Presidenza dell`Azione Cattolica della Diocesi di Susa

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Presidenza dell`Azione Cattolica della Diocesi di Susa
AZIONE CATTOLICA ITALIANA
Presidenza diocesana - Susa
L'Azione cattolica della diocesi di Susa (Piemonte) esprime solidarietà alle associazioni
diocesane delle regioni Calabria e Sicilia, assicurando la preghiera continua perchè il
Signore dia loro forza in una lotta così difficile contro un male così subdolo ( per lo meno,
questo è quel che si riesce a cogliere vivendo a molti chilometri di distanza).
Come associazione di laici non possiamo non interessarci di tutti i problemi che affliggono
e causano sofferenza alle persone che ci stanno accanto, proprio nello spirito del Concilio
Vaticano II " ...non vi è nulla di genuinamente umano che non trovi eco nel nostro cuore"
(GS )
Noi desideriamo essere particolarmente vicini a tutte le persone che intendono vivere nella
libertà e nella legalità...tanto più che anche nella nostra diocesi gravano seri problemi che
rischiano di compromettere il territorio e la salute di chi vi abita: sul nostro territorio infatti si
vuole costruire l'opera colossale della linea ferroviaria ad alta velocità / capacità.
A tale proposito vi invio una documentazione e riflessione di un membro dell'AC di Acqui
(Piemonte).
Vi ringrazio per l'attenzione e auguro a tutti: buon lavoro
Rosanna Bonaudo, presidente diocesano AC Susa
DALLA TAV ALLA RIFLESSIONE SUL MODELLO DI SVILUPPO
di Claudio Riccabone
1
Cari amici,
la questione TAV sta evidenziando tutta la complessità e le contraddizioni del modello di "sviluppo" del
mondo occidentale.
Sebbene con ritrosia, ne parlo perché sono stato direttamente coinvolto (ancorchè molto marginalmente)
in passato, da un punto di vista professionale, sia in una fase di studi propedeutici al traforo Torino-Lione,
sia per altre opere di questo tipo (TAV Milano-Padova), dove ho potuto sperimentare direttamente
l’effetto "rullo compressore" che la progettazione, valutazione e costruzione di una tale opera esercita sul
territorio. La "battaglia" in corso pertanto, mi interpella profondamente, non solo dal punto di vista
tecnico, ma soprattutto (ormai) credo dal punto di vista "etico", se così si può dire…
Chiedo aiuto e propongo di aprire una sorta di dibattito, anche telematico almeno per ora, non solo su
“TAV si o no”, ma sulle prospettive quantomeno incerte del concetto di sviluppo e di sviluppo sostenibile,
e sul concetto di decrescita, con il quale prima o poi saremo obbligati a fare i conti.
Alcune note specifiche su TAV
Sulla questione TAV credo sia necessario (almeno, io sento forte questo stimolo), per una riflessione
completa, distinguere fra gli aspetti tecnici (siano essi di tipo realizzativo, ambientali in senso stretto o di
convenienza economico-ambientale) e le problematiche legate ad una critica del concetto attuale di
“sviluppo”, in nome del quale si ritengono necessarie le cosiddette “grandi opere”. Fra le problematiche
“tecniche” mi pare si potrebbero evidenziare le seguenti, alcune delle quali oggetto di approfondimenti,
altre forse un po’ trascurate dall’informazione ufficiale:
1.
1
aspetti strettamente tecnico-costruttivi: presenza o meno di sostanze pericolose – amianto,
uranio – nello smarino delle gallerie; problematiche esecutive di una complessità e difficoltà
enormi; creazione di enormi aree da destinare allo stoccaggio dello smarino, che altereranno la
morfologia dei luoghi, con creazione di problemi di stabilità dei versanti, come già verificatosi
lungo una delle Statali della Valsusa; ecc…;
Geologo, per molti anni responsabile parrocchiale e diocesano dell’AC di Acqui - Canelli
2.
