Dopo tutto “Fottuti bastardi che cazzo volete da me?” “Prova a

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Dopo tutto “Fottuti bastardi che cazzo volete da me?” “Prova a
Dopo tutto
“Fottuti bastardi che cazzo volete da me?”
“Prova a immaginarlo bello.”
“Non so niente. Non so neanche perché mi avete
portato qui.”
“È morto qualcuno. Tu eri là. Raccontaci.”
“No.”
“No, non è morto nessuno?”
“No.”
“O no, tu non eri là?”
“No. No e basta. No. No. NOOOOO.”
Mi stanno massacrando. Sono sbirri e fanno il loro
dannato lavoro di sbirri, ma io non ne posso più delle
loro domande. Sono molto più che stanco. Sono
morto e questi non lo sanno.
Svuotato di ogni iniziativa, di ogni emozione, mi
prendo la testa fra le mani, chiudo gli occhi ed esco
mentalmente dalla stanza.
Sono fuori, nell’altrove dei miei ricordi più recenti, un fottutissimo posto, al momento. Nel bel
mezzo di un ologramma mentale o come accidenti
volete chiamarlo. Immagini e suoni, colori e voci.
Situazioni che si rincorrono. E il nastro continua ad
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andare avanti e indietro. Rewind and play, all’infinito.
Logan, Frank e lei, Lara. Li ho ancora negli occhi.
Ho il loro odore nelle narici. Il loro sangue sulle
mani. Ma loro sono già storia.
Devo fare i conti con questa cosa. E devo farlo subito o non ci riuscirò mai più. L’ho sempre saputo
che prima o poi sarebbe successo e ora non c’è più
spazio per scappare lontano. Devo tirarla fuori o mi
ucciderà.
Qualcosa dentro di me si è guastato e non vuole
più tornare al suo posto. È per questo che non riesco
più a vedere la luce e ogni cosa si impregna di una
melassa di tristezza. È come percepire l’audio fuori
sincrono con il video ed è maledettamente sgradevole se riguarda la tua esistenza. Perciò devo estirpare
questa sensazione.
A questo punto mi sembra l’unica decisione sensata: guardare dentro me stesso, alla ricerca dei ricordi di un incubo. Per affrontarli uno a uno, distruggerli, frammentarli, rimpicciolirli fino a che non mi possano più fare alcun male. Almeno credo.
Io devo ritornare a pensare. A pensare veramente.
E lo voglio fare non per i buffoni là fuori, non per
tutta la gente che è morta, non per il resto del mondo.
Per me prima, solo per me, perché io devo continuare a vivere e non credo di poterci riuscire se non supero questo problema.
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L’ho chiamato problema. Non è un problema, è un
cancro, il mio privato tumore dell’esistenza. Al momento la semplice rimozione chirurgica non è più attuabile e necessito di terapie alternative. E allora facciamo questa bella chemioterapia psicanalitica. O
questa, o la pazzia.
E non ho alcun dubbio da dove cominciare.
Lei, al centro di tutto.
Lara.
A martellarmi nel cervello da quella notte. Barry
l’aveva detto.
“Stanne fuori. Lascia perdere, puoi fare altre cose
e sarai bravo ugualmente. Certa gente è pericolosa.
Questa cosa ti manderà fuori di testa.”
Di solito non ricordo così bene tutte le cose che mi
dice Barry, ma queste frasi mi sono rimaste scolpite
nella memoria. E ora sono come aveva detto Barry:
fuori di testa...
Mi chiamo Andrew, sono americano, ma vivo in
Europa. Di solito, diciamo negli ultimi anni. Ma ora
mi trovo a casa, nella fottuta mela. Faccio il regista.
Sono un regista. Guardo alle cose del mondo e costruisco i miei film.
Non ho molti hobby. Anzi per la verità non ne ho
proprio. Quando sono stanco vado da Barry, giù al
bar e questo è tutto. Barry non è una cattiva anima. È
un ragazzone di 120 chili con la passione per le belle
donne e per la musica. Lui sta al “Tempio”, il suo lo9
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cale. Ci sono poster di donne nude sparsi dappertutto, a ricordarti le gioie e le pene della vita, sottofondo di musica rigorosamente blues, pochi soggetti a riempire uno spazio troppo grande, luci soffuse: questo
diventa il mio personale universo nei giorni e nelle
sere solitarie. È il mio microcosmo mentale solo un
po’ più allargato.
Barry è mio amico, ora.
Prima è stato solo il mio confessore. Io parlavo, lui
ascoltava e mi versava da bere; qualche volta diceva
qualcosa, qualche volta ci prendeva.
