Beatrice BARBALATO - Interférences littéraires
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Beatrice BARBALATO - Interférences littéraires
http://www.interferenceslitteraires.be ISSN : 2031 - 2790 Beatrice Barbalato Il dominio di un io diaristico nel film d’Alain Bergala Cesare Pavese, un écrivain italien (1995) Sintesi I docu-film sulla vita di uomini di lettere tendono a servirsi indiscriminatamente dei testi di uno scrittore, di finzione o testimoniali, presentandoli surrettiziamente sotto l’egida di un io diaristico. L’io sullo schermo non è che la conseguenza di una strategia narrativa. Presento in questo saggio, come exemplum, il caso significativo di Cesare Pavese, autore di due diari Il mestiere di vivere e Il mestiere di poeta e di romanzi principalmente scritti in prima persona. Sul crinale ambiguo fra l’io diaristico e l’io romanzato è costruito il film d’Alain Bergala del ciclo Un siècle d’écrivains. Il saggio che segue è diviso in due parti : la prima riporta i risultati, enunciandone i metodi di ricerca, di uno studio sulle biografie filmiche di scrittori, come se fossero delle autobiografie ; la seconda esemplifica questi dati generali attraverso il docu-film Cesare Pavese (1995). In questa parte vengono paragonati gli scritti autobiografici di Pavese Il mestiere di vivere e Il mestiere di poeta con il film di Alain Bergala che utilizza in voce off ogni fonte come se fosse un espressione testimoniale autobiografica di Pavese stesso. Résumé Les films documentaires sur les hommes de lettres se servent très souvent des textes de l’écrivain, qu’ils soient de fiction ou testimoniaux, en les présentant subrepticement sur le mode du je. Or l’usage du je à l’écran est le résultat d’une stratégie narrative. Dans cet article, nous présentons, à titre d’exemple, le cas significatif de Cesare Pavese, auteur de deux journaux d’écrivain : Il mestiere di vivere et Il mestiere di poeta, et de romans principalement écrits à la première personne. C’est sur la ligne de crête entre le moi et le je fictionnel qu’est bâti le film d’Alain Bergala réalisé dans le cadre du cycle Un siècle d’écrivains. L’étude comporte deux parties : la première expose les résultats d’une étude globale sur les biographies filmiques d’écrivains, présentées comme si elles étaient des autobiographies ; la seconde exemplifie ces données à travers le documentaire Cesare Pavese, un écrivain italien (1995). Les écrits autobiographiques de Pavese sont confrontés au film d’Alain Bergala, qui utilise en voix off n’importe quel extrait comme s’il s’agissait d’un témoignage personnel, sinon intime, de Pavese lui-même. Per citare questo articolo : Beatrice Barbalato, Il dominio di un io diaristico nel film d’Alain Bergala Cesare Pavese, un écrivain italien (1995), in «Interférences littéraires/Literaire interferenties», 9, noviembre 2012, “Le Journal d’écrivain. Les libertés génériques d’une pratique d’écriture”, a cura di Matthieu Sergier & Sonia Vanderlinden, 147-160. 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Le biografie di scrittori sullo schermo come diari Il soggetto che qui tratterò, nel quadro più esteso della tematica delle forme di rappresentazione di biografie di scrittori, riguarda un film per la televisione su Cesare Pavese. Un film che induce ad interpretare i contenuti come se provenissero da un esteso diario di questo autore. In verità le citazioni della voce/delle voci off sono tratte da lavori diversi. Lettere, opere di finzione, diari, vengono utilizzati in modo da porre sotto il cappello dell’io le fonti pur varie di cui Bergala, l’autore del film, si serve. Cesare Pavese, écrivain italien, 1995, 52’ fa parte del ciclo Un siècle d’écrivains1, serie diretta da Bernard Rapp per France 3. Soprattutto negli anni 1990-2005 la creazione di film sulla vita di scrittori è stata considerevole, oggi si investe pochissimo in questo genere che solo qualche anno fa occupava uno spazio significativo nei palinsesti televisivi. In Francia col ciclo Un siècle d’écrivains diretto da Bernard Rapp sono state realizzate 257 biografie di scrittori. Un impegno straordinario. Questi film, su cui si deve esprimere nell’insieme un giudizio positivo, malgrado alcune critiche che è legittimo avanzare, presentano delle caratteristiche comuni che enuncio in sintesi prima di analizzare il film Cesare Pavese, un écrivain italien. Come ogni linguaggio che arriva sulla scena culturale di un universo già esplorato e tende a riprenderne gli stessi moduli (il cinema ai suoi inizi ripercorre i codici della messa in scena teatrale, la fotografia la ritrattistica, ecc.), anche i films biografici televisivi fanno riferimento ai caratteri solidificati di un genere prossimo e preesistente (genus proximus, differentia specifica, dicevano i latini). Nelle realizzazioni di film sulla vita di scrittori si constata la tendenza a riprendere i moduli del realismo letterario, tipico della seconda metà del xix secolo, inscrivendo l’insieme delle informazioni nel solco della testimonianza, nel registro della verità2. Il genere delle video biografie riprende molti dei caratteri dominanti del realismo ottocentesco. Malgrado le ampie variabili che un linguaggio audio-visivo è in grado di esprimere e di esplorare, questi films (e si intende con la parola films anche ciò che si designa come documentario) manifestano la tendenza ad accreditare l’opera di uno scrittore come autobiografica, e lo fanno ripercorrendo le classiche strade del realismo. Sottolinea Watt che l’aspetto che distanzia il significato della parola realismo nel mondo contemporaneo rispetto al mondo antico, è la sua origine filosofica. Gli 1. Un siècle d’écrivains, una serie diretta da Bernard Rapp, France 3, 1995. Il film d’Alain Bergala s’intitola : Cesare Pavese, écrivain italien, 1995, 52’. 2. Riprendo quest’analisi da un mio precedente studio su questo argomento: Beatrice Barbalato, «Il video e l’immagine dello scrittore. L’io legittimante», in Sul palco c’è l’autore, Louvain-la-Neuve, Presses Universitaires de Louvain, 2006, pp. 175-188. 