersi in senso antiorario alle aree circostanti del Valdarno superiore (S. Vilucchi, pp. 255-261), di Castiglion Fiorentino (M. G. Scarpellini, pp. 261-264), della Valtiberina (M. Salvini, pp. 264-268), del Casentino e della Valdichiana orientale (L. Fedeli, pp. 268-271). Le ultime pagine sono dedicate ad illustrare brevemente la storia del Museo Archeologico Nazionale “Gaio Cilnio Mecenate”, che nasce il 22 marzo 1822 con il nome di “Museo di Storia Naturale e di Antichità”. Silvia Vilucchi ripercorre la formazione delle collezioni sino agli interventi più recenti ed ai progetti in corso per la valorizzazione e l’integrazione dell’istituto museale all’interno 189 di un percorso archeologico che collega gli spazi espositivi alle aree archeologiche cittadine (pp. 272277). In conclusione, l’intento iniziale di offrire uno strumento di facile comprensione per un pubblico di elevato livello culturale, non necessariamente specializzato nella materia, sembra pienamente soddisfatto, grazie alla felice armonizzazione di tematiche a diverso livello di approfondimento. Ciò è reso ancora più agevole dal supporto di utili apparati di indici delle fonti (p. 279) e dei nomi propri (pp. 281-293), che permettono una consultazione più rapida del volume. Inoltre, l’alta qualità dell’edizione è confermata dalla generosità della documentazione grafica e fotografica disseminata nel testo, corredato da XXVIII tavole a colori. Flavia Morandini Valentina Vincenti LA TOMBA BRUSCHI DI TARQUINIA (“Materiali del Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia” XVII) (“Archaeologica” 150); Roma, G. Bretschneider Editore, 2009, pp. 190, tavv. XXIII. isbn 978-88-7689-235-6 Oggetto poco dopo la metà del XIX secolo di scavi assai poco sistematici, cui è seguita la dispersione e la perdita di parte degli affreschi e dei materiali del corredo, la Tomba Bruschi di Tarquinia è rimasta per lungo tempo in uno stato di quasi totale oblio. Ora, grazie alla ricostruzione di Valentina Vincenti, che aveva già offerto qualche anticipazione in due precedenti contributi (V. Vincenti, La Tomba Bruschi di Tarquinia: recupero di un contesto, in Scavo nello scavo. Gli Etruschi non visti, Catalogo della Mostra, Viterbo 2004, a cura di A. M. Sgubini Moretti, Roma, 2004, pp. 188-198; V. Vincenti, La Tomba Bruschi di Tarquinia, in Pittura ellenistica in Etruria. Immagine, linguaggio, messaggi. Giornate internazionali di studio, Perugia 17-18 marzo 2006, “Ostraka”, XVI, 1, 2007, pp. 93-103), questo monumento dalla storia travagliata viene riproposto al dibattito scientifico. Già al momento della scoperta, avvenuta nel 1864 in località Calvario, la tomba presentava consistenti danni dovuti al crollo del soffitto e di una delle pareti, presto aggravati dall’azione di deturpatori clandestini e dal rapido degrado degli agenti atmosferici. Tali condizioni sfavorevoli indussero alla realizzazione di una documentazione grafica sommaria ed allo strappo di alcuni tratti di affreschi, per consentire l’immediato reinterro del monumento. Dopodiché il sepolcro, la cui appartenenza alla gens Apunas è assicurata dalla presenza di iscrizioni (che trovarono posto nel CIE già alla fine dell’Ottocento), rimase nella letteratura archeologica solo per le sue pitture. A quasi un secolo di distanza dalla scoperta, nel 1963, un tentativo di incursione nella necropoli tarquiniese da parte di tombaroli, prontamente sventato grazie all’intervento delle autorità statali, portò allo scavo di una tomba a camera, nella quale furono raccolti sarcofagi e alcuni frammenti di ceramiche e di affreschi. A questa tomba fu dato il nome di “Tomba Giudizi”. Solo dopo lo strappo degli afrreschi e la loro ricomposizione presso l’Istituto Centrale del Restau- 190 RECENSIONI ro apparve chiaro che la c.d. “Tomba Giudizi” non era altro che l’ottocentesca “Tomba Bruschi”. Nonostante la sua posizione topografica sia nuovamente stata dimenticata dopo il secondo reinterro, le ricerche dell’A. hanno consentito di collocarla definitivamente all’interno dell’area della necropoli del Calvario (Tav. II). L’accurato e paziente restauro delle pitture e di una parte (cinque) dei sarcofagi ha suggerito un tentativo di restituzione dello stato originario della Tomba, che è stata presentata al pubblico in occasione della recente mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma (Etruschi. Le antiche metropoli del Lazio, a cura di Mario Torelli e Anna Maria Moretti Sgubini, Roma, 2008). Dopo la presentazione dei dati relativi alla scoperta (pp. 1-5) e la storia degli studi (pp. 5-10), l’A. affronta lo studio della tomba. Nel capitolo intitolato “L’architettura e il sistema decorativo”, la prima parte è dedicata alla ricostruzione dell’architettura del monumento attraverso l’ausilio di tutti i dati disponibili (un disegno del Mariani eseguito al momento della “prima” scoperta dell’ipogeo, le notizie apparse sui giornali del tempo, le fotografie di scavo del 1963, gli affreschi conservati al Museo Nazionale di Tarquinia). L’analisi di questi elementi conduce verso modelli collocabili entro la seconda metà del IV secolo a.C. (pp. 11-18). Alla descrizione analitica di ciò che rimane degli affreschi è invece riservata la seconda parte, dalla quale emerge che la tecnica pittorica e l’utilizzo della quadricromia denotano già