Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
Quando una figlia o un figlio di immigrati riesce a passare oltre ai problemi che la sua condizione
spesso impone, il limite si trasforma in ricchezza: è il caso di registi come le sorelle Sandereli, che
possono vantare una cultura composita, una famiglia composita, un modo complesso e autoironico di
guardare al loro passato e al presente. E se qualcosa, col passare del tempo, inevitabilmente si perde,
ne guadagna una capacità di sorridere e ridere di sé e del mondo che è il regalo 'serio' di questo film.
scheda tecnica
durata:
97 MINUTI
nazionalità:
GERMANIA
anno:
2011
regia:
YASEMIN SAMDERELI
sceneggiatura:
NESRIN SAMDERELI, YASEMIN SAMDERELI
fotografia:
THE CHAU NGO
montaggio:
ANDREA MERTENS
colonna sonora:
GERD BAUMANN
scenografia:
ALEXANDER MANASSE
distribuzione:
TEODORA
interpreti:
VEDAT ERINCIN (Hüseyin, anziano), FAHRI OGÜN YARDIM (Hüseyin,
giovane), LILAY HUSER (Fatma, anziana), DEMET GÜL (Fatma, giovane), DENIS MOSCHITTO (Ali
Yilmaz), AYLIN TEZEL (Canan Yilmaz), PETRA SCHMIDT-SCHALLER (Gabi Yilmaz), RAFAEL
KOUSSOURIS (Cenk Yilmaz), ALIYA ARTUC (Leyla Yilmaz), KAAN AYDOGDU (Muhamed Yilmaz),
AXEL MILBERG (Il funzionario tedesco) WALTER SITTLER (L'uomo del negozio), MANFRED-ANTON
ALGRANG (Dolmetscher), JO BRAUNER (Il conduttore), SIIR ELOGLU (Leyla Yilmaz adulta), ERCAN
KARACAYLI (Muhamed Yilmaz adulto), AYKUT KAYACIK (Veli Yilmaz adulto).
Yasemin e Nesrin Samdereli
Yasemin Samdereli, nata a Dortmund nel 1973, studia cinema alla Hochschule für Fernsehen und Film
di Monaco. A soli 20 anni inizia a lavorare come assistente alla regia e sceneggiatrice, quindi approda
come free lance alla Bavaria Film, dove si occupa del progetto didattico Das filmende Klassenzimmer.
Negli anni successivi si fa le ossa collaborando a grandi produzioni internazionali come Jackie Chan is
Nobody (1997), Senza nome e senza regole (1998), Teddy Chan’s Accidental Spy (2000), o Fields of
Dreams (2002). Negli stessi anni inizia a dirigere, spesso con l'aiuto della sorella, diversi cortometraggi:
Schlüssellöcher (1994), Lieber Gott (1995), Lachnummern (1996), Kismet (2001), Sextasy (2004).
Nel 2002 dirige il suo primo film per la tv, la commedia multiculturale Alles getürkt a cui segue nel 2007
Ich Chefe, Du Nix, mentre nel 2006 è tra le firme della serie tv di culto Turkish for Beginners. Almanya è
il suo primo lungometraggio per il cinema. Come attrice, compare in Delicious (2004), della sorella.
Nesrin Samdereli è nata a Dortmund nel 1979. Entra nel mondo del cinema lavorando alla Kinowelt.
Inizia quindi a collaborare con Yasemin per la sceneggiatura dei suoi cortometraggi Kismet (2001),
Sextasy (2004). È ancora al fianco della sorella per Alles Getürkt, film per la TV trasmesso nel 2002,
mentre scrivono insieme una puntata della celebre serie Turkish for Beginners. Nesrin dirige Delicious,
il suo primo cortometraggio, nel 2004.
la parola ai protagonisti
Note di regia
Tempo fa abbiamo iniziato a notare che molte persone trovavano divertenti i racconti della nostra
infanzia, racconti di due bambine di origine turca nate a Dortmund. Basti pensare che una di noi
(Nesrin) andava alla scuola cattolica, passando i mercoledì a cantare inni in chiesa, mentre l’altra
(Yasemin) suonava il flauto in una banda. E ancora c’è chi crede che noi turchi non ci siamo dati da
fare per integrarci! In ogni caso, quello dell’integrazione è un tema fondamentale oggi e il nostro film
affronta delle domande chiave: perché siamo qui, come tutto è cominciato e cosa significa essere
“stranieri”.
Negli anni ottanta uscì un film molto drammatico, Yasemin. La gente pensava che nostro padre ci
trattasse come quello del film tratta la figlia, in modo repressivo, e non importava che noi negassimo
dicendo che nostro padre era molto tollerante. La gente non ci credeva. Questo dimostra che alcune
persone vogliono ancora pensare che milioni di Turchi che vivono in Germania siano tutti uguali, con
famiglie conservatrici pronte a punire le figlia innamorata del ragazzo sbagliato. È anche questo il
motivo per cui volevamo girare una commedia che raccontasse la storia di persone normali come
quelle con cui siamo cresciute.
