Nessuno ha detto niente (Racconti 2008-2013)

Transcript

Nessuno ha detto niente (Racconti 2008-2013)
Nessuno ha detto niente (Racconti 2008-2013)
LE CICALE
di Carlo Simoni
www.secondorizzonte.it
La parola si stacca dal groviglio indistinto e compatto delle altre.
Il vecchio Helmut, uomo di cultura, studioso dei pensatori greci – lo conosco da quando mi sono
stabilito sul lago e stasera ha voluto introdurmi nella cerchia dei suoi connazionali – immagino stia
parlando di quel che ha letto, o scritto, alla signora che siede di fronte a lui.
A me è stato assegnato il posto di capotavola, immagino per la mia estraneità alla compagnia che
partecipa a questa cena, e così mi trovo seduto fra Helmut e, appunto, la sua interlocutrice. Ascolto
attentamente senza capire: mi piace il tedesco. Mi distende piacevolmente il non intenderne nulla.
Mi solleva da ogni dovere. Non devo star teso a decifrare quel poco che posso cogliere se sento
parlare in francese o quel pochissimo quando la lingua è l'inglese, che ho studiato a scuola.
Ma quella parola – che mi è suonata come un vocabolo latino: i tedeschi ne usano, pur
pronunciandole in modo da renderle irriconoscibili – s è come stagliata sui grigi del discorso fitto di
Helmut: verde, direi. Un verde scuro ma brillante, come di foglia giovane.
La musica delle sfere, aggiunge Helmut in italiano, e mi guarda con l'aria di rispondere al guizzo
che nei miei occhi è forse balenato nel distinguere la parola di cui dicevo: tinnitus. Mi si rivolge
come se avessi capito tutto quello che stava dicendo, e adesso usa questa espressione che mi
conferma che di filosofia stava parlando: musica delle sfere. Il cosmo di Pitagora? il cielo di
Platone? Ho ricordi vaghi, ma suggestivi, nei quali va subito a collocarsi quel tinnitus: il suono
tintinnante della Creazione? No: quello non è un mito da Greci. E allora il tintinnio delle sfere
celesti, appunto, simile a quello che i nostri bicchieri di vino fanno nei continui brindisi che
qualcuno, per ragioni che restano a me ignote essendo espresse in tedesco, continuamente propone.
Un tintinnio che però si fa musica: sorrido a Helmut assentendo, come se lo Spirito Santo fosse
finalmente disceso sulla nostra tavola e avesse fulmineamente esaudito il mio desiderio di capire
quel che diceva.
Qual è l'italiano per tinnitus? mi chiede, come spesso fa, sapendo che mi fa piacere sentirmi in
qualche misura partecipe dei suoi progressi nel parlare la lingua di qui.
Tintinnio, rispondo senza esitazioni, soddisfatto.
Mi guarda interdetto. Ripete la parola alla signora – tintìnnio, la pronuncia – ed è lei, adesso, a
guardarci senza capire. E senza interrompere la sua lenta e visibilissima masticazione degli antipasti
dà segno di aver registrato l'informazione con l'aprire ancor di più le lebbra grinzose sui denti
infarciti di insalata russa.
Solo dopo una ventina di minuti, in cui l'attenzione dei miei due vicini è stata assorbita da altro –
quella di Helmut da uno scherzoso battibecco a distanza con la padrona di casa e quella di Frau...
Herzlen, mi pare di aver capito alla presentazione, dal pesce che è seguito all'insalta russa – Helmut
riprende il filo del discorso interrotto e, portandosi la mano sinistra all'orecchio, con un'espressione
dolente ma nobilmente rassegnata, e ingentilita da una sfumatura di autoironia, ripete: la musica
delle sfere, la sento anche ora, in questo stesso momento. Se poi..., e indica il bicchiere: be' allora...
e rotea la mano in aria, sempre in prossimità dell'orecchio, a indicare il turbine di suoni che – tanto
più adesso che ha bevuto qualche bicchiere, per l'appunto – lo invade.
Frau Harzlen commenta l'uscita di Helmut con una risata che le spalanca le fauci richiamandomi
l'immagine della bocca di una betoniera nel momento in cui sta per vomitare la poltiglia di cemento
che ha lungamente impastato.
Distolgo lo sguardo e sorrido a Helmut che, con quell'aria di compiangersi senza però far sul serio,
ritorna sulla questione: tintìnnio, ripete circospetto. Tintinnìo, lo correggo. Tintinnìo, ripete lui: ma
scuote la testa, non è convinto. Guarda in aria, come improvvisamente colpito dal soffitto
fantasiosamente affrescato da qualche imbianchino-pittore assoldato dalla nostra ospite qualche
anno prima, quando ha rinnavato questa casa secondo il suo gusto texano-bavarese, e poi mi rivolge
uno sguardo fiero e compiaciuto: geklingel, esclama.
