Leggi l`articolo (free!) - Rivista di Studi Italiani
Transcript
Leggi l`articolo (free!) - Rivista di Studi Italiani
Anno XXXIV, n. 2 RIVISTA DI STUDI ITALIANI Agosto 2016 CONTRIBUTI VATHEK, QUANDO L’OCCIDENTE SAPEVA GUARDARE ALL’“ESOTICO” RICCARDO ROSATI Roma V athek1 è un racconto di William Beckford (1760-1844), scritto inizialmente in lingua francese2 nel 1782 nel Regno Unito, pubblicato poi nella sua versione inglese nel 1786. L’opera venne creata quasi di getto in appena tre giorni e due notti, quando Beckford aveva soli 22 anni. Era un autore decisamente precoce: nel 1777, a 17 anni, scrisse The Long Story. Il Vathek uscì qualche anno dopo la pubblicazione del celebre Il castello di Otranto (“The Castle of Otranto”, 1764) di Horace Walpole, da molti considerato il primo vero romanzo gotico, da cui il Vathek riprende alcune atmosfere, arricchite dagli orientalismi presenti in Le mille e una notte (VIIIXVI sec.). Questo genere letterario era all’epoca molto in voga, in anni ancora influenzati dall’Illuminismo e inclini a guardare con curiosità all’Oriente: basti pensare a quel capolavoro che sono le Lettere persiane (“Lettres persanes”, 1721) di Montesquieu, che con l’opera di Beckford non condivide solo un certo “orientalismo”, ma anche un interesse per i costumi sociali: quelli decadenti occidentali per il filosofo francese, quelli musulmani per Beckford. La narrativa gotica è stata spesso soggetta al fascino del mistero, più che dell’orrore vero e proprio, non di rado poi questi racconti e romanzi sono incentrati in ambienti esotici. Per tale motivo, il Vathek si attesta come un caposaldo della letteratura gotica, per quanto concerne la sua espressione in un contesto diverso da quello europeo e al quale siamo normalmente abituati. Oltre ad analizzare la qualità letteraria del Vathek, vorremmo, sia pur sinteticamente, utilizzare questo testo per denunciare come nell’epoca contemporanea non siamo più capaci di porci in relazione con la cultura 1 Tutte le citazioni del racconto sono tratte da: Vathek di William Beckford, in Gianni Pilo (a cura di), I Grandi Romanzi dell’Orrore, Roma: Newton & Compton, 1996. La traduzione di Vathek è dello stesso Pilo, mentre la introduzione all’opera è sempre di Pilo, insieme a Sebastiano Fusco. 2 Pubblicato, probabilmente, tra il gennaio e maggio 1782. La traduzione in inglese è di Samuel Henley, autore anche delle copiose note che formano quasi un apparato saggistico in appendice al testo, malgrado siano spesso banali e inutili. 81 RICCARDO ROSATI orientale a differenza dei secoli passati. Ragion per cui, persino un “semplice” racconto dell’orrore può essere uno spunto per riflettere su come l’Occidente abbia perduto qualsivoglia capacità empatica verso le altre culture. Beckford dichiarò che la sua opera gli era stata ispirata da una festa di Natale alla quale partecipò nel 1781, specificando di essersi subito messo al lavoro al suo ritorno in città, ancora sotto l’influsso di quella notte epicurea a Fonthill3: le atmosfere del suo racconto riecheggiano dunque quelle di quel Natale, includendo nella storia rimandi a persone facenti parte della cerchia che egli frequentava solitamente. Tutto ciò ci ricorda un altro caposaldo della letteratura gotica inglese: il celeberrimo Il vampiro (1819) di John William Polidori, nel quale l’autore italo-inglese prese ispirazione dalla figura dell’amico Byron per la creazione del suo Lord Ruthven, verosimilmente il primo vampiro nella storia della letteratura europea. Chiariamo subito che quando parliamo di una rappresentazione letteraria dell’Oriente, noi siamo assai lontani dalle tesi antieuropee e basate su di una autentica “fobia” coloniale che contraddistinguono i blasonatissimi studi di Edward Saïd4. Riteniamo, per giunta, che seguire una interpretazione come quella del critico di origine palestinese non consentirebbe, a causa di una lettura in chiave