147 Il dominio di un io diaristico nel film d’Alain Bergala universali per la Scolastica erano considerati esistenti prima delle cose, quali classi o astrazioni ; mentre la parola realismo soprattutto a partire dal xvii secolo si applica post res, e soprattutto al particolare. La chiave del realismo – tipica del romanzo ai suoi esordi – tende a dilatare nel tempo gli eventi esaltandone i dettagli. Molti scrittori come Richardson, Defoe, àncorano le esperienze dei personaggi alle circostanze ambientali, esibendo la presenza degli oggetti, come le numerose cianfrusaglie che abbondano nell’isola di Robinson Crusoe, o la molteplice biancheria, i gioielli ‘da contare’, e le varie chincaglierie in Moll Flanders (che – detto en passant – enfatizzano surrettiziamente un capitalismo nascente). L’enumerazione dei particolari presuppone la ridefinizione di un universo fatto di persone, di ambienti, di cose, nominate e situate, una ad una. Un realismo post res che ha la vocazione di rifondare il mondo. «Nel mondo sovraccarico di Funes, non c’erano che dettagli, quasi immediati», scrive Borges in «Funes o della memoria»3. Watt afferma che per produrre l’effetto verità, il realismo dell’Ottocento ha operato : -La dilatazione della descrizione dei dettagli. -La digressione controllata come mezzo per ampliare le conoscenze della realtà. -L’estrema coerenza dei personaggi, e la legittimazione del testo da parte dell’autore. -L’uccisione del desiderio attraverso epiloghi mirati che riconducono l’idealità del racconto ad un senso concretamente realistico (inteso anche nel senso di ‘più conformistico’) della vita. I dettagli diventano ancoraggi per rendere più vera la realtà rappresentata, e l’estrema coerenza del racconto chiude lo sguardo verso qualsiasi smagliatura ed esteriorità. Ciò che viene prospettato è un microcosmo logico e consequente. Molti di questi caratteri li ritroviamo in maniera più o meno ricorrente nei docu-films (principalmente negli anni 1980-2005 della Rai-TV, 1995-2001 di France 3, e nel decennio 1995-2005 di ARTE): 1). Un’idea evolutiva del tempo sostenuta dalle immagini (la continuità versus la discrezione/contiguità), primo elemento di delimitazione di quanto viene illu strato. Cioè vita e produzione letteraria dello scrittore sono allineate lungo l’asse temporale e messe in relazione di continuità. Questa organizzazione della comunicazione è quasi sempre accompagnata da un narratore onniscente dalla voce off, anonima, che, come un deus ex machina, contribuisce ad indirizzare lo sguardo verso la continuità della narrazione, incanalandolo in un unico punto di vista. Nel caso del film su Pavese, che si analizzerà fra breve, si constata come la varietà di citazioni, di menzioni filmiche, di documentazione epi stolare, siano incanalate ad imbuto in una strettoia interpretativa cronologica, che non corrisponde pienamente al carattere dell’opera dello scrittore, prevalentemente 3. Jorge Louis Borges, «Funes o della memoria», in Finzioni, (trad. di Franco Lucentini), Milano, Feltrinelli, 1955, p. 91. Prima ediz., Ficciones, 1944. 148 Beatrice Barbalato ciclica. Un’interpretazione del film indirizzata, inoltre, a spiegare il suicidio come una morte annunciata ab imis fundamentis, e dove gli eventi strettamente personali pesano più dell’ipotesi che il suicidio possa essere stata una scelta culturale. 2). Una tendenza all’etnologizzazione. Procedimento che si concretizza attraverso delle riprese filmiche dei e nei luoghi degli scrittori. Girare a Recanati un ciclo su Giacomo Leopardi, o a Ferrara una trasmissione su e con Giorgio Bassani, ad esempio, è un consueto ed ovvio modo di affrontare l’argomento, che tende, però, ad enfatizzare un realismo a carattere etnografico, ironicamente chiamato Il posto delle fragole (Les fraises sauvages) dal titolo del film di Ingmar Bergman. Lo spettatore è spinto ad identificare i riferimenti geografici delle opere nei luoghi della memoria dello scrittore, cioè dove è nato, dove ha trascorso i periodi ritenuti più significativi della sua esistenza, ecc. In una trasmissione del ciclo Un autore, una città (RAI, 1982), per esempio, Giorgio Bassani viene ripreso nella piana intorno a Ferrara, oppure nel centro della città per illustrare i luoghi di ispirazione di un suo romanzo. Si spinge lo spettatore a identificare i logoi letterari con i luoghi geografici. Bassani non è più un narratore, un interprete, ma è un testimone. 3). Un realismo che tende a far corrispondere dei momenti della vita con degli oggetti concreti della memoria (l’abitazione, la chiesa, il giardino, come vedremo per Cesare Pavese) e trasforma i simboli letterari in delle immagini ipersegniche, riprese filmicamente in primissimo piano. Quando si vuole fare riferimento a un simbolo letterario in Pavese si mostra l’oggetto ingrandito : la luna, i falò, ecc. 4). Un realismo referenziale. Alla maniera di Moll Flanders o Robinson Crusoe gli oggetti vengono dispiegati quali supporti testimoniali della realtà che si racconta. Mentre una voce off legge un brano de Gli indifferenti (Un autore una città, RAI, 1982) si mostrano le scarpe dei passanti in concomitanza al contenuto del testo letto. 5). Si chiamano in causa gli esperti, per avvalorare quanto viene presentato, sollevando lo spettatore da eventuali interrogativi. Proprio come scrive Philippe Hamon : La source-garant de l’information s’incarne dans le récit dans un personnage délégué, porteur de tous les signes de l’honorabilité scientifique : une description médicale sera supportée et véhiculée par la bouche d’un personnage de médecin, une information esthétique par la bouche d’un personnage de peintre, une description d’église ou une information sur la religion à travers le personnage du prêtre, etc…4 Allo stesso modo, nei films che parlano della vita e delle opere degli scrittori ci si appella a degli esperti, a dei critici, per sostenere, sottolineare ciò che si evince con evidenza dalle immagini filmiche. Spesso si tratta di esperti che esprimono opinioni tautologiche. Insomma la ridondanza domina. In una trasmissione su Sandro Penna (Una strana gioia di vivere RAI, 1984) un critico d’arte viene interpellato per parlare dell’attività di mercante d’arte svolta dal 141. 