problematiche connesse all’impatto ambientale, che credo non possano essere sintetizzate nei pur
approfonditi e complessi studi predisposti nell’ambito delle procedure di VIA. Si pensi, a mero
titolo di esempio:
-
all’inevitabile impatto sulle risorse idriche sotterranee (essenzialmente le sorgenti montane),
che costituiscono patrimonio di tutti, in particolare in un ambiente come quello montano (la
costruenda ferrovia BO-FI insegna molto a tale riguardo);
-
si pensi alla degradazione di molte aree della valle dove verranno installati i cantieri, per un
periodo di tempo stimabile in 10-15 anni (chi si è fatto un giro lungo la TO-Mi, fino all’anno
scorso, si è forse fatto un’idea di cos’è un cantiere TAV);
-
polveri, fumi, rumore, ecc…, in aree "fragili" (piccole borgate, alpeggi, terreni resi coltivabili a
fatica…), in un contesto non di pianura, ma di valle, dove insistono già una ferrovia a doppio
binario, due statali, un’autostrada;
-
rumore, difficilmente rappresentabile da modelli numerici, in corrispondenza alle 12
"finestre" che si aprono sui versanti, alcune delle quali in corrispondenza a centri abitati;
-
la possibile dispersione delle polveri di amianto, dalle discariche delle rocce di risulta degli
scavi (la valle di Susa è nota per essere una delle più battute dal fhoen);
-
la distruzione irreversibile di suoli pregiati, in un’area dove tale risorsa è già naturalmente
limitata.
3.
gli aspetti legati al sistema di trasporto delle merci: nonostante le dichiarazioni ufficiali, i dati del
sistema dei trasporti attraverso le Alpi indicano una sostanziale sottoutilizzazione delle strutture
esistenti (sia ferroviarie che stradali), dell’ordine di circa il 35-40% del potenziale totale! E agli
attuali trend di crescita, sarebbero richiesti circa 50 anni, per giungere alla saturazione (dati
recenti sembrerebbero evidenziare un calo del 9% delle merci transitate per il Frejus!). Si pensi
solo che, nel 2002, il volume totale del traffico merci, attraverso i 6 valichi ferroviari delle Alpi
(Ventimiglia, Frejus, Sempione, Gottardo, Brennero, Tarvisio), è risultato pari a 43,5 milioni di
tonnellate (con un incremento annuo del 3,4% dal 1984); secondo alcune valutazioni economiche
(prodotte su incarico della Comunità Montana Bassa Val di Susa dalla società di ingegneria dei
trasporti Polinomia), i costi di gestione potrebbero essere a pareggio solo se sulla linea
transitassero almeno 40 milioni di tonnellate di merci all’anno: praticamente l’intero volume di
traffico merci ferroviario attualmente esistente attraverso le Alpi (in tutte le direttrici: E-W, S-N,
W-E), dovrebbe essere dirottato lungo la Val di Susa. Questo anche secondo i proponenti, per i
quali la nuova linea dovrebbe a regime smaltire da 40 a 65 milioni di ton di merci/anno: un
modello di sviluppo a crescita continua… Ma cosa dobbiamo ancora trasportare, e come? Il
passaggio da TAV (trerno ad alta velocità) a TAC (treno alta capacità) riguarderebbe proprio la
maggior capacità di trasporto merci: ma che importanza ha guadagnare, su una tratta di 4 o 5
ore, 1 ora di viaggio, se poi le merci stazionano negli interporti per giorni interi? Per quanto
riguarda poi la diminuzione del trasporto merci su strada, per il quale la TAV dovrebbe essere la
panacea, gli stessi progettisti hanno stimato una riduzione di circa 1% (uno per cento!) del
traffico di TIR, in presenza della nuova linea (in effetti, il sistema esistente sulla linea ferroviaria
attuale, di trasbordo dei container su treno, risulta del tutto sottoutilizzato…).
4.
gli aspetti legati al trasporto passeggeri: tutti gli studi indicano un calo della domanda di lunga
percorrenza; inoltre, almeno per la direttrice E-W, le percorrenze medie risultano di circa 8090 km. Il collegamento diretto Torino – Lyon è stato cancellato per mancanza di passeggeri! I
tempi di percorrenza Torino-Parigi (oggi di 5,50 ore) verrebbero ridotti (forse) di 2 ore; l’aereo
continua a rimanere di gran lunga più veloce e probabilmente più conveniente… (ammesso che la
velocità sia un obiettivo da perseguire, a qualunque costo!)