Nella sceneggiatura abbiamo inserito molti aneddoti della nostra giovinezza, ad esempio il nostro
ardente desiderio del Natale. Per noi era una tortura vedere i nostri amici tedeschi mostrare
orgogliosamente i loro regali e raccontarci le tradizioni natalizie, con l’albero, tutto quel buon cibo, ecc.
Una volta abbiamo costretto nostra madre a organizzare una festa di Natale, ma è il risultato è stato un
flop totale…
Nesrin ricorda che in seconda elementare le fu chiesto se c’era una festa simile al Natale tra noi
musulmani. Pur di dire qualcosa, lei parlò della Festa del Sacrificio (la ʿīd al-aḍḥā), durante la quale le
pecore vengono sgozzate e la carne distribuita a parenti e vicini. Dopo questo racconto, gli altri bambini
tedeschi hanno cominciato a guardarla in modo strano… Alcuni dei loro genitori hanno preso l’abitudine
di farci dei regali di Natale, per compassione!
Scrivere la sceneggiatura di Almanya – La mia famiglia va in Germania è stato un processo lungo e
difficile e se non l’avessimo affrontato insieme ci saremmo sicuramente arrese. In compenso siamo
diventate un buon team, anche lavorando separatamente su diverse scene. Alla fine abbiamo dovuto
stendere diverse versioni del copione, poiché in Germania c’è una tradizione di film a tematica “turca”
essenzialmente drammatica… Le compagnie di distribuzione erano spaventate dal fatto che la nostra
fosse invece una commedia!
Ancora più complesse sono state le riprese, poiché il progetto in sé rappresentava una sfida
appassionante: un cast nutrito, molte scene con bambini protagonisti, l’ambientazione nel passato dei
tanti flashback. Le sequenze degli anni Sessanta girate in Turchia a Izmir (Smirne) rimangono quelle
più faticose, anche nel voler ricreare l’atmosfera del passato: solo convincere le famiglie turche a
togliere le antenne dai tetti e rinunciare alla tv per due giorni è stata un’impresa folle!
Oggi in Germania è in corso un intenso dibattito su come risolvere la questione dell’integrazione. Si
svolgono discussioni infuocate sui lampanti deficit culturali dei Gastarbeiters (lavoratori ospiti), sui loro
presunti comportamenti antisociali che sfogano nella violenza o in fenomeni come i delitti d’onore. A
volte il multiculturalismo sembra essere finito, ma quello che troviamo nei titoli dei giornali è solo quello
che NON funziona. Almanya – La mia famiglia va in Germania ci ricorda che questi lavoratori stranieri
erano invitati dal governo tedesco e che hanno dato un enorme contributo alla stabilità economica del
paese. Avevano il diritto di restare e i loro figli e nipoti sono cittadini tedeschi a tutti gli effetti. Questo è
quanto dice il nostro film: siamo qui e per noi è giusto così.
Cinema e migranti
Nel cinema italiano il tema della migrazione dei popoli è molto presente fin da anni molto lontani,
quando i registi raccontavano le vicende degli Italiani che avevano lasciato il Paese in cerca di fortuna,
come Emigrantes di Aldo Fabrizi, produzione italo-argentina del 1949; Il gaucho del 1964, di Dino Risi;
La ragazza con la pistola (1968), con Monica Vitti e La mortadella (1971), con Sophia Loren, entrambi
di Mario Monicelli; e ancora, Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata, di Luigi
Zampa (1972), con Alberto Sordi; e tanti altri, nei quali la drammaticità dei destini individuali non
sempre trovava un alleggerimento nell'ironia e nei toni della commedia. Di recente, il cinema nostrano è
tornato a temi analoghi, ma ora l'Italia è diventata il Paese di destinazione dei flussi, anziché di
partenza: perfino Nuovo Mondo di Emanuele Crialese, che affronta ancora l'emigrazione italiana,
sembra realizzato con l'intento di ricordarci che anche noi siamo stati nei panni degli immigrati attuali.
Lo stesso regista ha poi girato Terraferma, che affronta il motivo del viaggio dei migranti, già
magistralmente trattato da Winterbottom in Cose di questo mondo, ma anche da almeno tre film italiani:
Lamerica di Gianni Amelio, Quando sei nato non puoi più nasconderti di Marco Tullio Giordana e Un
altro mondo di Silvio Muccino. Terraferma si è visto in buona compagnia nell'ultima edizione del
Festival di Venezia, nella quale il tema è stato a dir poco predominante, con Il villaggio di cartone di
Ermanno Olmi, Io sono lì di Andrea Segre, La-bas, opera prima di Guido Lombardi e Cose dell’altro
mondo di Francesco Patierno. A Cannes, pochi mesi prima, Miracolo a Le Havre di Aki Kaurismaki
riceveva le ovazioni del pubblico.