Geklingel, ripete convinta la Frau.
Geklingel, incerto ripeto io.
Ma il mio sguardo vuoto dice a Helmut che non so che cosa sto dicendo: geklingel è il tedesco per
tintìnnio, mi spiega. Tintinnìo, dico fra me, senza più voglia di correggerlo, ma comprendo quel che
mi ha detto: tinnitus non significa tintinnìo.
E allora? la musica delle sfere? e Pitagora? e Platone?
Zzzzzzzzz, fa Helmut guardandomi, sempre con quella mano che descrive piccole orbite attorno
all'orecchio e uno sguardo allusivo: non so a che.
La musica delle sfere, dico io, speranzoso di tornare a quell'empireo, remoto e che tuttavia sento in
qualche modo familiare rispetto al Valalla in cui mi sento perso in quel convivio.
Sì sì, conferma Helmut, divertito, ma poi aggiunge: sono anni che cerco una cura.
Una cura per questa forma di mania? mi chiedo: una correzione di ragionevolezza in
quell’immaginario mitomane che gli fa udire il suono che circonda gli dei immortali?
Lo guardo perplesso, mentre la Frau, deponendo il bicchiere, per la prima volta fa una pausa nel
lavoro metodico che la occupa e in un italiano del tutto approssimativo mi spiega che lei aveva un
amico che... e fa quello stesso gesto attorno all'orecchio pronunciando la parola fatale: tinnitus. Ha
provato molte cure ma niente e allora è caduto in una depressione da cui non si è più ripreso.
E' ancora vivo? mi sento chiedere.
Lei fa un gesto come a dire: non so, ma che differenza potrebbe fare?
E di colpo la verità mi appare: Helmut non è uno squilibrato. Semplicemente soffre di acufene,
anzi: di acufeni. Vari e sovrapposti: come i suoni che compongono la musica dell’universo.
Acufene, gli dico: l'italiano per tinnitus è acufene. Anch'io ne soffro, e mi trovo – anch'io – a
roteare le dita della mano sinistra attorno all'orecchio nel quale, in questo stesso istante, lo sento: il
suono di cui mi sembrava di non aver coscienza, o che almeno non mi pareva di udire mentre
sedevo a quella cena, ma che ora, come mi avesse atteso al varco, sovrasta le voci dei commensali.
Feroce, più che mai implacabile, imbaldanzito – si direbbe – da questa dimostrazione della sua
ubiquità, del suo potere nefasto che il solo suo nome, pur variando di luogo in luogo, suscita.
Tinnitus: il tintinnio sublime che avevo sentito echeggiare nella parola si è fatto, ora che è comparso
in questo simposio di Germani, l'alito sibilante del drago di Sigfrido. Che nessun Sigfrido però è
mai riuscito ad annientare. Solo nel film che avevo visto da ragazzo l'eroe trafiggeva il mostro.
Non ho incontrato nessuno in grado di farlo, o di promettermi che qualcuno o qualcosa lo potesse,
fra i molti medici ai quali sono ricorso.
Ne accenno a Helmut, che si mostra subito avido di notizie, e mi fa domande, sugli esami cui mi
hanno sottoposto, sulle cause ipotizzate, sui rimedi consigliati. E così racconto.
Partendo dal primo specialista interpellato, un primario, il capo del reparto di otorinolaringoiatria
dell'ospedale della mia città, raggiunto dopo quattro mesi di attesa dalla prenotazione della visita:
silenzioso e freddo quanto ciarliera e cordiale la sua infermiera. E' stata lei a dirmi qualcosa di
molto simile a quello che ho sentito da Frau Herzlen, senza che facesse cenno alla depressione però,
ma parlando di pazzia, né più né meno: certi – mi ha detto gioviale mentre scriveva su un modulo la
data nella quale avrei dovuto tornare dal professore – diventano pazzi, non dormono più, non
pensano più. Li devono sorvegliare perché se no tentano di uccidersi.
O cominciano a parlare di musica delle sfere, mi vien da pensare adesso... Ma ovviamente non
lascio trapelare questa supposizione e proseguo il mio racconto.
Ho ringraziato l'infermiera, contraccambiando il sorriso con cui mi rilasciava una prognosi che, ho
immaginato, l'austera riservatezza professionale aveva sconsigliato al luminare di esprimermi, ma
che lui stesso avrebbe forse confermato una volta che fosse giunto il risultato dell'esame cui mi
aveva sottoposto. Non un esame audiometrico – la cabina, la cuffia che in seguito avrei avuto modo
di conoscere – ma solo l'osservazione dell'interno dell'orecchio con degli strumenti che mi erano
parsi per nulla sofisticati, salvo il tubicino che mi aveva infilato nel naso e mi aveva fatto cadere
due o tre lacrimoni quando me l'ero sentito arrivare in gola. Il tutto senza che lui dicesse una parola,
né durante né dopo la visita.