Ma dopo questa storia Barry è molto di più. Mi ha
salvato le palle. Mi ha dimostrato cosa vuol dire essere amici. Barry è il più grande psicologo del
mondo.
“Dai Barry, non dire stronzate.”
“Amico ti giochi il cervello, non le palle. È molto
peggio. Stanne fuori.”
“Ho visto tutto quello che un uomo di questo secolo e uno del prossimo potranno mai vedere. Cosa
vuoi che mi spaventi?”
Barry aveva un’aria stranamente seria dipinta sul
faccione da buttafuori e addosso a lui un’espressione
di quel tipo non solo non era credibile, ma risultava
decisamente comica. Come se avesse voluto entrare
in un doppiopetto, lui, la sua pancia, le braccia pesanti e tutto il resto, e fingere di essere un solerte impiegatuccio. Da riderne fino a Natale.
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“Stanne fuori. Lascia perdere, puoi fare altre cose
e sarai bravo ugualmente. Questa è una cosa pericolosa. Ti manderà fuori di testa.”
Non ne sono stato fuori, ovviamente. Correvo
come un pazzo allora. Allora significa la settimana
scorsa, due giorni fa, ieri. Sembra passato, ma è ancora quasi presente. Vita accelerata e tutto il resto.
Pasticche, coca, fumo, alcool. Roba così, roba per
farti stare su. In quel maledetto periodo non ricordo
di aver dormito se non dieci minuti per volta. E il
mondo mi passava sotto come se volassi. Me ne stavo
parcheggiato col culo su qualche nuvoletta psichedelica a nutrirmi di adrenalina, cercando di spingere la
mia immaginazione in territori... sì, in territori del
cazzo. Non c’è nessun territorio là fuori, là dove se ne
stanno gli sballati, là dove me ne stavo anch’io. È
tutta una fottuta e stupida leggenda dei fricchettoni
del secolo scorso, Huxley e compagni. Adesso lo so.
I bastardi stanno continuando ad armeggiare con il
mio cervello, cercando di schiodarlo dallo stand by in
cui si è cacciato. E martellano, continuano a martellare con le loro domande. Domande semplici, ripetute milioni di volte fino allo sfinimento, fino a che
anche io ricomincio a sentirli intorno a me, di ritorno
dalla mia pausa.
“Eri là e questo è un fatto. Lo sappiamo.”
Ho deciso di mettere fine a questa tortura. Dirò
quello che vogliono sentirsi dire e la faremo finita.
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“Va bene. Ero là.”
“A fare cosa?”
“Lavoro, svago, divertimento. Nell’ordine.”
“Lavoro?”
“Sapete che lavoro faccio, no?”
“Uhm, regista.”
“Quello facevo: cercavo idee per il mio lavoro.”
“Senti, amico, non siamo così all’oscuro della tua
vita da non sapere come ti guadagni il pane. Abbiamo
trovato i dischetti. Raccontaci degli occhiali e di tutto
il resto.”
Volevano sapere degli occhiali. Li avrei accontentati. Avevo milioni di cose da dire sui miei magici occhialini. E altri milioni di cose che avrei fatto molta
più fatica a tirare fuori. Ma da qualcosa dovevo pur
cominciare.
“Allora, diciamo che mettevo questi piccoli occhiali scuri e strani. La gente pensava che fossero
proprio una figata. Quasi nessuno sapeva che era lavoro. Un’apparecchiatura sofisticata, una telecamera
e due piccoli microfoni mimetizzati e annegati nella
montatura che neanche a prenderli in mano e a guardarli per benino ti potevi accorgere di qualcosa di
strano.”
“E poi? Perché lo facevi?”
“Perché dopo. Devo finire con gli occhiali. Dunque da soli non servivano ovviamente a molto, ma
erano collegati a un’unità di registrazione via radio.
Ed è per questo che giravo sempre con un lettore cd
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in tasca. Non era quello che sembrava. Non leggeva
cd. Registrava dvd in tempo reale. Praticamente 24
ore di registrazione continua, audio e video in un solo
disco. La mia vita giorno dopo giorno. Perché è questo che facevo. Registravo la vita in tempo reale.
Nessun attore, nessuna finzione, la realtà cruda e volgare. Una volta la mia fidanzata mi chiese se l’aggeggio avesse un interruttore per l’accensione. Non
aveva capito un cazzo. Era stato creato per essere
sempre acceso, non per essere spento.”
Un po’ come me in questi ultimi tempi, sempre acceso.
“Chi ti ha dato quell’apparecchiatura?”