Altro è il discorso del cinema statunitense, dove vari filoni si sono succeduti, privilegiando gli aspetti
drammatici dell'immigrazione e delle sue conseguenze: dal film sulla mafia italiana a quello sulle
diverse comunità presenti nelle città americane, con un momento di svolta rappresentato da Fa' la cosa
giusta (1989), di Spike Lee, che ha segnato un punto a favore di un realismo duro e disincantato. In un
certo senso, quest'ultimo film si inserisce nel filone del cinema che racconta le storie delle seconde
generazioni, nel quale, pur raccontando anche la storia dei padri, rientra anche Almanya.
Tra i capostipiti di questo filone in area europea, c'è uno dei migliori film di Stephen Frears, My
Beautiful Laundrette, (1985), basato su un testo di Hanif Kureishi, scrittore di origini pakistane, che
mescola toni drammatici e di commedia toccando anche temi particolarmente dolorosi, come la
discriminazione causata da razzismo e omofobia. A un romanzo di Kureishi è ispirato anche il
successivo film di Frears, Sammy e Rosie vanno a letto (1987). Ancora dalla cinematografia britannica
proviene East is East, diretto dal regista irlandese Damien O'Donnell (1999) ma scritto dall'anglopakistano Ayub Khan-Din. Questo lavoro è forse il primo di una nuova serie di film sul tema delle
seconde generazioni, la prima commedia europea a focalizzarsi sull’incontro, più che sullo scontro
sociale e culturale tra etnie diverse. Salvo Un bacio appassionato di Ken Loach (2005), scritto e diretto
da inglesi, la maggior parte dei film di questo tipo è frutto del lavoro di registi o autori a loro volta
immigrati o figli di immigrati, dotati di un occhio capace di guardare alla propria esperienza per cogliere
sfumature reali e significative. A partire dagli anni Novanta, ciò che sembra aver più caratterizzato il loro
lavoro è appunto la tendenza ad alleggerire le situazioni realistiche con umorismo e ironia, mettendo in
luce anche gli aspetti positivi e ottimistici della fusione tra culture. Sono nati così film molto popolari
come il già citato East is East o Jalla! Jalla!, una divertente commedia del 2000 diretta dal regista
svedese di origini siriane Josef Fares; Sognando Beckham (2002) di Gurinder Chadha, una regista di
famiglia indiana emigrata a Londra; Il mio grosso grasso matrimonio greco (2002), diretto da un regista
americano, ma scritto, sceneggiato e interpretato da Nia Vardalos, figlia di genitori greco-canadesi e
ispiratasi alla propria stessa vicenda. Fra i titoli più recenti, Il cacciatore di aquiloni (2007), diretto dal
regista svizzero naturalizzato statunitense Marc Forster, ma tratto dall'omonimo best-seller di Khaled
Hosseini, di origini afghane, e Soul Kitchen (2009) di Fatih Akın, il regista tedesco di origine turca che si
è fatto conoscere con La sposa turca (2004). Va poi ricordato Le donne vere hanno le curve (Las
mujeres de verdad tienen curvas, 2002), della colombiana Patricia Cardoso, adattamento di un testo
teatrale del 1990, Real Women Have Curves, opera parzialmente autobiografica dell’autrice chicana
Josefina López: come in Almanya, il testo teatrale e il film affrontano, in maniera diversa ma sempre
ironica e umoristica, l'incontro tra due lingue e i problemi che ne derivano. Due pellicole che subiscono,
più di altre, i dannosi effetti del doppiaggio.
Recensioni
Alessandra Levantesi Kezich. La Stampa
È una commedia sulla differenza di culture, vista attraverso l’occhio trans-generazionale di un clan di
origini turche residente nella Germania di oggi. Dove, secondo legge, risultano automaticamente
tedeschi i figli e nipoti lì nati, mentre i nonni, venuti dall’Anatolia, sono solo ora sul punto di ottenere la
cittadinanza. Ma in realtà Almanya, che l’esordiente Yasemin Samdereli ha realizzato sulla base del
copione scritto con la sorella Nezrin, è anche una storia familiare narrata come una fiaba fra la lacrima
e il sorriso; e il racconto di un viaggio in patria che si traduce in un coinvolto ritorno alle radici.
In pratica, è il piccolo affresco di un mondo post-migratorio consapevole della necessità di conservare
viva la memoria del passato in onore di chi fu e per l’arricchimento di chi verrà. Vivace, ben orchestrata,
animata da bravi attori, la pellicola è soprattutto rinfrescante e non banale per il modo allegro con cui
affronta il tema dell’integrazione, ribaltando l’ottica dei pregiudizi e senza preoccuparsi del
politicamente corretto. Sarà bello quando pure in Italia, tanto indietro su questi problemi - e sì, che
siamo stati un popolo di emigranti - qualcuno sarà in grado di fare un film così.
