Alcune voci della Chiesa locale sulle attese del Sinodo

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Alcune voci della Chiesa locale sulle attese del Sinodo
Perché una Seconda Assemblea Speciale
del Sinodo dei Vescovi per l‟Africa?
(Dall’Instrumentum Laboris, testo preparatorio dell’Assemblea)
È riconosciuto che la Chiesa è profondamente impegnata nella società
africana al servizio di tutti attraverso le sue istituzioni educative e
sanitarie e i programmi di sviluppo. Lo sguardo che la Chiesa rivolge a
questo continente si alimenta alle fonti della vita concreta delle
comunità cristiane nel loro contesto ordinario di vita.
Affinché la Chiesa in Africa si manifesti appropriatamente, la Prima
assemblea Speciale per l‟Africa del Sinodo dei Vescovi (svoltasi nel
1994) aveva proposto il modello della Chiesa Famiglia di Dio,
segnalando tra le condizioni di una testimonianza credibile: la
riconciliazione, la giustizia e la pace. Essa raccomandava la
formazione dei cristiani alla giustizia e alla pace, il rafforzamento del
ruolo profetico della Chiesa, la giusta remunerazione dei lavoratori e
l‟istituzione di Commissioni Giustizia e pace.
Il contesto sociale africano è andato modificandosi in maniera
significativa dopo l‟ultima assise sinodale del 1994. Pur se, a grandi
linee, determinati problemi fondamentalmente umani restano
invariati, alcuni dati invitano ad approfondire le questioni già
sollevate quindici anni fa sul piano religioso, politico, economico e
culturale.
Per questo la Chiesa in Africa intende riflettere sulla sua missione di
comunione e sul suo impegno a servire la società come nuova
dimensione dell‟annuncio del Vangelo, essendo “sale della terra” e
“luce del mondo” (Mt 5,13.14).
A quindici anni di distanza le chiese africane sentono l‟urgenza di
riflettere insieme sul cammino percorso e per rispondere ai nuovi
problemi che si trovano a vivere.
E per questo il tema scelto per il secondo Sinodo per l‟Africa che si
svolgerà in Vaticano dal 4 al 25 ottobre è: La Chiesa in Africa al
servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace.
In alcune Chiese particolari, le indicazioni scaturite dal Sinodo del
1994 hanno trovato applicazione attraverso il piano d‟azione
pastorale, l‟apostolato biblico, le Comunità Ecclesiali Viventi (luoghi di
studio, meditazione e condivisione della Parola di Dio),
l‟evangelizzazione della famiglia, l‟apostolato per i giovani, la
mediazione da parte della Chiesa tra parti in conflitto, la lotta contro
le povertà, le Commissioni Giustizia e Pace, l‟investimento nei mass
media, il dialogo ecumenico ed interreligioso con la Religione
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Tradizionale Africana e con l‟Islam, la lotta all‟aids e i progetti
sanitari, i progetti per sostenere l‟opera di evangelizzazione.
Tuttavia non mancano situazioni negative e spesso nello spazio
pubblico, la Chiesa cattolica è oggetto di una virulenta aggressione da
parte delle sétte cristiane, strumentalizzate dai politici per abbattere i
valori che essa difende: famiglia, rispetto della dignità e della sacralità
della vita umana, unità. Le Chiese particolari chiedono perciò ai Padri
sinodali di aiutarle a proporre meglio il proprio messaggio profetico,
per permetterle di parlare con autorità ai dirigenti politici.
In alcune comunità ecclesiali si constatano divisioni etniche o tribali,
regionali o nazionali ed atteggiamenti ed intenzioni xenofobi da parte
di alcuni Pastori. Si rilevano situazioni di discordia tra alcuni vescovi
e il loro presbiterio, mentre all‟interno di una stessa Conferenza
episcopale nazionale si infiltrano delle prese di posizione di alcuni
vescovi in favore di un determinato partito politico.
Le esperienze sociali ed ecclesiali interpellano dunque la Chiesa
affinché cerchi modi e mezzi per ricostruire la comunione, l‟unità, la
fraternità episcopale e sacerdotale, si rivesta di coraggio profetico, si
impegni nella formazione di dirigenti laici dalla fede salda per agire in
politica, per adoperarsi a far vivere insieme le differenze nella società.
Con un‟attenzione particolare alla formazione di sacerdoti, religiosi e
religiose desiderosi di essere segni e testimoni del Regno. E ad una
pastorale migliore affinché le verità e i valori delle culture africane
siano toccati e trasfigurati dal Vangelo.
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Alcune voci delle Chiese particolari sul prossimo
Sinodo su: “La Chiesa in Africa al servizio della
riconciliazione, della giustizia e della pace”
Intervista con il Card. WILFRID FOX NAPIER,
arcivescovo di Durban, in Sudafrica
(a cura di Abdul Festus Tarawalie)
D. - Ci stiamo preparando al Sinodo speciale dei Vescovi per
l‟Africa il cui tema è «La Chiesa in Africa al servizio della
riconciliazione, della giustizia e della pace. “Voi siete il sale della
terra … Voi siete la luce del mondo” (Mt 5, 13.14)». Che interesse
riveste questo tema per l‟Africa oggi?
R. - Penso che la risposta migliore sia che il tema è stato scelto sulla
base delle risposte che le Conferenze episcopali hanno dato al
Consiglio Speciale per l'Africa della Segreteria Generale del Sinodo dei
Vescovi sin dalla sua prima sessione nel 1994. Quindi le questioni
indicate nel tema sono sicuramente questioni che la Chiesa in Africa
ha individuato nel corso di questi ultimi 15 anni.
D. - Questo a causa delle numerose aree critiche nel continente…
Sì, proprio così: le situazioni rilevate dai vescovi riflettono
innanzitutto il bisogno di riconciliazione nelle aree dove i conflitti sono
stati in qualche modo risolti. C‟è un bisogno veramente urgente di
passi pratici, ma anche molto concreti, voglio dire sostenibili, verso la
riconciliazione. Penso a Paesi come il Burundi o il Ruanda, dove c‟è
stato quel problema in passato e adesso, in particolare in Burundi, ci
si sta muovendo verso la costituzione di una Commissione per la
Verità e la Riconciliazione con l‟obiettivo appunto di stabilire la pace e
la riconciliazione.
D. - Quali lezioni possiamo trarre dall‟esperienza sudafricana
della riconciliazione? Mi riferisco alla Commissione per la Verità
e la Riconciliazione che è stata istituita dopo la fine del regime
dell‟apartheid. Quale è stato il ruolo della Chiesa in questo
processo?
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Il nostro ruolo era cominciato parecchio prima della transizione. Già
nel 1980 la Chiesa era impegnata in un processo volto ad individuare
quelle aree in cui poteva dare un contributo significativo al
cambiamento e alla costruzione di un nuovo Sudafrica. Abbiamo
capito che occorreva partire dalla costruzione di comunità tra gente
che era stata separata e divisa in passato e che la Chiesa poteva fare
qualcosa quando riusciva a riconciliare i suoi membri e a formare una
comunità. Da lì poteva quindi portare questo senso comunitario al
resto della società. Quindi quando ha avuto luogo la transizione ci
sono state molte iniziative: come Chiesa, noi vescovi ci siamo
impegnati attivamente con i partiti politici e le altre Chiese per
preparare il terreno alla transizione e quindi aiutare il Paese durante
questo processo.
D. - Cosa si aspetta la Chiesa sudafricana da questo secondo
Sinodo africano?
La prima cosa che cerchiamo è come promuovere meglio la
dimensione dell‟essere “luce del mondo e sale della terra”: se vogliamo
avere un impatto sulla società, il Vangelo deve essere il centro della
nostra vita e ogni membro della Chiesa deve essere autenticamente e
profondamente evangelizzato. In altre parole, dobbiamo cercare
un‟autentica amicizia, una relazione personale con Cristo. Il nostro
auspicio è che il Sinodo ci mostri come la Chiesa in altri Paesi africani
sia riuscita a fare ciò. Dal canto loro, le altre Chiese africane che ci
hanno contattato sono interessate a sapere in che modo noi abbiamo
contribuito alla creazione della Commissione per la Verità e la
Riconciliazione, come ha funzionato, dove è riuscita e dove è fallita. A
questo proposito è importante analizzare le ragioni dei nostri
insuccessi, perché altri possano evitarli e forse riuscire a portare il
processo di riconciliazione più avanti di quanto siamo riusciti noi in
Sudafrica.
Che differenze ci sono tra la situazione durante la preparazione
del primo Sinodo del 1994 (penso al Ruanda e al Burundi in
quegli anni) e la situazione attuale?
Nel 1994 avevamo una situazione unica. Da un lato, avevamo la
transizione in Sudafrica che rappresentava il migliore esempio delle
cose buone che si possono fare in Africa quando la gente lavora
insieme e mossa da un unico intento: la transizione dall‟apartheid alla
democrazia è stata probabilmente la meno sanguinosa di tutte le
transizioni in Africa. Nello stesso momento avevamo i massacri in
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Ruanda, i peggiori mai avuti in Africa, in cui l‟etnocentrismo ha
causato la perdita insensata di tante vite umane. La vera tragedia era
che ciò era potuto accadere in Paesi come il Burundi e il Ruanda, ma
in particolare il Ruanda, con un‟alta percentuale di cattolici. Per noi è
stato quindi uno shock: da un lato, avevamo una Chiesa che svolgeva
un ruolo importante nell‟aiutare il Sudafrica a uscire da una
situazione di oppressione alla libertà e, dall‟altro, membri della Chiesa
che causavano la morte di altri. Non sapevamo se gioire o piangere
per quello che stava avvenendo in Africa. Oggi vedo molti più esempi
di Paesi che hanno compiuto una transizione da dittature a forme di
governo più democratiche. Ma ci sono ancora aree dove la popolazione
non può godere della pace: penso in particolare all‟area dei Grandi
Laghi, al Congo Orientale, al Nord e Sud Kivu, dove la povera gente è
all‟esasperazione.
Avete parlato della cupa situazione durante il primo Sinodo, il cui
tema centrale era «La Chiesa in Africa e la sua missione
evangelizzatrice verso l'anno 2000: "Mi sarete testimoni" (At 1,
8)». Quali sono i principali successi di quel Sinodo?
Il primo Sinodo ha voluto porre l‟attenzione su alcuni temi ai quali la
Chiesa doveva dedicarsi per potere essere una forza evangelizzatrice
alla vigilia del Terzo millennio. Quindi il punto centrale è stata la
proclamazione della Parola: abbiamo appreso come la Chiesa stava
annunciando la Parola nei diversi Paesi del Continente. Il secondo
punto è stato il dialogo e ritengo che questo sia particolarmente
importante in Africa dove, in genere, c‟è un forte senso comunitario
per cui il fatto di appartenere a diverse Chiese o religioni non significa
che non possiamo sentirci comunità. Quindi il dialogo nelle Chiese e il
dialogo tra cristiani e altre religioni è stato un altro tema molto
importante di quel primo Sinodo. C‟è poi l‟area della giustizia e della
pace: lo spazio riservato a questo tema durante il Sinodo ha attirato
l‟attenzione dei vescovi africani nel periodo successivo.
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Intervista con Mons. MENGHESTEAB TESFAMARIAM,
Vescovo di Asmara, in Eritrea
(A cura di Isabella Piro)
D. – La seconda Assemblea Speciale per l‟Africa del Sinodo dei
Vescovi è incentrata su riconciliazione, giustizia e pace: cosa
fa la Chiesa eritrea per raggiungere questi tre obiettivi?
R. - Prima di tutto il nostro lavoro consiste nella sensibilizzazione
delle persone, della Chiesa e di tutte le persone di buona volontà,
attraverso “laboratori”, manifesti, traduzioni e qualsiasi altro mezzo
di comunicazione di massa. Riteniamo, infatti, che prima di tutto
dobbiamo conoscere l‟avvenimento in sé, di quali problemi tratterà
il Sinodo: riconciliazione, giustizia, pace, parole molto importanti;
tuttavia è necessario andare al di là del significato esterno e
cercare di comprendere il significato più profondo, proprio come la
Chiesa lo comprende, ed assicurarsi che anche la nostra gente lo
comprenda, poiché le parole possono avere un significato diverso a
seconda delle persone. Dunque, il nostro primo compito è quello di
sensibilizzare e incoraggiare la nostra gente a capire.
D. – C‟è una collaborazione con il governo per favorire la pace?
Il potere politico ascolta le proposte della Chiesa?
R.- Cerchiamo di fare del nostro meglio per dire ciò che è giusto,
per cercare di contattare le persone adatte, ma la risposta di coloro
che sono al potere dipende molto dalle singole persone. Alcuni sono
ben disposti a collaborare, altri meno. Per la Chiesa è positivo
ricevere una risposta e una collaborazione efficace, ma dobbiamo
andare avanti comunque. Continuiamo a sensibilizzare sulla
significativa attuazione della riconciliazione, della pace e della
giustizia; soprattutto nel nostro territorio, abbiamo bisogno di
giustizia, abbiamo bisogno di pace e di riconciliazione, con tutti i
conflitti, siccità, carestie presenti in quest‟area dell‟Africa Orientale.
La Chiesa non deve mai fermarsi nel suo compito di esortare alla
riconciliazione, alla giustizia e alla pace. Naturalmente, la risposta
di ogni individuo o gruppo dipende dalla predisposizione dei singoli
gruppi e individui.
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D. – Ufficialmente, la guerra tra l‟Eritrea e l‟Etiopia è terminata
nel 2000, ma poi ci sono stati altri conflitti. Qual è ora la
situazione?
R.- La situazione potrebbe essere così definita: non vi è una pace
completa, ma neanche guerra, il che rappresenta una situazione
ancora peggiore, in un certo senso, poiché si tratta di una
situazione anomala. La gente non può dire: “Abbiamo la pace” e
recarsi a compiere le proprie attività, ma stare sempre in guardia
contro l‟eventuale scoppio di altri conflitti. Siamo, per così dire, in
questa situazione. Speriamo che con l‟aiuto della comunità
internazionale e la buona volontà di entrambi i governi possiamo
arrivare a una completa cessazione delle ostilità, a una pace
completa e che la giustizia e la riconciliazione possano fiorire,
poiché è molto difficile parlare di riconciliazione, quando ci si trova
in questo genere di situazioni. La gente ha soprattutto bisogno di
essere consolata. Questa guerra ha causato molti morti, sfollati,
feriti, disabili; molte famiglie sono rimaste senza un padre, una
figlia o un figlio…hanno bisogno di conforto. La nostra Chiesa si
concentra in primo luogo sulla consolazione; proprio da
quest‟atteggiamento di conforto e sostegno potranno poi scaturire
la riconciliazione, la giustizia e la pace. Ecco ciò che cerchiamo di
fare.
D. – Quali sono le principali difficoltà che incontrano i cristiani
in Eritrea?
R.- Facciamo del nostro meglio per vivere la nostra vita cristiana
nel modo migliore. Le difficoltà sono ovunque. Ma non posso dire
che siamo ostacolati nel nostro lavoro pastorale, nella celebrazione
del culto nelle nostre chiese. Naturalmente, le difficoltà sono un po‟
ovunque in questa situazione di “non guerra e non pace”; tante
cose influenzano la vita della Chiesa, sia positivamente, sia
negativamente.
D. – Il dialogo con le altre religioni, in particolare con l‟Islam, è
possibile?
R.- Per quanto riguarda il nostro rapporto con l‟Islam, le cose
vanno davvero bene. Nella maggior parte dei casi, i nostri fratelli
musulmani, noi stessi e tutti i cristiani viviamo insieme,
condividiamo tanti valori e credo che ci rispettiamo anche l‟uno con
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l‟altro. Così i nostri rapporti sono buoni e speriamo di continuare
così per il futuro.
D.- All‟Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi sulla Parola
di Dio, lo scorso ottobre, è emerso spesso il problema delle
sètte in Africa. Qual è la situazione in Eritrea?
R.- Con minore intensità, anche noi dobbiamo far fronte al
problema delle sètte. È molto difficile conoscere le loro origini, i loro
sostenitori, ma esistono. Non tante come in altri Paesi, quali il
Kenya, Sud Africa, Nigeria; in Eritrea, anche se in misura inferiore,
esistono comunque e sono una sfida, poiché alcuni dei nostri
membri aderiscono ad esse. Ci chiediamo perché ciò accada, per
esaminare meglio il nostro approccio pastorale. Perché queste
persone, soprattutto giovani, lasciano la Chiesa cattolica, ortodossa
o protestante e vogliono unirsi a queste sètte? Abbiamo bisogno di
capire le ragioni che si nascondono dietro a questo passaggio. Che
cosa li attrae? Che cosa hanno loro che manca, ad esempio, nella
Chiesa cattolica? È una questione pastorale di grande rilevanza,
poiché abbiamo bisogno di conoscere le cause di questa tendenza.
Forse i giovani hanno bisogno di sperimentare la novità, ma non
credo che questo sia l‟unico motivo. Forse anche noi non
espletiamo bene il nostro ministero con la gioventù, il nostro lavoro
pastorale: abbiamo dunque bisogno di esaminare e cercare di
trovare nuove vie nel nostro metodo pastorale per trattenere i
nostri giovani nella loro Chiesa e cercare di soddisfarli. Poiché se
non sono soddisfatti della loro Chiesa, cercheranno altre Chiese,
altre sètte, che forse potranno dar loro la soddisfazione che
ricercano.
D. – Le organizzazioni non governative, le associazioni di
carità riescono ad operare liberamente in Eritrea?
R.- Vi sono pochissime organizzazioni non governative, siamo un
piccolo Paese, al momento pochissime tra di loro operano in
Eritrea.