Ho udito la voce del professore solo quindici giorni dopo, quando sono tornato da lui: mi ha
guardato attento e poi mi ha chiesto – con una vocetta sottile che non mi sarei aspettato da un uomo
che sembrava un colonnello d'artiglieria alpina – qual era il problema.
L'acufene, gli ho risposto.
A destra, sinistra, o bilaterale? da quanto tempo?
Probabilmente avrebbe proceduto allo stesso esame già propinatomi – con l'unica differenza che
questa volta parlava – se non avesse bussato l'infermiera e non gli avesse ricordato che aveva sul
tavolo il referto dell'esame che lui mi aveva fatto due settimane prima. Senza scomporsi, come
continuasse il colloquio che aveva iniziato e solo per fare un piacere alla sua infermiera leggesse il
foglio che quella gli aveva messo in mano, mi ha detto che non avevo nessun tumore buongiorno.
Ero già nell'anticamera. L'infermiera, sospingendomi gentilmente per un gomito, mi aveva fatto
uscire dallo studio del primario e già si complimentava con me: vede? è scritto qui: il nervo acustico
è a posto: nessun tumore.
E quelli che sono impazziti, per l'acufene, come l'avevano il nervo acustico?
Ma non gliel'ho chiesto. Non volevo turbare la cortesia festosa con la quale mi stava congedando.
Un paio d'anni dopo, un collega mi ha fatto il nome di suo zio, otorino di lungo corso.
Sono andato al suo studio – visita privata, a pagamento – e gli ho esposto il problema. Lui,
sessantenne tarchiato, mani forti e quadrate, capelli a spazzola bianchi e viso rubizzo, mi ha
ascoltato con l'aria di chi sa già tutto e poi ha proferito il suo responso, senza bisogno d'esami:
eliminarlo no, l'acufene, ma ridurlo sì. Semplice: non più di tre sigarette al giorno. Meglio due.
Alla mia precisazione che avevo sì fumato, da giovane, ma avevo smesso da una ventina d'anni ha
replicato senza batter ciglio che il rimedio vero stava comunque nel rinunciare alla moto: basta
moto, neanche con il casco. Il vento che investe il motociclista è deleterio per l'orecchio.
Il fatto che non avessi mai avuto una moto e mi fossi sempre spostato in auto non è stato preso in
considerazione, mi è parso al momento. La decisa stretta di mano dell'otorino è stata – per me,
quanto meno, ma ne sono certo: anche per lui – un addio, non un arrivederci. Un’addio che
comunque lui non ha saputo non accompagnare, quasi richiamandomi quando io ero ormai sulla
soglia, con una raccomandazione espressa con il tono pensoso di chi ha riflettuto a fondo: se le
venisse in mente di prendere una moto lasci perdere. E mi ha schiacciato l’occhio, con un’aria di
vaga complicità maschile, mi è sembrato: tutto tutto non lo si può avere nella vita.
Un'amica di mia moglie, che l'aveva conosciuto in occasione di un otite di suo figlio, mi ha
suggerito di consultare un medico in servizio in un ospedale in provincia, non lontano dalla città.
Era passato abbastanza tempo dall'ultima visita perché – nell’andirivieni fra delusione e fiducia che
mi ha accompagnato per decenni – alla rassegnazione fosse subentrata nuovamente la speranza di
poter risolvere il problema.
L'ometto in camice bianco che mi ha ricevuto in una stanzetta dell'ospedale, ingombra di scatoloni
di medicinali e faldoni d'archivio, si è informato innanzitutto se il suono che avvertivo fosse
continuo o pulsante.
Continuo, gli ho risposto.
E' un fischio?
No.
Piuttosto un ronzio?
Be'... piuttosto, sì...
O un fruscio?
Sì. meglio: un fruscio, però...
Forse un soffio?
No, non direi.
Un crepitio?
Mah...
Ho voluto dare un contributo più concreto all'analisi: è come sentire una sirena lontana.
Una sirena?
Sì, la sirena di un'ambulanza, ma lontana...
E come la definirebbe?
Cosa?
La sirena.
...
Un sibilo?
Mi è venuta un'idea che mi è sembrata più calzante della sirena: ha presente il suono che fanno le
cicale d'estate, nel primo pomeriggio...
Un frinire, intende.
Ci siamo accordati sul frinire. Il verso delle cicale. Di molte cicale insieme.
Il medico si è aggiustato sulla sua sedia, rilassato: era arrivato dove voleva arrivare.
Vede, mi ha detto, il suono che lei sente è puramente soggettivo: non esiste nella realtà, le cicale
non ci sono, e mi ha guardato come si guarda un bambino ormai grandicello al quale si sente di
dover infine rivelare che Santa Lucia non esiste.
Quel frinire è solo soggettivo, ha continuato: prova ne è che io non lo sento. Lei lo sente in questo
momento?