Alberto Crespi. L’Unità
Sta nascendo un genere: chiamiamolo «commedia multietnica» e non saremo lontani dal vero. È un
genere trasversale del cinema europeo, anche l'Italia sta cominciando a dare il suo contributo (ad
esempio, Bianco e nero di Cristina Comencini). È un genere simpatico e un po' gaglioffo, che lavora
consapevolmente sui cliché, li cavalca, li analizza e li smonta e sta poi alla bravura dei singoli registi, e
degli sceneggiatori, trasformarli in riflessione «alta» sui rapporti sociali e sull'animo umano. A noi critici,
invece, spetta ricordare due cose fondamentali: che da sempre la commedia lavora su questi materiali
(i personaggi di Plauto e le figure della commedia dell'arte cosa sono, se non stereotipi?) e per questo
è il genere che meglio di altri racconta la propria contemporaneità. In Italia, e altrove. In Germania il
campione della commedia multietnica è il Fatih Akin di Soul Kitchen, splendido sceneggiatore e ottimo
regista. Yasemin Samdereli (38 anni, nativa di Dortmund) si muove nella sua scia. In Germania i
lavoratori turchi, o di origine turca, sono moltissimi; e la comunità ha espresso numerosi cineasti
importanti, sin dai tempi del bellissimo 40 mq di Germania di Tevfik Baser, 1986.
In Almanya c'è una scena che vale tutto il film: l'ormai anziano Huseyin, capostipite di una famiglia
allargata in cui i giovani si sentono più tedeschi che turchi, sta per ricevere la cittadinanza tedesca. La
moglie è entusiasta, lui un po' meno. La notte prima della concessione del fatidico passaporto, ha un
incubo. Lui e la moglie sono davanti al funzionario, che prima di consegnargli i documenti pretende che
mangino wurstel e Kartoffeln, patate. Lui si gira verso la consorte e la vede vestita da tirolese, con
trecce camicia bianca e gonnellino di pelle. Si sveglia urlando. Ecco, quella è una sequenza che gioca
mirabilmente sui cliché. I quali, però, vengono arricchiti nel segno della reciprocità. Almanya prende in
giro turchi e tedeschi in egual misura, e persino il progetto di Huseyin di riportare la famiglia al paesello
natio si ammanta, al tempo stesso, di nostalgia e di farsa. Girato molto bene, pieno di trovate, Almanya
è un film da vedere.
Paolo D'Agostini. La Repubblica
Una commedia familiare on the road, divertente e anche un po' malinconica. Pieno di requisiti per
piacere, come infatti è accaduto dal festival di Berlino al boom nelle sale, Almanya - cioè come i turchi
chiamano la Germania - è il primo film di due sorelle nate a Dortmund da famiglia turca negli anni
Settanta. Quello di Yasemin e Nesrin Samdereli è un modo leggero, morbido e sorridente di raccontare
una vicenda importante nella storia delle grandi migrazioni europee del dopoguerra, quella molto
numerosa dei turchi in Germania soprattutto negli anni Sessanta, che evidentemente ha invece
conosciuto anche molti risvolti difficili e dolorosi. Appartiene a un filone che in anni recenti ha incontrato
molta fortuna e va ad aggiungersi a esempi come East is East, sull' immigrazione pakistana in
Inghilterra, o a quello più prossimo dei film di Fatih Akin. Questo è soprattutto un caldo, partecipato
omaggio a quei milioni di storie, di persone e di famiglie che hanno fatto una grande impresa,
collaborando significativamente al boom economico tedesco. Reso da chi è nato tedesco ma senza
dimenticare le sue radici. Ed è forse la ragione per cui Almanya dovrebbe trovare una buona risposta
anche presso il nostro pubblico ammesso che possa ancora riconoscere quei tratti comuni della nostra
lunga storia di emigrazione di cui si va perdendo memoria. Il patriarca della famiglia (la cui seconda
generazione è nata un po' in patria e un po' in Germania, mentre la terza dei nipotini è tedesca) si
chiama Huseyin e intorno alla tavola da pranzo del giorno di festa annuncia a moglie, figli, nuore e
nipoti che ha comprato una casetta nel villaggio natale dell' Anatolia, e desidera che tutti insieme
vadano là a fare una vacanza. La sorpresa è generale, a partire dalla moglie Fatma che è invece tutta
presa da altre cose come l' imminente consegna all' ormai anziana coppia del passaporto tedesco e del
riconoscimento della cittadinanza. E come anche l' arrivo di una lettera ufficiale che invita Huseyin a
partecipare a una cerimonia dove, in qualità di immigrato numero un milione e uno, dovrebbe anche
tenere un discorso alla presenza della cancelliera Merkel. Andiamo scoprendo anche tutte le singole
