Perché fondare e dirigere una rivista?

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Perché fondare e dirigere una rivista?
La Rivista dell’ARTE
Perché fondare e dirigere una rivista? Per il piacere di diffondere vera e sana cultura in tutto l’orbe
terracqueo? Per dare la possibilità ai giovani di esprimersi che, poverini, noi cariatidi dal culo di
pietra sempre glielo impediamo? Balle, o almeno semiballe. La questione che mi interessa sul serio
riguarda la buona gestione dei miei preziosissimi nuclei psicotici e della mia fondamentale struttura
onanistica che forse, come poi ipotizzeremo, potrebbe invece rivelarsi ancora più gradevolmente,
orgiastica. Prima di tutto c’è il problema che non so mai decidermi se vorrei scrivere con lo stile
dello scienziato o se giocare a fare il vero e proprio scrittore. È per questa ragione che, almeno
finora, posso dire di non aver mai saputo scrivere veramente come anche di aver sempre saputo
scrivere benissimo. Perché il fatto è che ci ripenso in continuazione su quelle righe che son sempre
lì lì per affidare al mondo e poi non le faccio quasi mai uscire di casa. Che genitore perverso che
sono, nel dubbio rischio di non mandare i figli all’università e nemmeno di permettergli la
discoteca. Se sapeste quante figuracce nella mia storia professionale con le più varie redazioni e
soprattutto quante menzogne. “Cooome?! Non le è ancora arrivato il mio pezzo? Ma le giuro sugli
ovuli della mia donna che glielo avevo spedito l’altra settimana. Oggi? Peccato, proprio non posso,
perché sa, di Venere e di Marte… ma che mi dice, oggi è giovedì? No, non è possibile lo stesso, sa
com’è, emotivamente sono già nel weekend lungo… queste maledette mail poi, con il fax era tutta
un’altra cosa, me sa che me s’è persa, ancora, è un virus, un virus ha cancellato tutto, devo rifare
tutto, uffaaa, ma stia tranquillo, ma le pare, è interesse anche mio, no?” Perché quasi ostento con
soddisfazione tutta ‘sta patologia? Perché la patologia a me mi sta simpatica, ho imparato che può
essere anche uno straordinario atto creativo, a volte salvifico, per giunta.
Quella che pomposamente in psicanalese chiamiamo “analisi didattica” – o, a seconda del segno
zodiacale dell’analista, “analisi propedeutica” o “seconda analisi” - la intrapresi, ormai son tanti
anni fa, con il buon Paolo Aite. Il quale a sua volta aveva lavorato con Ernst Bernhard che a sua
volta si era formato con Karl Gustav Jung in persona. I gesti e i modi di fare che sono anche modi di
pensare passano tra le persone, soprattutto se molto significative. Facevo l’analista già da vari anni
quando mi accorsi che tra i miei spontanei rituali di chiusura delle sedute c’era spesso un piccolo
gesto, insignificante forse, ma era lo stesso di Paolo Aite. Chissà quanti altri frammenti del suo
corpo vivo mi ha passato e magari alcuni erano di Bernhard e magari qualche cosina anche di Jung.
Con due sole stazioni intermedie è sicuro. Mi dà sempre una piccola, momentanea tranquillità
pensare che nei movimenti del mio corpo c’è qualcosa di qualcuno che ho conosciuto, stimato e
anche amato, forse anche odiato. Come anche, per passaggi di testimoni corporei, qualcosa di chi
non ho conosciuto direttamente, ma ho amato oppure odiato per interposta persona e via via, per
tappe intermedie, fino a chissà chi, fino a chissà dove e quando. E per questi anonimi contributi alla
mia esistenza proverò soprattutto dell’amore indifferenziato e leggerissimo o nella peggiore delle
ipotesi un lieve fastidio anch’esso indifferenziato perché dopo qualche passaggio i nostri corpi
l’odio riescono quasi sempre a stemperarlo. Quindi, in quel mosaico di tessere migranti che su una
patente rilasciata dalla Prefettura di Roma viene definito come Alessandro Tamino, c’è persino
qualcosa di Jung e figuriamoci, anche di Freud e di chissà chi altro. A me, sapere che il mio corpo
non appartiene solo ai vivi, mi fa percepire i miei stessi gesti e quelli delle persone nei miei paraggi
come carezze, quasi sempre anonime, a volte tiepide, raramente come sfioramenti fastidiosi. E
sempre più raramente, fastidiosi, ora che sto finalmente invecchiando. Quindi i fantasmi, i numi
tutelari, gli angeli custodi esistono, sono però “semplicemente” soltanto iscritti nei nostri corpi vivi.