“È un fottutissimo prototipo che ho comprato da un
tipo stralunato di Taiwan. Li faceva lui e li vendeva
via internet. Probabilmente non era neppure illegale,
semplicemente scomodo, un’apparecchiatura del genere avrebbe spiazzato il mercato e le multinazionali.
Per questo il tipo si accontentava della vendita al dettaglio e gli bastava. Simpatica parabola. Lo incontrai
a Hong Kong giusto il tempo di scambiarci dollari e
cosa. Non stava molto all’aria aperta. E anche i suoi
contatti con la fauna terrestre erano scarsi. Io gli diedi
il denaro, lui mi fece vedere gli occhiali e il registratore. In cinque minuti risolvemmo la questione.”
Lo sbirro che ho davanti da qualche minuto dà
segni di impazienza. Non gliene frega un cazzo dei
miei occhiali. È più che chiaro. Lui vuole sapere dei
miei amici e del maledetto dischetto che mi hanno
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trovato in tasca. Quello in cui Lara e i suoi amichetti
si divertono con la tipa bionda.
“La domanda è la stessa di prima: perché?”
“E allora eccoci al perché. A me sembrava ovvio.
Non mi piaceva l’odore di carcassa che emanava l’industria del cinema. All’inizio avevo anche digerito
qualche naturale ipocrisia, poi il mio stomaco aveva
cominciato a fare i capricci. E da allora non avevo più
voluto saperne di Hollywood e delle sue storie senza
storia. C’è solo questo da sapere di quel posto. È il
vuoto, l’illusione assoluta, non esiste nella realtà. E
se non esiste nella realtà a me non interessa. Io nella
realtà ci vivo, calato dentro anima e corpo, tutto
quanto fin nel fango e nel sudore della gente. Se voglio raccontare qualcosa che scuota le persone devo
partire da quello che le turba davvero nella realtà. I
miei non sono documentari. I miei sono film. O meglio storie. Film è una brutta parola sinonimo di pellicola, supporto della registrazione, un luogo comune
tecnico. Al cinema si vanno a vedere storie. Io le racconto con le mie immagini. Vere.”
“Insomma attore, regista, scenografo.”
“Fanculo.”
“Fingerò di non aver sentito.”
“Fanculo lo stesso. Ho imparato la rabbia e ho imparato a usarla verso gli altri. Tu pensi che ce l’abbia
con te, piccolo stronzo? No. Per nulla. Mi serviva
solo scaricare un momentaneo sentimento, uno spasmo sgradevole di emozione che mi hai provocato
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con le tue domande inutili e banali. Non capisci,
vero?”
“Non serve che capisca questo. È tutto il resto che
mi desta sempre curiosità. I fatti, non le cazzate psicologiche.”
Solido come una roccia, ottuso come un boomerang, un bovino arruolato nella polizia. Guardatelo da
te il resto, stronzo.
“Hai tempo, usalo. Guardati il materiale che ho girato.”
“Là dentro ci sono 200 dischi da 24 ore l’uno.
Solo per vederli ci vorrebbero 6 mesi. Non abbiamo
tutto questo tempo. E non ce ne frega niente delle tue
idee sul cinema né ci interessa della tua arte. Vuoi che
ti ricapitoli la situazione? Ci sono tre cadaveri all’obitorio di gente che si accompagnava a te, nelle ultime ore. Gente che ha fatto fuori altra gente nelle ultime ore. Ma questo tu lo sai bene. Perché eri là con
loro. E noi vogliamo sapere come è andata. Tutta
quanta la storia. E poi c’è uno strano video dove compare una ragazza. E sembra che faccia una brutta fine.
Un sacco di cose strane da spiegare, ti pare? Allora ricominciamo...”
“Io non ho ucciso nessuno e se...”
“Nessuno ti ha accusato di omicidio.”
“Allora lasciatemi andare.”
“Solo se ci racconterai tutta la storia dall’inizio.
Ricominciamo? Perché sei andato a quella festa? Perché è lì che li hai conosciuti, vero?”
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“Vi prego basta. Non ne posso più. Ho risposto
alle vostre domande e risposto e risposto ancora.”
“È tuo il video?”
Non può fare più male di così. Tutto quello che
possono ancora farmi sarà niente al confronto. Stare
male dentro, nell’anima, è molto peggio di qualsiasi
prigione.
Gli occhi abbassati, le mani appoggiate sul tavolo,
alzo bandiera bianca.
“Il video è mio.”
“Ci siamo, chiama Carlsson.”
Il poliziotto che mi tortura da non so più quante ore
si rivolge al suo collega per chiamare qualcun altro.