storie dei componenti e il ventaglio dei problemi di ciascuno. Mentre si forma e viene in evidenza una
triangolazione di speciale intesa tra il vecchio (che tanto vecchio non è), la sua figlia minore e unica
femmina dei quattro (che per primo al padre confessa di essere rimasta incinta del fidanzato inglese), e
il nipotino più piccolo Cenk. È su questa triangolazione che s' innesta il motivo narrativo che percorrerà
tutto il film alternandosi all' oggi, ai preparativi, alla partenza, al viaggio in terra turca. Si tratta della
rievocazione, del racconto che la ragazza fa al bambino di quandoe come il nonnoè giunto in
Germania, nel ' 64, e di quando e come poi sia stato raggiunto dal resto della famiglia. Un racconto
senza asperità, tutto positivo e ottimista, il massimo del disagio pare essere stato quello del crocifisso
trovato nell' umile appartamento d' affitto e prontamente rimosso tra le risatine dei bambini che non
capiscono che cosa sia.O dei servizi igienici dove lo sconosciuto wc sostituisce il più familiare servizio
"alla turca". Insomma Almanya (il cui snodo finale va scoperto vedendolo, anche se non è proprio un
colpo di scena) smussa gli spigoli ma è un delizioso atto d' amore.
Elisa Salvadori. Coming Soon
Fare un film, soprattutto il primo film, pensato, scritto e cambiato per poi essere presentato al mondo.
Un po' come l'atteso momento di riempire un'ideale "pagina bianca", con la propria determinante e
personalissima storia, o conoscenza, o immaginazione che sia. Ciò che la dovrebbe rendere diversa
dalle altre, comunque importante quanto le altre, e farla rimanere bene a galla, nel tempo. Sfida difficile,
tentata da molti, vinta da pochi.
La regista Yasemin Samdereli che dieci anni fa, insieme alla sorella Nesrin, ha iniziato a scrivere sulla
sua "pagina bianca", conclude il suo percorso di iniziazione al cinema, lasciandoci davanti agli occhi, un
album di famiglia dai colori caldi e vividi, su cui restano impressi ricordi e racconti pieni di indiscutibile
valenza emotiva.
Non era un gioco facile il suo, soprattutto in patria. Partendo dal proprio vissuto di giovane di origine
turca - ormai naturalizzata tedesca da due generazioni - la regista ha voluto, e cercato di raccontare (di
nuovo e a suo modo) il senso profondo dell'essere immigrati, la realtà che meglio conosceva, e che
aveva urgenza di venire alla luce. Aggiungendo così, un altro piccolo tassello, stavolta lieve e colorito,
che si inserisce nella storia di una cinematografia che, da anni, affronta il tema dell'integrazione, in
un'ottica conflittuale e drammatica.
Scongiurato il rischio di essere condannato per faciloneria, e respinto come superficiale voce fuori dal
coro di serietà e impegno (il film infatti è stato accolto positivamente dalla critica, e da un clamoroso
successo di pubblico, in Germania), restava un altro, e forse più ingrato, compito. Quello di emergere
tra le numerose pellicole internazionali che, da oltre un decennio, "festeggiano" il melting pot multietnico, raccontandone, attraverso i toni della commedia, anche i non trascurabili fallimenti e
complessità. Tutt'intorno il paese, nuovo e freddino, che storcendo il naso li accoglie, in mezzo loro:
pakistani, indiani o turchi che ballano, mangiano, ridono e piangono. Come in molti film, anche in
questo. La trappola della memoria nostalgica e della cronaca dolce amara di lontananza e storia
familiare, può infatti tradire anche la sceneggiatura più fresca.
Le sorelle Samdereli amano i classici della commedia, e la loro narrazione rimane quasi sempre
brillante e cristallina, e i momenti di retorica sentimentalista si fanno dimenticare, in un lavoro di
scrittura dall'ottima tenuta che, come racconta la regista, può ringraziare sinceramente riferimenti come
Ernst Lubitsch e Woody Allen.
La storia del patriarca Hussein Yilmaz, (che per un soffio non fu il milionesimo e acclamato Gastarbeit
della Germania del 64), pronto, dopo quaranta anni a portare tutta la famiglia, in Anatolia, dove
segretamente ha acquistato una piccola casa, è cadenzata dai flash back che la giovane nipote crea,
raccontandola al piccolo cuginetto Cenk, in piena crisi di identità culturale.
La famiglia Yilmaz infatti è tedesca a tutti gli effetti, sottoscrivendo anni prima un patto infernale che li
obbligava a mangiare maiale tutti i giorni, vedere l'Ispettore Rex una volta a settimana, e andare ogni
due anni in vacanza a Palma di Maiorca.