D. – Di cosa ha più bisogno l‟Eritrea in questo momento?
R.- Credo che l‟Eritrea abbia soprattutto bisogno di una pace
duratura e di cibo, poiché le piogge sono state molto scarse negli
ultimi due anni e così anche i raccolti sono stati insufficienti. La
gente non riesce a trovare cibo a sufficienza; se lo trova, è costretta
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a pagare prezzi altissimi. Abbiamo quindi bisogno di queste due
cose in particolare: in primo luogo, la pace, una pace autentica e
durevole, dove riconciliazione, giustizia e pace siano i principiguida, e poi abbiamo bisogno di risolvere il problema della scarsità
del cibo giornaliero per la maggior parte della nostra gente.
Speriamo che la buona quantità di pioggia caduta durante l‟estate
possa aiutare la nostra gente a disporre di una maggiore quantità
di cibo, cibo abbondante, affinché i loro figli e ogni altra persona
sia soddisfatta. In tal modo, potremo passare allo stadio
successivo, quello dello sviluppo, poiché se manca il cibo
sufficiente, non si può pensare allo sviluppo, ma solo alla
sopravvivenza: ho bisogno di sopravvivere, ho bisogno di mangiare
per sopravvivere. Una volta assicurata un‟adeguata quantità di
cibo, altre attività potranno seguire.
D. – La Chiesa in Africa è sempre stata molto impegnata nel
campo dell‟educazione. Qual è la situazione in Eritrea?
R. - Siamo molto impegnati nel campo dell‟istruzione e
dell‟assistenza sanitaria, della promozione umana, della
promozione della donna, dell‟assistenza ai bambini negli asili per
l‟infanzia; abbiamo scuole, cliniche, ospedali, centri di promozione.
D. – Quali sono le Sue aspettative per il Sinodo dei Vescovi per
l‟Africa?
R.- Mi aspetto che questo Sinodo possa essere davvero uno
strumento attraverso il quale la Chiesa in Africa possa cogliere i
problemi in modo onesto e franco, è molto importante individuare i
problemi in modo aperto e onesto. Questa è la prima attesa. In
secondo luogo, dopo averli individuati, occorre prendere misure
concrete per dare il nostro contributo. Sono sicuro che la Chiesa da
sola non possa risolvere i problemi dell‟Africa, ma può dare un
ottimo contributo. Come autorità morale in Africa, la Chiesa può
aiutare, prima di tutto, ad educare le persone a diventare artigiani
di pace fin dai primi anni di età, ad insegnare agli africani ad
essere amanti della pace ad impegnarsi per la causa della giustizia
e della riconciliazione. Possiamo, inoltre, fare molto con il nostro
concreto impegno per lo sviluppo dei popoli, nell‟assistenza ai più
vulnerabili, ai malati, ai poveri. Il nostro impegno ecclesiale di aiuto
ai poveri non deve solo salvare le persone dalla morte, ma deve
significare qualcosa di più: aiutare le persone ad esprimere la loro
identità, a sviluppare le loro capacità al massimo livello. Ecco ciò
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che mi attendo e sono sicuro che molti dei miei confratelli, vescovi
e delegati, condividono questo obiettivo, questa aspettativa.
Discorsi, auspici e programmi per l‟Africa non sono mancati in
passato: è tempo, ora, che noi africani prendiamo la situazione
nelle nostre mani, la analizziamo con franchezza e assumiamo
infine le misure necessarie per impegnarci a risolvere i diversi
problemi. Ecco le mie attese.
Intervista con Mons. CORNELIUS FONTEM ESUA,
Arcivescovo di Bamenda, in Camerun
(A cura di Abdul Festus Tarawalie)
D. – Arcivescovo Esua, Lei è membro del Consiglio Speciale per
l‟Africa del Sinodo dei Vescovi ed è stato tra coloro che hanno
contribuito maggiormente alla stesura dell‟Instrumentum
Laboris, presentato ai vescovi dell‟Africa da parte del Papa,
durante la sua recente visita in Camerun. Può dirci quali sono i
punti principali del documento e, in particolare, come avete
affrontato il tema della riconciliazione, della giustizia e della
pace e come vi state preparando per il prossimo Sinodo?
R. – Siamo partiti da una riflessione biblico-teologica sui problemi
dell‟Africa: il problema della riconciliazione, i problemi della giustizia e
della pace. Quindi, abbiamo rivolto un appello alle diverse comunità
cristiane perché trovassero il modo di impegnarsi di più, con
l‟obiettivo rendere davvero stabile la società africana che, d‟altro
canto, è composta da molte persone che si sono riappacificate. Una
società di persone riappacificate che vive come una famiglia e che si
sta assumendo le proprie responsabilità, di fronte al mondo, per
rendere l‟Africa una società migliore in cui vivere. Ed il modo migliore
di fare ciò è quello di iniziare organizzando le nostre comunità
Cristiane, così che riflettano su questi temi, in un contesto biblico e
teologico. In questo modo, sebbene vivano fra persone non cristiane,
esse potranno cominciare a mettere in pratica questi temi e diventare
il lievito, il fermento della società, il sale della terra e la luce del
mondo. La Chiesa è come un lievito della società e per questo il buon
lavoro che abbiamo avviato deve continuare. Non dobbiamo
scoraggiarci, ma dobbiamo guardare a queste problematiche in modo
realistico, interpellando i giovani, coloro che detengono il potere nella
società e le nostre famiglie cristiane. E io penso che abbiamo appena
iniziato.
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Intervista con Mons. MARCEL UTEMBI TAPA,
arcivescovo di Kisangani, Repubblica Democratica del Congo
(A cura di padre Joseph Ballong)
D. - Cosa si può fare perché i cristiani, tutti i cristiani, dai
politici fino all'ultimo villaggio possano vivere concretamente,
essere concretamente portatori di pace, di riconciliazione e di
giustizia in Africa?
R. - Questo è un problema molto importante. Si parla tanto oggi del
fatto che abbiamo bisogno di maestri, ma oggi abbiamo bisogno
soprattutto di testimoni. E se è necessario ascoltare i maestri, è
fondamentale che essi siano dei testimoni. È in questa prospettiva,
che siamo impegnati a promuovere la testimonianza della vita
cristiana, a partire dalla base. Riconciliazione, è forse una parola
forte, ma la riconciliazione trova il suo terreno di applicazione già nel
nostro cuore, nel cuore di ogni uomo. Come diceva San Paolo, il mio
corpo ha fatto ciò che la mia mente non vuole: c‟è una lotta interiore
in ogni uomo. Ogni uomo deve cercare di essere riconciliato con se
stesso. L'esame di coscienza personale è molto importante.
Al
secondo livello, già nella famiglia, non è tutto armonioso. Ci sono
problemi, ci sono malintesi, incomprensioni che devono essere
eliminate. Pertanto invitiamo i genitori, con i loro figli, a vivere questo
amore nella verità. Quando ci sono problemi, devono cercare di
trovare un terreno comune, invece di aggirare il problema. A livello di
comunità ecclesiali viventi è la stessa cosa. Nel clero, abbiamo
bisogno di ritrovarci per incoraggiarci, spronarci reciprocamente per
ripristinare questa vita fraterna, anche chiedendo perdono, quando è
necessario, a qualcuno che abbiamo offeso. E questo a tutti i livelli.
Anche nella Conferenza Episcopale, abbiamo bisogno di questi scambi
per stringere di più i nostri legami e testimoniare effettivamente a chi
ci sta intorno che quello che predichiamo sulla riconciliazione, il
perdono, la giustizia, l'amore, la verità lo viviamo noi stessi. In questo
modo, credo potremo invitare i fedeli a vivere con noi quello che ci
aspettiamo dal Sinodo Speciale per l'Africa, vale a dire la
riconciliazione, il perdono, la giustizia, la verità e la pace.
D. - I politici africani non danno forse l‟impressione che questi
discorsi della Chiesa non li riguardino?
R. - Sicuramente sì. Perché, più di una volta, abbiamo dovuto sentirci
dire: "Voi vescovi, non dovete occuparvi di questioni politiche, il vostro
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posto è in sacrestia". Ma noi rispondiamo che la Chiesa si occupa
dello sviluppo integrale dell‟uomo. Nel Vangelo, vi è anche una
dimensione politica per l'insegnamento di Gesù Cristo che noi non
possiamo tralasciare. Noi, come custodi della missione di Gesù Cristo,
dobbiamo compiere questa missione nella sua piena dimensione,
anche nel suo aspetto politico.
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“LUCI E OMBRE” DELLE SOCIETA‟ AFRICANE
ALCUNE RIFLESSIONI A PARTIRE
DALLE LINEE-GUIDA DELL’INSTRUMENTUM LABORIS
LUCI
1 La crescita democratica e l‟emancipazione dalle dittature
(cfr. Instr. Laboris: cap. I, pp. 3-4, punti 7-8; cap. III, pp.40-43)
A partire dagli anni Novanta molti Stati africani hanno intrapreso un
cammino di democratizzazione, attraverso l‟introduzione di varie riforme di
liberalizzazione del quadro politico, economico e sociale: elezioni
multipartitiche, diritto di voto individuale, pluralismo mediatico e delle
associazioni della società civile. Si sono verificate alcune alternanze di
governo, grazie anche al contributo di Commissioni Nazionali e degli
osservatori internazionali, e la nuova cultura democratica ha migliorato
l‟immagine di questi Stati africani all‟estero, rendendoli interlocutori più
credibili in seno alle Organizzazioni Internazionali.
La Chiesa si è fatta promotrice delle istanze democratiche ogni volta che è
stata coinvolta nelle dinamiche di transizione politica. In tutto il continente
si possono osservare, a vari livelli, forme di partnership tra membri delle
comunità ecclesiastiche e attori istituzionali locali, che favoriscono il
confronto e il dialogo. Ne è un esempio l‟Accordo quadro fra Santa Sede e
Repubblica del Gabon del 12 dicembre 1997, che sancisce la libertà di
culto e la collaborazione tra Stato e organizzazioni cattoliche in campo di
assistenza sociale e medica.
Intervista con PRATIBHA THAKER,
membro dell‟ Economist Intelligence Unit
(A cura di Silvia Koch)
D. - Come giudica le riforme democratiche applicate dalla
maggioranza dei governi africani negli ultimi venti anni?
R. - Nell‟ultimo decennio ci sono state elezioni libere in tutta una serie
di Paesi. Per rendersi conto della portata delle innovazioni
democratiche, basti considerare alcuni dati relativi al passato:
durante gli anni Sessanta si sono contati ventuno colpi di stato nel
continente, diciotto negli anni Ottanta e non più di cinque nella fase
di passaggio dal 1990 al 2000. In molti paesi è stato intrapreso un
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processo di riforma del quadro istituzionale e, se venticinque anni fa
solo quattro regimi potevano dirsi “democratici” (Senegal, Botswana,
Zimbabwe e Mauritius), oggi sono 45 i governi eletti con un sistema
multipartitico. Infine, ricordo che un importante momento di cesura
nella storia della democratizzazione africana è stata la fine della
guerra civile in Angola.
D. - Gli effetti positivi di questa generale ventata di
democratizzazione arrivano facilmente alle popolazioni, alla
gente comune?
R. - Sicuramente i cambiamenti democratici si riflettono in ambiti
diversi e numerosi fattori, dallo sviluppo economico alla graduale
liberalizzazione politica, ne sono conseguenza ed espressione. In
particolare, negli ultimi dieci anni numerosi investitori cinesi si sono
fatti avanti sulla scena africana e questa presenza asiatica sta
influenzando molto l‟economia interna del continente.
D. - Come mai solo negli ultimi anni si è iniziato a parlare in
maniera costante di pirateria? È, questo, un fenomeno nuovo
nelle relazioni internazionali?
R. - Quella della pirateria è una grossa problematica internazionale
che ha radici profonde, nonostante se ne parli, è vero, solo da poco. È
un traffico che coinvolge il mondo intero in quanto, per contrastare la
pirateria, tutte le navi che transitano per il Golfo di Aden, e che sono
circa ventimila ogni anno, devono dotarsi di una serie di dispositivi,
contratti e assicurazioni e questo fa lievitare molto i costi di gestione
delle imbarcazioni.
D. - C‟è un legame tra il cambiamento climatico che sta
interessando l‟Africa e la sicurezza internazionale?
R. - Il cambiamento climatico è un flagello che si abbatterà sull‟Africa.
Si prevede che questo continente sarà il più colpito dagli effetti dallo
stravolgimento degli ecosistemi naturali, proprio perché per il 75% le
economie africane dipendono dall‟agricoltura. L‟innalzarsi del livello
dei mari e la siccità colpiranno fortemente il settore rurale creando
instabilità sociale e insicurezza alimentare. Il dramma della carestia
ha colpito addirittura regioni un tempo prospere, come il Senegal e il
Sudafrica. Il diffondersi delle carestie in Africa rappresenta una
minaccia anche per l‟Europa e per gli altri Paesi occidentali.
L‟insicurezza alimentare provoca, infatti, un aumento di sommosse e
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disordini politici, a livello locale, e un conseguente incremento
dell‟emigrazione clandestina, sulla scena internazionale. Si è calcolato
che negli ultimi dieci anni circa un milione di immigrati clandestini
hanno trovato il modo di entrare in Europa e se non si interviene a
monte, nella tutela dell‟ecosistema rurale locale africano e nella
promozione del settore agricolo, ci si troverà a fronteggiare dei flussi
sempre maggiori di clandestini che arrivano in Europa. L‟attuale
tendenza dell‟Unione Europea, di “chiusura” nei confronti
dell‟immigrazione, non rende più sicure le sue frontiere; al contrario,
la politica dei respingimenti produce un incremento dei traffici
criminali, in quanto questa gente, che in Africa non ha di che vivere,
cercherà ad ogni costo il modo per giungere, illegalmente, in Europa.
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2. La crescita della cooperazione tra i Paesi Africani
(cfr. Instr. Laboris: cap. I, p. 4, punto 8)
A causa della tendenza alla concentrazione dei poteri, tipica di molti Stati
Africani, nel continente il processo di integrazione regionale non trova,
storicamente, un terreno fertile. Tuttavia, a partire dalla metà degli anni
Ottanta, i paesi si sono dotati di varie organizzazioni sovranazionali, utili
nelle funzioni di governance e promozione economica. Le Unioni regionali
consentono, inoltre, di rivendicare una maggiore autonomia dagli attori
occidentali, rendendo il continente africano un partner più forte nel
processo di globalizzazione economica.
Gli organismi più importanti sono: African Union (UA); African
Parlamentary Union (APU); Organisation Internationale de la
Francophonie (OIF); New Partnership for Africa‟s Development (NEPAD);
Meccanismo Africano di Controllo Paritario (MAEP); Arab Maghreb Union
(AMU); infine la Southern African Custums Union (SACU) e la Zona del
Franco.1
Si realizzano poi anche collaborazioni più flessibili, pianificate sulla base di
esigenze specifiche (iniziative di promozione culturale o economica;
partnership tra le forze dell‟ordine; infine programmi sanitari, di lotta alla
fame e alla povertà).
Intervista con PIERFRANCESCO SACCO,
consigliere della Direzione generale Cooperazione e Sviluppo
del Ministero degli Affari Esteri italiano
(A cura di Silvia Koch)
D. - In cosa consiste la riformulazione
internazionali in ambito di cooperazione?
delle
relazioni
R. - L‟elemento più innovativo del nuovo approccio alla cooperazione è
l‟idea di collaborazione, partnership, parità e responsabilità reciproca.
Uno degli obiettivi prioritari è il rafforzamento della società civile nei
paesi partners, fondamentale per dare concretezza al principio
dell‟ownership. Questo concetto esprime l‟appartenenza ai Paesi
poveri dei loro processi di sviluppo, qualificandola in termini di
democraticità. A tal fine è indispensabile, tra le altre cose, disporre di
mezzi di comunicazione validi e solidi.
1
La SACU e la Zona del Franco sono le uniche forme di integrazione economica effettiva.
16
D. - Questo comporterà, a suo avviso, una riduzione dei fondi
devoluti alle attività di sviluppo?
R. - Io mi auguro di no. Il complesso dei finanziamenti per lo sviluppo
deve essere al centro dell‟attenzione anche nell‟agenda politica
internazionale. Questo è necessario per fronteggiare l‟impatto grave
della crisi finanziaria sui paesi del Sud del mondo.
D. - Quali saranno i nuovi rapporti tra le Istituzioni italiane
preposte alla cooperazione allo sviluppo e la società civile?
R. - Per quanto concerne il contesto italiano, per i prossimi anni si
prevede un coinvolgimento diretto degli attori della società civile
nazionale non solo nella fase di attuazione dei progetti, ma anche
nell‟elaborazione delle nuove linee-guida settoriali e nella
pianificazione delle attività istituzionali finalizzate alla cooperazione.
Riguardo alla società civile locale, la nostra cooperazione ha una
lunga tradizione di collaborazioni, che si realizzano anche attraverso
le attività delle numerose Ong italiane, partners delle Ong dei Paesi in
questione. Questa filiera sarà rafforzata con l‟adozione di strategie
destinate appositamente ad accrescere il coinvolgimento e il
protagonismo degli attori locali nei nostri programmi di sviluppo.
D. - A causa della grave recessione economica che stiamo
vivendo, nel 2008 si è registrata globalmente una drastica
riduzione delle risorse destinate dagli Stati industrializzati ai
Paesi poveri. Crede che queste linee-guida, da Lei illustrate,
troveranno un adeguato supporto finanziario?
R. - Io ho fede nella sostenibilità del nuovo approccio allo sviluppo.
Invito l‟opinione pubblica a registrare le dichiarazioni e gli impegni
che le classi politiche, di diversi paesi occidentali, hanno assunto in
ambito di cooperazione. Abbiamo dei gravi vincoli di bilancio, è vero,
ma penso che questo aspetto qualificante della politica estera degli
Stati industrializzati non potrà non avere il giusto peso anche in sede
di programmazione finanziaria, nelle varie Nazioni. Noi, in quanto
Direzione Generale Cooperazione allo Sviluppo, siamo molto
incoraggiati anche dagli appelli che, recentemente, lo stesso Pontefice
ha lanciato in questa direzione.