Sì, certo...
Ebbene: lo vede che non ci sono cicale qui, ha detto soddisfatto ispezionando con uno sguardo
fulmineo il ripostiglio in cui riceveva i suoi pazienti.
Ma neanche il dentista sente il mal di denti di quello che sta trapanando, però qualcosa fa per
farglielo passare, cristo! Ma non gliel'ho detto. Capace di offendersi quello.
E' stato il mio medico della mutua a mandarmi da un collega, specialista in malattie dell'orecchio
in una clinica privata.
Uno studio che sembrava la sala di una centrale elettrica: pieno di quadri di comando, lucine,
interruttori e manometri, con una cabina vetrata come quella che usavano a lascia o raddoppia. Mi
ci ha fatto entrare come appunto faceva Mike Bongiorno con i concorrenti del quiz, ed è andato via.
Dopo una decina di minuti è arrivata un'infermiera, molto carina, che parlando in un microfono –
con un'erre di gola che mi ha ricordato Claudia Cardinale – mi ha detto di mettere la cuffia che
avevo lì davanti e poi di fare un cenno quando sentivo un suono. E sono cominciati ad arrivarmi
segnali simili a quelli del telegrafo: pit pit pit. Ora forti ora meno. Io alzavo una mano, come mi era
stato detto, quando li sentivo, nell'orecchio destro o nel sinistro, e ogni volta la ragazza mi sorrideva
e accennava un sì come se rispondesse al saluto di quella mano alzata, poi faceva una crocetta su un
grande foglio che aveva sulle ginocchia e tornava a guardarmi, in attesa. Io non sapevo se, quando
alzavo la mano, sorriderle anch'io o rimanere serio.
Poi, di colpo, è andata via anche lei. Senza salutarmi. Nè dirmi se potevo uscire dalla cabina.
Il dottore è tornato dopo un quarto d'ora, quando l'aria della cabina si era fatta pesante. Mi ha fatto
sedere davanti al suo tavolo e mi ha detto, studiando la tabella che la ragazza aveva compilato, che
il mio udito, all'orecchio sinistro, era ridotto del cinquanta per cento. Cosa che mi era nota, ma che
mi è sembrato carino accogliere come una novità.
Lei va a caccia?
Ci sono andato da giovane.
Ecco, ha detto.
Ma l'acufene mi è venuto quando a caccia non andavo più da almeno trent'anni.
Effetto ritardato, ha spiegato lui: il rumore dello sparo ha leso l'orecchio interno innescando un
processo degenerativo che si è manifestato a distanza. E così dicendo ha mimato il cacciatore che
poggia il fucile alla spalla, prende la mira e spara.
Ma lei è mancino, ho detto.
Sì, perché?
Io no.
E allora?
E allora il fucile lo tenevo contro la spalla destra, e invece l'acufene l'ho all'orecchio sinistro.
Era rimasto con le braccia alzate, come se reggesse ancora il fucile. L'ha deposto e ha ricominciato
ad osservare il foglio dell'esame audiometrico.
Dieci per cento infatti, ha detto: l'orecchio destro ha diminuito la sua capacità uditiva del dieci per
cento.
Poi ha schiacciato un bottone e ha detto all'infermiera che poteva far passare un altro.
Della clinica di Beziers ho letto su Internet, alla voce "acufene". Ho preso qualche giorno di ferie e
ci sono andato con mia moglie. Un viaggetto nel sud della Francia. Se ne veniva qualcosa per la mia
salute tanto meglio, se no sarebbe pur sempre stata un vacanza.
La clinica è un po' fuori dalla cittadina. Nell'atrio c'è il plastico di un enorme orecchio, girando
attorno al quale si possono vedere i particolari, colorati e lucidi, dell'interno. Una specie di mollusco
gigante appena squartato.
La clinica prende il nome dal suo fondatore, ed è lui stesso a ricevermi. Fa entrare anche mia
moglie, nel suo studio che sembra un salotto e discorre amabilmente – con mia moglie, che
conosce il francese – della stagione, di Beziers, del nostro viaggio. Poi si rivolge a me, e mia
moglie fa l'interprete: mi chiede del lavoro che faccio, delle malattie avute, degli sport praticati, di
quel che mangio e bevo eccetera. Mi visita. Una visita simile a tutte le altre ma più breve, e poi
riprende a parlare. Mi fa una domanda precisa: che cosa stava succedendo quando ho cominciato ad
avvertire quel suono nell'orecchio sinistro? Be', eravano a metà anni Ottanta: in Italia...
No no, che cosa succedeva a lei.
A me? in che senso?
Che cosa stava accadendo nella sua vita?
Ah. Be', la malattia e la morte di mio padre, poi... – e guardo mia moglie – un periodo difficile –
e torno a guardare lui – un periodo difficile fra noi, e poi la morte di mia madre.