E' forse il fatto che sia spesso il punto di vista dei bambini, a coincidere con il racconto dei fatti, che
rende più tangibile lo stupore davanti allo sconosciuto e diverso, l'assurdità dei pregiudizi (quasi
inevitabili) e l'aspetto anche grottesco di certe paure; è infatti questa flagranza, il punto di forza del film.
Insieme ad essa, la performance globalmente riuscita, di un cast "multiculti", in Italia poco conosciuto,
ma meritevole di grande attenzione.
Così il terrore per il crocifisso, truculenta figura che perseguita Muhamed, il secondo figlio di Hussein, o
lo spettro paradossale del cannibalismo, nato dall'idea del sacramento della comunione, aggiungono
garbatamente una prospettiva in più, quella sulla diffidenza turca nei confronti del paese ospitante,
come ulteriore modo per guardare ai propri limiti, dalla parte opposta della "barricata".
Cavalcando il surreale, con regia e fotografia che ricordano (non poco) il Jean-Pierre Jeunet di
Delicatessen e de Il favoloso mondo di Amélie, nella ricerca dell’effetto un po' si eccede; ma sono
comunque di più i momenti preziosi in cui, sorridendo e ridendo, nitidamente si guarda a ciò che
significa essere perennemente stranieri, andata e ritorno, attratti e respinti dai due poli, tra cui sono
divise intere generazioni.
luigilocatelli.wordpress.com
Ai tempi della grande immigrazione qui al Nord dall’Italia meridionale (se non vi ricordate di persona in
quanto non avete l’età, almeno qualcosa vi dirà un film come Rocco e i suoi fratelli) circolava una
leggenda metropolitana, non si sa quanto verosimile o proiezione del pregiudizio dei nordici: che
l’immigrato appena arrivato con la sua valigia al Nord e famiglia a carico e sistemato in una qualche
casa popolare tirata su in fretta in una periferia torinese o milanese, di fronte al bidet, oggetto a lui
sconosciuto, non capendo bene a cosa potesse servire, lo utilizzasse per coltivarci l’amato basilico.
Qualche variante diceva pomodori, ma il senso quello sempre è. M’è tornata in mente, quella storia,
assistendo in questo molto divertente (e non solo) Almanya alla scena in cui la mamma turca appena
arrivata in Germania, vedendo il water della povera casa in cui andranno ad abitare, esclama davanti
all’esterrefatto marito (emigrato da tempo in terra teutonica e dunque più aduso a certe faccende): ma
che è quella strana sedia? che ci sta a fare lì? L’immigrazione, e l’integrazione più o meno difficile, più o
meno riuscita, passa anche attraverso cose minime come queste, fatterelli, quisquilie, bagattelle che
però sanno raccontarci i piccoli scontri e incontri di civiltà meglio di roboanti spieghe, passa attraverso
la vita materiale, per dirla con qualche storico. La trentasettenne regista tedesca di famiglia turca
Yasemin Samdereli ha scelto questa strada delle robe minime e assai quotidiane per mostrarci la
venuta in Germania, e tutto quello che ne segue e consegue, di una famiglia partita da un posto a casa
di Dio nell’Anatolia, neanche Istanbul (quando il bambino di terza generazione che non parla la lingua
avita, ma solo quella dello ja e del nein, dice che i suoi sono arrivati dall’Anatolia, la maestra assai
politically correct che sta illustrando sulla mappa continentale le varie provenienze degli alunni – tutto
un trionfo di Europa dell’Est e mediterranea – si ritrova spiazzata giacchè la carta appesa al muro
dell’aula arriva solo fino alla Turchia sponda europea, e dopo il Bosforo più niente, il vuoto). Facendosi
aiutare in fase di scrittura-sceneggiatura dalla sorella minore Nesrin, la regista confeziona un filmcommedia (con parecchi slittamenti nel melodramma) assolutamente irresistibile, un film semplice
semplice ma non così ingenuo, che va dritto al cuore delle platee e non si vergogna di essere popolare
e immediato, e difatti in Germania si è portata a casa molti milioni di euro al box office, e il successo si
sta replicando in tutta Europa (Teodora, che lo distribuisce da noi, visti gli ottimi risultati del primo
weekend di proiezione ha deciso di aumentare le copie in occasione delle feste). Almanya sta per
Germania in turco (...). Le sorelle Samdereli, con un certo coraggio (e chissà quanto consapevole) e
con supremo sprezzo della probabile indignazione della critica engagée, osano l’inosabile, cioè
raccontare l’immigrazione turca in Germania degli anni del boom economico degli anni Sessanta-
Settanta (il boom tedesco, quello turco è adesso) senza piagnistei, senza accuse di razzismo ai
tedeschi, senza farci vedere il rifiuto e il rigetto da parte dei biondi teutonici del moro e scuretto e
baffuto uomo anatolico, insomma aggirando il canone del film di immigrazione, che sia Il Padrino parte
seconda o il pur adorabile e venerabile Rocco viscontiano. Anzi, in famiglia (quella del film, e forse