una precisa conoscenza delle innovazioni artistiche di ascendenza greca di età ellenistica (pp. 19-39). Nella sezione “Iconografia e iconologia” (pp. 41-72), l’A. si sofferma dapprima sui temi rappresentati, adducendo per essi confronti puntuali e ripercorrendone gli sviluppi all’interno della pittura etrusca. Nello specifico, dopo il fregio ad onde e delfini, ampio spazio è dedicato all’iconografia del corteo magistratuale. Questo schema, nato in seno alla cultura etrusca, troverebbe la sua prima manifestazione all’inizio del IV secolo a.C. con la Tomba dei Pigmei. Secondo un recente studio di Maurizio Harari, infatti, il giovane munito di virgae sulla spalla sinistra non sarebbe altro che un apparitor, il quale caricherebbe la processione di una valenza magistratuale (M. Harari, La Tomba N. 2957 di Tarquinia, detta “dei Pigmei”: Addenda et Corrigenda, in Pittura parietale, pittura vascolare. Ricerche in corso tra Etruria e Campania, Atti della Giornata di Studio, Santa Maria Capua Vetere, 28 maggio 2003, a cura di F. Gilotta, pp. 79-91). Il motivo, confinato inizialmen- [RdA 34 te a porzioni di pareti come corollario di altri temi (Tomba Golini I e II, Tomba degli Hescanas, Tomba degli Scudi), s’impone come soggetto principale del ciclo pittorico verso la fine del IV e la prima metà del III secolo a.C. (Tomba Bruschi, Tomba del Convegno, Tomba del Tifone), per poi regredire progressivamente ad un ruolo marginale (Tomba del Cardinale, Tomba 5512, Tomba dell’Orco I) e trasferirsi sui singoli sarcofagi, ad indicare lo status del sepolto (Tomba Giglioli, Tomba degli Anina). Le ultime rappresentazioni risalgono al I secolo a.C. sulle urne volterrane. Il tema del corteo magistratuale è interrotto sull’angolo tra la parete di sinistra e quella di fondo da una scena di toeletta femminile (? kosmè ?, pp. 58, 69), che rappresenta un unicum nella pittura funeraria etrusca (ma non in quella campana) e che sembra corrispondere alla posizione del sarcofago della defunta ursm[nai], in linea con l’usanza tipica del III secolo a.C. di affrescare una porzione di parete in relazione alle arche deposte al di sotto. Se la serie dei “particolari iconografici” (p. 57) individuati ed analizzati, tra cui la scena appena menzionata, sembra non offrire saldi agganci cronologici, l’indagine relativa ai “particolari antiquari” (p. 61) propone degli spunti interessanti. È il caso dell’impugnatura bilobata della spada di tipo celtico, attestata in Etruria alla fine del IV - inizio del III secolo a.C., dei dettagli della veste e dei gioielli di larthi ursm[nai], delle calzature indossate dai personaggi maschili, che confermano tale ambito cronologico. La tematica del ciclo pittorico, che fa riferimento al viaggio dei defunti verso il mondo dei morti, sembra riservare un ruolo di particolare rilevanza alla partecipazione femminile all’interno del corteo magistratuale, non solo per quanto riguarda larthi ursm[nai], dipinta mentre è intenta a specchiarsi, ma anche per ciò che concerne la raffigurazione di altre due donne di dimensioni maggiori rispetto ai personaggi maschili, requisito che denota particolare rilevanza all’interno della gerarchia della gens. Il significato di siffatte teorie, ampiamente dibattuto in letteratura, è stato letto come la trasposizione pittorica di processioni reali oppure come la rappresentazione di cortei fittizi, a scopo puramente funerario, che avrebbero luogo nell’Aldilà. Nell’ultimo contributo relativo alla questione (M. Menzel, A. Naso, Raffigurazioni di cortei magistratuali in Etruria. Viaggi nell’aldilà o processioni reali?, in Pittura ellenistica in Etruria. Immagine, linguaggio, messaggi. Giornate internazionali di studio, Perugia 17-18 2010] RECENSIONI marzo 2006, “Ostraka”, XVI, 1, 2007, pp. 23-43), gli studiosi proponevano che tali cerimonie dovessero rifarsi ad eventi della vita reale, la cui raffigurazione all’interno delle tombe si carica di un prevalente significato commemorativo. A questo proposito V. Vincenti suggerisce l’assimilazione tra funus e viaggio nell’oltretomba “… considerando che, nel mondo etrusco, non c’era frattura, ma continuità tra le due vite …” (p. 72). Strettamente legati alle travagliate vicissitudini dell’ipogeo, segnalati solamente in maniera parziale e reinterrati durante il primo scavo, i sarcofagi vennero recuperati durante la riapertura della tomba e trasportati al Museo di Tarquinia senza essere nè inventariati nè documentati, condizione che lascia pertanto adito ad alcune incertezze di attribuzione. Si tratta di quattordici pezzi in tutto, generalmente frammentari, che l’A. ha diviso in due gruppi: uno tipologicamente afferente alla classe delle Stehende Figuren, tutte femminili, compreso entro un orizzonte cronologico che va dal 340 al 300 a.C. (nn. 1-5), l’altro, disomogeneo, che raccoglie esemplari ognuno con caratteristiche peculiari, tra i quali riveste particolare interesse un sarcofago maschile con scena di corteo magistratuale (225-175 a.C.) (nn. 6-9). Non compare purtroppo la raffigurazione del coperchio 8, identificato nel magazzino del Museo di Tarquinia e corrispondente al tipo con columen centrale e acroteri agli angoli. Inoltre, mancano all’appello cinque sarcofagi, la cui presenza fu registrata, se pur con brevi descrizioni, nello scavo degli anni