17
3. La crescita dei battezzati e delle vocazioni e la sfida
dell‟inculturazione
(cfr. Instr. Laboris: cap. I, p. 4, punto 10)
La rapida crescita delle comunità ecclesiastiche, degli ultimi decenni, si
manifesta attraverso un consistente incremento dei battesimi, delle
vocazioni sacerdotali; dei movimenti e associazioni di fedeli laici, infine
delle fondazioni. Secondo un rapporto del 2007 della Conferenza
Episcopale tedesca, i cattolici in Africa sono aumentati del 6.708 % tra il
1900 e il 2000, passando da 1,9 a 130 milioni in cento anni. Gli ultimi dati
pubblicati dall‟agenzia Fides, poi, indicano che nel 2006 in Africa si
contavano 158.313.000 cattolici (ben 4.843.000 unità in più rispetto
all‟anno precedente, su una popolazione di 926.878.000 individui); 638
vescovi (+ 8 elementi dal 2005); 33.478 sacerdoti (+ 1.108) e oltre 68.000
seminaristi tra maggiori e minori (quest‟ultimo dato è riferito al 2004). Una
dinamica evolutiva vivace ha riguardato, inoltre, i vescovi e i seminaristi
africani. Se continuerà a registrarsi tale tendenza, solo in parte imputabile
all‟incremento demografico, in 25 anni i battezzati africani e gli operatori
pastorali saranno numericamente superiori di quelli europei (che risultano,
invece, in decrescita)
Intervista con Padre GIUSEPPE CAVALLINI,
Coordinatore del Centro Comboni Multimedia
(A cura di Isabella Piro)
D. - Secondo gli ultimi dati dell‟Annuario Pontificio, nel periodo
2000-2007 i sacerdoti in Africa sono aumentati del 27,6%. A cosa
si deve questo incremento, secondo Lei?
R. – Quando si guarda a questi dati, che pure sono veri, bisogna fare
attenzione a non considerarli in se stessi, ma a metterli in un quadro
più ampio, che è quello per il quale in Africa c‟è in effetti una vitalità
molto forte, che nasce dal senso profondo di attaccamento al sacro
esistente nelle società africane, tant‟è che ancor più dei sacerdoti, dei
cristiani e della Chiesa cattolica, crescono la religione dell‟Islam,
quella delle Chiese indipendenti, le sètte di vario genere che spuntano
da ogni parte. E quindi è proprio in questo quadro di sensibilità
generale che dobbiamo guardare questi dati. Nonostante ciò,
certamente fa impressione ed è un dato molto positivo il fatto che
aumentino i sacerdoti che diventano un po‟, ormai direi, il segno di
una comunità cristiana che, in generale, va assumendosi la propria
18
responsabilità, diventando davvero capace di guardare a se stessa.
(…) Quindi, l‟aumento del clero anche locale di sicuro, in questo
senso, sarà un grande trampolino di lancio per il futuro della Chiesa
in Africa.
D. – Qual è il rischio che alcune vocazioni nascano come scelta di
comodo, per sfuggire alla povertà, ad esempio?
R. – Questo è certamente vero, lo sperimentiamo continuamente
anche noi missionari; è un po‟ quello che succedeva fino ad una
decina di anni fa nei nostri ambienti, in Italia, in Europa, in genere. Il
fatto che (in Africa ndr) le famiglie siano così numerose, ci siano delle
realtà demografiche in costante espansione e però che, con questo, ci
sia anche una crescita reale del numero di aderenti alla Chiesa,
attraverso il catecumenato ecc., certamente favorisce il fatto che in
ogni famiglia, quasi, ci sia da un lato il desiderio che qualche figlio
diventi religioso e prenda questa strada, dall‟altro certamente è anche
il desiderio di molti giovani che vedono aprirsi una possibilità più
garantita, per certi versi più facile, di costruirsi una vita migliore di
quella che magari vedono nei loro contesti. Tante volte, (questo
desiderio ndr) li spinge davvero su questa strada. E qui nascono,
naturalmente, tutti i problemi legati ad essa perché, se è vero che c‟è
molta generosità in molti sacerdoti giovani - e questo non va ignorato
– è anche vero che molti poi dimostrano che avevano imboccato la
strada con altre intenzioni.
D. - Rilevante anche, in Africa, l‟aumento dei fedeli battezzati,
pari ad un +3,0 %. Qual è stata la causa di questo “trend
positivo”, possiamo dire?
R. – Io stesso, nella mia esperienza, vedo come da molti anni, ma direi
ancora adesso, ci sono intere regioni dell‟Africa che sono molto aperte
al Vangelo, alla Parola di Dio, al desiderio di esprimere la propria fede
anche, se si vuole, in modo istituzionalizzato. E quindi ci sono dei
catecumenati molto floridi in molte parti dell‟Africa e c‟è molto
desiderio soprattutto di cercare Dio, di metterlo ancora al centro della
propria vita. Da qui, certamente, nasce (questo trend positivo ndr),
insieme al fattore demografico, al fatto che la Chiesa sia già una
grandissima realtà con oltre 150milioni di “abitanti”, quindi c‟è anche
una crescita di fedeli che è diventata un processo naturale, fisiologico,
perché ogni anno nascono moltissimi bambini anche nelle comunità
cattoliche e che, automaticamente, entrano nella Chiesa.
19
D. - Dal punto di vista logistico, a Suo parere, l‟Africa ha
strutture adeguate alla formazione ed al sostentamento dei
religiosi?
R. – Questo è un campo davvero critico perché ci sono ormai in quasi
tutte le diocesi delle istituzioni, dei seminari, dei centri particolari di
formazione che, dal punto di vista strutturale, soddisfano molte
esigenze di questa crescita della Chiesa. Quindi direi che più che
l‟assenza di strutture che aiutano l‟adeguata formazione delle
persone, quello che manca forse è la preparazione, alle volte, di un
sufficiente numero di formatori autoctoni, di personale locale che
davvero segua la formazione di questi giovani con amore, con
disinteresse, grande fede, con grande passione. Tra l‟altro, non credo
che
siano
le
istituzioni
“gigantesche”,
presenti
da
noi
tradizionalmente, a garantire un futuro di buona formazione, ma
dovrebbero essere anche gli ambiti delle comunità cristiane, quindi la
crescita dei giovani nel proprio contesto ecclesiale, culturale,
famigliare, che danno l‟impronta fondamentale alla formazione di un
clero e di una Chiesa davvero convinta, responsabile
D. - Quali le linee-guida dell‟evangelizzazione in Africa?
R. – Come sappiamo, il primo Sinodo africano, oltre quindici anni fa,
aveva già offerto un quadro globale che era quello che parlava di
ricostruire una Chiesa in Africa intesa come grande famiglia, “la
famiglia di Dio”, come era stata definita. Al centro di essa si era posto,
in modo fortissimo, il tema dell‟inculturazione, cioè la capacità di
trovare le espressioni della tradizione culturale di ogni popolo, di ogni
gruppo, e quindi anche di ogni Chiesa che meglio esprimessero lo
stesso Vangelo. Direi che in questi anni, questo grande tema credo
debba essere recuperato, speriamo venga fatto nel secondo Sinodo
che si celebrerà il prossimo ottobre e che l‟inculturazione venga
rimessa al centro perché da essa nasce un‟identità autentica per le
comunità così estese e così numericamente favorevoli che ci sono oggi
in Africa. L‟altro grande tema dell‟evangelizzazione è certamente è
quello del continuare il cammino verso l‟autosufficienza, in termini
economici, ma non soltanto delle Chiese locali, ma anche in termini
ministeriali – come per altro sta succedendo – e in termini di
missionarietà. Anche qui, l‟Africa sta esprimendosi molto bene perché
davvero questo interscambio di personale, di sacerdoti, di religiosi va
aumentando sempre di più. L‟ultimo elemento è quello del dialogo con
le altre realtà religiose perché dovremmo essere noi quelli che
promuovono questa realtà secondo lo spirito del Concilio Vaticano II,
20
sia al livello ecumenico che al livello interreligioso, diventando poi così
davvero agenti di trasformazione sociale perché un grande ruolo
giocato dalla Chiesa fino ad oggi e che certamente anche in futuro
sarà altrettanto importante è proprio quello di applicare la presenza di
fede alla trasformazione dell‟uomo e della società.
D. – Abbiamo parlato di inculturazione, ma c‟è sempre anche
l‟altro fronte, quello delle culture tradizionali africane: come
conciliare questi due aspetti?
R. – Io credo che si concilino in modo perfetto, perché – almeno
nell‟esperienza mia, di tanti miei amici e confratelli e nell‟incontro
proprio con le Chiese locali – laddove si è saputo operare in modo
abbastanza oculato e saggio, direi, l‟introduzione, a tutti i livelli, di
elementi di espressione tradizionale anche sul piano religioso, della
sensibilità per il sacro, l‟inculturazione è avvenuta secondo un
processo quasi spontaneo ed è dove le Chiese hanno raggiunto il
maggior grado di responsabilità, di capacità di gestirsi, anche nel
passaggio graduale a superare il grande rischio, per altro molto
presente, di “clericalizzare” un po‟ l‟ambiente ecclesiale. Mentre,
invece, inculturare
significa promuovere, ad esempio, la
responsabilità dei laici, dei capi locali che sono molto apprezzati,
molto ascoltati anche nell‟ambito tradizionale. Anche nell‟ambito della
formazione e dell‟educazione l‟inculturazione è la chiave per dare “un
volto africano alla Chiesa in Africa”, come diceva Paolo VI.
D. – Alla luce di quello che abbiamo detto, qual è il contributo
delle missioni?
R. – (…) In base alla mia esperienza, probabilmente ci verrà chiesto di
fare un‟opera di autoconversione ancor più grande di quella che
siamo stati capaci di operare finora. Perché secondo me l‟Africa sta
vivendo la stagione della propria adolescenza, quindi è in pieno
fermento ed è alla ricerca di un‟identità propria che la mette
automaticamente quasi in conflitto molto spesso con le modalità
tradizionali di vedere gestita la propria crescita, ovvero quella operata
di più dall‟esterno. È una sfida grande giocare il ruolo di Giovanni
Battista, in questo tempo, cioè diminuire per lasciare davvero spazio a
loro, alla localizzazione, al clero autoctono, ai laici ormai impegnati,
molto capaci e convinti nella propria fede. Quindi, (il nostro
contributo ndr) è quello di riqualificare un po‟il nostro impegno, la
nostra
presenza
come
missionari,
preparandoci
di
più,
specializzandoci non nella Pastorale “ordinaria” diciamo, ma in quelle
21
strutture in cui è importante esserci per dare garanzia di preparare
davvero bene quelli che saranno i protagonisti futuri della continua
crescita, della maturazione di questa Chiesa in futuro.
22
4. Il ruolo dei mass media e lo sviluppo di quelli di
ispirazione cristiana, soprattutto radio
(cfr. Instr. Laboris: cap. I, pp. 7-8-9, punti 18-19)
La Chiesa fa largo uso delle nuove tecnologie dell‟informazione per
sensibilizzare al rispetto dei valori religiosi e per far emergere delle
realtà altrimenti ignorate dall‟opinione pubblica mondiale. Ricordiamo la
Radio Sol Mansi (“Il sole è sorto”) di padre Davide Sciocco, che nasce
con l‟intento di dare voce alla popolazione della Guinea Bissau,
straziata dalla guerra civile del 1998, e la Radio Don Bosco del
Madagascar, particolarmente attenta ai programmi culturali ed educativi
rivolti al pubblico giovanile.
Il potere della comunicazione è enorme. Varie volte l‟intervento dei
giornalisti ha influenzato l‟esito di processi politici (le votazioni
senegalesi del 2000, dette “elezioni dell‟alternanza” ne sono forse
l‟esempio più significativo). Non a caso, d‟altra parte, i media subiscono
le ingerenze di leader politici o di gruppi di parte (come la rwandese
Radio des Milles Collines, che nel 1994 alimentava la violenza etnica).
L‟esistenza di un‟alternativa credibile alle notizie omologate e filogovernative, come quella fornita dai media di matrice cattolica, è un
elemento essenziale per qualunque regime che si voglia ispirato ai
valori della democrazia.
Intervista con JEAN LÉONARD TOUADÌ,
giornalista e scrittore congolese
(A cura di Silvia Koch)
D. - Perché oggi si parla della necessità di nuovi linguaggi
giornalistici per informare sulla vita dei paesi africani?
R. - La mia impressione è che l‟informazione occidentale sull‟Africa sia
ancora prigioniera degli stereotipi, dei pregiudizi etnologici
dell‟Ottocento e del Novecento. Il risultato è una rappresentazione di
questo continente che non fotografa l‟oggi, ma che continua a
riprodurre l‟immaginario sedimentato nei secoli passati. Questo ci
impedisce di cogliere i nuovi fenomeni e le forme di espressione
originali delle società africane, che potrebbero rappresentare,
diversamente, un contributo interessante alla nostra conoscenza della
realtà locale. Dobbiamo, allora, rinnovare i nostri linguaggi e affinare
quegli strumenti che facilitano una migliore comprensione del
continente, così vario e articolato. Io penso che tale fondamentale
opera di rinnovamento dei codici della comunicazione possa iniziare
23
dalla considerazione della letteratura, della poesia, dell‟arte, del
cinema e di tutti quei linguaggi che consentono di penetrare la realtà
locale originaria, al di là delle mediazioni sovrastrutturali del passato.
D. - Come giudica determinate esperienze di media internazionali
in Africa, i cosiddetti “media di pace”, come ad esempio la Radio
Okapi del Congo, legata alle Nazioni Unite?
R. - La radio ricopre un ruolo molto importante in Africa perché
riproduce, in qualche modo, la tradizione orale. Una tradizione che si
esprime “da bocca a orecchio”, tipica di questo continente nel quale
l‟analfabetismo è estremamente diffuso. In Africa, la radio è intesa
come mezzo di comunicazione e come strumento di sviluppo, ma
anche come canale per veicolare messaggi di pace, per diffondere una
cultura di concordia, di condivisione dinanzi alle difficoltà e di
promozione di nuove relazioni tra le etnie e gruppi in opposizione.
Così come in determinate occasioni, ad esempio nel Rwanda del 1994,
la radio si è fatta portavoce di sentimenti di odio e divisione che
hanno portato ad atti di violenza inaudita, come il genocidio. In altri
contesti, invece, questo mezzo di comunicazione assume oggi un ruolo
significativo in quanto cemento di nuove socialità e di nuovi orizzonti
di pace. A mio avviso questo è molto importante.
D. - In un momento come quello che stiamo vivendo, da Lei
definito “di chiusura” da parte delle nazioni europee - che si
manifesta attraverso le attuali scelte degli Stati nell‟ambito delle
politiche sull‟immigrazione - come è possibile abbattere le
barriere della “fortezza europea” e tornare all‟idea di “Eurafrica”
del celebre padre della patria senegalese, Léopold Sédar Senghor?
R. - Innanzitutto dobbiamo comprendere che non siamo soli al
mondo. In un‟epoca di globalizzazione, quale è quella odierna, ogni
parola pronunciata, ogni azione commessa viene ascoltata, vista e
giudicata altrove. La mia impressione è che i nostri politici, la stampa
e l‟opinione pubblica non siano ancora consapevoli del carattere
“glocale” dei nuovi mezzi di comunicazione. Di conseguenza, il modo
con cui stiamo affrontando la questione dell‟immigrazione, molto
rigido, severo e repressivo all‟interno e “di chiusura” all‟esterno delle
frontiere, sta provocando in Africa un sentimento di rigetto nei
confronti dell‟Europa. Un rifiuto di antichi legami plasmati dalla
storia e dalla geografia comuni. Io credo che noi dobbiamo ricostruire
questo ponte con l‟Africa e ripristinare, a partire dallo scambio
culturale, un contatto diretto tra i popoli. Le comunità devono tornare
24
a frequentarsi e a conoscersi reciprocamente. Da questo punto di
vista, la diaspora africana in Europa può essere di aiuto, perché la
presenza degli africani ci stimola a riallacciare relazioni sociali e
culturali.
D. - Come immagina un progetto di scambio formativo tra
giornalisti africani ed europei, del quale si è fatto promotore?
R. - Penso non a un corso di formazione unilaterale, ma a uno spazio
di contaminazione reciproca, nel quale i giornalisti africani possano
portare l‟autenticità e il vissuto del loro continente e della loro
professione. Gli europei, d‟altro canto, potranno sostenerli dal punto
di vista teorico, tecnico e tecnologico. La mia idea è quella di
realizzare occasioni di “impollinazione reciproca” tra giornalisti.
Intervista con DIANE SENGHOR,
direttrice dell‟Istituto “Panos” di Dakar
(A cura di Silvia Koch)
D. - Cosa possono fare i media internazionali per migliorare la
qualità dell‟informazione sulle realtà africane?
R. - Penso che non sia facile, perché il pubblico occidentale è
interessato soprattutto da ciò che è “spettacolare”, “catastrofico”. Al
contrario, i giornalisti africani non hanno un‟immagine così
pessimista del loro continente; essi mostrano piuttosto la vitalità che
l‟Africa manifesta in tutti i settori, dall‟attivismo sociale alle diverse
forme di resistenza politica, fino alle espressioni della creatività
economica. Io credo che i media occidentali dovrebbero appoggiarsi
maggiormente sulla produzione giornalistica africana.
D. - Cosa rende una realtà “interessante” dal punto di vista
mediatico?