anche quella della regista che in tutta evidenza ci mette parecchio di autobiografico), c’è una gran
felicità e un certo orgoglio nell’essere in Germania e gratitudine, ebbene sì gratitudine, per il paese che
li ha accolti, mica respinti come usa adesso. Così Almanya si configura come qualcosa di diverso,
anche se non la negazione, del cinema di un altro regista turco-tedesco, Fatih Akin (che, va detto, è di
statura autoriale di molto superiore a quella delle pur abili e capaci sorelle Samdereli), dove
l’oscillazione tra due mondi e due identità dei protagonisti danno luogo a lacerazioni profonde in forma
di melodramma (La sposa turca e Ai confini del paradiso sono due film formidabili). Se vogliamo le
Samdereli sono Fatih Akin depurato da complicazioni e complessità e ri-confenzionato in commedia
facile. E però, vedendo Almanya, non si può, anche, non pensare a cos’era l’immigrazione in Germania
ai tempi di un Fassbinder, e come lui la trattava e rappresentava (l’episodio autobiografico di Rainer
Werner F. in Germania in autunno con lui a letto con l’amante turco, per l’appunto, e soprattutto quel
capolavoro che è La paura mangia l’anima). Le sorelle Samdereli sono di un’altra generazione e di
un’altra Germania, anche cinematografica, e quanto ci mostrano è lo specchio di una integrazione
personale riuscita, un film che sa affrontare un tema complicato con leggerezza, ma che in questa
operazione di depotenziamento perde qualcosa in densità e spessore. L’impressione di fronte ad
Almanya è che sia azzeccato e centrato, ma non un grande film, che la sua riuscita avvenga a costo di
una estrema semplificazione e dell’abbandono di ogni tentativo di profondità. Niente di male, però
Almanya non ha, non avrà mai, la statura di un’opera maggiore, bisogna accontentarsi di quello che ci
dà. Affresco non ponderoso, ma pur sempre affresco, della famiglia Yilmaz, da quando il capostipite
Hüseyin si mosse, nei tardi anni Sessanta, dal suo villaggio anatolico verso la Germania, quando
ancora per via del boom si cercava manodopera ovunque e gli immigrati non solo non venivano fermati
alla frontiera e buttati fuori ma cercati dalle aziende, il che fa capire quanto le cose siano cambiate, per
noi e per loro, da quei tempi lontani. Certo, i tedeschi il vizietto di marchiare i nuovi arrivati come
bestiame continuavano ad averlo (certe cose non se ne vanno via da un giorno all’altro) e, come ci
mostra un filmato documentario in apertura di Almanya, molti immigrati venivano denudati, messi in fila
e visitati in serie dal medico per accertare non avessero terribili malattie e non portassero chissà quali
virus e batteri, e poi con un penna gli segnavano addosso un numero, e son scene di fronte alle quali
non si può non pensare a quanto avveniva ad Auschwitz. Il che dimostra come le sorelle Samdereli
siano meno ingenue di quanto lasci trasparire in prima battuta il loro film buonista e conciliatorio, e
capaci di far cadere qua e là quasi subliminalmente perfidie velenosissime. Dopo qualche mese
Hüseyin torna in Turchia e carica su moglie e i tre bambini per portarseli lassù in Deutschland. Incontroscontro con il nuovo mondo, i vicini, l’animo teutonico. La prima spesa di lei al negozio di alimentare
senza sapere una parola di tedesco. I bambini che a Natale vogliono l’albero con i regali sotto, e
inutilmente mamma e papà a spiegare che il Natale per loro non è festa. Stupore di fronte a
quell’oggetto strano e alieno che è il crocefisso. Ma come, i tedeschi si inginocchiano e pregano di
fronte a questa cosa di legno?, si stupisce e inorridisce lei da brava musulmana. Quell’uomo nudo e
ferito appeso alla croce è anche l’incubo di uno dei bambini, che se lo sogna la notte come una
creatura horror, con il costato sanguinolento e la corona di spine, che si stacca dai legni e si protende
verso il letto a ghermirlo. Ecco, anche qui la regista e la sorella co-sceneggiatrice mostrano di essere
tutt’altro che ingenue e pur in chiave di commedia vanno dritte su quella gran discussione che c’è stata,
e c’è, sulle radici cristiane dell’Europa e di quanto sia giusto o meno l’uso del crocifisso negli spazi
pubblici. Yasemin e Nesrin Samdereli non polemizzano, ci mancherebbe, però ci fanno capire assai
bene come un oggetto simbolo della nostra cultura sia visto come una barbarie da un musulmano
medio venuto dall’altra parte del Mediterraneo. Una piccola lezione di antropologia in forma di sorriso,
che è tra le cose migliori di Almanya. Questo sguardo altro viene applicato ad altre abitudini tedesche,
come il portarsi in giro al guinzaglio i cani e anche di dormirci assieme, cosa che a mamma appare
(non ingiustamente) primitiva. Chi è il civilizzato e chi il selvaggio?, sembrano dirci garbatamente le
Samdereli Sisters (anzi, alla tedesca, Schwestern).