Ma non per questo sono meno potenti, efficaci, protettivi come a volte, per fortuna solo a volte e per
pochi infelici, crudelissimi.
Ma la soddisfazione più grande me la dà la condivisione delle patologie. Quando con Paolo Aite mi
lamentavo delle mie difficoltà a finire molte delle cose che iniziavo, e forse speravo ancora di
guarire dal difettaccio, lui mi raccontava che il grande Bernhard avesse un problema simile, che lui
stesso definiva come una franca nevrosi. Ma mi diceva anche che Bernhard se ne vantasse spesso,
ripetendo ai suoi allievi con il tono da massima apodittica: “La mia nevrosi mi ha salvato”. E da
quello che poi aggiungeva ci si rendeva conto che la sua non era per nulla una pomposa metafora.
Pare infatti che Bernhard soffrisse soprattutto da giovane di una sorta di timidezza patologica che
gli rendeva difficile sia di parlare in pubblico che di licenziare un suo scritto. In tutta la sua vita,
nonostante la sua fama, ha praticamente scritto un solo libro, “Mitobiografia”, anzi nemmeno se l’è
fatto lui tutto da solo perché dovette intervenire la sua allieva Hèléne Erba-Tissot per organizzargli
il suo materiale vario e sparso, proprio alla Wittgenstein. Ma questo suo apparente limite gli era
tornato assai utile negli anni ’30 del secolo scorso, in un periodo nel quale, come tutti avrebbero il
dovere di sapere, in quasi tutto il mondo tirava un’ariaccia per gli Ebrei, più di quanto da quasi due
millenni tirasse già e in quel periodo soprattutto in Europa e in particolare nelle terre teutoniche. E
la faccenda riguardava molto gli psicoanalisti che, come Bernhard, erano in larghissima
percentuale, a quei tempi, per l'appunto ebrei. “Scienza giudaica” e con disprezzo, i nazisti
chiamavano la psicoanalisi. Poiché per quei galantuomini vigeva dunque l’equazione psicoanalista
uguale ebreo, per la stesura delle prime liste di proscrizione i nazisti avrebbero attinto, tra le altre
fonti, persino agli indici delle rivista psicoanalitiche. Bernhard, per la sua ritrosia ad esporsi, non
era inizialmente schedato e riuscì quindi, per il proverbiale pelo, a sfuggire alle prime retate. Oddio,
qualche problema ce lo ebbe poi in ogni caso perché la sorte lo colse nel 1938 a Roma, proprio
mentre nel paese degli “italiani brava gente” - come mistificò Benedetto Croce - venivano
promulgate le leggi razziali. Ma nonostante tutto, questo ritardo nella deportazione lo salvò
comunque perché l’italianissimo lager dove lo spedirono, a Ferramonti di Tarsia in quel di Cosenza,
per la sua posizione geografica venne raggiunto dagli alleati – che stavano risalendo da sud dopo lo
sbarco in Sicilia – già nel settembre del ’43, poco prima quindi che potesse essere eseguito l’ordine
fatidico di spostare quei miscredenti al nord, proprio in quel che ancora restava della tana del
mostro. Quindi, “La mia nevrosi mi ha salvato” per Bernhard non era solo una metafora ad effetto
ma una vera e propria esortazione a considerare certi nostri limiti come affettuosi consigli
dell’inconscio. Per omaggio a lui, parlando prima dei miei nuclei patologici li ho definiti “psicotici”
e non “nevrotici”, perché ammesso e non concesso che sia sempre chiara la differenza e che i primi
siano sicuramente peggiori dei secondi, nelle mie intenzioni c’era quella di fare un inchino al
maestro, che sarebbe ben tristo se non venisse superato dai discepoli, anche se di seconda
generazione.