5.
modalità di finanziamento dell’opera: sparita qualsiasi traccia di investitore privato (che si guarda
bene dall’intervenire in un progetto di questo genere, come il fallimento dell’Eurotunnel sotto la
Manica, o come il raddoppio in corso d’opera dei costi degli altri progetti TAV, hanno dimostrato),
il finanziamento deriva (oltre che da un 10% di investimento UE), dalla Società Infrastrutture
S.P.A. (ISPA), che potrà indebitarsi con il sistema creditizio, forte della garanzia dello Stato che,
nel testo della Finanziaria 2003, si è impegnato a coprire gli oneri per il servizio del debito,
qualora gli introiti dei pedaggi non dovessero essere sufficienti. Tutto ciò a partire dall’entrata in
esercizio della linea: quindi, il momento in cui si faranno i conti (e che conti: si veda sempre il
fallimento economico dell’Eurotunnel) viene posticipato di almeno 10-15 anni, e poi dovrà essere
mantenuto per i successivi 50 anni: quindi una seria ipoteca sui bilanci futuri dello Stato. Nel
frattempo sono interamente a carico dello Stato gli interessi intercalari fino all’entrata in esercizio
della linea ed il costo di manutenzione ordinaria e straordinaria per il periodo di sfruttamento
economico (50 anni). E’ peraltro doveroso riportare che la stessa Corte dei Conti (Del.
n.5/2004/G, 24/02/2004), ha certificato che i ricavi dell’attività della linea non saranno sufficienti
per rimborsare il debito contratto, per cui lo Stato dovrà intervenire per indennizzare il gestore.
Un bel modo per ipotecare il futuro bilancio dello Stato, secondo la logica della “privatizzazione
dei benefici e la pubblicizzazione dei costi”.
6.
sottrazione di risorse a RFI (ex Ferrovie dello Stato): il quadro finanziario sopra delineato
evidenzia come la gestione ordinaria delle ferrovie italiane risulterà sempre più deficitaria in
quanto, per finanziare le grandi opere, si devono necessariamente ridurre i servizi ordinari che,
come è noto, sono quelli effettivamente maggiormente utilizzati dalla gente (spostamenti su
tratte brevi, treni per i pendolari…), che diventano costantemente più inefficienti e più soggetti a
incidenti, come le cronache degli ultimi due anni hanno evidenziato.
Ho riportato questo elenco di temi, lungi dall’essere esaustivo, solo per provare a dare un’idea della
complessità delle materie da affrontare, che comunque devono essere portate a conoscenza di tutti.
Viceversa, mi sembra che, nonostante la proclamata volontà di trasparenza, la comunicazione pubblica da
parte delle società che si occupano della progettazione e realizzazione, risulta proprio deficitaria…
Dal TAV alla società della crescita
Ma oltre a questi aspetti, quello che mi parrebbe più significativo, per il “laico cristiano impegnato”, è la
riflessione sul concetto di sviluppo che sta alla base di questa scelta (come di altre che sono state fatte o
che verranno fatte). Non sono certo in grado di addentrarmi in concetti filosofici ed economici, ma un
forte stimolo mi viene dall’esame, sotto l’aspetto delle “leggi della fisica”, dell’idea di mondo sviluppato
che la civiltà occidentale continua a proporre (o ad imporre?).
E seppure le motivazioni etiche e morali (sostenute dalla fede) sono certamente state alla base delle
crescenti perplessità nei confronti di questo modello di sviluppo, mi pare importante considerare anche
alcuni aspetti strettamente “scientifici”, che forniscono delle basi concrete con cui confrontarsi.