R. - Se si guarda al passato, si noterà che Paesi come la Cina o l‟India
10-15 anni fa erano coperti poco e male dai media occidentali;
esattamente quello che avviene oggi per l‟Africa. Io penso che
l‟immagine di un “paese del Sud” cambi, sulla scena internazionale,
quando e se questo Stato diventa interessante dal punto di vista
economico. Questo è avvenuto, ad esempio, per il Sudafrica. Ad ogni
modo, non si può attendere che la situazione economica dei Paesi
cambi affinché essi possano essere adeguatamente rappresentati sui
25
canali internazionali della comunicazione; io penso che sia necessario
educare i giornalisti, stabilire dei partenariati con le redazioni locali,
creare occasioni di scambio e di co-produzione tra media occidentali e
media africani.
D. - Può raccontarci l‟esperienza dell‟Institut Panos?
R. - L‟Institut Panos si propone l‟obiettivo di sostenere i media locali e
di aiutarli a migliorare la qualità della loro produzione. In Africa le
piccole realtà locali, così come i “soggetti marginalizzati”, non hanno
voce a livello nazionale o internazionale. Di conseguenza essi non
hanno alcuna influenza a livello sociale e politico. L‟Insitut Panos
promuove la cooperazione tra canali di comunicazione locali, media
nazionali e grandi network internazionali. Ad esempio, il centro
raccoglie in rete la produzione dei piccoli operatori dell‟informazione,
in modo da rendere questo materiale fruibile dai loro colleghi anche
all‟estero.
D. - Quali benefici possono essere apportati da un incremento
dell‟“informazione positiva” sull‟Africa, relativa alla sua arte, alla
sua cultura e alle sue ricchezze?
R. - Innanzitutto, ci sarebbero effetti positivi sugli aiuti allo sviluppo,
che, in generale, risultano ancora non adeguati in quanto fondati su
analisi spesso superficiali, su dati “politici” che non rispecchiano le
realtà del continente e le vere condizioni di vita della gente. Penso che
una copertura mediatica più coerente possa stimolare degli interventi
di cooperazione più appropriati ed efficaci. Inoltre, anche dal punto di
vista finanziario, un‟immagine positiva dell‟Africa può generare un
clima di fiducia reciproca proficuo per gli investimenti e, quindi,
fondamentale per stimolare un‟economia locale più autonoma, forte e
meno basata sull‟aiuto allo sviluppo.
26
Intervista con RICCARDO BONACINA, Progetto Afro
(A cura di Silvia Koch)
D. - Perché alcune realtà africane vengono dimenticate dai media
internazionali?
R. - Questo è un vizio tipico dei media occidentali, che interpretano
l‟informazione come un atto unilaterale concepito al centro, dai poteri
forti. L‟Africa soffre di quest‟informazione elaborata all‟esterno e la sua
voce, il suo racconto riescono difficilmente a emergere.
D. - Quali sono le conseguenze di un deficit di mediatizzazione?
R. -È come se si guardasse attraverso una lente, che difficilmente
coglie la realtà vera. Di conseguenza, si ripete spesso il binomio
Africa-emergenza: fanno “notizia” solo le guerre, le crisi umanitarie, i
cosiddetti “diamanti insanguinati” o l‟eventuale episodio di chiusura
alla cooperazione internazionale da parte di un dittatore. Ma al di là
di questo, sappiamo pochissimo del cinema, della musica e dell‟arte
africana. Questo continente ha bisogno di una lente che faccia
emergere i suoi colori.
D. - Quali benefici può portare la cooperazione internazionale in
ambito mediatico?
R. - I partenariati fra media europei e africani possono costituire
ottime occasioni di stimolo e scambio di competenze per i giornalisti,
come anche importanti canali di accesso a risorse, infrastrutture e
finanziamenti. Bisogna elaborare modi per dare voce alle piccole
redazioni locali, ai suoi giornalisti e a tutte le esperienze che nascono
dal basso, dalla società civile. Mi auguro che i giornalisti occidentali
colgano queste opportunità per prestare ascolto al racconto dell‟Africa
fatto non dai giganti dell‟informazione, dalle agenzie di stampa globali,
ma dagli africani.
27
Intervista con MASSIMO ALBERIZZI,
inviato in Africa per il Corriere della Sera
(A cura di Silvia Koch)
D. - Quali effetti positivi può portare la copertura mediatica in
situazioni caratterizzate da limitazioni gravi delle libertà
individuali e collettive?
R. - Ci sono regimi politici molto rigidi in Africa, nei quali
l‟opposizione non ha voce, la stampa è pilotata e i reporter vengono
frequentemente imprigionati. Il caso più eclatante è l‟Eritrea, ma il
diritto di opinione viene continuamente violato anche in altri paesi,
come la Guinea Equatoriale, il Ciad, la Nigeria e il Sudan. Tuttavia,
ritengo necessario che si parli dei casi di violazione dei diritti umani
in qualunque contesto socio-politico, in modo che i politici e l‟opinione
pubblica siano informati. Diversamente, tali regimi resteranno
privilegiati dal punto di vista delle relazioni bilaterali diplomatiche e
finanziarie. È quanto avviene, ad esempio, fra l‟Italia e l‟Eritrea.
D. - Quali limiti e difficoltà incontra un giornalista in Africa?
R. - Il problema principale sono i costi che, specialmente in zone di
conflitto, sono molto alti. Ad esempio, per andare in Somalia, sulla
“costa dei pirati”, oggi un operatore straniero ha bisogno di circa mille
dollari al giorno per la scorta, le automobili, i traduttori... Per i
giornalisti locali generalmente queste cifre si riducono, ma incidono in
misura addirittura maggiore sui bilanci finanziari delle redazioni, che
sono minimi. I costi restano alti anche in aree geografiche
relativamente stabili, non colpite da conflitto. È un limite che
andrebbe abbattuto, perché questo continente ha bisogno di notizie,
di informazioni che circolino sia all‟interno dei paesi sia all‟esterno,
così da arrivare alle opinioni pubbliche mondiali.
D. - Come giudica il livello di articolazione delle società civili
africane, anche in relazione alle scelte politiche adottate dai
relativi governi?
R. - La società civile africana è, in generale, molto più evoluta
dell‟establishment istituzionale. Spesso le élites politiche sono limitate
nelle scelte perché magari devono fare i conti con eventuali guerriglie,
oppure rispondere dei rapporti internazionali e delle alleanze
strategiche. Ad esempio in Kenya, in occasione delle contestazioni e
28
delle violenze generate dallo scrutinio del dicembre 2007, molta parte
della società civile si è schierata a difesa dei principi della democrazia.
Diverse fazioni hanno invocato la tutela delle garanzie costituzionali al
di là delle divisioni etniche, che spesso vengono strumentalizzate dalle
leaderships per combattersi e per garantirsi il potere. Questo dimostra
che determinate espressioni della società africana sono attive,
avanzate e possono coinvolgere parte della popolazione, contribuendo,
così, allo sviluppo sociale, ideologico e democratico del continente.
29
5. Il ruolo delle Commissioni „Giustizia e Pace‟
(cfr. Instr. Laboris: cap. II, pp. 19-20; cap. III, pp. 30-31, punti 8086, pp. 44-45; conclusioni, p. 51)
La storia del continente africano è costellata da innumerevoli ingiustizie e
l‟impegno dei fedeli al servizio della riconciliazione è un imperativo
urgente. Molte Conferenze Episcopali africane hanno istituito Commissioni
per la giustizia e la pace, strumenti impegnati nella sensibilizzazione alla
pace, nell‟educazione civica, nella ricerca di giustizia per le vittime di ogni
tipo di violenza. L‟esempio più significativo, rimasto celebre nella storia, è
rappresentato dalla Commissione di Verità e Conciliazione sudafricana,
presieduta dall‟arcivescovo Desmond Tutu nel 1999, che ha permesso di
chiudere moralmente con il dramma dell‟apartheid. I valori della
riconciliazione sono veicolati dalla Chiesa anche attraverso la pratica
sacramentale, che rigenera l‟armonia tra i figli di Dio. La speranza è che i
fedeli “consacrati” possano essere, a loro volta, artefici di pace e che tale
forma di celebrazione comunitaria possa contribuire a medicare le ferite
delle società africane, lacerate da esperienze di estrema violenza, da
conflitti e da guerre.
Intervista con JEAN AIMÉ BRICE MACKOSSO,
Commissione Giustizia e Pace del Congo Brazzaville
(A cura di Silvia Koch)
D. - Quali attività svolge la Commissione di Giustizia e Pace in
Congo Brazzaville?
R. - Noi lavoriamo sulla formazione dei cristiani, per diffondere una
cultura di pace e di non violenza. Cerchiamo inoltre di fare pressione
per una migliore gestione delle entrate economiche legate ai
combustibili fossili. Il bilancio pubblico del Congo Brazzaville dipende
in larga parte dal petrolio; per questo i vescovi nel 2002 hanno
lanciato un appello affinché questa risorsa sia utilizzata per ridurre la
povertà, nel paese. La Commissione di Giustizia e Pace si occupa
inoltre della pastorale e dell‟assistenza giuridica nelle prigioni. È
impegnata poi con i ragazzi-schiavi, che dall‟Africa Occidentale
arrivano in Congo, dove lavorano come schiavi nei mercati. Infine,
curiamo un corso di “Culture cristiane della pace” nelle scuole e altri
programmi educativi in diverse strutture per la gioventù, ad esempio
in quella di Kinkala dove si lavora sul reinserimento degli ex-bambini
30
soldato. Ecco dunque i vari settori di intervento della Commissione di
Giustizia e Pace, in Congo Brazzaville.
D. - Qual è il contesto nel quale lavorate?
R. - Sono condizioni molto difficili, perché in un Paese che ha
conosciuto la guerra non è facile denunciare la corruzione, la cattiva
utilizzazione delle finanze pubbliche. Soprattutto dal momento che
dietro le attività criminali ci sono spesso le multinazionali, che anche
in passato hanno peggiorato la situazione, in diverse occasioni.
Dunque, diventa complicato pretendere che le risorse statali siano
devolute alla battaglia contro la povertà.
D. - Quali sono i risultati concreti del lavoro sul campo della
Commissione di Giustizia e Pace?
R. - Fornirò l‟esempio di come si è evoluto il dibattito intorno alle
materie prime. In passato i congolesi non ne erano al corrente, non
sapevano che la nazione producesse petrolio. Chi si occupava di
questi argomenti rischiava di essere arrestato; addirittura un detto
popolare diceva: “Il petrolio uccide; colui che ne parla può morire”.
Oggi invece la gente ne discute liberamente; gli intellettuali sono
informati sulle problematiche e sui benefici legati all‟attività
estrattiva. I vescovi hanno avuto il merito di portare l‟attenzione del
dibattito pubblico su tali tematiche. Il petrolio non rappresenta più
un “tabù”, e questo io credo sia una delle conquiste più importanti
della Commissione di Giustizia e Pace.
D. - Esistono forme di collaborazione tra la Commissione di
Giustizia e Pace congolese e il Pontificio Consiglio „Giustizia e
Pace‟?
R. - Tutte le Commissioni africane hanno delle relazioni con il
Pontificio Consiglio. Innanzitutto noi inviamo periodicamente al
Consiglio un rapporto sulle nostre attività. A livello di Africa Centrale,
esiste un coordinamento delle Commissioni di Giustizia e Pace, la
SERAC, che si riunisce ogni tre anni per fare una valutazione degli
interventi effettuati nei diversi paesi. E il Pontificio Consiglio prende
sempre parte ai lavori, nella figura del Cardinale responsabile o di un
suo delegato. Per quanto riguarda il nostro Dicastero, posso dire che
esiste davvero una collaborazione importante con il Consiglio.
31
D. - A suo avviso, ci sono degli aspetti da incrementare riguardo a
questa collaborazione?
R. - Io credo che il Consiglio faccia già molto. Ad esempio ha realizzato
studi settoriali su varie tematiche, tra cui il debito e la corruzione, che
sono fondamentali per il nostro lavoro sul campo. Forse sarebbe
importante un intervento più incisivo riguardo alla problematica dei
combustibili. Possiamo dire che tutti i conflitti africani sono
riconducibili, in una maniera o nell‟altra, allo sfruttamento delle
risorse, dal Sudan alla Repubblica Democratica del Congo,
all‟Angola…Anche in Congo Brazzaville, si dice che la guerra è stata
causata dal petrolio, oppure che se alcune aree, dove si concentra
l‟attività estrattiva, non sono state devastate dalla violenza armata, è
proprio grazie all‟oro nero. Possiamo concludere, allora, che il petrolio
rappresenta una fonte di male e bene al tempo stesso. Dunque, io
ritengo importante che la Chiesa, con la sua autorevolezza universale,
si pronunci al riguardo. Le indicazioni della Chiesa e un apposito
studio del Pontificio Consiglio sarebbero fondamentali e molto
ascoltate dal popolo di Dio.
D. - In alcuni paesi nei quali l‟economia del petrolio ha sconvolto
l‟ecosistema naturale, la Nigeria ad esempio, ci si sta
interrogando sulla possibilità di interrompere l‟attività
petrolifera, lasciare le risorse nel sottosuolo per avviare
produzioni alternative ed ecosostenibili, nei siti estrattivi. Cosa
pensate di questo tipo di progetti?
R. - Ci sono dei paesi che non possiedono petrolio in Africa, dunque è
possibile vivere senza questa risorsa. In generale, nelle economie che
non dipendono dallo sfruttamento delle risorse energetiche, si registra
addirittura una crescita maggiore, rispetto alle economie petrolifere.
Aggiungo che quasi ovunque il petrolio è legato a problematiche di
corruzione, di debito, di violenza, di guerra civile. Ricordo un vescovo
del Congo che diceva che il nostro petrolio deve diventare “un
combustibile per la vita, e non per la morte”. Dunque, se il petrolio
non rappresenta una fonte di benessere, ci sono buone ragioni per
pensare ad attività alternative a quella estrattiva. Benché per paesi
come il Congo Brazzaville, dove l‟80% del budget nazionale dipende
dal petrolio, non sia facile rinunciare a questa fondamentale entrata,
è tuttavia necessario riflettere sulla convenienza di attività produttive
alternative. Io penso che in molti luoghi i combustibili fossili non
costituiscano una benedizione per le popolazioni locali, ma siano al
contrario fonte di grandi difficoltà.
32
6. Il dialogo interreligioso e ecumenico e il problema delle
sètte
(cfr. Instr. Laboris: cap. III, pp. 36-37, punti 99-102)
“Una Chiesa non chiusa in se stessa, ma che condivide gioie e speranze,
problemi e sfide della società africana.” È questo il progetto che emerge
dalla Seconda Assemblea Speciale per i vescovi del continente. Le
Comunità cristiane locali, di tutte le confessioni, si sono poste come sfida
di resistere alla virulenta aggressione delle sètte (spesso strumentalizzate
dai politici), di superare la diffidenza e le specifiche divergenze dottrinali
per collaborare reciprocamente, “farsi unica voce” e fondare una “Chiesa
d‟Africa”. Perché una Comunità solidale è più credibile nella promozione
della pace e della riconciliazione. La Chiesa, sempre più radicata e
impregnata della realtà africana, si apre anche al dialogo con le religioni
tradizionali e con l‟Islam. Attraverso la conoscenza delle culture locali,
l‟adozione degli elementi positivi e la purificazione dagli aspetti
incompatibili con il Vangelo, si può forgiare una cultura di tolleranza e
riconciliazione. Partnership dottrinali, come il celebre movimento dei
Focolari di Algeri dell‟arcivescovo Teissier, ne sono un risultato e al tempo
stesso uno strumento di promozione.
Intervista con SANDRA MAZZOLINI,
docente di Teologia ed Ecclesiologia
presso la Pontificia Università Urbaniana
(A cura di Isabella Piro)
D. - Ci sono reali possibilità di dialogo interreligioso in Africa?
R. - La possibilità effettiva di dialogo interreligioso va
contestualizzata sullo sfondo della storia dell‟Africa, a partire dal
Sinodo del 1994, che è una storia caratterizzata dalla proliferazione
di sanguinosi conflitti. E penso che proprio questo abbia suggerito
la scelta di incentrare i lavori del prossimo Sinodo sulle categorie di
riconciliazione, giustizia e pace. Dunque mi sembra che proprio in
questa opzione risieda la possibilità effettiva di un dialogo
interreligioso, soprattutto nella prospettiva di quello che Giovanni
Paolo II chiamava “dialogo di vita”. È un dialogo nel quale si
testimoniano reciprocamente i propri valori spirituali e umani,
sostenendosi nel viverli per edificare una società più giusta e
fraterna (cfr. RMi 57). È chiaro che, se noi consideriamo
33
riconciliazione, giustizia e pace, queste implicano un impegno
condiviso e, in questo senso, mi sembra proprio che costituiscano
ambiti specifici di attuazione del dialogo interreligioso che,
evidentemente, i vescovi ritengono possibile per l‟Africa.
D. - Con quali religioni il cristianesimo ha rapporti migliori, in
Africa?