Il dottore mi ascolta attento, comprensivo, fa cenni affermativi, mi chiede di che cosa sono morti i
miei, e io racconto delle sofferenze di mio padre, poi della scelta di collocare mia madre in una casa
di riposo, poi della sua malattia eccetera. Mi accorgo che sto parlando da una decina di minuti, e lui
è sempre lì che mi ascolta: come uno psicanalista.
Resta in silenzio per un po'. Poi mi guarda come se guardasse un vecchio amico: lei ha sofferto
molto, dice.
Be', è stato un periodo difficile, ripeto.
Non sempre si ha coscienza di quel che si sta vivendo. Lei è stato sottoposto a uno stress
prolungato, e intenso. E' stato questo a provocare il disturbo. Vede... e si mette a disegnare sul suo
blocco di appunti: disegna più o meno l’animale che c'è nell’atrio, e mi spiega che nell'orecchio
interno ci sono delle ciglia – simili ai tentacoli di una seppia, mi pare dal disegno che ne fa – che
fluttuano in un liquido. Per qualche ragione – organica o, come nel mio caso, psicologica – queste
ciglia possono rattrappirsi, irrigidirsi: sono loro a mandare allora al cervello un segnale continuo. A
imbrogliarlo si potrebbe dire. Questo segnale è appunto l'acufene.
Sono ammirato. Riconoscente anzi. Nessuno mi aveva mai spiegato così bene la ragione
dell'acufene, ma soprattutto nessuno aveva mai collegato il malanno alla mia vita. L'acufene che
sentivo era, da questo momento, il mio acufene. Non era piovuto dal cielo come una maledizione,
né mi ci ero imbattuto per una sfortunata casualità. Era nato dalle mie vicende, era parte della mia
storia.
Stavo pensando a queste cose quando lui ha preso stilografica e ricettario e ha scritto il nome di
certe pastiglie: da prendere per tre anni, ogni giorno, tre al giorno. E ci vediamo fra tre anni:
messiödàm... e alzandosi mi ha stretto la mano e ha fatto un piccolo inchino a mia moglie,
accennando un baciamano.
Finito. Tutto quel discorso era finito in una ricetta scritta come scrivono tutti i medici. Quelli
francesi non meglio di quelli italiani: uno scarabocchio indecifrabile. Non so i medici tedeschi... Ma
Helmut è preso dal mio racconto e non raccoglie: e poi, ti han fatto bene?
Le ho prese per un mese. Certe pastigline rosse le cui indicazioni non lasciavano dubbi sul loro
effetto: cura dell'angina pectoris. Con le relative controindicazioni – che non ricordo adesso ma non
erano incoraggianti – e l'avvertenza di non usarle per più di tot mesi. Altro che tre anni. Dunque ho
smesso di prenderle.
Il fatto è che, per non so quale cortocircuito del pensiero, è poi accaduto che la soddisfazione di
poter credere che l'acufene fosse una specie di cicatrice dei colpi che la vita mi aveva inferto si è
capovolta: me l'ero voluto io. Se in quegli anni fossi stato un po' più cosciente di quel che mi
capitava, e di quel che facevo, quelle ciglia avrebbero continuato a fluttuare come alghe e il mio
orecchio sinistro avrebbe continuato a tacere, se non sollecitato, come aveva fatto fino ad allora.
Questo il guadagno del viaggetto in Francia, alla fine. L'acufene era diventato un rimprovero. Un
memento di quanto ero stato sconsiderato in quegli anni. E questo non ha migliorato il mio umore.
Forse – ripensandoci alla luce di quanto è avvenuto più tardi – ha addirittura guastato il mio
carattere, e le giornate di chi mi stava vicino.
Del dottor Stranamore ho letto nell'inserto salute del giornale che leggo abitualmente. Non ricordo
come si chiamasse: mi è rimasto in mente con quel nome perché l'ho pensato appena l'ho visto
entrare nell'ambulatorio seguito da tre assistenti. Era anche professore universitario e nella stessa
città, a un centinaio di chilometri dalla mia, contemporaneamente dirigeva quella clinica privata.
Stranamore perché aveva una mano artificiale, che lui indirizzava con l'altra mano e mandava un
cigolio ad ogni movimento, e poi un collare come quello che si mette dopo il colpo di frusta dei
tamponamenti e occhiali scuri, dietro ai quali si vedeva un'occhio spalancato, fisso, senza palpebre.
L'esame audiometrico l'hanno condotto i tre assistenti, mentre lui, Stranamore, stava in disparte a
fumare, e poi, confrontando il risultato dell'analogo esame che avevo fatto un tre anni prima, e che
avevo portato con me, con quello appena svolto ha detto: un altro dieci per cento. Avevo perso un
altro dieci per cento di udito all'orecchio sinistro, calato perciò del sessanta.