Il mondo o meglio, l’umanità (ed in particolare quella ridotta porzione di umanità che ha accesso e
consuma la stragrande maggioranza delle risorse), è diventata uno degli agenti capaci di modificare
l’ambiente in cui vive: “in un tempo brevissimo, se confrontato con il periodo di tempo che ha preceduto
la comparsa dell’uomo sulla terra, la nostra specie ha alterato in modo radicale tutti gli ecosistemi
esistenti, si è riprodotta a una velocità senza precedenti e insieme ha provocato e continua a provocare
l'estinzione di numerose specie animali e vegetali. L’attività umana sulla terra ha anche modificato la
composizione dell'atmosfera fino a generare concentrazioni di gas serra paragonabili, se non addirittura
superiori, a quelle che, in passato, posero fine alle glaciazioni. La Terra è così diventata via via più calda,
più luminosa e più opaca, con gravi rischi per la nostra civiltà. Siamo noi, nel bene e nel male, la variabile
geologica oggi più importante, ed è nostra la responsabilità del futuro del pianeta.” (P.J. Krutzen, 2005).
E questo grazie ad un modello di sviluppo, la società in cui viviamo, che possiamo definire società della
crescita, una società dominata da un'economia improntata al principio della crescita, come obiettivo
primario della vita, se non addirittura il solo. Ma una società di questo tipo non può essere sostenibile, in
quanto si scontra con i limiti della biosfera.
Ma allora, la crescita economica continua è la sola opzione disponibile per vivere bene? Credo che per
primi dobbiamo porci questo interrogativo, non come mera speculazione filosofica, ma come possibile
paradigma di scelte e comportamenti diversi.
C’è una visione opposta, che propone di ridurre gli sprechi e fermare prima o poi questa folle corsa verso
la crescita continua dei consumi. E vale la pena di confrontarsi con il pensiero di uno dei teorici di questo
approccio, così contrario al messaggio mediatico prevalente di oggi: il poco conosciuto matematico ed
economista rumeno Nicholas Georgescu-Roegen, scomparso nel totale silenzio nel 1994.
Il punto fondamentale del pensiero di Georgescu-Roegen è che le leggi dell’economia sono convenzioni
stabilite dagli uomini e non vanno d’accordo con quelle della fisica, stabilite dalla natura. In particolare è
il secondo principio della termodinamica a elevare barriere insormontabili contro l’illusione di un crescita
continua dei consumi (di energia e di materie prime). E’ il principio dell’entropia, che sancisce la
degradazione dell’energia (e della materia) da forme “disponibili” per l’uomo, a forme “non disponibili”, o
talora dannose (come l’inquinamento). La folle corsa ai consumi da parte dell’umanità è vista in realtà
come un più rapido avvicinamento alla nostra fine, allorché avremo basato l’intero nostro stile di vita non
su ritmi compatibili con il rinnovamento delle risorse naturali (in ultimo, compatibili con la capacità della
fotosintesi di intercettare l’energia solare), bensì sul rapace sfruttamento dei limitati forzieri di energia
fossile (come i giacimenti petroliferi).
A questo vanno aggiunte le considerazioni relative alla cosiddetta “impronta ecologica”, definibile come
“l’area totale degli ecosistemi terrestri ed acquatici richiesta per produrre le risorse che la popolazione
umana consuma ed assimilare i rifiuti che la popolazione stessa produce” (W. Rees, 2000).
Se si assume l'impronta ecologica, misurata in termini di superficie terrestre, come indice dell'impatto
ambientale del nostro stile di vita, i risultati che emergono sono insostenibili, tanto dal punto di vista
dell'equità dei diritti di prelievo sulla natura, quanto da quello della capacità di rigenerazione della
biosfera. Un cittadino degli Stati uniti sfrutta in media 9,6 ettari di superficie terrestre, un canadese 7,2,
un europeo medio 4,5. Siamo lontanissimi dall'uguaglianza planetaria, e più ancora da una civiltà
sostenibile, per la quale non potremmo sfruttare più di 1,4 ettari a testa - e per di più con il presupposto
che la popolazione rimanga al livello attuale.
Questi dati non sono il frutto di qualche “testa calda” ecologista, ma sono il risultato degli studi compiuti
da ricercatori internazionali di altissimo livello, che partecipano al Programma Ambiente delle Nazioni
Unite (UNEP), che pubblicano ogni due anni il Living Planet Report (l’ultimo dei quali, da cui provengono
questi dati, è del 2004).