Sessanta. Fotografie eseguite in quella circostanza hanno consentito di riconoscere la presenza di frammenti di ceramica a vernice nera e di alcuni frammenti metallici (ora dispersi) (pp. 73-98). Sulla base di notizie contenute in documenti ottocenteschi, è stata proposta con grande prudenza una provenienza dalla tomba per una testina femminile in bronzo, conservata al Museo Nazionale di Tarquinia (pp. 98-100). L’ultima parte è riservata alle iscrizioni (pp. 101-127), fortunatamente ricopiate al momento della prima apertura della tomba e pubblicate poco dopo sul CIE, visto che delle tredici originarie se ne conservano oggi solamente due. Alla proposta ricostruttiva di una parte dell’albero genealogico della famiglia degli Apunas, si accompagna un approfondimento relativo alle attestazioni del gentilizio (o meglio dei gentilizi costruiti sulla stessa base apu) a partire dall’età arcaica. La concentrazione maggiore si verifica tra il IV e la prima metà del III secolo a.C. in ambito tarquiniese, connotando la fa- 191 miglia come un esponente della classe dirigente, grazie all’associazione del suo nome a quella di altre gentes, con le quali doveva aver intessuto una politica matrimoniale mirata al controllo dell’ager tarquiniensis. In seguito le attestazioni compaiono in misura quantitativamente maggiore in Etruria settentrionale, in particolare a Perugia e a Volterra, dove il nomen è riscontrabile fino al II-I secolo a.C. Il capitolo conclusivo si divide tra la discussione riguardante lo stile (pp. 129-134) e quella sulla cronologia (pp. 134-140). Le considerazioni di tipo stilistico sono volte a sottolineare la compresenza negli affreschi delle correnti “disegnativa”, riservata alle figure umane, con una maggiore cura per la riproduzione dei membri della gens, e “plastica”, destinata agli animali ed agli oggetti, in linea con le tendenze proprie della pittura etrusca di età ellenistica e ascrivibili alla presenza di più artisti operanti all’interno dell’ipogeo. La tomba sarebbe dunque stata costruita verso il terzo venticinquennio del IV secolo a.C., come è indicato dai sarcofagi più antichi, mentre la realizzazione della sua decorazione pittorica sarebbe posteriore, come dimostrano le lacune sulle pareti che indicano la presenza di arche addossate. All’interno del panorama artistico relativo alla pittura tarquiniese, il ciclo pittorico della Tomba Bruschi si posizionerebbe tra la Tomba del Convegno e la Tomba del Tifone, in un orizzonte collocabile tra la fine del IV secolo a.C. e l’inizio del successivo. Tale cronologia risulta conforme anche a quanto è stato possibile concludere dallo studio delle iscrizioni, secondo le quali il gentilizio continuerebbe a comparire a Tarquinia solo fino al II secolo a.C., quando anche l’ipogeo cessa di essere utilizzato. Infine, due appendici completano la trattazione. La prima è dedicata alla raccolta sistematica di tutti i documenti relativi alla tomba (carteggi, annotazioni, notizie apparse su quotidiani, atti burocratici), che hanno costituito il filo conduttore dell’intera opera, in qualità di prezioso e fondamentale supporto alla ricostruzione dell’ipogeo e del suo contesto, vista l’assenza di una documentazione di scavo precisa ed adeguata (pp. 141-165). La seconda riporta brevemente le tecniche utilizzate durante gli interventi di restauro (pp. 167-169). Il volume è corredato da un apprezzabile apparato di tavole. Flavia Morandini 192 RECENSIONI [RdA 34 Claudia Lucchese Il mausoleo di Alicarnasso e i suoi maestri (“Maestri dell’Arte classica” I), Roma, Giorgio Bretschneider Editore, 2009, 14,5 × 21, pp. br. XIV. ISBN 978-88-7689-219-2 L’ouvrage de Claudia Lucchese consacré au mausolée d’Halicarnasse est une excellente synthèse concernant le monument. Après un bref contexte historique et géographique, réalisé, entre-autre, grâce aux textes d’Hérodote, Strabon, Pline l’Ancien, Vitruve et Diodore de Sicile, l’auteur s’intéresse au satrape Mausole de Carie. L’ouvrage est ensuite divisé en trois grands chapitres: le monument funéraire, le message politico-culturel de celui-ci et son impact dans la littérature et l’épigraphie. Le chapitre “Monument funéraire de Mausole” commence naturellement par un historique de son étude. Il débute avec l’insertion du monument dans la (ou les) prestigieuse(s) liste(s) des Sept Merveilles du monde antique. L’étude scientifique du mausolée ne débuta réellement qu’au XIXe siècle. Claudia Lucchese après avoir présenté la mission de l‘archéologue britannique C. Newton, passe assez rapidement à la mission danoise du professeur Kristian Jeppesen qui a débuté en 1966. Elle utilise abondement la riche bibliographie de ce chercheur. Elle parvient à synthétiser les théories de la mission danoise et à la présenter de manière claire et précise. L’étude architectonique est évidemment basée sur les résultats des fouilles de Jeppesen mais également sur les publications de Pedersen, Zahle, Hoepfner et Waywell. Elle fait également appel, lorsque cela est nécessaire, aux anciennes théories de Fritz Krischen. Pour la description de la décoration du monument (frises, statues …), l’auteur utilise l’étude de Waywell (British Museum) mais présente également son point de vue. Elle revient notamment sur la question du nombre d’artistes qui réalisèrent les frises. Pour elle, la