Tornando alla nostra impresa, nutro la speranza che una rivista “ai mezzi” con amici che ben
conoscano la mia natura di persona incerta e di saltuario quanto abilissimo mentitore, sia il modo
per scrivere finalmente tutti quegli articoli e quei libri che, ci crediate o no, allievi, colleghi e
pazienti mi chiedono sempre più spesso di scrivere. Diciamo che lo scopriremo solo leggendo e
scrivendo.
Poi c’è la questione dell’onanismo. L’onanismo è tra le più importanti, diffuse e spesso ben riuscite
forme di autonomia creativa. La sua potente logica sarebbe nella sua essenza assai semplice: “Se
una cosa non me la danno, faccio per conto mio”. Anche la Scuola di Arti Terapie in fondo è nata
grazie a questa logica. Mi è sempre piaciuto insegnare, mi rende il cervello più fino sforzarmi di far
capire qualcosa che poi capisco ancora meglio dopo averlo spiegato agli altri, ma non avrei mai
avuto lo stomaco, la disonestà e soprattutto la capacità di autocastrazione necessari per fare una
buona carriera universitaria. E allora sapete che vi dico? Che qualcosa che assomigli all’università
me la faccio per conto mio, con quelli bravi che dico io! Ed ecco la Scuola di Arti Terapie. E così,
per quanto riguarda la pubblicazione dei miei scritti, quale sapiente rivista dei settori che mi
interessano avrebbe mai pubblicato anche solo uno degli articoli che qui potrò farvi leggere?
Secondo me avrebbero cestinato persino questo “timido” editorialetto. Quale editore mai mi
permetterebbe solo un decimo delle innovazioni grafiche, relazionali, culturali e vattelappesca che
mi cullo ancora in segreto? Sapete perché dico “Onanismo”? Perché la logica è la stessa: se non me
la danno, l’università o la possibilità di pubblicare quello che dico io, come lo dico io, me le faccio
con le mani mie, le lezioni e le scritture!
Nel caso della Scuola di Arti Terapie la faccenda mi è andata infatti molto meglio che se avessi
vinto una cattedra universitaria. La possibilità di piacere creativo, le cose che con i miei sodali,
siamo riusciti a fare, le innovazioni che siamo riusciti a mettere in campo ce le saremmo scordate se
avessimo dovuto costantemente trattare con i tromboni che comandano all’università.
Ma non mi va di finire questa presentazione troppo in alto, con un tono troppo in erezione e allora
chiudo in maniera interlocutoria ricordando che in un delizioso testo, Il Libro dell’Es, Georg
Groddeck afferma una cosa ovvia ma a cui ben pochi pensano e che cioè dall’onanismo abbiamo
cominciato e nell’onanismo tutti finiamo, quindi non è certo da considerarsi solo uno squallido
surrogato di qualcosa ma un qualcosa di fondamentale in sé e per sé, a cui concedere una dignità
autonoma. E questo qualcosa, potrebbe essere la filiazione delle prime esperienze motorie del
bambino, prima ancora che si possa parlare di franca erotizzazione. La masturbazione sia dei
maschietti che delle femminucce si innesterebbe quindi su uno stato fusionale e sarebbe, come altre
esperienze corporee sia individuali che condivise, la memoria di quando toccarci, essere toccati
dalla madre o toccare la madre non erano poi cose tra loro così tanto diverse.