4. Philippe Hamon, «Un discours contraint», in Littérature et réalité, Paris, Seuil, 1973, pp. 140- 149 Il dominio di un io diaristico nel film d’Alain Bergala poeta, ciò che si deduce assai rapidamente osservando le riprese della e nella sua camera da letto e ascoltando le parole dello stesso Penna (nei brani di Il poeta Penna in Umano troppo umano di Mario Schifano 1971). Tanti esempi simili sono menzionabili. Come si è accennato, le costruzioni biografiche in video vengono strutturate in modo da farle apparire delle autobiografie, mettendo in massimo rilievo la documentazione privata. In sintesi : 1) La cronologia apparenta senza distinzione vita e opere di uno scrittore. Il parallelismo fra vicende private e pubbliche, l’utilizzazione degli stessi repertori visivi per la rappresentazione di entrambe, porta a cortocircuitare le une con le altre. 2) Quando l’autore non può essere presente in video (nel caso sia già morto), si persegue l’obiettivo dell’autenticità testimoniale con qualche artificio : col mo strare fotografie o documenti (lettera autografa, testimonianze scritte) ; oppure col far sentire la ‘voce dell’autore’. Come accade – per citare un esempio fra altri – in un ciclo dedicato a Silone (RAI, 1988), dove, oltre all’utilizzazione del materiale di repertorio con vecchie interviste all’autore, gioca un importante ruolo di testimonianza autobiografica la voce off che legge brani delle opere e mostra allo stesso tempo immagini di Silone, inducendo lo spettatore ad identificare automaticamente opera ed autore. Si armonizzano in un continuum diversi registri senza renderli riconoscibili. Gli interventi del narratore spariscono e le inserzioni delle diverse fonti utilizzate diventano irriconoscibili. Proprio come è accaduto, secondo Philippe Hamon, al racconto all’inizio del secolo xix5. Nelle biografia in video di scrittori questo aspetto è ricorrente : registri diversi sono mescolati, competenze scientifiche e brani di fiction sono strutturati in un flusso narrativo con fonti indistinte. E ciò accade anche nella trasmissione di Bergala su Pavese. L’assenza di identificazione delle fonti di archivio e delle datazioni impedisce un’interpretazione circostanziata di ciò che è presentato. 2. Cesare Pavese : il grande affresco autobiografico Quasi tutta l’opera di Pavese si presta ad una lettura autobiografica. Non stupisce quindi che il film di Bergala sfrutti questo aspetto, e che le molte citazioni impiegate vengano fatte apparire come se fossero tratte da un diario di Pavese. La chiave realistica gioca un ruolo importante, tanto più che molte opere di Pavese sono ambientate nei luoghi dove Pavese è nato e vissuto. Prima di mettere in luce la portata di questa ‘manipolazione’, analizzerò quei tratti dell’opera di Pavese menzionati nel film o evocati come se provenissero da materiale autenticamente autobiografico. Questo scivolamente è favorito, come ho detto, dalla produzione letteraria di Pavese stesso. Pavese aveva perseguito durante tutta la sua vita l’obiettivo di diventare una creatura letteraria, di plasmarsi umanamente sulle idee derivanti dalle sue letture. Torinese, laureato in letteratura angloamericana con uno studio su Walt Whitman, esprime una Weltanschauung che tende a forgiare il suo io sulle forme letterarie che più ha coltivato. Il suo giornale di scrit5. Philippe Hamon, Le personnel du roman, Genève, Droz, «Histoire des idées et critique littéraire», 1983, p. 28. 150 Beatrice Barbalato tore Il mestiere di vivere, intende per vivere soprattutto scrivere. E il diario personale si mescola senza soluzione di continuità col giornale di scrittore, quale di fatto è dichiaratamente. In Pavese questa attitudine ad essere una creatura letteraria nelle pieghe più recondite è un a priori, un modus vivendi et operandi, e non un a posteriori, come appare nel film, dove ciò che accade diventa in un certo senso il motore dell’agire di Pavese, e non viceversa. Chi era Cesare Pavese? Se riconosciamo a Italo Calvino, suo amico, una grandissima intelligenza e l’aspirazione ad una radicale innovazione letteraria, un vero e proprio voler voltare culturalmente pagina, si può dire che rinnovare per Pavese sia stato un atto radicato sempre profondamente nella tradizione. Pavese ha studiato, assimilato la letteratura nelle sue forme rare e inattese, senza peraltro subire alcuna influenza dai suoi amici illustri. Leone Ginzburg, Italo Calvino, Natalia Ginzburg, Giulio Einaudi, Carlo Levi, Massimo Mila, Fernanda Pivano, sua allieva e collaboratrice, hanno fatto parte del suo entourage privilegiato. Da questi amici così straordinari, Pavese non è stato stilisticamente influenzato, perché ha soprattutto guardato al di là dell’Italia, anche se non ne ha mai varcato i confini geografici. Ha tradotto Joyce, Defoe, Melville. Ha declinato la letteratura classica, da Omero a Leopardi, con la letteratura nord-americana, dove Herman Melville occupa un posto particolare : «Melville è veramente un greco» ; «[...] il razionalismo platonizzato [...] è stata la vena dove ha più bevuto Melville»6. Una scelta ardita, perché durante il fascismo la letteratura americana era considerata una sub specie della letteratura inglese, e a fortiori una letteratura minore. Per Pavese la letteratura americana fu «il gigantesco teatro dove con maggiore franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti»7. L’America per Pavese è, secondo Italo Calvino, il paese ‘altro’ rispetto soprattutto all’Italia fascista : «I periodi di scontento hanno spesso visto nascere il mito letterario di un paese proposto come termine di confronto, una Germania ricreata da un Tacito o da una Staël»8. I due testi di Pavese a dichiarato intento autobiografico sono Il mestiere di poeta e Il mestiere di vivere. Come definirli ? Guglielminetti chiama il MV9 «giornale di idee»10, avvicinandolo allo Zibaldone di Giacomo Leopardi. Dare una definizione di quest’opera non è facile : giornale di scrittore, giornale di idee, giornale letterario11? Tutte queste definizioni messe insieme ? Alimentata da note personalissime che rendono quest’opera a volte vicina al diario intimo, il MV è stato pubblicato nel 1952, due anni dopo il suicidio di Cesare Pavese avvenuto nell’agosto 195012. Il corpus del MV è costituito principalmente da riflessioni 6. Cesare Pavese, «Herman Melville, il baleniere letterato», in La letteratura americana e altri saggi, pref. di Italo Calvino, Torino, Einaudi, 1951, pp. 75-77. 