Mariuccia Ciotta. Il Manifesto
Lontano dal dramma dell'emigrazione e dalla temibile commedia etnica, Almanya - La mia famiglia va in
Germania, è una sophisticated comedy di una regista trentenne, Yasemin Samdereli, tedesca di origine
turca, fan di Lubitsch e di Guney dai quali distilla humour dissacrante e memoria storica per il suo film
d'esordio.
Successo all'ultima Berlinale, Almanya ha registrato in Germania un record d'incassi (15 milioni con 2
milioni di spettatori) e ora si offre al pubblico italiano (distribuzione Teodora) come perfetto film di
Natale, non fosse altro che per quell'alberello luccicante e sbilenco che la mamma venuta dall'Anatolia
allestisce per i suoi bambini, desiderosa di un'integrazione dolce nella nuova patria. E se dimentica di
incartare i doni con la carta d'argento, poco importa, l'avventura comincia nel flash-back che ci riporta
negli anni Sessanta quando il capostipite Huseyn Yilmaz, condusse la famiglia in occidente. Tre
generazioni sono passate e adesso Huseyin vuole tornare a casa con figli e nipoti, tra i quali un
bimbetto, Cenk, diffidente, e non è l'unico, di fronte al viaggio a ritroso.
La «favola» dell'arrivo in Germania si dipana in quadretti comici e oltraggiosi che mettono in corto
circuito usi e costumi diversi in un gioco di reciproche gag, sottilmente amorose e mai grottesche.
Almanya, sceneggiato dalle sorelle Yasemin e Nesrin, ha un sapore transculturale non dolcificato, e si
diverte a punzecchiare turchi e tedeschi, uniti nell'ondata di immigrazione favorita dalla Germania
quando si esaurì il filone dei lavoratori italiani. «Un topo al guinzaglio», grida il ragazzino
«extracomunitario», alla vista di un bassotto trotterellante nel nuovo mondo, e non sarà che una prima
sorpresa. Il suo luogo di origine manca sulla carta geografica scolastica che si ferma a Istanbul e
toccherà disegnarla sul muro, per non parlare dell'indegna variante del gabinetto turco, così poco
igienico da costringerlo a fare pipì nel giardino dove un enorme omone dalla bocca traboccante di
wurstel lo riempirà di insulti. L'ometto di sette anni, rievocato dal racconto dei nonni, vive nel sogno di
una overdose di CocaCola, fiumi di bevanda che sgorga dal milioni di bottigliette, e nell'incubo di un
enorme crocifisso appeso nella sua stanza. Il Cristo di legno si anima all'improvviso, grondante sangue,
e si avventa alla gola del sognatore per poi trasformarsi in un ratto gigante dagli occhi rossi. Ma basterà
la vista del bambinello nella culla del presepe per conciliare nuovi sentimenti e sprigionare l'incanto per
il «primo Natale».
Più di quarant'anni dopo, saranno altri i disagi per chi è nato su suolo tedesco e non digerisce le spezie
orientali, ha una moglie biondissima e recalcitra all'idea del ritorno alle origini. Drammi
dell'adolescenza, crisi d'identità e scoperte lungo una vita in bilico tra est e ovest. Angela Merkel
premierà Huseyin come milionesimo lavoratore turco immigrato in una cerimonia-evento che nel 2008
servirà a ringraziare i Gastarbeiters, i lavoratori venuti da lontano per il contributo dato alla ricchezza
del paese. Ma Huseyin sa bene quale è stato il prezzo e spinge la famiglia verso una mitica casa
lontana, che si rivelerà poi solo una parete di argilla che dà sul nulla. Metafora di un'assenza e
scenografia struggente dello «straniero» respinto da due patrie. Huseyin non potrà morire in pace
neppure nel suo villaggio perché ha un passaporto tedesco, e dovrà dall'aldilà riconoscere il diritto
(ancora negato a molti) di vivere lì dove si è nati e cresciuti. Almanya interrompe la sequenza del turco
arcaico e repressivo, dei luoghi comuni sulla comunità chiusa, e nel racconto autobiografico della
giovane Samdereli ci regala la «carta verde» per entrare noi Europa in Turchia.