Tacciano i freudiani ortodossi che alle mie incestuose parole già si leccano, golosi, i loro vetusti
baffi. Tacciano per darmi il tempo di provocarli ancor più brutalmente. Quel toccare toccandosi
arcaico da cui, ricordiamoci, nasce quella particolare attività corporea che chiamiamo il pensiero,
non è uno sterile onanismo perché è un fondersi ed un distaccarsi dal corpo unico dei viventi,
proprio come la Scuola di Arti Terapie e La Rivista dell’Arte nascono da incontri emotivamente
significativi in una comunità di persone che professino sistematicamente il pensiero critico, il suo
gioco e il suo piacere.
Concediamoci il dubbio che il biblico punitivo concetto stesso di onanismo fosse stato creato a bella
posta per limitare proprio la nostra relazione con i corpi della comunità. Relazione non
esclusivamente finalizzata alla riproduzione ma al contatto, alla creazione di una cultura condivisa
con le comunità entrambe autentiche, perché corporee, dei vivi e dei morti. E il cristianesimo,
percorrendo quella stessa punitiva strada ha sistematicamente cercato di sradicare il culto degli
antenati, come proverà anche di fare con altre forme culturali basate sul corpo condiviso. Tobie
Nathan, per dimostrare proprio questa ostilità nei confronti del culto degli antenati, ci ricorda come
la religione più diffusa del pianeta, dal Vangelo di Luca ancora ci ammonisca con la terribile frase
di Gesù“ lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio”.
Proprio con questo minaccioso proclama Gesù ammonisce con disprezzo un giovane che prima di
unirsi ai suoi discepoli aveva solo chiesto gli venisse concesso il tempo per seppellire suo padre.
Quindi mi permetto di dire che forse non è semplice onanismo, farsi da soli le cose che le istituzioni
potenti ci negano e se facciamo outing facciamolo bene. Quello che proponiamo ne La Rivista
dell’Arte, e ci piacerebbe assai di realizzare è invece un’orgia, una vera e propria orgia di corpi e di
gesti che si accoppiano con le loro figlie più belle, i pensieri, le immagini e le parole. E di riuscire a
scrivere come piace a me, divertendomi e sotto traccia discutere con il mondo di filosofia. E di non
farlo da solo ma sempre con qualcuno a cui voglio bene e che mi dica se sto ad esagerare o se ci sto,
forse, ad imbroccare.
Prima di lanciare la bottiglia per il varo vi propongo solamente un’altra breve annotazione. La
grandezza delle avanguardie artistiche del secolo scorso passano sempre per una caratteristica che le
differenzia dalle botteghe dei grandi del Rinascimento, essere costituite da gruppi di pari e non di
scolari. O di semipari, perché i ruoli sempre oscillano. Senza comunque un leader indiscusso, e
proprio negli stessi anni in cui il fascismo, il comunismo e il nazismo stavano affilando le loro lame
crudeli. A ricostruire la storia dell’arte con l’occhio degli studiosi dei gruppi, o per meglio dire,
delle comunità, si scoprono cose assai curiose. Per esempio che tra i primi a lavorare in maniera
consapevole con tecniche relazionali nel dipingere c’erano i buoni vecchi macchiaioli; a
Castiglioncello, nella tenuta del loro mecenate, il critico Diego Martelli, si erano inventati, pensate,
tra i vari altri giochi, di dipingere enpleinair lo stesso paesaggio, ma di spalle l’uno all’altro per poi
discuterne le differenze. Ed eravamo in pieno Ottocento.
Quindi, tirando il collo al povero Michelangelo ci permettiamo di dire che questi sono i soli che ci
illuminano, questi i soli che ci fanno innamorare.
Grazie a queste luci e grazie alle inevitabili quanto a volte carezzevoli ombre, grazie a questa
comunità tra pari e semipari, restituendo ciò che rubo in continuazione ai maestri, siano questi
consapevoli e dal nobile pedigree o inconsapevoli come quel tassista dell’altra sera che m’ha parlato
della nonna, mi piace assai di abbandonarmi al dolce saccheggiare e all’altrettanto dolce farmi
saccheggiare da vicini conosciuti e lontani sconosciuti.
Alessandro Tamino
n. 1 / marzo 2012