7. Cesare Pavese, «L’influsso degli eventi», in La letteratura americana e altri saggi, op. cit., p. 247. 8. Italo Calvino, «Prefazione», in Cesare Pavese, La letteratura americana e altri saggi, op. cit., p. xiii. 9. Da qui in poi la sigla MV sta per Il mestiere di vivere. 10. ���������� Marziano Guglielminetti, «Attraverso Il mestiere di vivere», in Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, Torino, Einaudi, 2000, p. lii. 11. Pierre-Jean Dufief (a cura di), Les journaux de la vie littéraire, Presses Universitaires de Rennes, 2009. �������������������������������������������������������������������������������������� Questo libro analizza le differenze terminologiche in rapporto ai vari generi autobiografici. Per il giornale letterario, più che per altre forme diaristiche letterarie, la parola «extime» di Michel Tournier appare molto appropriata. 12. ���������������������������������������������������������������������������������������� Questa prima edizione presenta delle censure su alcuni passaggi soprattutto quelli che menzionano i nomi di persone contemporanee a Pavese, e inoltre sono state soppresse delle frasi 151 Il dominio di un io diaristico nel film d’Alain Bergala di carattere estetico. La parola mestiere Pavese l’aveva utilizzata in un altro lavoro «Il mestiere di poeta» (1934, pubblicato nella seconda edizione di Lavorare stanca) : [La mia attività mi ha rivelato ] : il mestiere dell’arte e la gioia delle difficoltà vinte, i limiti di un tema, il gioco dell’immaginazione, dello stile, e il mistero della felicità di uno stile, che è anche un fare i conti con l’ascoltatore o lettore possibile. E insisto in specie sulla lezione tecnica di questa mia ultima attività, perché gli altri influssi, cultura nordamericana ed esperienza umana, sono troppo facilmente comprensibili nell’unico concetto di esperienza che tutto, e quindi nulla, spiega.13 La questione dell’identità non è mai rapportata da Pavese a un individualismo soli psistico. Il mestiere di vivere è il mestiere di poeta : «Ero risalito (o mi pareva) alla fonte prima di ogni attività poetica, che avrei potuto così definire : sforzo di rendere come un tutto sufficiente un complesso di rapporti fantastici nei quali consista la propria percezione di una realtà»14. Cesare Pavese ricorre all’uso della prima persona in numerose opere, cosa che ha alimentato la tendenza a interpretarle come espressione diretta della sua vita privata, quasi come un esteso diario intimo. Si è parlato dei personaggi dei suoi romanzi come degli alter ego15. Si tratta di un equivoco, perché come più volte ha detto Calvino, anche se l’opera di Pavese si puó leggere in chiave autobiografica, essa è principalmente legata alla pratica del suo lavoro di scrittore, articolata sangue e ossa sul suo mestiere16. La formazione letteraria è stata il fine che Pavese ha perseguito con accanimento durante tutta la vita e lo ha portato anche a riflettere sulla fondamentale importanza delle azioni reiterate, quelle che puntualmente ritornano, sottraendo all’io il senso di una potenza che può essere autogenerata : «Ci vogliono miti universali, fantastici, per esprimere a fondo e indimenticabilmente quest’esperienza che è il mio posto nel mondo»17. Nulla di personale non si traduce in Pavese in espressione letteraria. Le sue poesie-racconto, la sua prosa poetica, rifiutano apertamente l’ermetismo e il carattere frammentario (registri poetici molto in auge all’epoca) e privilegiano, in modo particolare a partire da Lavorare stanca (1936), dei versi di lungo respiro che fanno pensare a delle ballate popolari e all’epica. In altre parole, se si può pensare a una scrittura autobiografica, la si deve ricondurre a un io epico, un io culturale, volutamente e consapevolmente così interpretato. Non si tratta mai di un io lirico, come lo stesso Pavese sottolinea. Il commento d’Italo Calvino a La luna e i falò, considerato il romanzo più autoreferenziale di Pavese, è molto significativo. Nomen omen : Nella luna e i falò il personaggio che dice ‘io’ torna ai vigneti, al paese natale dopo aver fatto fortuna in America [...] . Non a caso è un ‘io’ senza nome : è un trovatello d’ospizio, è stato allevato da agricoltori poveri come mano d’opera troppo crude. Cesare Pavese (Italo Calvino, Natalia Ginzburg, Massimo Mila, a cura di), Il mestiere di vivere, Torino, Einaudi, 1952. 13. �������� Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, op. cit., p. 5. 14. Ibidem. 15. �Cf. Franco Vaccaneo, Cesare Pavese, una biografia per immagini : la vita, i libri, le carte i luoghi, Cavallermaggiore, Gribaudo, 2000. 16. ������� Italo Calvino «Prefazione», in Cesare Pavese, La letteratura americana e altri saggi, op. cit., p. xi. 17. �������� Cesare Pavese, «Lettera a Fernanda Pivano» (Santo Stefano Belbo, 27 giugno 1942), in Cesare Pavese (Lorenzo Mondo, a cura di), Vita attraverso le lettere, Torino, Einaudi, 1966, p. 180. 