R. - È difficile dare indicazioni precise in merito, perché
oggettivamente la situazione è assai variegata. Basterebbe farsi
venire alla mente una cartina geografica dell‟Africa e pensare, nel
loro insieme, ad esempio, ai Paesi dell‟Africa settentrionale e a
quelli dell‟Africa sub-sahariana o dell‟Africa del sud. Se noi
guardiamo questa cartina e la guardiamo anche dal punto di vista
religioso, è chiaro che la presenza dei cristiani in genere (e dei
cattolici in specie) varia nelle diverse zone del continente, così come
varia la presenza di altre tradizioni religiose. Poi c‟è anche da
ricordare che, sulla qualità del rapporto con le altre religioni,
incidono anche fattori diversi: sto pensando, ad esempio, alle
diverse legislazioni degli Stati in materia religiosa. E poi, tra questi
fattori, dobbiamo anche tener conto della storia stessa
dell‟evangelizzazione: l‟Africa è stata evangelizzata in più fasi, con
metodi e metodologie differenti. Oggi credo che per ciò che riguarda
questa rete di relazioni del cristianesimo, o meglio del cattolicesimo
con le altre religioni, ci sono due fattori ulteriori, che possono
rendere più o meno problematico il rapporto tra le varie tradizioni
religiose: il primo fattore è costituito dalla diffusione del
radicalismo islamico. Anche qui io credo che basterebbe controllare
una cartina geografica: questo radicalismo islamico si sta
indubbiamente diffondendo nel Corno d‟Africa, ma anche nella
Nigeria, nel Sudan, nella Costa d‟Avorio, nella Guinea Conakry, nel
Niger, nel Mali, nel Togo ecc. Questa diffusione rende possibile la
costituzione di reti terroristiche. Un secondo fattore è la diffusione
di sette che molto difficilmente si possono definire “cristiane”; se lo
sono, lo sono soltanto come patina esteriore. Sono sétte che si
presentano con un‟offerta di benessere, naturalmente da
conseguire dietro compenso, un benessere che può essere e
accadere qui e ora.
D. – Possiamo tracciare brevemente una mappa su quali sono le
aree geografiche del continente africano in cui si manifestano
maggiori tensioni legate alla diversità di credo?
34
R. - Credo che sia abbastanza difficile, perché i conflitti che
insanguinano l‟Africa hanno chiavi di lettura diverse: sono conflitti
etnici, clanismo, tribalismo, signori della guerra e, attualmente,
anche episodi terroristici. Quindi l‟individuazione delle cause è
complessa; anche se si pensa che oggi c‟è un fattore – non nuovo
per la verità, ma nuovo per le forme – che è dato dalle nuove
presenze coloniali. L‟Africa è ricca di materie prime che sostengono
lo sviluppo economico di Paesi come gli Stati Uniti o l‟Europa e che
sono molto appetibili dalle nuove nazioni emergenti come l‟India e
la Cina. Io credo che, se noi dovessimo analizzare, ad esempio, la
guerra nella zona dei Grandi Laghi, ci troveremmo di fronte ad una
serie di conflitti che sono emblematici di questa complessità. E
allora, talvolta capita che episodi di conflitto violento,
dall‟apparente carattere religioso, si verificano però in contesti
caratterizzati da complessità etno-tribali e dalla presenza di
„confraternite‟ religiose con interessi locali (sto pensano al Sudan,
ma anche alla questione del Darfur). E allora, come individuare le
aree geografiche del continente africano in cui si manifestano
maggiori tensioni legate alla diversità di credo? Io penso che ci sia,
in sintesi, un indicatore molto chiaro, ovvero che le aree dove è
maggiormente possibile l‟insorgenza di queste tensioni sono quelle
dove maggiore è il sottosviluppo, a fronte però, di ricchezze naturali
che non sono utilizzate per uno sviluppo interno. Questa situazione
di terribile sottosviluppo correlativamente comporta una possibilità
maggiore di penetrazione di sette e movimenti fondamentalisti.
D. - Ci sono in Africa modelli
cristianesimo ed Islam?
positivi di rapporto
tra
R. - Quando si parla dei rapporti con l‟Islam, occorre precisare che
non è un mondo monolitico, ma complesso, un mondo che
attualmente sta conoscendo, al suo interno, non facili dinamiche di
trasformazione. Dunque, le relazioni con l‟Islam vanno comprese
nel quadro del suo dinamismo attuale, che presenta anche i tratti
dell‟intolleranza religiosa, e tali relazioni vanno considerate anche
nel variegato impatto politico dell‟Islam che non poche volte rende
difficile il dialogo. Ciononostante, ci sono molte esperienze positive,
nelle quali si attua il cosiddetto “dialogo di vita”, e sono tutte
esperienze che attengono, ad esempio, all‟ambito caritativo e
sociale. Un esempio interessante è quello di “Radio Sol Mansi”,
organizzata in Guinea Bissau, in cui si realizza una concreta
collaborazione quotidiana di cristiani e musulmani, quindi
un‟attuazione del “dialogo di vita”; se poi si osserva il palinsesto
35
della radio, si vede che non mancano programmi sia per i
musulmani e sia per gli evangelici. E poi ci sono interventi
congiunti formativi su temi di attualità, per esempio la lotta
all‟AIDS, la promozione della donna, l‟educazione alimentare, il
dialogo tra fedi diverse.
D. – E nel dialogo ecumenico tra le chiese cristiane, a che
punto si è giunti in Africa?
R. - Il dialogo ecumenico – in Africa come altrove nel mondo – sta
attualmente procedendo più sulla linea del “dialogo della vita”,
anche se non manca un impegno anche a livello teoretico. Luci e
ombre disegnano l‟indubbio cammino già compiuto, che,
positivamente, trova espressione concreta in esperienze condivise
di preghiera: per esempio, sto pensando alla celebrazione della
Settimana di Unità dei Cristiani, ma anche esperienze di studio.
Significativa è la traduzione della Bibbia in lingue locali in
collaborazione con l‟Alleanza biblica, ma penso anche ad esperienze
condivise di impegno caritativo e sociale. Si tratta di un cammino
da potenziare, perché naturalmente ci sono ombre, superando
ostacoli quali una certa diffidenza, rivalità tra gruppi, mancanza di
tolleranza e di comprensione reciproca. Le radici di questi ostacoli
sono certamente da ritrovarsi, da un lato, nella storia pregressa
delle relazioni tra le diverse comunità cristiane ma, dall‟altro, nella
mancanza, che frequentemente si riscontra, di conoscenza della
propria e, soprattutto, dell‟identità degli altri. Dunque, le Chiese e
le comunità ecclesiali coinvolte nel dialogo ecumenico in Africa si
trovano poi oggi a dover affrontare anche le sfide derivanti dal
moltiplicarsi incontrollato delle sétte, che ingenerano evidenti
fenomeni di “transumanza” religiosa. Si tratta di fenomeni che non
possono essere spiegati soltanto con l‟aggressività delle sétte. Alla
luce di tutto questo, credo che anche in Africa, per proseguire il
dialogo ecumenico, più che mai appare oggi necessaria
un‟adeguata formazione cristiana.
D. – Affrontiamo il tema delle religioni tradizionali africane: è
possibile conciliarle con il cristianesimo? E in che modo?
R. - Se “conciliare” significa creare una religione “sincretistica”,
allora tale conciliazione non è possibile perché il cristianesimo ha
una sua specificità irriducibile che non è conciliabile con altre
esperienze religiose (sto pensando al mistero salvifico e cristologico,
Gesù Cristo che è il compimento della salvezza e delle promesse
36
divine). Ma se “conciliare” invece allude piuttosto al riconoscimento
nelle religioni tradizionali della presenza di aspetti positivi – e
perciò salvifici (sono quelli che, con categoria tradizionale, si
chiamano i “semi del Verbo”) –, allora tale conciliazione è possibile.
“Maestro”, in questo senso, è il Concilio Vaticano II, che segna un
momento di apertura al mondo delle altre tradizioni religiose; il
Concilio adopera un linguaggio positivo per parlare del rapporto
della Chiesa con le diverse religioni, mettendo in luce elementi
comuni, che possono favorire un dialogo reciproco. Le religioni
tradizionali africane costituiscono un humus socio-culturale di
riferimento anche per coloro che già sono cristiani, e dunque anche
per questo si impone come necessario un discernimento che ne
metta in luce elementi positivi e negativi. Inoltre, non c‟è dubbio
che l‟attenzione alle culture tradizionali possa favorire i processi di
inculturazione e di contestualizzazione del cristianesimo, a patto
però di ricordare che le culture tradizionali non vanno mitizzate:
non esistono allo stato “puro”, ma nel tempo hanno conosciuto
modificazioni causate per esempio dall‟incontro con altri universi
culturali.
D. – Alla luce di tutto quello che abbiamo detto, l‟Africa è
comunque „un continente di speranza‟?
R. – L‟Africa è più che un continente di speranza: è un continente
dove già si sta vivendo un cambiamento, difficile finché si vuole,
ma è un continente ferito che però cammina. Forse anche noi, qui
in Occidente, dovremmo imparare a guardare l‟Africa anche con
queste “lenti”. L‟Africa non è solo quella dell‟Aids: l‟Africa è anche
quella del cinema, della letteratura e di tanta bella gente: tra i miei
studenti, ho trovato persone eccezionali dal punto di vista umano e
cristiano.
37
7. L‟operato della Chiesa nella sanità e nella lotta all‟AIDS
(cfr. Instr. Laboris: cap. III, p. 49, punto 142)
L‟Aids, il colera, la malaria, la meningite e molte altre malattie, ormai
arginate in Occidente, continuano a colpire l‟Africa. La situazione è
aggravata anche da fenomeni naturali, come la carenza di acqua, da
un‟educazione all‟igiene non adeguata e da infrastrutture e tecnologie
sanitarie arretrate. Inoltre, molti Stati africani non investono risorse
sufficienti nella sanità pubblica e per molte famiglie i centri specializzati
sono troppo costosi. Nei villaggi rurali è prassi ancora diffusa rivolgersi a
guaritori tradizionali e utilizzare medicinali a base di piante. In un simile
contesto, le risorse distribuite attraverso i canali religiosi risultano
essenziali. Diversi Istituti ecclesiastici, come L‟Ajan (African Jesuit Aids
Network), si fanno carico di responsabilizzare e di educare le popolazioni
alla cura e alla prevenzione. Numerosissimi sono, poi, i centri medici che
provvedono alla cura dei malati. Le iniziative religiose non dovrebbero,
tuttavia, sostituire l‟intervento dello Stato, che resta il principale
responsabile dell‟assistenza sanitaria per i cittadini (es.: Museveni,
Uganda, si appoggia molto sui programmi di lotta all‟Aids portati avanti
dalla Chiesa).
Intervista con padre MICHAEL F. CZERNY,
direttore dell‟African Jesuit AIDS Network (AJAN)
(A cura di Philippa Hitchen)
D. - L‟AJAN compie sette anni: quali risultati sono stati
conseguiti in questi sette anni di lavoro?
R. - La rete è stata istituita per incoraggiare tutti i gesuiti che
lavorano nell‟Africa sub-sahariana (una trentina di Paesi) a dedicare
parte del loro ministero al problema dell‟HIV/AIDS. Si tratta di una
missione ampia, non di un compito specifico. A sette anni di distanza,
direi che un risultato positivo della nostra missione è dato dall‟elenco
dei nomi e delle iniziative: sono almeno 200 i Gesuiti impegnati in
vario modo su questo fronte. Dobbiamo essere contenti che la
Compagnia di Gesù sia seriamente impegnata in questa lunga
battaglia.
D. - Sono persone che svolgono questo apostolato a tempo pieno?
38
R. - No, non proprio. Si tratta di Gesuiti che hanno il loro lavoro
normale: parroci, insegnanti, direttori spirituali, formatori, superiori,
novizi, Gesuiti in ogni posizione che hanno integrato la battaglia
contro l‟Aids nel loro lavoro ordinario. Poi ci si sono uno, due o tre
dozzine che sono attivamente e pubblicamente impegnate nel senso
che intende lei. Quindi abbiamo due tipologie di impegno, ma devo
dire che la nostra priorità era di coinvolgere tutti a vario titolo (…).
D. - Parliamo dei principali progetti dell‟Ajan: che tipo di lavoro
cercate di svolgere per vincere questa battaglia contro la
malattia?
R. - Anche qui dovrei mettere da parte la parola “principali”, perché
non abbiamo una politica specifica (…), quindi ogni esempio che le
darò sarà diverso (…). In Togo, ad esempio, c‟è un centro in un
quartiere povero al quale le persone si rivolgono per tutta una serie di
servizi, di cui l‟assistenza alle persone affette dall‟Hiv è solo una parte.
La sua principale attività è di carattere educativo, quindi le persone
non devono dire che vengono per l‟Aids. (…). In Burundi, invece,
abbiamo qualcosa di molto diverso: non esiste alcun centro come tale,
c‟è un piccolo ufficio dal quale il personale esce per raggiungere una
decina di parrocchie remote e praticamente inaccessibili e questo
programma viene incontro ai bisogni delle parrocchie. Come vede, è
un servizio completamente decentralizzato, anche se la gente viene
all‟ufficio centrale per le cure mediche, la maggior parte del lavoro è
svolto da un camion che gira da una parrocchia all‟altra.
D. - Quindi la chiave di tutto è di rispondere alle diverse esigenze
di ciascuna comunità parrocchiale e villaggio?
R. - Ci sono le scuole ad esempio. Ad Addis Abeba c‟è un bellissimo
programma coordinato dalla cappellania universitaria: non si vede
nulla, ma si coinvolgono gli studenti universitari che hanno trovato
delle persone sieropositive con cui lavorare e che si sentono, diciamo
così, “salvate”, perché adesso hanno qualcosa da fare e hanno trovato
un modo per mantenersi, senza essere rinchiusi e marginalizzati,
come lo sono molte persone affette dall‟Aids.
D. - Quali sono a suo avviso le principali sfide in questo lavoro?
Lei parla di una grande varietà di progetti e situazioni diverse:
qual‟è per voi la difficoltà maggiore su cui state ancora
lavorando?
39
R. - Questo è un nuovo apostolato per la Chiesa. 25 anni fa non
esisteva e stiamo ancora scoprendo diversi aspetti di un problema che
è straordinariamente complesso. La difficoltà è che all‟inizio e per un
certo tempo è stato al centro dell‟attenzione pubblica internazionale e
le Nazioni Unite hanno adottato misure di alto profilo, ma ora sta
progressivamente passando in secondo piano: se guardate i
telegiornali vedrete molto meno sull‟Aids quest‟anno rispetto a cinque
anni fa.
D. - Questo è perché stiamo facendo progressi o questa è una
lettura sbagliata?
R. - È una lettura forse corretta per l‟Europa e l‟America, ma è
imprecisa se parliamo dell‟Africa. Uno dei problemi è proprio questo:
l‟idea che ci siamo fatti si è formata qui, ma lì non è la stessa cosa.
Quindi la sfida è di fissare un impegno a lungo termine. Noi diciamo
che è un progetto che richiederà 100 anni: ci vorrà un secolo per
affrontare seriamente il problema. Dovremo lavorare per il tempo che
sarà necessario, in base alle esigenze delle persone che aiutiamo e dei
migliaia, milioni che ancora non aiutiamo. È un lavoro che richiederà
generazioni.
D. - Quando parliamo di successo nella lotta all‟Aids forse voi
intendete la parola successo in modo molto diverso. Per il mondo
secolare successo è permettere a tutti i malati di accedere agli
anti-retrovirali …
R. - Non è un obiettivo sbagliato, ma solo il 10 % delle persone affette
possono sempre accedere agli antiretrovirali. Quindi esiste un 90% di
sieropositivi, che hanno molte esigenze, potrebbero essere un pericolo
per gli altri e hanno bisogno di un aiuto pastorale, umano, materiale e
di cure e dei quali i produttori degli antiretrovirali, i finanziatori di
questi programmi di alto profilo non si interessano. Quindi, se noi
diciamo che va bene che il 10% sia preso in cura dal sistema medicosanitario, che dire dell‟altro 90%?
D. - Queste persone non sono abbastanza ammalate per potere
assumere antiretrovirali?
R. - Non sono abbastanza ammalate, o lo sono troppo, oppure non
hanno abbastanza cibo per potere prendere questi medicinali, o,
ancora, non possono permettersi il biglietto per andare in clinica o
40
non lo sanno, o forse sarebbero uccise dalle loro famiglie se facessero
una cosa del genere …
D. - Quindi sta dicendo che la vera sfida è raggiungere queste
comunità?
R. - Non è una comunità, ma migliaia di migliaia di persone e quello
che è incoraggiante è la risposta delle nostre Chiese locali: spesso non
stiamo cercando arrivare a queste persone, ma siamo già lì (…).
Quindi non siamo seduti a pensare che cosa possiamo fare e dove
dobbiamo andare per portare il nostro aiuto. No, questa è la nostra
gente, i nostri parrocchiani, studenti, famiglie con cui dobbiamo
continuare a stare e a cui dobbiamo dare la forte sensazione che
anche se sono sieropositivi, o colpiti in qualche modo dall‟Aids, sono
membri a pieno titolo della famiglia di Dio e della comunità cristiana e
integrate nelle loro famiglie di origine, cosa che non è sempre facile.
D. - Come diceva, l‟impegno della Chiesa in questo campo è
straordinario grazie alla rete di parrocchie e comunità che sono
sempre esistite lì. Eppure, recentemente abbiamo visto un
attacco violento contro la politica della Chiesa sull‟Aids durante
il viaggio del Papa in Africa, che è stata definita irrealistica e
inefficace. È sorpreso?
R. - No, veramente no. Quello che mi ha sorpreso è il grande
polverone sollevato, perché né la domanda, né la risposta erano molto
nuove. (…). La domanda sembrava riguardare l‟Africa, ma in realtà
era una polemica tutta occidentale: era un attacco della cultura
occidentale e globale a un approccio sereno della Chiesa alla
sessualità e sono felice di potere dire che su una cosa importante
come la sessualità non cambieremo tale approccio per seguire un
trend culturale. Quando il Papa chiede di “umanizzare la sessualità”
non vedo come una persona di buona volontà non possa convenire
sul fatto che c‟è bisogno di questo e che questo è quello che vogliamo
(…).
D. - Ma qual è il motivo di questo rifiuto? La questione riguarda
chiaramente l‟uso dei preservativi come mezzo di prevenzione e
nella visione del mondo secolare tutto il dibattito sembra ruotare
intorno a questo punto…
R. - Non penso ci sia molto dibattito sull‟Aids nel mondo secolare:
come ho già detto, non è più una questione calda come una volta. I
grandi programmi continuano e mi domando se sopravvivranno
41
all‟attuale crisi economica, ma a parte questo, ad eccezione di qualche
occasionale conferenza scientifica, non penso ci sia molto interesse.