présence de fragments comportant des lettres différentes ne fait pas références aux quatre “maîtres” cités par Pline l’Ancien et Vitruve mais fait partie d’un système d’assemblage des différents éléments de décoration. Claudia Lucchese se montre sceptique quant à la présence de deux phases dans la décoration (la première datant de l’époque de Mausole et le seconde de l’époque d’Alexandre le Grand). Ensuite, l’auteur s’intéresse à l’architecte du mausolée. Ce point est évidemment basé sur le texte de Vitruve. xi-172, fig. 15 pl. Nous regrettons qu’elle n’ait pas plus développé la question de Satyros mentionné par Pline à Alexandrie (époque de Ptolémée II Philadelphe). La liste des sept merveilles ayant très probablement été réalisée à Alexandrie, le choix d’y introduire le mausolée était peut-être lié à ce personnage. Rappelons que le restaurateur du temple d’Artémis d’Ephèse, Deinokrates de Rhodes était le principal architecte d’Alexandrie (Strabon, Géographie, XIV, 22-23). Le chapitre se termine par une étude assez complète des sculpteurs. Pour Pline l’Ancien, ils étaient quatre: Léocharès, Timothée, Bryaxis et Scopas. Vitruve cite, quant à lui, un cinquième nom: Pythius. Elle écarte rapidement Praxitèle, mentionné par Vitruve car ce dernier n’était pas actif au moment de la construction du mausolée. Claudia Lucchese ne prend évidemment pas les textes antiques au premier degré. Grâce à l’analyse des frises et des statues conservées au British Musem elle remet en cause, à juste titre, la vision antique: un artiste par face. Il y a bien des différences entres les éléments de la célèbre frise des Amazones. Il semble bien difficile de croire que Scopas réalisa la totalité de la face orientale de la décoration du tombeau. Claudia Lucchese n’exclut pas le fait que Scopas a pu former des sculpteurs Cariens. Le deuxième chapitre est consacré aux messages politique et culturel véhiculés par le mausolée d’Halicarnasse. Il débute par l’étude des thèmes iconographiques. La taille de l’édifice est le premier élément. Son gigantisme tranche avec les sépultures des satrapes antérieurs. Le monument fait partie d’un ensemble, il est lié à la construction de la nouvelle capitale de la satrapie. Claudia Lucchese remarque ensuite que certaines scènes du décor se retrouvent aussi ailleurs dans l’empire perse, notamment sur le sarcophage des pleureuses retrouvés dans la nécropole royale de Sidon. Elle remarque ensuite d’autres éléments typiques à l’art hellénisant de l’Orient (sarcophages de Sidon, sarcophage de Çan). Elle compare ensuite l’Amazonomachie avec les combats entre Grecs et Perses. Le choix de ce thème attesterait donc de l’hellénisme de Mausole. Le satrape serait même assimilé à 2010] RECENSIONI la puissante figure d’Héraclès. Si Claudia Lucchese veut voir en Héraclès un dieu civilisateur, attestant de la supériorité des Grecs sur les Barbares, on peut aussi voir en Héraclès un dieu faisant la synthèse entre Orient et Occident. En effet, les historiens grecs et romains assimilèrent très tôt le dieu phénicien Melqart avec le héros Héraclès (nombreuses attestations épigraphiques, Arrien, Eudoxe de Cnide cité par Athénée de Naucratis, Quinte-Curce, Cicéron …). Claudia Lucchese conclut que le tombeau visait à héroïser et autocélébrer Mausole. Ensuite, l’auteur s’intéresse aux constructions qui ont inspiré les architectes du Mausolée. Elle présente donc le monument des néréides de Xanthos dont les liens avec le mausolée semblent indiscutables. Elle étudie les rapports entre l’empereur perse et les satrapes. Enfin, elle termine ce point par l’un des premiers “mausolées” de l’histoire, le tombeau de Cyrus II, situé à Pasargades. Mausole se montra donc ambitieux et très libre vis-à-vis du pouvoir perse achéménide. Après avoir étudié la question de la volonté “dynastique” de Mausole, Claudia Lucchese présente l’influence du tombeau sur les monuments funéraires des IVe et IIIe siècles avant notre ère. Elle présente, à juste titre, le tombeau au lion de Cnide, le mausolée de Belevi. Le dernier chapitre plus bref est un outil pour le chercheur. Claudia Lucchese cite les principaux textes qui évoquent le célèbre tombeau. Elle présente une version grecque ou latine et une traduction du texte. Outre les textes incontournables de Cicéron, Vitruve, Pline l’Ancien, Pomponius Mela, Lucien de Samosate et Pausanias, elle présente également des textes moins célèbres tirés notamment des œuvres d’Antipater de Thessalonique, Valère Maxime, Aulu-Gelle. La liste pourrait se dire complète si on y ajoutait Isidore de Séville (Etymologiæ XV, 11.3). Enfin, elle cite trois inscriptions épigraphiques en grec. L’ouvrage comporte une très bonne bibliographie. Seuls quelques articles semblent absents mais cela ne nuit en rien à la qualité du travail de Claudia Lucchese: R. Martin, Le monument des Néréides et l’architecture funéraire, “Revue archéologique”, 1971, f. 2, p. 327-337. 193 J.