152 Beatrice Barbalato d’infimo salario ; e si è fatto uomo emigrando negli Stati Uniti, dove il presente ha meno radici, dove ognuno è di passaggio e non ha da rendere conto del suo nome.18 2.1. Il suicidio di Cesare Pavese Poco tempo prima del suo suicidio «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi»19, sembra già presagire la fine. «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi-/questa morte che ci accompagna/dal mattino alla sera, insonne,/sorda, come un vecchio rimorso/o un vizio assurdo [...]». «Si potrebbe dire che P. si sia ucciso quando la nicchia in cui si era infilato con i suoi pensieri si restrinse fino a togliergli il respiro […]»20. Una morte accarezzata, annunciata, senza dubbio scelta, come testimoniano il suo epistolario21 e il MV. Lo stesso titolo Il mestiere di vivere lascia intendere la fatica e l’artificio del vivere. Questo percorso tragico Pavese lo ha costruito poco a poco con la precisione di un orologio svizzero. Il mestiere di poeta che è il mestiere di vivere, e viceversa, si conclude, anche se con dolore, allorquando il mandato termina. «In dieci anni ho fatto tutto » (MV, 17 agosto 1950). «Anno serissimo, di definitivo e sicuro lavoro, di acquisita posizione tecnica e materiale. […] Difficilmente andrai più in là» (MV, 31 dicembre 1948). Il suicidio di Pavese finisce col marcare inevitabilmente, in una lettura a ritroso, tutta la sua vita e le sue opere. Possiamo associarci alle parole de Il narratore22 di Walter Benjamin, che designa la morte come il termine ad quem che permette di leggere tutta una vita alla luce della sua fine. Questo termine ad quem viene correntemente semplificato al massimo e diventa una chiave di lettura delle sue sconfitte amorose, del malessere per non aver partecipato attivamente alla Resistenza, dove più di un suo amico aveva trovato la morte. Le sue difficoltà sessuali, la sua virilità23, così mal vissuta, accentuano, certo, la sua tristezza. Per Segre, si tratta anche di una forma di «claustrofilia, che esclude i riferimenti troppo precisi e contingenti alla realtà»24. Al suicidio il MV fa reiteratamente riferimento come possibile scelta esistenziale (tra altre affermazioni : «È più spiacevole morire vecchi che giovani», MV 29 18. ������ Italo Calvino, «Pavese e i sacrifici umani», in Saggi, V. 1, Milano, Mondadori, Meridiani, 1995, p. 1231. 19. ������������� La raccolta Verrà la morte e avrà i tuoi occhi è composta da dieci liriche di cui due in inglese, ritrovate dopo la sua morte in un dossier rosso. Cesare Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Torino, Einaudi, 1981. Le liriche sono state scritte fra l’11 marzo e il 10 aprile 1950. 20. Cesare Segre, « Introduzione », in Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, op. cit., p. xix. 21. ���������������������������������������������������������������������������������������������� Pavese scrive nell’agosto 1959 in una lettera a Pierina (nomignolo di Romilda Bollati) : «Io sono, come si dice, alla fine della candela», in Cesare Pavese (Lorenzo Mondo, dir.), Vita attraverso le lettere, op. cit., p. 257. «Well, Doris, from Saturday to Monday 8-10th, I’ll pay a visit (the last one) to my contry», «Lettera a Doris Dowling», 6 luglio, 1950. Negli ultimi mesi della sua esistenza, si può dire che ogni lettera contenga una frase che allude alla sua futura morte. 22. Walter Benjamin, «Le narrateur. Réflexions sur l’œuvre de Nicolas Leskov», in Essais 2 19351940, tradotto da Maurice De Gandillac, Essais 1935-1940, Paris, Denöel et Gontier, 1983/1971, p. 68. Il saggio è stato scritto nel 1936. Prima ediz. Frankfurt, 1955. 23. Anche se Pavese ci tiene a definire come «virile» soprattutto la sua attività. http://www. classicitaliani.it/pavese/pavese002.htm. p. 5. Cesare Pavese, «Il mestiere di poeta», in Lavorare stanca, Torino, Einaudi, 1943. 24. Cesare Segre, «Introduzione», in Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, op. cit., p. xvii. 153 Il dominio di un io diaristico nel film d’Alain Bergala marzo 1939). Il suicidio insomma è visto come scelta, ciò che non esclude che Pavese non vivesse un’autentica disperazione esistenziale25. L’insieme di fogli di MV fu lasciato da Pavese in un dossier verde fra le sue carte, su questi vi aveva aggiunto una pagina col titolo Il mestiere di vivere. Diario 1935-195026. Il 17 agosto 1950 Pavese scrive : «Questo è il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò». Il MV, anche se fa allusione a fatti privati, non può essere interpretato come un quaderno di confidenze. È un’opera letteraria con un tono sempre scelto, che si apparenta in parte alle sue lettere, che costituiscono intenzionalmente e, in modo predominante, degli esercizi di stile. Questo diario si caratterizza come opera letteraria per tante ragioni : 1). Si ispira allo Zibaldone di Giacomo Leopardi, un’opera di riferimento per i diari di scrittore italiani ; a Mon cœur mis à nu e ai pensieri di Fusées de Charles Baudelaire, autore più volte citato nel MV. Al Secretum (De secreto conflictu mearum curarum) di Petrarca fa allusione la prima parte dell’opera (6 ottobre 1935 - 28 febbraio 1936) che Pavese aveva intitolato appunto Secretum professionale. 2). Pavese aveva la volontà di rendere pubblico il suo diario. Prima di morire ha lasciato i fogli di MV tutti in ordine. E molte frasi dell’opera inducono a pensarlo27. 3). Pavese muore lasciando scritto sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò28 : «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene ? Non fate troppi pettegolezzi ». Parole ispirate a Vladimir Majakowski : « Se muoio non accusate nessuno. E per favore, niente pettegolezzi». 4). Le ultime parole de Il mestiere di vivere (18 agosto) calibrate e lapidarie dicono : «Niente parole. Un gesto. Non scriverò più». Sintagmi asintetici, una lista di termini senza congiunzioni. Un congedo dalla scrittura, che corrisponde tout court in Pavese alla vita. La sua morte fa parte di un percorso letterario, dove il suicidio costituisce un momento che l’essere umano può culturalmente scegliere, sulla base di un pensiero filosofico principalmente stoico, come Pavese ha scritto più volte nel MV. 2.2. Il tempo, la vita, il racconto Man must endure His going hence e’en as his coming hither. Ripeness is all.29 Il film di Bergala utilizza in modo servile passi di differenti opere messe insieme come per comporre un puzzle raffigurante il suicidio. Riprendiamo dunque per paragonarli col film, alcuni fili portanti del suo lavoro letterario, che vengono 25. �Ibid., pp. xx-xxi. 26. �������� Cesare Pavese, Il mestiere di vivere 1930-1950, op. cit., ediz. del 1952. 27. �������� Cesare Segre, «Introduzione», in Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, op. cit., p. vii. 28. I Dialoghi con Leucò : Una serie di ventisei racconti brevi strutturati in forma dialogica. Opera scritta dal 1945 al 1947, pubblicata nel 1947. Nel maggio 2007, Jean-Marie Straub ha messo in scena al teatro Francesco di Bartolo di Buti in provincia di Pisa un adattamento de La Belva, sesta conversazione dei Dialoghi con Leucò. 