Sicuramente non vedo molti articoli della stampa sull‟argomento.
Quindi non dobbiamo pensare che ci sia un vivo dibattito in cui si è
intromesso il Santo Padre: era già un problema passato in sordina. Il
preservativo è un oggetto concreto e un simbolo, è quindi facile far
ruotare l‟intera questione attorno a questo punto. Ma in Africa non è
certamente questo il vero problema e la mia impressione è che, anche
in Occidente, la vivace reazione dei media non riguarda tanto il
preservativo in sé, quanto piuttosto la possibilità che sulla sessualità
ci siano dei sì e dei no e che essa non sia solo una questione di
consensualità: ci sono cose che una persona dovrebbe fare e altre che
non dovrebbe fare e ci sono persone con cui uno può, o non può.
[L‟idea che] la cultura, la società, la religione o la famiglia possano
avere voce in capitolo e che non sia solo una questione di scelte
personali è ritenuta inaccettabile. Questa è la vera reazione che il
Papa ha scatenato e penso che il dibattito continuerà e tornerà. Non
so come andrà a finire, ma so che la posizione [del Santo Padre] in
Africa è molto apprezzata, perché coincide, se non con il
comportamento reale di ciascuno, con la consapevolezza che questo è
il tipo di comunità in cui vogliamo vivere (…)..
D. - Come mai è così difficile fare accettare questo punto di
vista? Cos‟altro potete fare per cercare di meglio promuovere
questo approccio integrale a lungo termine di cui lei parla?
R. - (…) Ritengo che la Chiesa possa proporre una nuova catechesi
sulla sessualità basata su queste semplici, ma illuminanti parole del
Santo Padre sull‟aereo [in occasione del viaggio in Africa]:
“l‟umanizzazione della sessualità” (…) e che la Chiesa e altre istanze
culturali, morali e religiose hanno qualcosa di importante da dire su
questo. Penso che se noi potessimo trovare un modo per fare questo
ne beneficerebbe l‟intera società. Altrimenti lasceremmo ai
pubblicitari e ai media, in particolare a quelli di intrattenimento, di
fissare standard sempre più bassi di divertimento e provocazione, ma
chiamare questa umanizzazione della sessualità è semplicemente
falso.
D. - Quali le vostre speranze e le vostre ambizioni per i prossimi
sette anni?
R. - La mia più grande speranza sembrerà molto modesta e
conservatrice: spero che possiamo continuare a coinvolgere più
42
Gesuiti. Se ce ne sono 300 adesso esistono altri mille da coinvolgere.
Quindi ci sono molte opportunità per i Gesuiti in Africa di fare
ciascuno qualcosa per l‟Aids e sono molto eccitato alla prospettiva di
vedere i nuovi progetti che verranno (…) . Spero molto che in futuro
l‟apostolato accanto ai malati di Aids sarà incorporato in modo serio e
competente nel lavoro di tutta la Chiesa (…) per cui sarà evidente che
almeno in Africa la Chiesa è impegnata su questo fronte non perché
l‟ONU ha lanciato l‟allarme o perché Bill Gates ha dato milioni, ma
perché questo è parte della vita (…) e essa vuole essere con la gente,
quando si trova in queste difficili situazioni. Spero diventi sempre più
normale che chiunque si trovi in difficoltà sappia di potersi rivolgere
alla parrocchia, alla casa religiosa, alla scuola cattolica locale, o alle
cappellanie universitarie e trovare un aiuto solidale, competente e
stimolante. Penso che saremmo molto grati di questo.
Intervista con il prof. LEONARDO PALOMBI, direttore scientifico
del Progetto Dream per l‟Aids della Comunità di Sant‟Egidio
(A cura di Tiziana Campisi)
D. – Che cos‟è il “Progetto Dream”?
R. - Il progetto Dream (Drug Resource Enhancement against AIDS
and Malnutrition) è il sogno di curare l‟Aids in Africa e di curare
anche la fame, la malnutrizione, che è una condizione piuttosto
diffusa e che purtroppo accompagna e aggrava la malattia. Alla fine
del 2007 dei 33 milioni di persone colpite in tutto il mondo dal virus
dell‟Hiv, ben 22 milioni erano africani e alla fine del 2008 i numeri
sono aumentati, soprattutto nell‟Africa subsahariana. Nel 2007 le
nuove infezioni erano circa 2 milioni, i morti un milione e mezzo.
Quindi un saldo di 400-500 mila nuove infezioni. In pratica l‟epidemia
continua a crescere perché il numero dei nuovi infetti è superiore a
quello dei morti. E l‟Africa raccoglie ancora oggi due terzi di tutti i casi
di malattia del mondo, e le cifre sono in rapida espansione. Certo,
questa espansione sta diminuendo nel tempo, e se il saldo positivo
fino a pochi anni fa era superiore al milione, oggi siamo a meno di
mezzo milione; questo perché finalmente si è capito che l‟epidemia va
curata e non solo prevenuta. Dream nasce proprio in questo contesto.
Alla fine degli anni „90 tutti dicevano che per curare l‟Aids bisognava
prevenire, che non c‟era altra soluzione, che chi contraeva la malattia
era condannato a morte. Noi ci ribellammo al fatto che milioni e
milioni di persone fossero condannate a morte in Africa quando, negli
stessi anni in Europa, negli Stati Uniti e in generale nel Nord del
43
mondo, chi era affetto da Aids poteva curarsi, poteva vedere questa
malattia trasformarsi in una patologia cronica con lunghissimi periodi
di sopravvivenza. Dream nasce con questa intuizione, che alla fine, la
miglior prevenzione della malattia è anche la cura. La terapia, infatti,
ha l‟effetto di limitare la carica virale, cioè impedire al virus di
crescere nel corpo e in tutti i suoi fluidi e questa, negli anni, si è
dimostrata essere un‟intuizione vincente.
D. - Praticamente come si è inserito il progetto Dream nella lotta
all‟Aids in Africa?
R. - Dream è cominciato in Mozambico, Paese con il quale avevamo
rapporti di grande fiducia, di grande collaborazione, anche grazie
all‟accordo di pace firmato nel ‟92; accordo che prevedeva,
sostanzialmente, la realizzazione di laboratori specifici di biologia
molecolare e l‟offerta di cure. Sembravamo un po‟ degli eretici in
quegli anni, perché, al contrario di quello che facevano tutti, cioè
occuparsi solo di prevenzione, parlare solo di preservativi e via
dicendo, noi cominciavamo a curare la gente con uno standard
qualitativo molto alto, molto vicino a quello dei paesi occidentali.
Quindi si facevano tutti i test e le analisi di laboratorio necessarie…
Dream nasce dall‟inizio come una risposta di emergenza ma anche di
sviluppo. Negli anni i centri dove è stato attivato il progetto - che poi
spesso erano centri nazionali o anche ospedali missionari – sono
cresciuti e si sono diffusi in tanti paesi africani. Oggi Dream è
presente in 10 paesi: Mozambico, Malawi, Tanzania, Kenia, Guinea
Conacry, Guinea Bissau, Angola, Repubblica Democratica del Congo,
Camerun, Nigeria) e cura attualmente 75 mila persone che hanno
contratto il virus dell‟Hiv. In realtà i benefici di Dream, proprio per
questo suo approccio largo di sviluppo, raggiungono oltre un milione
di persone perché, ad esempio, tutta la famiglia del malato di Aids,
riceve assistenza e ogni mese un pacco alimentare gratuito. Dream
raggiunge le famiglie dei malati, i loro villaggi, per esempio con una
intensa opera di educazione sanitaria. Uno dei drammatici e grandi
problemi nella cura dell‟Aids in Africa è la carenza di personale
addestrato e qualificato: medici, ma anche infermieri, biologi, tecnici
di laboratorio, informatici. Dream in questi anni ha utilizzato i suoi
centri non solo per assistere, ma anche per permettere a tanti
professionisti africani, attraverso corsi teorici, ma anche stage pratici,
di apprendere e di poter essere in prima linea non solo all‟interno del
progetto, ma anche nei diversi sistemi sanitari – parlo di oltre 3.300
professionisti – che hanno appreso, studiato, lavorato, operato nei 32
centri di Dream e nei 18 laboratori di biologia molecolare.
44
D. - Come è stato accolto Dream nei vari paesi in cui è stato
attivato?
R. - Diciamo che è stato sempre accolto bene. In alcuni paesi veniva
ritenuto troppo sofisticato, oppure visto con incredulità, anche per il
fatto che si tratta di un progetto gratuito. Quindi sono stati avanzati
tanti dubbi sulla sua sostenibilità e proponibilità come modello. Ma in
questi anni, tanti professionisti, tanti gestori della sanità pubblica,
tanti governanti, si sono convinti della validità di questo modello e
altri paesi ce lo hanno chiesto, sicché oggi stentiamo a rispondere ad
una domanda che è effettivamente assai elevata. Dream, davanti alle
critiche esplicite iniziali per esempio sul non dare abbastanza
importanza - secondo alcuni - alla prevenzione, ha dimostrato invece
una cosa sulla quale invece oggi c‟è un grande accordo: prevenire
curando. La terapia antiretrovirale ormai nel mondo scientifico è
largamente accettata. Fare bene sanità in Africa, farla con grande
qualità, ha voluto anche dire produrre risultati scientifici. Ad esempio
Dream è il primo programma al mondo che ha dimostrato che le
donne, dopo la nascita del bambino, possono allattare al seno se
fanno una terapia completa con antiretrovirali, cioè la triperapia. E
ancora recentemente Dream ha dimostrato che con i farmaci non solo
la percentuale di bambini che contraggono l‟infezione è diminuita dal
40 per cento al 3 per cento alla fine del primo anno di vita, ma che
questi bambini sopravvivono.
D. - Nei paesi in cui Dream è presente, come sono cambiati i
numeri dell‟Aids?
R. - Purtroppo ancora c‟è una crescita, sebbene il diffondersi della
cura abbia di fatto un po‟ frenato quel saldo fra nuovi infetti e morti.
In alcuni paesi le cose vanno meglio, in altri purtroppo molto peggio
perché la terapia è stata ritardata. La battaglia da vincere è proprio
quella di raggiungere tutti; nei paesi in cui si è cominciato tardi,
purtroppo, l‟Aids ha raggiunto tante persone. In alcune aree del Sud
Africa, ad esempio, viene colpito oltre il 60 per cento delle donne fra i
20-25 anni. Quindi bisogna ancora lavorare per migliorare l‟accesso
alle cure, per raggiungere tutti, soprattutto nelle campagne, nel volto
rurale dell‟Africa. Anche in questo Dream è in prima linea, perché sta
sviluppando – come in Malawi – un modello di presenza molto
capillare laddove oltre l‟80 per cento della popolazione vive in villaggi
che contano fra le 200 e le 400 persone. E‟ un quadro molto
dispersivo, caratterizzato da cattive vie di comunicazione, ma Dream
45
ha organizzato e ha valorizzato bene i programmi sanitari. I pazienti
sono sempre coinvolti nel processo di cura, e in genere questi pazienti
chiedono di poter aiutare altre persone a loro volta. Noi li addestriamo
e molti di loro, poi, accedono ad un salario stabile. Si tratta di migliaia
di donne, soprattutto, ma anche di uomini, che hanno scoperto non
solo la resurrezione del loro corpo. Si tratta di donne e uomini che
erano arrivati a pesare 30-40 chili e che 20-25 chili dopo ritrovano le
energie per occuparsi della famiglia, per tornare a lavoro e ad una vita
normale. E che trovano anche le motivazioni di una vera e propria
rinascita che le spinge ad essere solidali con altre situazioni di
povertà e di difficoltà. È molto bello questo aspetto di Dream, perché
fa vedere come in realtà curare nel corpo, nel fisico, accogliere questi
pazienti che spesso sono stigmatizzati, emarginati, di cui si ha quasi
paura, accogliere queste persone, farle tornare a star bene, produce
poi una serie di energie umane e spirituali veramente incredibili. E
sono queste persone che noi chiamiamo attivisti che ci aiutano a
raggiungere nuovi pazienti in ambienti difficili, rurali. Sono queste
persone che vincono tante diffidenze che fanno crescere il programma
ogni giorno. È una componente umana che definirei assolutamente
decisiva di Dream.
D. - Dream si occupa di ricerca scientifica, come si inserisce
invece nell‟ambito dell‟educazione sessuale?
R. - Dream soprattutto ha compreso un aspetto del mondo africano
che è spesso dimenticato. Il mondo africano ha una sensibilità nei
confronti della malattia completamente diversa da quella occidentale,
il che è un valore ma spesso è anche un grave limite e un grande
problema. Al di là di tutto, noi abbiamo sempre sentito l‟esigenza di
fare cultura. Fare educazione sanitaria in Africa è un fatto decisivo,
perché introduce alla nozione della malattia infettiva, della
trasmissibilità delle malattie, dell‟igiene, degli alimenti, della casa, dei
rapporti umani... Questo bagaglio di conoscenze è assolutamente
preliminare ad ogni altro tipo di discorso e noi su questo abbiamo
investito molto; ma non si può saltare l‟umanità, la cultura, i
comportamenti, le tradizioni di interi popoli. Su questo credo che un
lavoro serio, onesto e lento, nel tempo, dà frutti molto importanti.
D. - Ci sono delle campagne che avete avviato a tal proposito?
R. - Sì. Dream fa tanta educazione sanitaria e tanta educazione alla
conoscenza dell‟Aids. Lo fa nelle industrie, nelle fabbriche, attraverso i
media, sia alla radio che alla televisione. E dando elementi di
46
conoscenza della malattia, dà anche elementi di speranza. Ad esempio
è importante far capire quanto sia fondamentale sottoporsi al test Hiv
e che si può fare molto per se stessi, per i propri figli… Direi che
intorno a Dream è nato un movimento largo di speranza che raccoglie
tanta parte della società civile in tante sue manifestazioni.
D. - Circa le campagne avviate da Dream, in particolare, in che
cosa poi si concretizzano e come vengono accolte?
R. - Vengono accolte molto bene. Abbiamo curato e realizzato in paesi
come il Malawi e il Mozambico serie televisive, che sono un po‟
racconti di storie di vita che ripercorrono il cammino di tanti malati
africani ma che valorizzano alcuni aspetti. Faccio l‟esempio delle
donne e a quanto sia importante insistere sulla loro responsabilità. La
donna, in Africa, ha un valore decisivo, sia dal punto di vista della
famiglia ma anche dal punto di vista economico e della società civile.
D. - Dream vuole trasmettere anche dei valori?
R. - Sì. È qualcosa che Dream fa quotidianamente, perché in fondo
rappresenta qualcosa di gratuito. In una società che vive una specie
di dittatura del materialismo, spesso legata alle necessità, alla
insicurezza del cibo, dell‟acqua, dei vestiti, del lavoro, della casa,
trovare un‟espressione gratuita, solidale e di stima, di accoglienza e di
gentilezza, è un fatto assolutamente decisivo. In questo senso io credo
che i centri Dream, spesso, sono anche centri di tante storie
evangeliche in cui la gratuità, l‟accoglienza, si accompagnano al
miracolo di vere e proprie guarigioni, di vere e proprie rinascite.
Quindi, in questo senso, io credo che tante volte i centri Dream e la
loro gente, la loro popolazione, rappresentino un po‟ vere e proprie
pagine evangeliche.
D. - Chi sono le persone che prestano il loro volto al progetto
Dream?
R. - Noi siamo partiti con una presenza occidentale fortissima. Oltre
400 persone di Sant‟Egidio, provenienti dall‟Italia e da altri paesi
europei, hanno animato inizialmente il progetto e a tutt‟oggi lo
coordinano, lo aiutano, ad esempio per quanto riguarda la raccolta
dei fondi, nei rapporti internazionali, nella ricerca scientifica, per
quello che riguarda la formazione, l‟educazione e il training. Devo dire
che però, in questi anni, sono tanto cresciute le equipe locali,
africane. Oggi noi abbiamo tecnici africani qualificatissimi, in
47
laboratorio ma anche nel settore dell‟informatica e tanti altri settori,
che non solo gestiscono bene i centri, ma sono essi stessi motori di
formazione di altre generazioni africane. Noi abbiamo sempre creduto
nel fatto che la vera sostenibilità non fosse tanto e solo un discorso
economico, quanto nel fatto che lavorare insieme, africani ed europei,
potesse poi dar vita ad una generazione di persone che possano
lavorare bene insieme. Alla fine degli anni ‟90, in Mozambico, non
c‟era una sola macchina automatica per contare i globuli rossi del
sangue automatica, c‟erano solo dei tecnici che al microscopio li
contavano uno ad uno. Oggi ci sono fior di laboratori e di tecnici che
svolgono analisi non solo di ematologia, ma anche di biochimica, di
immunologia, di biologia molecolare; non solo in Mozambico, ma
anche in tanti altri paesi. Quindi, in questo senso, oggi Dream ha un
volto europeo ma anche un volto molto africano, che è non solo il
volto dei suoi attivisti e dei suoi pazienti, ma anche quello di tanti
professionisti.
D. – Quali i rapporti fra Dream e le altre realtà della Chiesa?
R. - Sì. Dream è portato avanti anche da tanti religiosi, in ospedali
missionari, ad esempio quelli delle Figlie della Carità, dei Camilliani, o
ancora gestiti da altri religiosi. Direi che Dream ha una collaborazione
con la Chiesa nel fatto stesso che esiste e dà voce ad un‟espressione
di risposta della Chiesa al problema dell‟Aids. In un mondo in cui
tanti dicevano che non era possibile fare nulla per i malati di Aids, la
risposta di Dream è stata anche la risposta della Chiesa, cioè una
risposta di vita, di giustizia. Ricordo solo le espressioni di Benedetto
XVI nel suo recente viaggio in Camerun, in cui insisteva, giustamente,
e in modo molto appropriato, sul fatto che il diritto alla cura, il diritto
agli antiretrovirali, è un diritto per gli africani ed è un diritto da far
valere con la gratuità. Questa è stata una risposta della Chiesa molto
bella a mio avviso; in un panorama abbastanza desertificato in questo
senso, Dream è stato una sua incarnazione significativa dall‟inizio del
2000.