moderna delle opere del passato, un giusto apprezzamento di un testo qual è il Vathek, intriso sì di esotismo, ma assolutamente in linea con quella passione per l’Oriente tipica del XVIII e XIX secolo. Certo, in esso vi sono molte “forzature culturali”, ma non si manca mai di rispetto e d’interesse verso i popoli altri. Ragion per cui, l’esotico per noi non è affatto quel “dèmone” tanto osteggiato da Saïd, bensì un aspetto essenziale per capire la evoluzione della letteratura europea. Su queste basi, possiamo considerare il Vathek come un testo di riferimento, col suo essere a metà tra una fiaba “arabeggiante” e una opera gotica. Purtroppo, la visione di Saïd ha lasciato un segno profondo negli studi accademici, rendendo quasi impossibile non tacciare di razzismo e colonialismo qualsiasi opera letteraria che si conceda a un qualche disincanto o cliché, bollandola come coloniale, mettendone puntualmente in secondo o terzo piano la valenza letteraria, in favore di una ostinata analisi “politica”. Tornando al Vathek, Beckford ambienta il suo racconto nelle terre lontane dei califfi, in Arabia, precisamente a Samarah, nome che richiama la vera capitale abbaside Samarra; anche il personaggio di Vathek potrebbe essere ispirato a un califfo abbaside realmente esistito: Al-Wathiq ibm Mutasim. La storia è un viaggio spesso allucinato, fantastico e, persino, folle all’inseguimento dell’abbondanza materiale, agognata dagli uomini, di cui 3 William Beckford, Vathek, cit., pp. 20-21. Cfr. Edward Saïd, Orientalismo, Torino: Bollati Boringhieri, 1991, e Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell’Occidente, Roma: Gamberetti Editrice, 1998. 82 4 VATHEK, QUANDO L’OCCIDENTE SAPEVA GUARDARE ALL’“ESOTICO” Vathek è la quintessenza. Spesso questa abbondanza è descritta da Beckford attraverso l’appetito sconfinato del Califfo, il quale incarna la sua incontinenza, come gli fa notare anche sua madre Carathis: “Come diventi lussurioso dopo un buon pasto”5. Il regnante viene descritto dall’autore in modo suggestivo, oscillando tra rigetto e ammirazione, immergendolo in un lusso sfacciato. Beckford alterna sarcasmo e cinismo nel raccontare il suo protagonista, che è – questo lo si capisce sin dall’inizio – senza possibilità di autentica redenzione. Vathek è perciò un personaggio irrimediabilmente corrotto, ottuso, dedito ai piaceri più infimi; ciò malgrado è venerato dalla sua gente: “Nonostante la sensualità nella quale Vathek indulgeva, l’amore del suo popolo non gli veniva mai meno, perché la gente credeva che un sovrano dedito al piacere fosse abile a governare quanto un regnante che se ne dichiarava acerrimo nemico”6. Beckford, così facendo, chiarisce subito il punto fondamentale della sua opera, ovvero una riflessione su di una moralità facilmente intaccata dal Potere, simbolizzato dalla ostentazione dei piaceri. Ciò ha del paradossale, giacché Beckford era un libertino, con uomini – la sua omosessualità gli procurò non pochi problemi nella Inghilterra puritana dell’epoca, tanto da doversi trasferire per un periodo anche in Italia – e con donne: intrattenne una relazione persino con Luisa Beckford, moglie del cugino Peter, anche egli scrittore. Ciononostante, il côté “morale” del racconto si guadagnò l’approvazione di varie riviste7. Curioso comunque notare come l’opera sia scritta in terza persona, benché Beckford in alcuni rari casi faccia quasi “intervenire” la voce narrante con dei commenti che, francamente, disorientano il lettore. Forse è questo l’unico limite del racconto, una non perfetta architettura diegetica, in cui non è ben chiaro se a parlare sia lo stesso autore o un altro personaggio, seppur questa incertezza narrativa possa alla fine essere stata addirittura voluta, così da aumentare la forza della critica ai malcostumi del Califfo da parte dello stesso Beckford. Vathek è un uomo potente e crudele; il suo palazzo reale è di dimensioni impressionanti, così come le sue ricchezze, che egli utilizza non solo per saziare la sua gola e lussuria, ma anche per conoscere quello che per un buon credente non è lecito sapere. Infatti, egli si fa costruire una altissima torre, così da studiare meglio i corpi celesti; la sua brama di conoscenza e potere lo porterà, come vedremo, alla rovina. Rivive perciò nel Vathek il mito biblico 5 William Beckford, Vathek, cit., p. 54. William Beckford, Vathek, cit., p. 28. 