-C. Richard, «Mausoleum»: D’Halicarnasse à Rome, puis à Alexandrie, “Latomus” 39, 1970, p. 370388. P. Roos, Rock-tombs in Hecatomnid Caria and Greek architecture, dans Architecture and society in Hecatomnid Caria. Proceedings of the Uppsala Symposium 1987, ed. T. Linders, P. Hellström, Uppsala, 1989, p. 63-68 (Acta Universitatis Upsaliensis Boreas. Uppsala Studies in Ancient Mediterranean and Near Eastern Civilisations, 17). Un index des planches et des photos complètent cette synthèse. Si l’ouvrage de Claudia Lucchese n’est pas totalement novateur, il a le mérite de présenter une synthèse complète décrivant le mausolée d’Halicarnasse. Elle a très bien synthétisé les recherches de l’équipe danoise de K. Jeppesen. Elle a complété ces résultats par une intéressante analyse idéologique du célèbre édifice carien. Signalons également la récente publication d’un ouvrage qui permet de mieux comprendre le contexte carien: Henry (O.), préface de P. Debord, Tombes de Carie. Architecture funéraire et culture carienne. VI e - IIe siècle av. J.-C., Rennes, 2009 (Archéologie & Culture). Si la synthèse est claire et précise, il serait intéressant de poursuivre cette étude en analysant notamment les tombes de Labraunda. La sépulture d’Idrieus, bien que postérieure au mausolée permet de mieux comprendre l’agencement des appartements funéraires. L’étude des tumuli de Geriş et d’Assarlık pourrait également compléter cette recherche (A. M. Carstens, Tomb Cult on the Halikarnassos Peninsula, “American Journal of Archaeology”, v. 106, n. 3, 2002, p. 391-409. Afin de disposer de documents clairs pour comparer l’iconographie des sarcophages de Sidon, signalons la réimpression anastatique, en 1987, de la mission de fouilles ottomanes qui les mit au jour: O. Hamdy Bey, Th. Reinach, Une nécropole royale à Sidon. Fouilles de Hamdy Bey, 2 vol. Paris, 1892 [réed. anastatique: Istanbul, 1987] (Archaeology and art Publications, Reprint Series, n. 4). Marco Cavalieri 194 RECENSIONI [RdA 34 Gemme dei Civici Musei d’Arte di Verona A cura di Gemma Sena Chiesa Testi di A. Magni, G. Sena Chiesa, G. Tassinari (“Collezioni e Musei Archeologici del Veneto” 45), Roma, G. Bretschneider Editore, 2009, pp. 249, tavv. 66. isbn 9788876892592 Frutto di quegli interessi antiquari che animarono la vita culturale di Verona tra XVIII e XIX secolo, e dei quali l’opera a stampa del Maffei e il Museo che da lui prese il nome restano il segno più evidente, è l’ampia raccolta di gemme incise e paste vitree (2368 esemplari, cui si aggiungono 247 zolfi) confluite nel patrimonio della città a seguito di acquisti, e soprattutto di donazioni da parte di eminenti personaggi locali: raccolta rimasta sinora del tutto inedita, e della quale in questa sede una ampia selezione, poco meno della metà dell’intero complesso, viene per la prima volta edita scientificamente. In un capitolo introduttivo Gemma Sena Chiesa ci informa delle ragioni che portarono alla composizione della raccolta stessa: fondamentalmente l’acquisto della collezione del conte veronese Jacopo Verità (1744-1827), forte di quasi 1700 pezzi; acquisto avvenuto nel 1842, a distanza quindi di alcuni anni dalla la morte del proprietario, che ad essa aveva dedicato cure e un catalogo-inventario. Ad essa si associano in seguito nuclei collezionistici minori, dei quali non è possibile distinguere la fisionomia (tra questi probabilmente un lotto di un’altra collezione settecentesca veronese, quella di Jacopo Muselli), oltre ad acquisti diversi, che portano la raccolta alla attuale consistenza. La mancanza di una affidabile documentazione che registri le diverse fasi delle acquisizioni rende assai arduo distinguere i vari nuclei presenti all’interno della raccolta; per i quali inoltre non sono disponibili informazioni precise circa le modalità di reperimento dei materiali da parte dei proprietari; la sostanziale impossibilità di ricostruire la provenienza, sia collezionistica che eventualmente di scavo, dei singoli esemplari ha costretto le Autrici ad una presentazione complessiva del materiale stesso, ordinato in due grandi sezioni, la prima dove sono insieme commentate le gemme e le paste antiche, ordinate per tematiche; la seconda dedicata agli esemplari moderni, a loro volta invece separati tra intagli e vetri, e articolati per gruppi stilistici o di possibile origine. Tutte le sezioni sono intro- dotte da ampie ed estesamente informate premesse orientative. Se pure privo, come meglio si dirà più avanti, di presenze di particolare pregio intrinseco o di particolare valore sul piano iconografico e documentario, l’insieme qui offerto presenta notevoli ragioni di interesse, peraltro strettamente legate ad una serie di fattori problematici che ne condizionano fortemente l’apprezzamento sul piano scientifico. Innanzi tutto, come si è già detto, non sembra possibile ricostruire in dettaglio, sulla base della documentazione disponibile, la fisionomia dei diversi nuclei che si sono aggregati nella attuale raccolta; il che impedisce di ricollegare con certezza i materiali agli interessi, ai movimenti sul mercato, ad eventuali indagini sul terreno dei singoli proprietari. Mancano in definitiva notizie di qualsiasi genere sulle modalità di acquisizione e di provenienza delle gemme. Ciò è tanto più imbarazzante se si tiene conto della particolare composizione della raccolta, anche considerata nel suo complesso: la quasi totalità degli esemplari appartiene ad una produzione di tipo corrente, di livello medio, se non medio-basso, e in buona misura è rappresentata da esemplari in vetro; ma soprattutto tra questi ultimi, al termine della attenta lettura qui condotta, è apparsa una consistente presenza