29. ��������� William Shakespeare, King Lear, citato da Cesare Pavese, «L’arte di maturare», in La letteratura americana e altri saggi, op. cit., p. 330. 154 Beatrice Barbalato semplificati nell’interpretazione filmica. In Pavese è presente un’idea del tempo sinonimo di un processo continuo di letterarizzazione : «In fondo tu scrivi per essere come morto, per parlare da fuori del tempo, per farti a tutti ricordo. Questo per gli altri, ma per te ? Essere per te ricordo, molti ricordi, ti basta ? Essere Paesi tuoi, Lavorare stanca, il Compagno, i Dialoghi, il Gallo ?». (MV, 10 aprile 1949). In più punti nel MV, ritorna la nozione d’après coup (cf. le riflessioni del MV del 22 e 27 febbraio 1940). Il giornale servirebbe a tradurre l’esperienza bruta in esperienza teorica che osserva il post factum, in termini vicini alla psicanalisi. Tutto è come echizzato da Pavese. Egli aveva letto Freud30 e Jung, e conosceva L’erreur de Narcisse (citato nel MV il 9 ottobre 1939) dell’esistenzialista e spiritualista Louis Lavelle31. Forse la problematica di Narciso, la sua autoriflessività ha interessato Pavese, che si dà del tu e crea così il suo doppio. «Passavo la sera seduto davanti allo specchio per tenermi compagnia...». (MV, 6 novembre 1938) Pavese si mette in scena rinchiuso in un cerchio che gira fra l’io e il tu/io. Uno sdoppiamento frequente nei diari di scrittori, come scrive Béatrice Didier32. «L’infanzia non conta naturalisticamente, ma come occasione al battesimo, battesimo che ci insegna a commuoverci davanti a ciò che abbiamo battezzato». (MV, 15 giugno 1943) Per Pavese valorizzare il momento infantile significava anche lottare contro il lato ossessivo del suo accanito lavoro. «L’unica gioia al mondo è cominciare». (MV, 23 novembre 1937) Un’idea che risuona ne La luna e i falò, quando sottolinea che diventare adulti significa andarsene, morire, cioè non riuscire più ad avere l’attitudine mentale ed emotiva del ri-cominciare. I due temi dell’infanzia e della magia s’intrecciano, e Pavese condivide con Calvino l’idea che vi sia una scoperta nella ripetizione : «La poesia è ripetizione, è venuto a dirmelo Calvino». (MV, 10 gennaio 1950) «Quel che accade una volta accade sempre». (MV, 27 ottobre 46) Una frase ripresa nel film di Bergala. La ripetizione è anche la natura del simbolico « Quel che è stato, sarà» (MV, 7 dicembre 1945). E, sotto l’influenza di Frazer - Pavese era responsabile per la casa editrice Einaudi della cosiddetta «collana viola» (Collezione di studi religiosi et etnologici e psicologici) -, scrive : «L’accadere una volta per tutte di un fatto mitico che esprime un evento ciclico del cosmo (ratto di Core) è analogo all’espressione che si dà, in arte, a una molte volte ripetuta esperienza di paesaggio, gesto, evento. Quante volte hai osservata la collina di Quarti e Coniolo prima di esprimerla ?» (MV, 3 agosto 1946). L’idea di una ciclicità è presente e riconduce continuamente la diacronia a un livello più elaborato costituito dalla sincronia. Un’idea di costruzione che va al di là della successione, come scrive Cesare Segre nel menzionare degli studi che focalizzano questo aspetto33. Anche la scelta dei tempi verbali contribuisce a creare questa 30. ��������� Giuditta Isotti Rosowsky, Pavese lettore di Freud. Interpretazione di un tragitto, Palermo, Sellerio, 1989. 31. ���������� Marziano Guglielminetti, «Attraverso Il mestiere di vivere», in Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, op. cit., p. xlv. 32. Béatrice Didier, «L’invention du moi», in Le journal intime, Presses Universitaires de France, 1976. 33. �������� Cesare Segre, «Introduzione», in Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, op. cit., p. vii. Segre si riferisce ad Anco Marzio Mutterle, «Contributo per una lettura del Mestiere di vivere», in AA.VV., Profili linguistici di prosatori contemporanei, Padova, Liviana, 1973, pp. 392-393. Mutterle parla di unità fra il piano diaristico e quello del discorso, che garantisce la continuità del testo a un livello sotterraneo. 155 Il dominio di un io diaristico nel film d’Alain Bergala distinzione, a eternizzare le storie impiegando l’imperfetto indicativo, a portarle nell’ intemporale come accade ne La luna e i falò : «ero rivenuto, avevo fatto fortuna, sembrava. Sapevo già tutto, sapevo e piangevo». Questo congedo di Natalia Ginzburg, scritto appena dopo la morte, delinea un ritratto molto significativo di Pavese : Era, qualche volta, molto triste : ma noi pensammo, per lungo tempo, che sarebbe guarito di quella tristezza, quando si fosse deciso a diventare adulto : perché ci pareva, la sua, una tristezza come di ragazzo - la malinconia voluttuosa e svagata del ragazzo che ancora non ha toccato la terra e si muove nel mondo arido e solitario dei sogni. Qualche volta, la sera, ci veniva a trovare ; sedeva pallido, con la sua sciarpetta al collo, e si attorcigliava i capelli o sgualciva un foglio di carta ; non pronunciava, in tutta la sera, una sola parola ; non rispondeva a nessuna delle nostre domande. Infine, di scatto, agguantava il cappotto e se ne andava. Umiliati, noi ci chiedevamo se la nostra compagnia l’aveva deluso, se aveva cercato accanto a noi di rasserenarsi e non c’era riuscito ; o se invece si era proposto, semplicemente, di passare una serata in silenzio sotto una lampada che non fosse la sua. [...] Diventavamo, in sua compagnia, molto più intelligenti ; ci sentivamo spinti a portare nelle nostre parole quanto avevamo in noi di migliore e di più serio ; buttavamo via i luoghi comuni, i pensieri imprecisi, le incoerenze.34 2.3. Il suicidio di Pavese nella trasmissione di Bergala La trasmissione di Bergala struttura il percorso biografico, tanto articolato e complesso di Pavese, come nelle linee essenziali messe in luce, sulla base delle citazioni tratte da suoi diversi testi, presentandole come tratte da un suo diario, operazione facilitata, come si è visto, dalla stessa opera dell’autore35. In