7 Citiamo, ad esempio, lo European Magazine, che lodò il messaggio moraleggiante del racconto, sostenendo come il Vathek fosse addirittura superiore ai racconti arabi originali, in quanto esprimeva una morale più alta. Cfr. William Beckford, Vathek, cit., p. 23. 83 6 RICCARDO ROSATI della “Torre”, epitome della caduta dell’Uomo, a causa della sua superbia. Beckford palesa quasi una “ossessione” nel voler reiterare un monito contro i malcostumi degli uomini, persino per quanto concerne l’arroganza della intelligenza e della scienza. Un giorno giunge a corte un mercante straniero (il Giaour8), che proviene da una zona sconosciuta per il Califfo e la sua Corte: l’India. Un territorio esotico pure per il mondo medio-orientale; pertanto, nel caso del Vathek, possiamo allora parlare di un “doppio esotismo”, quello nostro verso il mondo islamico e quello di quest’ultimo nei confronti del Subcontinente Indiano. Per Beckford, invéro, l’India, con i suoi Bramini, fachiri, ecc., è assai più “stramba” ed esotica dello stesso Medio Oriente. Il mercante si dimostra irriverente nei confronti del Califfo che in preda all’ira lo fa imprigionare. L’individuo misterioso fugge facilmente dalla sua prigione uccidendo le guardie, e si ripresenta senza timore davanti a Vathek, il quale estasiato dalle sue arti magiche, invece di punirlo, decide di prenderlo come proprio maestro. Lo straniero è in realtà un djinni, un essere sovrannaturale della mitologia orientale proveniente dall’Inferno governato dal supremo dèmone Eblis. Il Giaour propone a Vathek di rinnegare Maometto, per abbracciare la sua religione e di compiere un sacrificio di cinquanta bambini in cambio di oggetti dai grandissimi poteri e con la promessa di un viaggio nelle profondità infernali, così da carpirne i blasfemi segreti. Da qui nasceranno tutte le sciagure del Califfo, che in ultimo si inimicherà persino la madre Carathis. Le descrizioni dell’Inferno sono senza dubbio i passaggi più potenti di tutto il racconto, tanto da suscitare l’ammirazione di Jorge Luis Borges; il quale definì il Vathek come un perfetto esempio di uncanniness, ovvero di “misteriosità”, poiché l’inferno rappresentato da Beckford era per lo scrittore argentino il “primo realmente atroce della letteratura”9. Interessante notare come durante il racconto ricorra sovente l’utilizzo della parola “orrore”, uno stilema che ci ricorda il modo di scrivere di uno dei maestri del genere, l’americano Howard Phillips Lovecraft. Le descrizioni del regno di Eblis possono inoltre riportare alla mente, sebbene alla lontana, quelle che troviamo nel Paradiso perduto (1667) di John Milton. Il tutto per dire che il Vathek andrebbe studiato forse con maggiore interesse, giacché s’inserisce in una ricca e fertile corrente letteraria che affronta l’eterno conflitto tra il Bene e il Male. Qualche parola va spesa sulle complesse e travagliate vicende che hanno 8 Si tratta di un termine molto dispregiativo per indicare una persona non di fede musulmana. 9 Alice Porro, “Borges lettore di Dante [prima parte]”, in Gianni Ferracuti, Studi Interculturali, 1-2013, p.115. A tal proposito, Borges sostiene che tra i testi che potrebbero aver influenzato Beckford nella creazione del suo Inferno, può forse anche esserci l’Adone (1623) di Giovan Battista Marino. 