di esemplari moderni, anch’essi – diversamente dai tanti casi di grandi collezioni note – di livello molto basso, in ampia parte addirittura di esemplari non finiti. La compresenza, nelle raccolte glittiche nobiliari dell’età neoclassica, accanto ai più pregevoli esemplari antichi, di lavori moderni, sia essi intesi come copie di pezzi più famosi, o anche di invenzioni nuove, che rielaborano temi e spunti formali dei maestri del passato, è fenomeno ben noto, che ha dato luogo ad un artigianato artistico fiorente, e nomi come quelli dei Pichler, di Cades, Marchant, Girometti sono solo i più famosi tra i tanti di coloro che in Italia e all’estero tra la seconda metà del XVIII secolo e i primi decenni del successivo misero il loro magistero al servizio della colta clien- 2010] RECENSIONI tela del Grand Tour; così come casi estremi, quale quello ben noto della collezione Poniatowski, documentano quale peso potesse avere, nella composizione di una raccolta, la sezione moderna, in ragione di motivazioni diverse: nel caso della collezione Poniatowski per una bulimica ansia di completezza iconografica. È del pari ben noto, e ampiamente indagato (si veda qui il quadro riassuntivo di G. Tassinari, pp. 145-148, 171-174), il fenomeno della riproduzione di intagli e cammei, sia antichi che moderni, attraverso diversi media – cera, zolfo, scagliola, vetro, anche carta – e per diversi fini: collezionistici, documentari, di studio, oltre che di semplici surrogati delle gemme autentiche, scopo questo che appare esclusivo nella produzione antica, anche questa fiorente, di repliche in vetro di gemme lavorate ad intaglio o cammeo. Officine specializzate, come quelle del Lippert, di James Tassie, di Tommaso Cades, di Bartolomeo e Pietro Paoletti, alimentano una produzione che, elegantemente confezionata e accompagnata da più o meno esaurienti commenti antiquari, diviene indispensabile complemento delle biblioteche patrizie, nonché, più tardi, di quelle delle Accademie e delle Università europee. In questa produzione, i cui esiti, per il volgere del gusto, saranno in seguito diffusamente e confusamente introdotti nel mercato, andranno ovviamente distinte le matrici in vetro, eseguite dal positivo tratto dall’intaglio (antico o moderno che sia) originale, destinate alla produzione seriale dei calchi in positivo, dalle repliche in vetro – quindi negative – degli intagli stessi, talvolta imitative delle tonalità e della policromia della pietra, e destinate alla collezione. Le prime sono generalmente ben riconoscibili perché – specie nella fase più avanzata – sono fornite di un profilo inciso più ampio dell’intaglio, destinato a produrre nel calco una sorta di filettatura o cornice che ne delimita i contorni (si vedano i calchi dello studio Paoletti, quelli di Würzburg), e conservano un ampio margine che ne facilita la presa e l’utilizzo; queste, come le repliche negative in vetro, possono, in casi di particolare vicinanza e fedeltà all’originale, essere anche introdotte in una raccolta museale a scopo documentario, meritando un’attenzione particolare, specie nel caso in cui l’originale sia da considerarsi perduto. Con procedimento similare venivano prodotte le repliche degli esemplari glittici a rilievo, i cammei, ugualmente diffuse nelle collezioni del periodo. Bisogna pertanto essere molto riconoscenti alla curatrice del catalogo e alle sue collaboratrici per 195 aver voluto affrontare un compito così delicato, quello appunto di prendere in considerazione un materiale di così difficile lettura e ad una prima impressione non particolarmente attraente; un materiale – quello moderno − troppo spesso trascurato nelle edizioni delle grandi raccolte glittiche del passato. Come si è detto, compito preliminare delle Autrici è stato quello di distinguere gli esemplari antichi da quelli moderni, commentati in catalogo rispettivamente da Alessandra Magni e da Gabriella Tassinari. Data la qualità del materiale, cui sopra si è accennato, e la possibilità di esaminarlo solo nella riproduzione fotografica, circostanze queste che rendono impossibile affrontare un commento di dettaglio sui singoli pezzi, si è preferito, assumendo la nota esperienza delle due Autrici e della coordinatrice dell’opera come garanzia delle conclusioni offerte dal testo, soffermarsi su qualche considerazione generale. Gli esemplari antichi della collezione veronese – 660 quelli selezionati per questa edizione, dei quali circa un quarto in vetro – testimoniano, come si è già detto, una produzione seriale, estesa dall’avanzata età repubblicana (II sec. a.C.) sino agli inizi del III sec. d.C.; il repertorio tematico è anch’esso corrente: emergono, per pregio formale e anche per qualità della pietra, una corniola frammentaria con busto di Dioniso, Cat. 186, della metà del I sec. a.C., il frammento con testa di Zeus in ametista Cat. 36, la corniola con Vittoria Cat. 345, l’onice zonata con testa di Medusa in profilo Cat. 534; interessante, per la tematica di forte impegno ideologico, l’eliotropio con trofeo e prigionieri Cat. 378. Ampia parte del materiale è riconducibile ad officine di Aquileia e ad un orizzonte di produzione locale. Quanto detto in generale vale anche per i 364 esemplari moderni, rappresentati da gemme e Glaspasten (si adotterà qui di seguito la terminologia, introdotta