realtà le analisi delle opere di Pavese come Lavorare stanca mostrano come l’io del poeta sia piuttosto l’effetto di connessioni a distanza36, come ha ben messo in evidenza Anco Marzio Mutterle. L’io di Lavorare stanca (e si potrebbe estendere questa stessa riflessione alle altre opere) è assoggettato a una articolazione macrotestuale37. E anche se MV è un diario, dunque sottomesso alla cronologia, pertanto non suscettibile d’essere tessuto come un’opera di ‘finzione’, si trovano nondimeno delle ricorrenze, dei fili rossi dall’inizio alla fine, dei macrotesti che l’attraversano. Il film di Bergala utilizza l’opera di Pavese per farne un affresco autobiografico filmico. Non è il solo a utilizzare questa tecnica, che costituisce una tendenza ricorrente nelle trasmissioni sulle biografie di scrittori. Il suicidio facilita questa lettura teleologica. Ma, come Pavese stesso aveva detto l’anno della sua morte : «Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla» (MV, 25 marzo 1950). «[...] Vivere senza scrivere non vivo»38. Cioè le sue sconfitte amorose, i suoi problemi sessuali non 34. ��������� Natalia Ginzburg, «Ritratto d’un amico», in Le piccole virtù, Torino, Einaudi, 1962, p. 28. Pubblicato nel 1957 sul «Radiocorriere». 35. Laurence Pieropan, «L’influence de l’autobiographie dans l’émission télévisée consacrée à l’écrivain Cesare Pavese», in Beatrice Barbalato (a cura di), Les écrivains en vidéo, Bruxelles, Émile Van Balberghe Libraire, 1999, pp. 53-64. 36. ������������� Anco Marzio Mutterle, I fioretti del diavolo. Nuovi studi su Cesare Pavese, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2003. 37. ������ Bart Van Den Bossche, Tra narrativa e poesia : dal primo al secondo Lavorare stanca, in «Mosaici», Special Issue, Parole, immagini, racconti. Cinque saggi su Cesare Pavese poeta, in commemorazione del suo centenario, Rossella Riccobono (a cura di), Giugno 2011. 38. �������� Cesare Pavese, «Ad Aldo Camerini, Venezia» (Torino, 16 giugno 1950), in Cesare Pavese (Lorenzo Mondo, a cura di), Vita attraverso le lettere, op. cit., p. 250. 156 Beatrice Barbalato sono sufficienti a spiegare il gesto estremo, se non nel suo essere un uomo di cultura a 360°. Il libro di Dominique Fernandez L’échec de Pavese (1968) riporta la sconfitta ad un’analisi psicanalitica legata esclusivamente ai suoi problemi intimi, e non rende del tutto merito, mi sembra, alla complessa figura dello scrittore. 2.4. Denominatori comuni Riporto di seguito i punti salienti del film. Bernard Rapp prima dei titoli di testa dice : «Non resta alcun documento sulla sua vita», ciò che è evidentemente falso, perché esistono testimonianze di amici, le sue lettere, una documentazione esauriente. Si tratta, dice Rapp, di un tête à tête fra Bergala e Pavese. Se questo aspetto è in effetti presente nel film, si tratta con evidenza della ricostruzione di ‘un’intimità’ ad usum delphini. La sequenza di apertura parla del ritorno a Santo Stefano Belbo di Pavese a quarant’anni e offre una panoramica da una finestra che è quasi identica all’ultima : la finestra della camera dell’hotel di Torino in cui Pavese si è suicidato. Sin dall’inizio gli amori, da quelli giovanili in poi, sono presentati come un desiderio che poi si rivela per Pavese irrealizzabile. Così accade anche per la presentazione delle sue convinzioni politiche : antifascista, sostenitore di autori impegnati politicamente, istigatore per giovani allievi a combattere nella Resistenza, Pavese non si impegna in nessuna azione concreta contro il fascismo. Non firma nel 1929, ad esempio, la lettera a favore di Benedetto Croce (12’ 39’’), che si era espresso negativamente riguardo al Concordato fra Stato e Chiesa dell’11 febbraio 1929. Per questo rifiuto Croce fu accusato da Mussolini di essere “un imboscato della storia”. Questo momento della vita di Pavese nel film viene ricordato come un peccato di gioventù, avendo Pavese solo 21 anni. Il suicidio di un suo amico Baraldi (13’42’’), spinge Pavese a replicarne il gesto. I tentativi di suicidio di Pavese stesso sono puntualmente citati nel film. Un altro amore evocato è quello mancato per Tina Pizzardi, comunista clandestina che gli chiede di ricevere a casa sua delle lettere compromettenti. Pavese accetta. Intercettato dalla polizia politica viene processato e mandato al confino a Brancaleone Calabro nel 1935 (18’35’’), sconterà dietro una domanda di grazia solo otto mesi. Traccia di questo periodo si trovano nel racconto Il carcere, protagonista Stefano, di cui vengono letti dei brani in prima persona in voce off. Tornato a Torino apprende che Tina sta per sposarsi. Tenta il suicidio (lettura di brani tratti da La Prigione e Paesi tuoi ). Conosce Fernanda Pivano che diventerà una scrittrice famosa e grande esperta di letteratura americana, traduttrice dall’inglese per la casa editrice Einaudi (25’). La corteggia durante 5 anni. Lei sposa un altro. Nella prima pagina di Feria d’agosto scrive «In memoria / † / 26 luglio ’40 - 10 luglio ’45» : le due date in cui l’ha chiesta in matrimonio. Nel settembre ’43 i nazisti occupano la città di Torino. Pavese si rifugia a Casale Monserrato e fa l’istitutore per un Collegio religioso dove passa il tempo conversando di temi teologici. Alcuni suoi amici muoiono : Leone Ginzburg decede in prigione sotto tortura, Giaime Pintor e Gaspare Paietta giovanissimi muoiono nello scontro con i nazisti (30’ e oltre). In aprile il nord Italia è liberato. Pavese torna a Torino. Non viene risparmiato dalle critiche quando si iscrive al Partito comunista, perché questo atto viene inteso come una scelta tardiva, non avendo parteci157 Il dominio di un io diaristico nel film d’Alain Bergala pato Pavese attivamente alla Resistenza. Presso la succursale Einaudi a Roma conosce Bianca Garufi, segretaria nella stessa casa editrice. Nuovo fallimento amoroso. A Torino, città nel film definita metafisica, alla De Chirico, la voce off parla di Pavese come uno straniero nella sua stessa città. Brani tratti da diverse opere vengono detti dalla voce fuori campo in prima persona (35’-38’). Riflette sui suoi amori mancati, «quello che è stato, sarà» (33’11’’) dice la voce di Pavese, una frase già segnalata precedentemente in una didascalia (11’5’’). Per dire che l’esperienza fallimentare si reitera e si reitererà. E ancora questa frase ritorna quando la voce off afferma che la vita di Pavese e i personaggi de La luna e i falò si identificano (44’10). 