E l'acufene è aumentato, naturalmente, mi ha detto alzando su di me gli occhi. Ho confermato,
sforzandomi, senza riuscirci, di non guardarlo nell'occhio sbarrato.
Lei sa certamente che volume dell'acufene e capacità uditiva sono inversamente proporzionali...
Lo so, ho risposto e, forse ispirato dal suo aspetto così... ricostruito, dalle sue protesi e dalle
cicatrici che gli traversavano la faccia, gli ho detto che, magari non subito ma in futuro, sarei stato
disposto a sottopormi a un'operazione che mettesse fuori gioco il nervo acustico. Meglio la sordità
ad un orecchio che un acufene insopportabile.
Il dottor Stranamore si è messo a tossire convulsamente, ed è stato subito attorniato dai suoi tre
assistenti che per la prima volta avevano abbandonato la loro impassibilità e ridevano. Ridevano
mentre il loro capo sembrava strozzarsi: un'improvvisa, perfida rivincita sulla sua tirannia, ho
immaginato. Invece no: ridevano perché anche lui stava ridendo, per assecondarlo reverenti. Quello
era il suo modo di ridere.
L'acufene si farebbe sentire lo stesso, non è il nervo acustico il suo vettore, mi ha detto in una
pausa di quello squassamento che mi sembrava minacciasse di farlo andare in pezzi.
Quando si è definitivamente ricomposto – i tre di nuovo sull'attenti dietro la sua poltrona – mi ha
stupito con una frase che mi è suonata densa di significati: lei deve abolire il silenzio. E al mio
sguardo interrogativo ha risposto con due parole: musica, sempre.
Il vecchio Helmut è deliziato dal mio racconto. Ne sottolinea i passaggi ora con sguardi incuriositi
di quel che verrà ora con risate che Frau Herzlen – solo a tratti edotta da sintetiche traduzioni –
accompagna con lievi mugugni macinando la sua fetta di torta.
Mi sembrerebbe fuori luogo turbare l'allegria riconoscente di Helmut – che grazie alla mia storia
sono certo ha dimenticato per un po' il suo acufene – raccontando anche la vicenda dell'abbandono
di mia moglie, prima tollerante ma via via sempre più infastidita della musica che invadeva la casa
ad ogni ora; poi risentita per la vita ormai del tutto separata che con quella musica – di radio,
filodiffusione, dischi, cassette e CD attivi anche durante la notte – avevo finito per imporre; infine
offesa, e rabbiosamente risoluta a non sforzarsi più a resistere a quel regime di suoni incessanti, che
aveva coperto la sua voce anche quando mi aveva posto l'aut aut (o me o la musica, suppongo) e,
vedendomi sordo al suo ultimatum – che in realtà non m'aveva raggiunto, troppo flebile per
contrastare il muro compatto dello scrosciante finale di non so quale sinfonia – se n'era andata. Per
sempre.
Non so se è stato nel momento esatto in cui si è richiusa dietro la porta. Probabilmente è avvenuto
qualche giorno o settimana più tardi. Sta di fatto che la musica ha smesso di coprire le cicale: forse
s'era trattato solo di una mia illusione che l'acufene soccombesse alla nube di suoni che riempiva le
stanze. Un'illusione che aveva bisogno d'un testimone ugualmente immerso in quella nube, a quanto
pare.
Quel che è successo è che la casa è ridivenuta silenziosa. E vuota. L'ho abbandonata anch'io. Mi
sono trasferito in tre stanze dall'altra parte della città. Senza portarmi dietro né radio né giradischi,
né lettori di CD né registratori.
Le cicale, da quel momento, sono diventate un esercito, o quelle che già mi seguivano hanno
cominciato a frinire con un determinazione e un'intensità crescenti. Non so.
Non sono di quelli che non fanno che lamentarsi dei loro mali, ma neanche uno che alla domanda
come va risponde sempre: bene. Qualche volta, ai parenti, agli amici più stretti, l'ho detto,
dell'acufene. E così mi sento chiedere, da mio fratello per esempio, che è sordo come una campana
ma non ha ombra di acufeni: c'è sempre il fischio? E sembra rassicurato quando gli dico che sì, c'è
sempre, ed è inutile che gli dica che non è mai stato un fischio: non mi sente. Inutile sottilizzare sul
frinire eccetera, con lui.