da Erika Zwierlein Diehl e accolta nel presente volume, secondo la quale il termine di Glaspaste indica la replica moderna di un esemplare antico, mentre Glasgemme designa la replica antica dell’esemplare antico; termini resi in italiano rispettivamente come “pasta vitrea” e con il meno felice “gemma vitrea”), dove il rapporto tra vetri e gemme sale a due terzi: si tratta di materiali di qualità assai modesta – nel caso delle gemme si segnalano appena gli intagli Cat. 729, 731-733 – e, nel caso dei vetri, quasi sempre tecnicamente imperfetti, spesso non rifiniti. Tra le Glaspasten emerge solo per qua- 196 RECENSIONI lità tecnica la Medusa Strozzi Cat. 796, ineludibile icona di qualsiasi gliptoteca settecentesca. Paradossalmente è proprio la prevalenza di materiale di seconda scelta che rende interessante questa collezione, e che suscita problemi, del resto ben impostati nelle introduzioni alle diverse sezioni del catalogo: si tratta in sostanza di capire il senso alla base dell’operazione collezionistica – sia essa riconducibile al conte Verità, come anche ad altri suoi colti concittadini – prima di derubricarla al rango di fenomeno “provinciale”, inferiore per qualità alle grandi imprese urbane o di dimensione internazionale (ma si ricordi che anche le paste della collezione Stosch sono in prevalenza di cattiva qualità); nonché di comprendere il significato, in sé e per sé, e l’origine della forte componente moderna. Se il complesso degli esemplari antichi, infatti, alla luce delle analisi e delle considerazioni di Alessandra Magni, appare facilmente inquadrabile in un’ottica di collezionismo locale, e quindi in questo senso interessante – se pure in termini generali − per il rapporto con il bacino di provenienza, è proprio la sezione moderna quella che desta i maggiori interrogativi: interrogativi di cui si dimostra ben consapevole Gabriella Tassinari nelle sue parti introduttive. Non sembri superfluo ritornare, sia pure molto schematizzando, allo stemma complesso cui si accennava più sopra, la griglia entro la quale vanno incasellati i singoli esemplari in esame. Da un lato abbiamo, come si è detto, la produzione antica di intagli e cammei, dai quali possono derivare repliche in vetro antiche (le Glasgemmen), che hanno l’evidente finalità di fornire un surrogato più economico dell’originale, e che per noi, in assenza di questo, assumono pari importanza documentaria. Dall’altro abbiamo la produzione moderna di intagli e cammei, comprendenti copie fedeli di famosi originali antichi, come anche composizioni nuove, a questi più o meno liberamente ispirati; questa è affiancata dalla produzione di repliche moderne in vetro (Glaspasten) tratte dagli esemplari antichi, sia in pietra che in vetro, come anche dagli stessi esemplari moderni, che a loro volta, come si è detto, includono copie di gemme antiche. La produzione degli esemplari moderni in vetro può essere animata da scopi diversi: A. la fabbricazione di matrici per la produzione di calchi in zolfo, gesso, etc., destinati alla composizione di gliptoteche di interesse collezionistico, [RdA 34 come anche scientifico: materiali ben riconoscibili per caratteristiche tipologiche (si pensi solo alla già citata raccolta Paoletti), in genere realizzati in vetri monocolori di forte effetto e ovviamente destinati all’uso di bottega, se pure in tempi più recenti divenuti essi stessi oggetto di interesse collezionistico per l’implicito valore documentario; B. la fabbricazione di copie; tra le quali si comprendono: B.1. le copie di qualità, ben rifinite nel contorno, realizzate anche queste con vetri fortemente colorati e di effetto decorativo, talvolta imitativi delle caratteristiche di una pietra antica: esemplari destinati a essere messi in circolazione come antichi, o come dichiarate imitazioni, sia a scopo collezionistico, sia per essere montati come consapevole surrogato dell’esemplare antico (qui ad es. gli esemplari Cat. 797, 800, 801: eccezionale il caso della citata Medusa Strozzi Cat. 796, non rifinita); B.2. copie scadenti, ma rifinite, e quindi comunque destinate all’uso (la maggior parte degli esemplari Cat. 789-1025); B.3. copie, in generale di qualità scadente, non rifinite, ovvero con presenza del margine, resto della colata di fusione (ad es. Cat. 793, 803, 808, etc.). È ben chiaro innanzi tutto che la preliminare distinzione tra intagli antichi e moderni resta ancora oggi sostanzialmente affidata all’esame autoptico, e quindi alla particolare esperienza e capacità percettiva dello studioso stesso, e che ciò è tanto più grave nel caso, più complesso, della distinzione tra Glasgemme e Glaspaste: ciò nell’attesa di un progresso nell’uso della strumentazione tecnica tale da consentire a ogni studioso di sottoporre ad analisi di laboratorio il materiale vitreo di cui sono composti tutti gli esemplari oggetto della sua attenzione. Rimane quindi un serio problema la scelta di un criterio di interpretazione e analisi del materiale comprensibile nel gruppo B. Gabriella Tassinari si è mossa in questo campo con molta prudenza, proponendo per gli intagli delle ampie partizioni stilistiche, e riconoscendo francamente i casi di incerta distinzione tra antico e moderno (Cat. 752-788); per la serie in vetro, il gruppo B, ha cercato innanzi tutto degli appigli