Allora, per un concetto credibile di sviluppo sostenibile, si tratterebbe “di ridurre progressivamente
l'impatto ecologico e l'incidenza del prelievo di risorse naturali, per raggiungere un livello compatibile con
la capacità di carico accertata del pianeta. E certamente, negli ultimi anni, l'efficienza ecologica è
notevolmente migliorata; ma poiché la corsa forsennata alla crescita non si ferma, il degrado globale del
pianeta continua ad aggravarsi. Infatti, se da un lato l'impatto ambientale per unità di merci prodotte è
diminuito, questo risultato è sistematicamente azzerato dall'aumento quantitativo della produzione: un
fenomeno cui si è dato il nome di «effetto rimbalzo». È vero che la «nuova economia» è relativamente
più immateriale (o meno materiale); ma essa non viene a sostituire, bensì a completare l'economia
tradizionale. E tutti gli indici dimostrano che a conti fatti il prelievo continua ad aumentare” (S. Latouche,
2003).
E’ il sistema economico in cui viviamo, allora, improntato al consumismo sfrenato (posso dire sistema
“capitalistico liberista” senza diventare subito – posto che sia un insulto – comunista o peggio, cattocomunista?), che si mostra incapace di dare un senso alla vita sociale che non sia il consumo, lo spreco,
l'accaparramento delle risorse naturali e dei redditi provenienti dall'attività economica e, in fin dei conti,
l'aumento delle ineguaglianze.
Si ritorna quindi, spero con una consapevolezza maggiore, alla considerazione che il nostro modello di
sviluppo non è compatibile con i limiti fisici della terra su cui viviamo e non è compatibile con un’equa
distribuzione delle risorse fra tutti gli uomini, in altri termini crea ingiustizia.
Ecco che il continuare nella logica delle grandi opere, come la TAV, ancorchè coerente con il modello
prevalente di società della crescita, mi sembra nasconda l’incapacità di proporre altre politiche di
sviluppo, altri criteri di valutazione ed indicatori della qualità della vita, che non siano il PIL, il consumo,
lo spreco di risorse.
Ecco perché “la TAV diventa simbolo di una voracità ambientale infinita che le leggi fisiche non
permettono più di sostenere a lungo” (L. Mercalli, 2004).
Allora credo che anche noi dovremmo prendere coscienza di certi problemi, provare ad approfondire certi
temi, alcuni dei quali ho provato a riassumere di seguito, a titolo di esempio:
1.
quali politiche energetiche esistono oggi, in Italia e nel mondo (chi si occupa della famosa “curva di
Hubbert”, in campo petrolifero? Quali sono le prospettive, per un futuro non molto lontano, in cui i
costi di produzione del petrolio supereranno il valore dell’olio estratto?...); non solo in termini di fonti
alternative (per le quali esistono limiti fisici invalicabili…), ma di riduzione degli attuali, forsennati,
consumi;
2.
quali politiche dei trasporti, per disincentivare il traffico privato ed il traporto merci: abbiamo bisogno
davvero di comprare merci che per arrivare sui banchi dei supermercati devono compiere centinaia
di km?
3.
quali scelte possibili per superare l’anacronistico protocollo di Kyoto, dal valore oramai puramente
simbolico, per tentare di invertire l’attuale rotta verso una crisi climatica?
4.
quali politiche agricole, per convertire l’attuale produzione intensiva, che costituisce un drammatico
impoverimento dei suoli, e per diminuirne la sua stretta dipendenza dal petrolio?
5.
quali politiche alimentari, in un mondo in cui, come negli USA, l’80% della produzione agricola non è
consumabile direttamente, ma deve essere “processata”, quindi con ulteriore consumo di energia e
risorse? Ed in cui oltre l’80% della produzione cerealicola non viene utilizzato per scopi alimentari,
ma per l’allevamento di bestiame, destinato a far crescere gli accumuli di grasso nei corpi obesi degli
occidentali?
6.
ecc…, ecc…, ecc…,
Spero di non aver annoiato troppo, ma da tanto tempo queste cose mi risuonano dentro e l’attenzione
verso il problema TAV, con tutte le contraddizioni personali che questo comporta, mi è sembrata una
buona occasione per gettare questo sassolino nello stagno…
Claudio Riccabone