84 VATHEK, QUANDO L’OCCIDENTE SAPEVA GUARDARE ALL’“ESOTICO” accompagnato la traduzione dell’opera in inglese. Il reverendo Samuel Henley, amico di Beckford, venne incaricato dallo stesso autore di tradurre il racconto e di fornirlo di un apparato di note, incappando talvolta in alcuni svarioni linguistici10. Henley fece pubblicare il testo mentre Beckford viveva all’estero, a causa, come detto, di alcuni guai personali. Il religioso compì però una operazione assai scorretta, in quanto fece uscire il libro, spacciandolo per un originale arabo da lui stesso scovato e poi tradotto, eliminando del tutto il nome del suo vero autore. La disonestà intellettuale di Henley non si limitò purtroppo solo a questo. Egli riempì di note il racconto, trasformandolo quasi in un saggio, dalla però assai scarsa valenza scientifica e, in alcuni casi, con annotazioni abbastanza fuori luogo: si guardi la nota 13311, dove Henley, in queste sue continue “intrusioni”, dispensa inutili sermoni morali, ignorando quanto questo aspetto fosse già ampiamente presente nello scritto di Beckford. Tornando a una analisi prettamente letteraria del Vathek, è impossibile non notare come in esso vi sia una suadente ambivalenza nel descrivere la corruzione morale in un modo affascinante, mescolando i piaceri della carne con quelli del palato, stigmatizzando la irreligiosità del Califfo anche attraverso il suo amore per l’alcol, bevanda proibita ai musulmani, permettendogli così di sfoggiare “la sua blasfema temerarietà”12. Del resto, Vathek non manca certo di schernire la religione, ritenendo le preghiere “irritantemente noiose”13. Alla fine, Beckford pone sì la questione etica al centro della sua storia, ma lo fa in modo ironico, quasi irriverente, palesando un laicismo positivista e ribelle, come si chiarisce nella introduzione italiana al racconto: “A ben vedere, il Vathek, sia nel porre in ridicolo qualsiasi tipo di religione, sia nell’inaspettata forza con la quale viene prospettata la dannazione finale del Califfo, dà l’idea di una vera e propria ribellione del figlio nei confronti della madre”14. La conflittualità con la madre Carathis è un altro aspetto fondamentale dell’opera, forse perfino dal carattere autobiografico, visto che Beckford non ebbe buoni rapporti con la sua. Carathis incarna quell’esotismo che seduce con la sua oscura sapienza, mostrando il fascino del Male: “Marciò così, in trionfo, in una nuvola di profumi, tra le acclamazioni di tutti gli Spiriti Maligni, con gran parte dei quali aveva già fatto conoscenza”15. Carathis è senza dubbio il personaggio più riuscito di tutta la storia, raffigurando quella 10 Cfr. nota 54 in William Beckford, Vathek, cit. William Beckford, Vathek, cit., p. 84. 12 William Beckford, Vathek, cit., p. 49. 13 William Beckford, Vathek, cit., p. 68. 14 William Beckford, Vathek, cit., p. 20. 15 William Beckford, Vathek, cit., p. 108. 85 11 RICCARDO ROSATI “casta perversione”16 che è poi l’elemento che ha permesso al Vathek di affascinare i lettori nei secoli. L’ostilità dell’autore verso la figura materna non gli ha comunque impedito di proporre il sesso quale costante della sua narrazione, indulgendo in vari cliché esotizzanti: “Per abituarsi meglio agli orrori che l’aspettavano, la Principessa rimase in compagnia delle negre, le quali le strizzavano amabilmente l’unico occhio che possedevano, e sogghignavano di incredibile piacere [...]”17. La seduzione della perversione è spinta al massimo da un linguaggio persuasivo, tanto da rendere seduttiva persino la morte: “[...] la torre tremò e i cadaveri scomparvero tra le fiamme, le quali, da rosso cremisi che erano, divennero rosa chiaro: un vapore nell’ambiente diffuse la più squisita fragranza, le colonne di marmo risuonarono di suoni armoniosi, e i corni liquefatti diffusero un delizioso profumo”18. Il sesso è quasi una ossessione nelle pagine di Beckford, così amante dei cliché che non poteva certo farsi mancare la figura della odalisca: “Gli sguardi languidi, i sussurri confidenziali, gli