oggettivi, che ha in parte trovato, identificandone gli originali: tra questi spiccano esemplari (gemme e vetri) della collezione Stosch (Cat. 789-793), come anche calchi delle raccolte Dehn-Dolce (Cat. 794- 2010] RECENSIONI 796), della Cades (Cat. 797-99), intagli di Giovanni Pichler (Cat. 800-801). Tutto il resto (Cat. 804-1023) è organizzato secondo la classificazione stilistica del possibile originale, non identificato, e non sempre distinguibile tra antico e moderno. Non sembra ci siano spunti per spingersi oltre il limite sul quale si è attestata l’Autrice. Qui si vuole solo accennare a un paio di questioni, in primis quella delle Glaspasten con margine espanso, ovvero non rifinite: in generale, salvo come si è detto l’eccezione della Medusa Strozzi, tutti prodotti di cattiva qualità, dall’aspetto di “scarti” di bottega. Su quali elementi, in assenza di dati di provenienza e di dirimenti analisi di laboratorio, si basa la classificazione come Glaspaste, per esemplari derivanti da prototipi antichi, invece che come scarto di produzione di una bottega antica? In questo senso sono stati giudicati ad es. i vetri Cat. 389 o 538, ugualmente con resto di colata. Chi scrive ha in altra sede (Un tesoro recuperato. Gemme, vetri e lavori in pietra dura da una collezione privata, in Aquileia e la glittica di età ellenistica e romana, Atti del convegno 19-20 giugno 2008, a cura di G. Sena Chiesa e E. Gagetti, Trieste 2009, pp. 281292), nel corso di una rapida presentazione di una eterogenea collezione di materiali glittici, interpretato come antico un piccolo gruppo di vetri con bordo espanso (p. 284, tav. III, 9-12), rappresentativi di una trentina di esemplari), soprattutto sulla base di una valutazione complessiva dell’intera raccolta, che comprendeva una ampia quantità di materiali diversi – tra i quali anche vetri di altra tipologia – provenienti da scavi, verosimilmente clandestini. I termini del problema sono brevemente riassunti da Gabriella Tassinari nel presente catalogo alle pp. 173 s. e più estesamente sviluppati in A. Magni, G. Tassinari, Gemme vitree, paste vitree, matrici vitree, in I Convegno interdisciplinare sul vetro nei beni culturali e nell’arte di ieri e oggi (Parma, novembre 2008), Parma 2009, pp. 105-108, dove si accenna ai casi noti – certamente pochi – di gemme a margine espanso provenienti da scavi; tra questi emerge per interesse il recente, ben documentato rinvenimento di esemplari di questo tipo in connessione con una officina vetraria (su cui M. Pradelli, Il rinvenimento di nove gemme nel suburbio di Bologna romana, in Aquileia e la glittica, cit., pp. 335-339). La soluzione proposta da G. Tassinari, qui a pp. 171 s., o in Gemme vitree, cit. a p. 107, è che i vetri a margine espanso siano prodotti per lo più moderni, destinati ad essere conservati in una collezione o uti- 197 lizzati per montature in anello, oltre che per altri scopi diversi: il che, nel caso degli esemplari veronesi, così scadenti, appare poco plausibile. La questione si lega ovviamente al problema della definizione del luogo di produzione per le Glaspasten moderne; sull’argomento è tornata infine ancora più di recente la stessa Tassinari (Osservazioni sulla produzione di paste vitree nel XVIII secolo e il caso di Venezia, JGS 52, 2010, pp. 167-199), con un ulteriore, ampio e documentato quadro riassuntivo di tutto il fenomeno, nel quale si indica infine, sulla scia di una diffusa opinione, Venezia come centro produttivo di questi esemplari in vetro. Che Venezia, con Murano, sede storica dell’arte vetraria e gelosa custode dei suoi segreti, sia stata effettivamente sede di questa particolare forma di industria artistica, e ben prima del XVIII secolo, è ampiamente probabile, quanto indimostrabile su base documentaria, nonostante il notevole impegno qui dispiegato; né può essere sottovalutato il ruolo svolto da altri centri – Roma per prima – in un fenomeno che ebbe anche spesso dimensione privata ed amatoriale, oltre a svilupparsi nella dimensione di bottega familiare; né tantomeno appare chiarito, almeno sulla base degli esemplari – tutti di alta qualità − che illustrano quest’ultimo contributo, provenienti oltre che dalla raccolta veronese da quella del Civico Museo Archeologico Giovio di Como, in via di pubblicazione dalla stessa studiosa, il significato della presenza di tanto materiale di secondo rango nella raccolta del conte Verità, come in quelle dei suoi concittadini. Queste in definitiva, certo ispirate dagli esempi del grande collezionismo internazionale, sembrano nel loro complesso fortemente legate, come bene conferma anche la sezione antica, ad un desiderio di conservazione di memorie e testimonianze locali. Il che, come si diceva più sopra, ne costituisce in definitiva motivo di pregio. Ci si augura che l’estensione delle ricerche ad altre raccolte coeve, come quella di Como citata, e la disponibilità di nuove, più attente edizioni dei materiali moderni conservati nelle collezioni storiche del XVIII e XIX secolo, consenta alle due Autrici di questo impegnativo volume di fornire definitive risposte a questi problemi, non del tutto marginali per la ricerca archeologica. Quanto sopra detto servirà intanto a chiarire quale difficile, delicato compito sia stato qui affrontato, e felicemente assolto. Carlo Gasparri