Un superiore penso. Ci siamo allora. Vuoterò il sacco.
Fino in fondo. Ma terrò ben presente le parole di Barry.
Perciò dirò esattamente quello che vogliono sentirsi
dire. Non importa se non sarà la pura verità. A questo
punto non ha più senso che io dica come sono andate
le cose, non gliene frega più niente a nessuno della verità. Per farmi mollare, la mia storia ha bisogno di aggiustamenti. E sono sicuro che quei tre capirebbero.
“Faccio ancora io le domande o vuoi raccontarci
qualcosa tu?”
“Fai le domande. Hai da fumare?”
Mi offre una sigaretta e me l’accende. Intanto entra un altro uomo nella stanza. Carlsson.
“Perché eri andato là?”
La loro attenzione è focalizzata sull’inizio della
storia, sull’unico video che si sono presi la briga di
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guardare. Su quello non posso raccontare palle e
non lo farò se non voglio che mangino la foglia.
Perciò farò attenzione a costruire i miei ricordi da
lì, salvo operare qualche variazione nei momenti
giusti.
“Un amico di Barry mi aveva detto che poteva esserci qualcosa per me. Idee nuove, materiale per
nuovi racconti.”
“Sei andato solo?”
“Sì.”
“E poi cosa è successo?”
“Ho conosciuto alcune persone.”
“Chi erano?”
“Ricordo solo i nomi. Sono loro che hanno monopolizzato le mie ultime ore. Sono loro i tre che avete
all’obitorio. Due uomini, Logan e Frank. E una ragazza, Lara. Sapevano che sarei andato là, mi aspettavano. Mi hanno usato.”
“Usato per fare cosa?”
“Trascinato nel loro mondo. In qualche modo sapevano cosa facevo. Sapevano degli occhiali. Così
hanno fatto tutto con attenzione affinché non mi perdessi neppure un fotogramma dello spettacolo. L’esordio di un gran mucchio di casini.”
“Lo spettacolo?”
“Non era la prima volta che accadeva.”
“Lo sai per certo?”
“No. Me l’hanno detto quei tre. Di sicuro è stata la
prima volta per me.”
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“Di solito a quell’ora sono abbastanza ubriaco da
ricordare a malapena il mio nome. Ma quella notte mi
è rimasta impressa a fuoco nella memoria.”
“Il posto, allora...”
“Il posto si chiamava ‘Ernie’s’ e se non sai che esiste non lo trovi. Io avevo una specie di piantina. Ricordo di essere tornato indietro un paio di volte prima
di imboccare la strada giusta.”
“Chi c’era laggiù?”
“Solita festa, locale regolarmente fuori dal comune, gente noiosamente strana. Dopo dieci minuti contavo di andar via.”
“Insomma stavi per andartene perché ti annoiavi.”
“Esatto. Non sembrava ci potesse essere nulla di
veramente interessante, nulla che valesse la pena cogliere.”
“La piantina. Ce l’hai ancora?”
“No, devo averla buttata all’ingresso. Un posto
basso, una cantina, un seminterrato. Sottoterra insomma.”
“Tutto qua? Una cantina? Non ti ricordi altro?”
Il mio amico sembrava spazientito. Quello che gli
ci voleva era un bell’indirizzo che però io non avevo.
“Sono arrivato in taxi fino a un vicolo, dietro al
grattacielo della Paramount, poi da lì ho seguito le indicazioni sul biglietto, ma non so proprio dove potrei
essere finito.”
“Anche perché eri abbastanza sballato. Fumato,
ubriaco o drogato perso?”
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“Non è il momento del sarcasmo. Ero ubriaco.
Sono stanco, potrei riposarmi ora? Solo qualche minuto.”
“No amico, adesso ci racconti tutto quello che sai.
Hai fatto fin troppi capricci.”
“No, sono io che ne ho abbastanza. Adesso vi racconto quello che so, tutto quello che mi è successo in
questi ultimi tempi. Ci vorrà un po’, ma poi spero che
mi lascerete andare. Parlo io, niente più domande o
interruzioni. Alla fine, solo quando avrò finito, potrete chiedermi qualcosa, ma dubito che resterà ancora
qualcosa da sapere. Come la chiamate voi? Deposizione? Forza, allora, accendete videocamera, registratori e tutto il resto. Portatemi solo una bottiglia
d’acqua e un pacchetto di sigarette. E al diavolo, merdosi, per l’indirizzo di ‘Ernie’s’ vi basta andare indietro nel video che avete. Stupidi e ottusi.”
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