E anche Fausto, il mio migliore amico: ha imparato da piccolo a lanciare un fischio acuto, senza
neanche mettersi le dita fra le labbra. Piega la lingua in un certo modo, come la arrotolasse in bocca,
e manda quel suono lacerante – per chiamare suo figlio, o il cane – e ride quando mi vede portare
subito la mano all'orecchio sinistro per tapparmelo. Lo sa che quel fischio è come un segnale di
battaglia per le mie cicale, che triplicano la loro voce quando lo sentono, ma se ne dimentica. Mi
chiede scusa. E ride. Perché è così: non ti prendono sul serio. Chi soffre di acufene è meglio che
non lo dica perché se no quella che lo aspetta è la stessa sorte dei sordi, che tutti, più o meno
benevolmente, prendono in giro. O coi quali perdono subito la pazienza. Nessuno si sognerebbe di
tenere un comportamento del genere con uno che ci vede poco. Ma è così, non si sa perché. E
dunque non ne parlo, di solito. Perché non mi piace neanche quando invece ti prendono sul serio,
come la fisioterapista che mi ha fatto recentemente dei massaggi per il mal di schiena: dev'essere
proprio uno stoico lei, per sopportare una roba del genere, mi ha detto un giorno. Avevo dovuto
dirglielo perché mi aveva chiesto tutte le magagne che avevo, e allora se n'è uscita con quello
stoico: una beffa, né più né meno come quando ti dicono: ma sa che lei ha proprio una bella
scogliosi?
Per cui, basta. Meno se ne parla e meglio è.
Poi ci sono le eccezioni. Col dottor Virgil ad esempio, un altro tdesco che sta sei mesi all’anno da
queste parti, ne ho parlato. Lui è un famoso epilettologo. Un'autorità fra gli studiosi di epilessia. Ho
pensato che magari lui, studioso del cervello e di tutto quello che gli può succedere, mi potesse dire
qualcosa. E infatti me l'ha detto, dopo avermi chiesto se avessi mai subito dei traumi cerebrali.
Nessuno dei medici da cui ero andato me l'aveva chiesto. Gli ho raccontato della caduta in
bicicletta, quando avevo undici anni, e della commozione cerebrale che ne era seguita. Ecco, ha
detto, lei è fortunato: poteva diventare epilettico, e invece le è venuto solo l'acufene.
Lì per lì mi sono detto guarda che culo che ho avuto. Ma poi, mentalmente, ho aggiunto: e se il
dottor Virgil invece che di epilessia fosse stato un esperto di schizofrenia cosa mi avrebbe detto?
In seguito però le parole di Virgil si sono messe a lavorare nella mia mente, e mi hanno fatto bene,
devo dire: l'acufene, da quel momento, non è stato più colpa mia. E' stata la fatalità di quella caduta,
non l'irragionevolezza degli anni Ottanta a causarmelo. Dunque, inutile prendersela. Quanto meno
con me stesso.
Mi è anche capitato di pensare che in realtà ero caduto – all'indietro, sbattendo la testa a
fratturandomi l'occipite – perché mi piaceva tenere la sella un po' svitata in modo da poterla far
scivolare e andare a sedermi sul parafango della ruota posteriore continuando a pedalare. Però non
ho sostituito il senso di colpa di prima con uno nuovo: il bambino che faceva quella bravata era un
altro, ormai. Non ero io, come invece quello degli anni Ottanta, che bene o male mi sembra sia
ancora quello che sono oggi.
Questa comunque non mi sembra di doverla raccontare a Helmut quando torna a sedersi vicino a
me dopo essere stato una mezzora a cantare in fondo alla tavolata non solo quali inni teutonici.
Non gliela racconto anche perché conosce Virgil, e non vorrei che poi andasse a dirgli che io gli ho
riferito il suo parere medico e che dunque anche lui volesse una diagnosi sul suo, di acufene.
E' un po' su di giri dopo la cantata. Han bevuto parecchio là in fondo. Nel sedersi mi fa quel gesto
roteante vicino all'orecchio, senza smettere però di ridacchiare. E allora, cosa facciamo? mi chiede
con aria complice. Chissà se anche i tedeschi, penso, dicono mal comune mezzo gaudio…
Niente, gli rispondo.
Proprio niente eh? Anche a te i medici hanno detto che non c'è niente da fare...
Veramente no: nessuno di quelli di cui ti raccontavo me l'hanno detto. Solo l'ultimo che ho sentito,
un paio d'anni fa.
E cosa ti ha detto di preciso?
Era un giovane, molto giovane. Il camice bianco aperto su una maglietta con stampata la faccia di
non so quale cantante, jeans e scarpe da ginnastica. Ero andato da lui per un mal di gola che non mi
passava, ma già che c'ero, gli ho detto dell'acufene che ho da anni: ha fatto un gesto di fastidio,
come gli avessi detto se poteva fare qualcosa per il rubinetto del mia vasca da bagno che perdeva e
nessuno mi aveva saputo riparare, e ha ripreso a chiedermi del punto della gola che mi faceva male.
Ma, l'acufene..., ho tentato ancora.
Mi ha rivolto uno sguardo minaccioso, del tipo: provaci un'altra volta...
E allora? mi chiede Helmut con una faccia da clown a spettacolo finito, dandomi l'impressione che
il vino adesso gli stia facendo l'effetto contrario: dal ridere al piangere.