D. - Il sogno, Dream, può quindi proseguire?
R. - Io direi di sì. Questo sogno intanto è già diventato un po‟ realtà,
però vuole essere il sogno di vincere l‟Aids. È un sogno che si colora di
tanti altri aspetti, di questo movimento di vita, di giustizia, di
solidarietà che si sviluppa intorno ai centri Dream. Un movimento di
grande rinascita per l‟Africa a partire dalla sua gente, dai suoi popoli e
dal fatto che in questa sfida, terribile, rappresentata dall‟Aids, in
48
fondo Dream è stato il sogno di una risposta umana, giusta, equa, per
tutti. È stato il sogno di vincere con la vita una battaglia di minaccia
da parte di questa malattia.
Intervista con SR. ANGELA ANIGBOGU, Medical Missionary of
Mary e amministratrice dell‟Ospedale di Ibadan, in Nigeria
(A cura di John Baptist Munyambibi)
D. – Concentriamoci sul virus HIV che sta uccidendo molte
persone in Nigeria. Quali misure sta prendendo l‟ospedale per
prevenire il propagarsi di questa malattia?
R. – Noi creiamo la consapevolezza (della malattia ndr), e lo facciamo
non solo in ospedale. Andiamo anche nei villaggi perché offriamo un
servizio sanitario di base anche lì. Così, quando siamo in giro,
cerchiamo di educare le persone, parlando loro dell‟AIDS e del virus
HIV, spiegando come esso si contrae e come si previene. E non solo:
talvolta, andiamo nelle Chiese e nelle scuole a parlare con la gente.
Oltre a queste misure preventive, facciamo anche dei colloqui in
ospedale con gli ammalati ed offriamo loro, gratuitamente, un servizio
di consulenza ed un test sanitario. Il test è gratuito e noi
incoraggiamo le persone a farlo. Quanto a coloro che hanno già
contratto il virus HIV, li accogliamo in ospedale e non li segreghiamo
lontano dalla gente perché, se li segregassimo, gli altri pazienti
capirebbero che sono malati di AIDS ed inizierebbero ad evitarli. In
questo modo, invece, cerchiamo di non isolarli. Il trattamento, per
loro, è lo stesso. Abbiamo anche un programma speciale chiamato
“Prevenzione del contagio da madre a figlio”: quando le donne in
gravidanza vengono in ospedale per la prima volta, offriamo loro un
servizio di consulenza. Le donne vengono così informate sul virus
HIV, sui metodi di prevenzione e su cosa è bene fare una volta che
abbiano scoperto di avere l‟AIDS, perché se le madri conoscono prima
le proprie condizioni di salute, allora sarà possibile aiutare il bambino
che portano in grembo. E per coloro che risultano positive al test
dell‟AIDS, offriamo un percorso di assistenza, fornendo i trattamenti
sanitari richiesti, in modo da prevenire il contagio del bimbo
nell‟utero.
D. – La Chiesa come può aiutare spiritualmente coloro che
risultano positivi al test HIV?
49
R. – Alcuni di loro appartengono a religioni diverse; per questo,
l‟assistenza spirituale dipenderà dalla religione del paziente. E noi
cerchiamo di rispettare questo fatto. Quanto ai pazienti cattolici,
talvolta chiedono di incontrare un sacerdote e noi ci rivolgiamo al
parroco. Poi, li visitiamo personalmente, parliamo e preghiamo con
loro. Quando le persone contraggono l‟AIDS, spesso pensano di essere
cattive, di essere dei peccatori, e credono che la malattia sia una
punizione inflitta da Dio. Per questo, noi cerchiamo di consolarle, di
far comprendere loro che Dio li ama.
D. – Assistere gli ammalati non è un compito facile, richiede
molti sacrifici. Cosa motiva il vostro lavoro?
R. – Innanzitutto, io appartengo ad una Congregazione che ha, come
apostolato, quello sanitario. Ed è per questo che siamo chiamate
“Medical Missionaries of Mary”. Il carisma della Congregazione è
quello di portare la salvezza, la salvezza di Cristo, seguendo le sue
orme. Questo è ciò che dà senso al mio lavoro, anche quando è
difficile. Io vedo Cristo in queste persone e so che queste persone sono
esseri umani, bisognosi di cure e di amore. Talvolta non è facile, ma io
sono motivata perché il mio fulcro è Cristo e la sua missione salvifica,
della quale io voglio far parte e della quale io sono parte.
50
8. Le attività della Chiesa nel campo educativo per la
riconciliazione
(cfr. Instr. Laboris: cap. I, punto 19, p. 7; cap. II, p. 22, punto 60;
cap. III, pp. 32-33, p. 49, punto 141)
Nel 2004 l‟agenzia Fides ha contato circa 50.000 istituti cattolici tra
educazione materna, primaria e secondaria e oltre 110.000 studenti iscritti
a scuole superiori e Università cattoliche. Istituti di livello avanzato, come
l‟Hekima College dei Gesuiti del Madagascar, aiutano a educare i giovani
alla pace e alla comprensione delle dinamiche politiche internazionali.
Un‟altra esperienza, meno formale ma ugualmente incisiva, è portata
avanti dalla diocesi di Lira, di Mons, Franzelli, in Uganda.
La strategia educativa adottata parte dalla promozione della “Chiesa
Famiglia”, ovvero dall‟assunzione della famiglia (unità-base della
riconciliazione) quale modello di rispetto, disponibilità e collaborazione, da
riproporre a livello collettivo.
Intervista con Mons. NICOLAS DJOMO,
vescovo di Tshumbe, Presidente della Conferenza Episcopale
Nazionale del Congo (CENCO)
(A cura padre Jean-Baptiste Malenge)
D. – Come insegnare i valori della pace ai giovani?
R. - Attraverso la nostra Commissione Giustizia e Pace abbiamo
sviluppato un vasto programma di educazione alla cultura della pace.
Questo programma è stato inserito nel curriculum delle scuole
primarie, secondarie e anche delle superiori. Il futuro del Congo
dipende dall'uomo che formiamo oggi. Nella Conferenza Episcopale
Nazionale del Congo ci siamo detti che uno dei migliori contributi che
possiamo dare al futuro di questo Paese è quello di preparare un
uomo nuovo per domani. E questo passa attraverso l'istruzione e in
particolare l‟educazione a una cultura della pace. Attualmente
abbiamo dei programmi nelle scuole primarie per parlare ai bambini
più piccoli di pace attraverso l'identificazione con Cristo e dire loro - e
questo è elementare - che l‟altro sono io e che il male che non posso
fare a me stesso non lo posso fare al prossimo. È un programma che
sta producendo ottimi risultati e lavoriamo insieme ad altre Chiese in
modo da raggiungere tutte le comunità credenti nel nostro Paese,
cristiane e non cristiane.
D. - I media sono accusati talvolta di attizzare e fomentare l‟odio
51
in Africa. Qual è l‟impegno della Chiesa per la pace nel nuovo
contesto del pluralismo democratico e dei media?
R. - I mezzi di comunicazione sociale sono uno strumento per unire le
persone e, come è noto, a partire dal Concilio Vaticano II, la Chiesa ha
dato uno spazio importante alla comunicazione della Parola di Dio,
ma anche alla formazione delle coscienze. Ciò significa che per tutti i
mezzi di comunicazione sociale la questione fondamentale è il
contenuto. Abbiamo bisogno di media ancorati a un contenuto di
valore che possa formare l'uomo, la sua coscienza, ai valori egualitari
della pace, della giustizia e dei diritti umani. E questo è ciò che
dobbiamo fare e che facciamo nel nostro Paese, in particolare da
quando molte delle nostre diocesi si sono dotate di radio comunitarie
diocesane e anche di canali televisivi. Stiamo lavorando intensamente
per fissare contenuti che riflettano la dottrina della Chiesa e che
mettano l‟uomo al centro di tutti i valori. (…) È un compito
importante.
D. - Come sono invece i rapporti con le sétte?
R. - I rapporti con le sétte restano molto difficili, nella misura in cui,
in generale, esse si occupano dell‟essere umano in modo pericoloso
per il suo benessere spirituale. (…) Il problema, in generale, è che i
leader di questi gruppi religiosi approfittano della miseria materiale
che affligge la popolazione per cercare di offrire soluzioni immediate ai
suoi problemi, come la salute o l‟occupazione. Inoltre queste sétte con
le illusioni in cui sprofondano comunità e famiglie, sottraggono queste
persone alle loro responsabilità e ai loro obblighi sociali. Questo, a
nostro avviso, è pericoloso ed è il motivo per cui è difficile per noi
lavorare con le sétte, perché esse tendono piuttosto a sfruttare la
miseria materiale del nostro popolo. Di più: chiediamo che i legislatori
prendano misure per proteggere i più deboli, che sono sfruttati da
queste sétte. (...)
D. - In altre parole lottate per il rispetto dei diritti umani, un
tema ampio di cui si parlerà anche al prossimo Sinodo…
R. - Sì. I diritti umani sono un tema ampio, molto importante e
fondamentale. Un paese che si sforza di difendere i diritti umani è in
grado di costruire una società solida nell‟interesse di tutti i soggetti.
Questa è la base di tutto ed è per questo che noi, Chiesa cattolica, ci
battiamo per il riconoscimento dei diritti delle persone in questo
Paese. Quando abbiamo lanciato il nostro programma di educazione
52
civica, dove abbiamo insegnato cosa sono le elezioni, la democrazia, lo
Stato di diritto, i diritti umani in un paese dove la gente ha subito
decenni di repressione – (…) abbiamo cominciato spiegando loro che
hanno diritti e che senza il rispetto di questi diritti, non è possibile
fondare una repubblica a beneficio di tutti. Quindi per noi la
questione dei diritti umani è fondamentale e, come ho detto,
l‟abbiamo inserita tra le materie fondamentali di insegnamento nelle
scuole.
D. - Lei ha parlato più volte della povertà, dell'uomo che bisogna
salvare dalla miseria. È per questo che come vescovi avete
istituito una Commissione ad hoc incaricata di occuparsi della
questione dei proventi delle risorse naturali?
R. - Sì. Il nostro paese ha immense risorse, ma purtroppo, questa
ricchezza, che avrebbe dovuto essere la base della ricchezza della sua
popolazione, è, al contrario all‟origine delle sue sventure. È a causa di
questa ricchezza che abbiamo conosciuto le guerre che hanno
provocato milioni di morti e che sono guerre economiche, e (…) oggi i
focolai di conflitti o che alimentano i conflitti nel Congo orientale sono
intorno alle miniere, hanno motivazioni economiche. Quello che
dobbiamo fare come congolesi, insieme alla comunità internazionale,
è garantire che questa ricchezza possa essere destinata alla
popolazione. (…) Ciò richiede una legislazione specifica, e noi, vescovi,
abbiamo lanciato un‟opera di sensibilizzazione delle grandi potenze,
perché vengano varate leggi a livello nazionale e anche a livello
internazionale che tutelino tali risorse naturali in modo che possano
beneficiare il popolo congolese e di conseguenza i paesi vicini e anche
il mondo. Ma senza tale legislazione, questa ricchezza è sprecata, lo
Stato non può ricavarne i proventi a cui ha diritto. Insomma perdono
tutti, la popolazione, il Paese. Sono gli altri che sfruttano queste
ricchezze (...). Tra questi le multinazionali che contribuiscono a creare
un circolo pericoloso: le ricchezze minerarie alimentano i conflitti,
perché permettono di comprare le armi che vengono usate contro le
popolazioni (...). È quindi molto urgente - e siamo in contatto con certi
ambienti e Paesi stranieri che stanno preparando leggi per vietare alle
loro multinazionali di comprare minerali provenienti dal Congo
attraverso un sistema di certificazioni, al fine di limitare questa
dilapidazione di ricchezze sfruttate in modo selvaggio e che
alimentano i conflitti all‟origine della miseria del popolo che è il
proprietario di queste ricchezze. Quindi all'interno della CENCO, la
Conferenza episcopale nazionale del Congo, abbiamo una
commissione sulle risorse naturali, che è costantemente al lavoro su
53
questo tema e, tra le soluzioni che abbiamo trovato, vi è quella di
informare il cittadino comune congolese. Abbiamo elaborato un
vademecum che distribuiamo in tutto il Paese, attraverso le nostre
parrocchie, per dimostrare ai congolesi che le ricchezze del sottosuolo
appartengono a loro e che è necessario proteggerle in ogni modo.
Occorre sensibilizzare la base della società congolese per resistere ai
predatori nazionali e internazionali.
D. - Come gli altri vescovi congolesi, Lei si sta preparando al 2°
Sinodo Speciale dei Vescovi per l'Africa. Dopo tutte le questioni
che abbiamo affrontato, che ne è dell‟inculturazione? Questa
priorità, in Africa e in Congo, è stata dimenticata?
R. - No, non è stata dimenticata, nella misura in cui l'inculturazione,
è la vita stessa. Lo dice il Santo Padre nel suo recente libro "Gesù di
Nazaret", che ci invita a evangelizzare la cultura e ad inculturare il
Vangelo. Si tratta di due facce di una stessa medaglia: c‟è l'incontro di
Cristo con l'uomo, l'uomo che riceve la Parola di Dio (…) e, allo stesso
tempo, questo uomo dà al Vangelo che accoglie una parte di sé. E
oggi, a livello di ricerca teologica, un teologo cerca di esaminare la
questione da questo punto di vista. In primo luogo, il Vangelo, che è
venuto a trovare il continente africano, il popolo africano con la sua
cultura, sta cercando di trasformarlo in un discepolo di Cristo con i
valori positivi della sua cultura. E poi, oggi, l'uomo africano vive in un
contesto specifico. È molto importante che l'evangelizzazione tenga
conto della situazione concreta dell‟uomo da evangelizzare oggi, una
situazione in Congo segnata dalla guerra, dalla povertà, le malattie,
l'AIDS e quello che un teologo chiama la “teologia contestuale” (...) si
muove in questa direzione. Quindi è una questione attuale, è parte di
un‟evangelizzazione continua. Lo ripeto, è essenziale che prendiamo in
considerazione le situazioni in cui vivono gli africani, i congolesi oggi.
Il Vangelo di Gesù Cristo viene a interpellarli in queste circostanze e
noi siamo chiamati a lavorare in modo che l‟uomo integrale, nella sue
molteplici dimensioni possa incontrare Cristo ed essere salvato da
Cristo.
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9. La Chiesa, la questione sociale e la promozione umana
(cfr. Instr. Laboris: cap. II, pp. 22-24-25, punti 67-69; cap. III,
pp.34-35, punti 96-98, pp. 45-47-50)
Secondo i dati dell‟agenzia Fides, nel 2004 in Africa erano oltre 9.500 gli
istituti di assistenza sociale e di beneficienza (ospedali, dispensari,
lebbrosari, case di accoglienza per handicappati e anziani, orfanotrofi e
giardini per l‟infanzia). La Chiesa è impegnata nella lotta contro le
“povertà” umane di ogni genere, dal campo educativo (analfabetismo) a
quello economico (fame e povertà), da quello umanitario (violazione dei
diritti dei più vulnerabili) a quello socio-politico (assenza di senso civico).
L‟Instrumentum Laboris sottolinea la dimensione sociale delle epidemie
che colpiscono il continente, il loro legame con la violenza e con la
destrutturazione del tessuto relazionale originario delle società africane. La
salute dipende molto dalla qualità dei rapporti all‟interno delle comunità.
Non a caso, le comunità religiose si fanno carico di promuovere la pace e
il perdono attraverso il dialogo tra i giovani, il confronto, l‟aiuto reciproco e
il ristabilimento dell‟autorità parentale nelle famiglie.
Intervista con PAULINE ZONGO YAMEOGO,
segretaria esecutiva della “OCADES-Caritas Burkina Faso”
(A cura di Dulce Araujo)
D. - Sig.ra Zongo, che strade intraprenderete per rinforzare la
coscienza della donna nel senso del suo sviluppo integrale e,
conseguentemente dello sviluppo della società?
R. - Noi diamo sempre più la parola alla donna e la aiutiamo a
prendere coscienza, ad avere fiducia in sé stessa, a sapere che può
parlare senza paura e che ha diritto di parola. Questo è importante
perché si può lavorare per la promozione della donna, ma è la stessa
donna che deve impegnarsi, e noi prendiamo misure affinché la donna
capisca, affinché smetta di aver paura, affinché abbia fiducia in sé
stessa, affinché sappia che ha mezzi per poter difendersi, per poter
dire ciò che pensa del posto che le è dato a livello della società.
Quando vediamo, per esempio che, a livello del Burkina-Faso,
convenzioni internazionali sono stati ratificate, che delle leggi
favorevoli al diritto della donna sono state adottate e che tutto questo
non è messo totalmente in pratica e che le donne se ne stanno zitte, è
un silenzio che non è normale. È necessario che la donna sappia che
deve parlare, che è lei che si deve alzare per difendere i propri diritti”.
55
D. – Bisogna sottolineare anche il ruolo dell‟uomo nel processo
che deve condurre all‟emancipazione della donna come forma di
promozione della società nel suo insieme. Che vie privilegiate per
arrivare a questo?