incantevoli sorrisi che avevano tutte sulle labbra, e la squisita fragranza delle rose, cospiravano a creare un’aria voluttuosa alla quale persino Babalouk faceva fatica a resistere”19. L’empietà e la megalomania crescono con l’appetito del protagonista, in una autentica e continua orgia di blasfemia: “Va a prendere del buon vino di Schiraz per queste povere anime religiose, giacché possono vantarsi di aver visto il mio palazzo più di chiunque altro”20. L’ossessione per il cibo è, insieme a quella per il sesso, l’elemento che l’autore utilizza per scandire la caduta e l’oblio del Califfo: “Mentre continuava a mangiare, la sua devozione religiosa era cresciuta e, con la medesima voce, recitava le preghiere e chiedeva lo zucchero e il Corano”21. Nel racconto il cibo è puntualmente associato alla lussuria, come quando il Califfo paragona la cucina della sua nuova amata Nouronihar a quella delle altre donne: “[...] che egli ormai considerava i ragù delle altre mogli assolutamente maukish22 [sic!], tanto che queste sarebbero morte di vergogna in casa dell’Emiro [...]”23. Questo aspetto è talmente evidente che nel momento in cui il protagonista comincia a intravedere la sua sorte come ormai segnata, specialmente a causa della spirale di morte e corruzione in cui l’ha 16 Carl Einstein, Lo snob e altri saggi, Napoli: Guida Editore, 1985, p. 27. William Beckford, Vathek, cit., p. 46. 18 William Beckford, Vathek, cit., p. 48. 19 William Beckford, Vathek, cit., p. 66. 20 William Beckford, Vathek, cit., p. 53. 21 William Beckford, Vathek, cit., p. 62. 22 Il termine inglese corretto è mawkish, che significa “stucchevole”, mentre in inglese arcaico veniva usato anche per dire “nauseante”. 23 William Beckford, Vathek, cit., p. 88. 86 17 VATHEK, QUANDO L’OCCIDENTE SAPEVA GUARDARE ALL’“ESOTICO” precipitato la madre fattucchiera, egli perde sorprendentemente la voglia di mangiare; dunque il pentimento porta inappetenza a Vathek: “Ma ti dirò quando avrò fame... il che, credo, non avverrà molto presto”24. Il racconto ha avuto però anche i suoi detrattori, il critico Carl Einstein definisce così l’opera di Beckford: “Vathek è il libro dell’avidità inesauribile, dell’esasperata voglia di originalità; finisce in noia infernale, banalità disperata”25. Einstein comunque non rimane immune al fascino eterno del Vathek, la cui essenza estetizzante è passata alla storia, facendo scuola; difatti egli si corregge parzialmente, sostenendo come il testo abbia inaugurato “[...] la serie di libri che ci hanno dato conoscenza ed esercizio di arte pura, che hanno sospinto l’arte nel campo di un’immaginazione conchiusa e le hanno conferito la forza di un organismo in sé perfetto”26. In conclusione, il Vathek potrebbe essere descritto in vari modi: ridondante, falsamente morale, arabeggiante. Noi preferiamo giudicarlo attraverso le parole di una amica personale di Beckford, Lady Craven, la quale così si espresse: “Bello, orribilmente bello”. L’opera dello scrittore inglese è da considerarsi di assoluta importanza, avendo nel tempo influenzato narratori del livello di Nathaniel Hawthorne, George Meredith, Stéphane Mallarmé, per non parlare dello stesso Byron. Il Vathek dovrebbe tuttavia non solo essere apprezzato per le sue chiare qualità letterarie, il suo complesso e a tratti controverso messaggio morale, ma anche, e di questi tempi diremmo specialmente, per il fascino con cui descrive il Medio Oriente; l’interesse che in esso si trova per gli usi e costumi di questa civiltà, malgrado descritti con imperfezioni e cliché. Un mondo, quello islamico, che all'epoca di Beckford era fonte di una malia che stuzzicava l’arte, un milieu culturale che era guardato con attenzione e non semplificato come avviene oggi. __________ 24 William Beckford, Vathek, cit., p. 84. Carl Einstein, Lo snob e altri saggi, cit., p. 27. 26 Carl Einstein, Lo snob e altri saggi, cit., p. 29. 87 25