1949 : Siamo a Santo Stefano Belbo. Un tono malinconico accompagna la panoramica su paesaggi, case, vigneti, illustrati da letture presuntamente autobiografiche. Immagini che sottolineano il ritorno all’infanzia e al simbolico. Viene mostrata la medesima inquadratura di una finestra, come nella prima sequenza su Santo Stefano Belbo. Sabato 26/08/1950, hôtel Roma, dopo varie chiamate telefoniche, andate deserte, Pavese si suicida. Ciò che caratterizza il film, come ho spiegato, è l’intenzionalità di dirigere verso un solo punto, il suicidio, il racconto della vita di Pavese. Ad una voce off che racconta la biografia, si articolano i brani dove è Pavese che parla in prima persona. Nel film non si specificano le fonti dei brani menzionati, che sono tutti espressi alla prima persona singolare, dando l’impressione allo spettatore di provenire da un diario. Vi è poi un’elementarizzazione della portata letteraria. Lo sguardo indagatore infantile di Pavese si traduce nel film in simboli rudimentalizzati, mentre sin dall’inizio il film vuole proporsi come un’indagine che dirà cose nuove sullo scrittore. Altre semplificazioni sono presenti nel film : 1). Non vengono segnalate quasi mai le fonti delle citazioni. E soprattutto non è sempre chiaro dove queste cominciano e dove finiscono; inoltre la struttura cronologica che ritma il racconto inizia e termina nei luoghi dell’ infanzia. 2). La logica del discorso viene eccessivamente essenzializzata : per esempio quando si parla della polmonite di Pavese, presa per aver atteso inutilmente sotto la pioggia e al freddo una ragazza, si fa vedere un gatto nero ! 3). Per avvalorare la stretta logica del peso del destino si getta, senza inquadrarla in un contesto discorsivo, la frase di Pavese già citata : «Ciò che succede una volta, succede sempre», che aggrava il senso di necessità che accompagna il racconto. E inoltre : 1). L’uso di tre diverse voci off è indiscriminato. Avevo supposto ad una prima analisi del film che una logica governasse l’utilizzazione delle voci : una voce per MV, una voce per le citazioni tratte dai romanzi (dunque per i registri di finzione) ; 158 Beatrice Barbalato una voce per le lettere. Invece il passaggio da una voce ad un’altra è del tutto accidentale. 2). I tratti simbolici sono elementarizzati : il fuoco, la luna, la campagna, re stano le immagini referenziali che vorrebbero assurgere a simboli, queste immagini sono solo ingrandite, come degli ‘oggetti’ ripresi in primo piano. 3). La voce di alcuni personaggi è assimilata a quella di Pavese, come nel caso del personaggio di Nuto de La luna e i falò. Alla fine, al 44’, uno dei narratori dice «En ce roman [N.B. : La luna e i falò] la boucle est bouclée», chiudendo esplicitamente il cerchio fra la vita e l’opera. 2.5. Una certa idea dell’Italia C’è un altro aspetto del film da mettere in luce, e che menziono a latere, e riguarda la prospettiva di un autore francese, Alain Bergala, che guarda la cultura italiana col suo mirino, dove grande importanza hanno nel caratterizzarla la musica, il cinema, la cultura popolare. È certamente anche per questo che una parte significativa di musiche di sottofondo sono quelle di Paolo Conte (musicista, cantautore, anche lui piemontese), e da immagini documentaristiche o filmiche topiche. Delle canzoni politiche emotivamente forti vengono menzionate. Sui versi : «Hitler e Mussolini sono stati due assassini...», della canzone «Popolo del paese», della raccolta Il canto dei mendicanti di Matteo Salvatore si dispiegano le immagini della Resistenza e della guerra. (27’10’’)39. Diverse sequenze di film celebri sostengono in modo forte il registro visivo : Due soldi di speranza di Goffredo Alessandrini, per le scene di una giovane donna nei campi a Brancaleone Calabro, 24’33’’; Ossessione di Luchino Visconti nella scena di un uomo con cappello che si avvia verso un negozio (16’43); Il grido di Michelangelo Antonioni : l’uomo accappottato su un carrello di treno con una bambina in braccio (16’21) ; We living (Noi vivi) di Goffredo Alessandrini ; Quattro passi tra le nuvole di Alessandro Blasetti (42’43) ; Paisà per delle immagini tratte dalle sequenze sulla Resistenza nella città di Firenze (31’18)40. Citazioni di films straordinariamente significativi sulla condizione sociale e le attese degli italiani, durante gli stessi anni, più o meno, in cui è vissuto Pavese. * * * Le trasposizioni in video di diari di scrittori si concretizzano secondo modalità spesso topiche, dove viene enfatizzato il carattere realistico e testimonialmente autobiografico del lavoro letterario dello scrittore. Nel caso di Cesare Pavese, se le tecniche di reiterazione nella sua opera riportano sempre a zero la nozione di cronologia, il film di Alain Bergala, invece, costruisce un percorso che fa apparire il suicidio come neces39. �������������������������������������������������������������������������������������������� I minuti e i secondi che sono stati segnalati in questo saggio, possono variare, seppur di poco, a seconda degli apparecchi utilizzati. 40. ������������������������������������������������������������������������������������������������� Tutte le fonti sono segnalate nei titoli di coda, non nei sottotitoli durante lo scorrere delle sequenze. L’identificazione delle citazioni filmiche è dunque a mia cura. 159 Il Dominio di un io diaristico nel film d’Alain Bergala sario, in un crescendo sull’asse della cronologia. L’intento è di far coincidere teleologicamente l’opera e la biografia dell’autore. L’opera di Pavese presentata quasi sempre alla prima persona, facilita enormemente questa modalità di trasmissione filmica. Beatrice Barbalato Université catholique de Louvain (Louvain-la-Neuve) [email protected] © Interférences littéraires/Literaire interferenties 2012