Be', una cosa che ho cercato di fare è stata quella di pensare che quelle che sento sono davvero
cicale: di ascoltarlo l'acufene, insomma. Di smettere di cercare di non sentirlo e invece di prestargli
attenzione, proprio come si farebbe se ci si fosse stesi sull'erba in un prato pieno di cicale...
Mi versa da bere, Helmut, e riempie anche il suo bicchiere: la storia delle cicale non sembra averlo
tirato su. E allora mi risolvo a dirgli un'altra... soluzione, si fa per dire. Solo un'idea, un abbozzo
d'idea. Mai messa in parole, tanto è vaga. Ma adesso è il momento di vedere che effetto può fare: se
non la dico a uno come Helmut a chi la dirò mai?
Senti che cosa ho pensato, anche, e bevo un sorso per farmi coraggio. Ho pensato... che bisogna
pensare... – l'astrattezza di quel che sto dicendo mi fa impappinare, ma mi riprendo – ... pensare
che questo suono è un richiamo. Ecco: un richiamo. Il richiamo del presente, del momento presente.
Un avvertimento continuo: bada che la vita è adesso: sveglia! attento! Capisci?
Il suo sguardo da opaco si è fatto per un attimo inquieto. Cerco di spiegarmi meglio, appellandomi
alla sua cultura classica: questo suono – non mi viene di chiamarlo acufene, a questo punto – ti dice,
ci dice, che il kairòs non è un'eccezione, un momento speciale, isolato, ma che ogni momento è il
momento giusto, il momento opportuno, il kairòs appunto. E dunque cronos è fatto di molti, di
infiniti... – come diavolo sarà il plurale di kairòs? kairòi? Meglio non strafare: questo il greco lo
sa... – cronos è fatto d'un kairòs dopo l'altro, ecco, sempre che sappiamo rendercene conto
naturalmente, e... capisci?
Capisce? Non so. Mi sorride, ma mi sembra imbarazzato, a disagio, come se la mente gli si fosse di
colpo snebbiata nell'ascoltarmi e non sapesse più cosa dire. Mi pare un gesto di gratitudine quello
che fa alla moglie quando lei gli si avvicina, gli mette una mano sotto l'ascella e,
contemporaneamente facendo un cenno di saluto a me, lo invita risolutamente ad alzarsi. E' ora di
andare: genug, dice, con un tono che non ammette appello. Genug: abbastanza vuol dire, è una delle
poche parole tedesche che conosco. Anche se non so se la moglie di Helmut si riferisca al tempo
che sono stati qui o ai bicchieri che ha scolato lui.
Helmut la segue docile, senza voltarsi a dirmi qualcosa, o a farmi un cenno.
Resto lì a pensare che non mi sbagliavo: certe cose non si possono dire. Neanche a chi senti più
vicino, simile. Conti sulla confidenza e è proprio lì che la comprometti: avvicinandoti troppo,
trasgredendo una specie di convenzione implicita per cui una distanza minima deve restare. Sempre.
Con tutti. Non sai perché ma lo senti che certi pensieri, che ti sembrano preziosi anche se sfuggenti,
indefiniti, li devi tenere per te. Li hai detti che ti sembrava di regalare una cosa tua, con la voce che
si ha quando si fa un dono che non sai se verrà accolto con la stessa emozione con cui tu lo stai
facendo. E te lo ritrovi fra le mani. Neanche rifiutato: per rifiutare una cosa la si deve vedere,
considerare. No: una cosa che non è stata raccolta. Come se se ne fosse avvertita la sconvenienza
ancor prima di prenderla davvero in considerazione...
Me ne vado anch'io. Faccio un cenno di saluto a Frau Herzlen, che non ha più detto una parola e –
giunta al quarto limoncello, credo – tiene gli occhi fissi davanti a sé con un sorriso stabile quanto lo
sguardo: un'espressione che tutto sommato si potrebbe interpretare come un silenzioso cenno di
commiato, buono per tutti.
Torno a casa, che è qui a un paio di chilometri, sulla sponda di uno dei tanti torrenti che van giù al
lago. Era stata un mulino, un vecchio mulino in cui mi ero imbattuto durante una passeggiata.
C'erano ancora i mugnai allora, marito e moglie. Gli avevo chiesto come facevano a dormire con
quel rumore: lo scroscio dell'acqua che una volta faceva girare la ruota.
Quale rumore? mi avevano domandato.
Non so se l'idea mi è venuta allora. Forse sì, anche se al momento non me n'ero reso conto. Sta di
fatto che due anni fa ho lasciato l'appartamento in città, ho comprato il mulino dai figli dei due
vecchi – lei morta, nel frattempo, e lui in una casa di riposo – e l'ho sistemato.
Non ci sono più cicale.
Solo il rumore dell'acqua del torrente.
Dentro e fuori. In ogni momento del giorno e della notte. Sempre.