R. - Quando parliamo di donne, gli uomini non sono esclusi. Il lavoro
è far prendere loro sempre più coscienza del fatto che è necessario
che accettino di dare la parola alla donna, che accettino di ascoltarla,
che si impegnino anche loro nella promozione della donna, perché
tutti abbiamo da guadagnare da questo, la famiglia innanzitutto, ma
anche l‟uomo, la società. Noi non lavoriamo lasciando da parte
l‟uomo. Noi non ci opponiamo a loro perché a livello della creazione
non sono stati opposti. Dio creò l‟uomo e la donna insieme e in
armonia. Ed è in armonia che lavoriamo. Per esempio: quando
facciamo un pozzo in un villaggio, incontriamo uomini e donne
insieme e ognuno dà la propria opinione, ognuno ha la propria
responsabilità. Ed è insieme ed in armonia che costruiamo, non in
opposizione come alcuni vorrebbero che fosse. Noi lavoriamo in
un‟ottica di complementarietà. È questa la nostra visione
fondamentale. Per questo non opponiamo la donna all‟uomo. Sono
sempre associati e ognuno ha il proprio ruolo, la propria
responsabilità. Bisogna trovare soluzioni insieme per i problemi di
sviluppo che abbiamo.
D. - C‟è qualche altro aspetto che vorrebbe sottolineare?
R. - Ciò che vorrei dire è che ci sono procedure, nozioni che
provengono da fuori, che non sono nostre. Non le ignoriamo.
Ascoltiamole, osserviamole, interroghiamoci su di esse, ma pensiamo
che sia fondamentale partire dalla nostra cultura e partire dal
Vangelo. È in questo modo che faremo la promozione della donna in
Burkina-Faso, perché non possiamo svilupparci con la cultura degli
altri. È attraverso la nostra cultura, evangelizzata, che faremo la
promozione della donna in Burkina-Faso.
56
10. Le Organizzazioni non governative (Ong)
Negli ultimi anni la cooperazione internazionale ha adottato gradualmente
un approccio meno “a senso unico” e di emergenza. Le Ong religiose (la
Caritas, la Comunità di S. Egidio e molti membri della rete Focsiv-Volontari
nel mondo) hanno cercato di promuovere riforme strutturali, iniziative
finalizzate a uno sviluppo di lungo periodo e hanno puntato al massimo
coinvolgimento di attori locali. Tale nuova strategia (alternativa al classico
“paternalismo-terzomondista”) consente agli operatori di conoscere meglio
le reali esigenze delle popolazioni e rendere le attività di cooperazione più
efficaci e adeguate. Il trasferimento di tecnologie e know-how sta in parte
sostituendo l‟aiuto finanziario: gli strumenti concreti arrivano più facilmente
alle popolazioni, mentre grandi somme di denaro si disperdono, di
frequente, nei passaggi che seguono una donazione (e in molti casi
finiscono nelle tasche di imprese occidentali o leader locali corrotti).
Intervista con SERGIO MARELLI,
Direttore Generale Volontari nel mondo-FOCSIV
(A cura di Silvia Koch)
D. - Quali sono le principali Ong attive nel continente africano?
R. - L‟Africa resta una delle priorità delle oltre 160 organizzazioni
italiane, che hanno quasi tutte dei progetti nel continente. Posso
ricordare le tre grandi federazioni che raggruppano buona parte
delle Ong: la FOCSIV (Federazione Organismi Cristiani Servizio
Internazionale Volontariato), il COCIS (Coordinamento delle
Organizzazioni non governative per la Cooperazione Internazionale
allo Sviluppo) e il CIPSI (Coordinamento di Iniziative Popolari di
Solidarietà Internazionale). Insieme, queste tre federazioni sono
presenti in tutti i paesi africani.
D. - Nel panorama di associazioni impegnate in Africa, esistono
forme di collaborazione tra le Ong di matrice cattolica e i
soggetti “laici”?
R. - La ricerca di forme di collaborazione e di coordinamento delle
attività delle singole Ong è da sempre una peculiarità della
cooperazione italiana. Molte associazioni sono di piccole o medie
dimensioni e trovano quindi una forma di sostegno nella sinergia di
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azioni con le altre. La frammentazione e la sovrapposizione di
interventi risulta sempre, al contrario, poco efficace.
D. - Quali sono le maggiori problematiche del continente
Africa, e, dunque, i principali settori in cui operate?
R. - Non vi è una selezione a monte degli ambiti di intervento, dal
momento che la metodologia generalmente adottata è quella di
rispondere ai bisogni dei partners locali. Nonostante ciò, si può
statisticamente affermare che i tre grandi settori che assorbono la
maggior parte dei progetti nel continente, sono quello sociosanitario, l‟educazione e il sostegno all‟apparato agricolo. Quasi
tutti i programmi sono articolati, integrati e multisettoriali, nel
senso che includono, al proprio interno, questi tre diversi campi di
intervento. Tuttavia, dal momento che gran parte della popolazione
africana è costituita da comunità rurali, lo sviluppo del sistema
agricolo costituisce, in particolar modo, la base da cui partire per
risollevare le sorti del continente.
D. - Come si manifestano gli effetti della crisi economica
mondiale a livello locale?
R. - Le crisi sono molteplici - economico-finanziaria, alimentare e
quella generata dai cambiamenti climatici – e hanno conseguenze
drammatiche, in Africa come nel resto del sud del mondo. I
devastanti sintomi della recessione economica hanno già iniziato a
manifestarsi: contrazione delle risorse che i governi e le imprese dei
paesi ricchi si erano impegnati a investire per lo sviluppo del sud
del mondo; svalutazione di buona parte delle monete locali;
diminuzione delle rimesse degli emigrati, per effetto dell‟aumento
della disoccupazione nei paesi industrializzati. Se la comunità
internazionale non affronterà da subito e con misure significative
questi fenomeni, di grande impatto sui paesi poveri, queste
economie saranno ulteriormente indebolite e le popolazioni locali
maggiormente colpite dalla fame, dall‟instabilità politica e sociale.
Inoltre, molte realtà africane, che risultano ancora escluse dal
sistema economico mondiale, subiranno gli effetti della recessione
finanziaria specialmente in un secondo momento: si può dunque
prevedere un ulteriore peggioramento della situazione attuale, in
alcune aree del continente.
58
LE OMBRE
1. Lo sfruttamento messo in atto dalle multinazionali
(cfr. Instr. Laboris: cap. I, p. 5, punti 12-13, p. 12)
L‟Africa è un continente ricchissimo. Ma le sue risorse (petrolio, gas,
coltan, tanzanite, diamanti, oro, per citarne solo alcune) continuano ad
essere deturpate da multinazionali europee, asiatiche e americane, la cui
ingerenza schiaccia le imprese locali e stravolge ulteriormente un quadro
economico-istituzionale già estremamente instabile e complesso. La
povertà di molte popolazioni è il prodotto di una commistione fra „neocolonialismo‟ delle potenze economiche (Cina e Francia in primis) e „neopatrimonialismo‟ di molti regimi africani, che sono, dunque, in parte vittime
e in parte responsabili del proprio sottosviluppo. Leader di gruppi locali si
trasformano (spesso proprio in nome di accordi di natura economica o
tramite golpe) in attori politici, senza tuttavia avere una base di
legittimazione e di consenso elettorale. Questa globalizzazione delle
economie africane (precoce rispetto allo sviluppo politico) riduce gli spazi e
le risorse disponibili e fa riemergere particolarismi e rivalità etnico-culturali.
La maggior parte delle guerre civili che affliggono l‟Africa, infatti, è dovuta
proprio a questa corsa all‟accaparramento delle risorse energetiche.
Intervista con SERGIO MARELLI,
Direttore Generale Volontari nel mondo-FOCSIV
(A cura di Silvia Koch)
D. - Qual è la responsabilità specifica delle imprese straniere che
sfruttano le risorse africane?
R. - È una responsabilità enorme. Non a caso, anche nell‟Enciclica
“Caritas in Veritate”, Benedetto XVI ha esplicitamente citato gli
impatti negativi che le multinazionali hanno sullo sviluppo delle
popolazioni locali, a causa del loro agire violando continuamente i
diritti umani e avendo come unico obiettivo quello della
massimizzazione del proprio profitto. Inoltre, molte aziende
straniere sfruttano senza criterio le grandi risorse naturali africane,
utilizzando metodologie ecologicamente non compatibili.
D. - Nell‟ultima Enciclica, il Pontefice fa riferimento proprio
alla necessità di ricercare nuovi paradigmi di sviluppo,
attraverso il coinvolgimento delle istituzioni politiche locali
59
e della società civile dei paesi in questione. La cooperazione
internazionale sta andando nella medesima direzione?
R. - Sottolineo la mia completa condivisione delle parole di
Benedetto XVI. Fondare un nuovo modello di sviluppo è
sicuramente il primo passo da compiere per combattere la
recessione in atto e per evitare l‟insorgere di nuove crisi. Il mondo
delle Ong ha da tempo compreso la necessità di investire risorse
anche nelle iniziative di advocacy, da compiere in collaborazione
con la società civile mondiale e finalizzate a modificare le politiche
delle istituzioni internazionali e dei governi donatori. Occorre
quindi coinvolgere i soggetti locali nella ricerca di soluzioni
specifiche, che puntino allo sviluppo integrale della persona,
abbandonando definitivamente l‟ambizione alla massimizzazione
del profitto individuale.
D. - Quale influenza ha la dimensione etica sui drammi che
affliggono il continente africano?
R. - Io credo fermamente nella responsabilità individuale e nella
moralità della singola persona. Sono questi due presupposti
indispensabili alla creazione di qualunque modello di sviluppo, che
si voglia improntato all‟etica, alla giustizia e alla pace. L‟immoralità
delle persone si trasmette sul cattivo funzionamento delle
istituzioni e delle organizzazioni. Ad esempio, se il fenomeno della
corruzione è molto diffuso, a vari livelli, in Africa, significa che ci
sono a monte degli individui che ricorrono a questa pratica per
gestire gli affari economici e politici. Ricordo che anche Giovanni
Paolo II aveva individuato nella lotta alle “strutture di peccato”, una
delle grandi finalità della giustizia perseguita dal cristiano. Le
“strutture di peccato” sfruttano la persona e calpestano la sua
dignità, mirando unicamente a massimizzare i propri guadagni. Io
penso che oggi ci sia ancora un grande bisogno di combattere i
fenomeni di illegalità finanziaria, proprio ai fini della crescita delle
nazioni svantaggiate.
D. - Ecco, la corruzione diceva. Ci spiega in quale modo questa
pratica illegale di gestione dei fondi si inserisce nelle
attività di cooperazione e quali sono le altre difficoltà che le
Ong incontrano sul territorio?
R. - Esiste un dato significativo che può aiutare a comprendere il
meccanismo della corruzione: a fronte dei 107 miliardi di dollari
60
che l‟insieme dei paesi donatori trasferisce nei paesi del sud del
mondo, il flusso di risorse economiche che annualmente viene
trasferito dalle economie svantaggiate alle nazioni ricche è oggi pari
a 800 miliardi di dollari, ovvero 8 volte tanto. Come è possibile
questo? Attraverso i cosiddetti paradisi fiscali, l‟evasione dalle tasse
e i conti presso le banche che garantiscono il segreto bancario.
Questi istituti finanziari possono accogliere, tra le altre, le ingenti
ricchezze di quei pochi africani fortunati, che si sono arricchiti
proprio sfruttando questo modello perverso di sviluppo. Dunque,
anche le élites locali hanno la possibilità di sfruttare questi
meccanismi
illeciti,
diffusi
a
livello
internazionale
ma
evidentemente sostenuti da elementi forti delle economie
sviluppate. A questo proposito, mi stupisce molto che l‟Italia non
abbia ancora sottoscritto la Convenzione delle Nazioni Unite per la
Lotta alla Corruzione. Tornando alle difficoltà che le Ong
incontrano sul campo, quindi, i soggetti intermediari che
gestiscono gli aiuti rappresentano sicuramente un‟aggravante. Più
sono i passaggi intermedi, più aumenta il rischio che i capitali si
disperdano, vengano riciclati o comunque gestiti in maniera non
adeguata a garantire il massimo beneficio per i soggetti destinatari.
Ancora, lo stato di miseria che affligge la popolazione rappresenta
un altro elemento che ritarda le attività di sviluppo. Questa povertà
dalle dimensioni drammatiche non dipende, a mio avviso, dal
comportamento delle comunità colpite; è piuttosto l‟effetto di
politiche di cooperazione erronee, di meccanismi commerciali
distorti e soprattutto, appunto, del perseguimento di obiettivi “altri”
rispetto allo sviluppo integrale degli uomini. Le grandi questioni del
continente africano vengono ancora affrontate con strategie che
rispondono a quella stessa logica coloniale, di considerare l‟Africa
come un bacino da cui attingere per arricchire il resto del mondo.
Un bacino che dispone di risorse naturali, di produzioni agricole e
di mercati locali. La politica internazionale, al contrario, dovrebbe
essere finalizzata proprio al bene comune che – come ricordato
nell‟Enciclica “Caritas in Veritate” – non può essere delimitato a
una parte della popolazione mondiale, ma necessariamente deve
essere esteso a tutti gli uomini e le donne del pianeta.
61
2. La crescita del divario tra ricchi e poveri
(cfr. Instr. Laboris: cap. 2, punti 61-62, p. 23)
Contrariamente a quanto suggerisce l‟apparente isolamento politico in cui
verte l‟Africa, il continente non è escluso dal processo di globalizzazione.
Proprio la sua posizione “subordinata” alle potenze economiche può
essere interpretata, anzi, come una specifica forma di integrazione nel
sistema capitalistico. In altre parole l‟incredibile crescita economica che ha
interessato, nella seconda metà del Novecento, l‟Occidente
industrializzato sarebbe stata resa possibile proprio grazie a una
“sottrazione” di ricchezza all‟Africa. Questo gioco a somma zero si
riproduce anche all‟interno dei singoli paesi, dove capi politici, nuove
mafie, trafficanti di armi e di droga continuano ad arricchirsi sulla pelle di
popolazioni sempre più povere e affamate. Paradossalmente, ma non a
caso, gli Stati più ricchi di materie prime sono quelli più colpiti da guerre e
carestie. Malnutrizione e alto tasso di mortalità infantile, disoccupazione e
arretratezza delle infrastrutture, infine la mancanza di un mercato interno e
il sottosviluppo culturale di questo continente (che pure è il primo
produttore mondiale di alimenti) sono diretta conseguenza di tale dinamica
predatoria “glocale”. 2 L‟intervento delle Ong e associazioni religiose è
essenziale per la ridistribuzione delle risorse alle popolazioni
(specialmente in questo periodo di crisi economica mondiale che ha
provocato un dimezzamento dei fondi devoluti dai governi alla
cooperazione).
Intervista con SERGIO MARELLI,
Direttore Generale Volontari nel mondo-FOCSIV
(A cura di Silvia Koch)
D. - Quali misure sono necessarie per invertire le tendenze che
causano il divario nord-sud?
R. - In Africa c‟è un grande bisogno di democrazia. Non di una
democrazia imposta dall‟esterno e che replichi i nostri modelli
occidentali, ma di una politica elaborata dal basso. Uno sviluppo
partecipato, che coinvolga le popolazioni locali nella fase
2
Von Grember K. et al. (2008) Global Hunger Index – The Challenge of Hunger 2008. Bonn, Washington D.C.,
Dublin: Welt Hunger Hilfe, IFPRI, Concern Worldwide. http://www.ifpri.org/pubs/cp/ghi08.asp#dl
Nel rapporto, l’International Food Policy Research Institute (IFPRI) individua la Repubblica Democratica del Congo,
l’Eritrea, il Burundi, il Niger, la Sierra Leone, la Liberia, l’Etiopia come i paesi le cui popolazioni sono maggiormente
colpite dalla fame e dalla povertà.
62
decisionale, non solo nei processi esecutivi. Una nuova centralità
alla famiglia, alle comunità locali di questo continente. Solo su
queste basi le politiche economiche, che pure sono necessarie,
potranno avere successo. Altrimenti continuerà a ripetersi quel
meccanismo degli “aiuti all‟Africa”, che ha caratterizzato la
cooperazione degli ultimi cinquanta anni, e che quasi mai è riuscita
a sradicare la povertà e a migliorare, in maniera duratura, le
condizioni di vita delle popolazioni. Da un punto di vista
produttivo, è senza dubbio necessario rilanciare l‟agricoltura, che
rappresenta l‟80% dell‟economia africana, coinvolgendo i piccoli
produttori, attraverso l‟applicazione dello stesso modello
partecipato, e sostenendo le economie familiari. Ricordo, a questo
proposito, un dato spesso citato dal direttore generale della Fao:
alla fine degli anni ottanta i fondi devoluti all‟agricoltura africana
dai paesi ricchi corrispondevano al 17,8% del totale degli aiuti
indirizzati continente; oggi invece questa percentuale si è ridotta a
un misero 3%. In generale, poi, le risorse devolute alla
cooperazione dalle nazioni economicamente più forti devono essere
adeguate. È una vergogna che i paesi donatori siano oggi
inadempienti rispetto agli accordi da essi stessi sottoscritti con la
Comunità Internazionale in ambito di cooperazione. L‟Italia in
primis, che quest‟anno ha devoluto solo lo 0,1% del proprio PIL
all‟aiuto allo sviluppo, e che risulta essere il paese più lontano da
quello 0,7% del proprio PIL, che le Nazioni Unite avevano richiesto
alle nazioni industrializzate per raggiungere i famosi obiettivi si
sviluppo del Millennio. Infine, torno a ricordare che un ulteriore
criterio da tenere in considerazione per massimizzare i risultati
dell‟aiuto è la semplificazione dei passaggi attraverso i quali si
realizzano le donazioni, cercando di indirizzare i fondi direttamente
ai destinatari dell‟aiuto e, soprattutto, tenendo presente le loro
esigenze e non eventuali tornaconti per i paesi donatori
L‟impostazione ideale a cui puntare sono i progetti di sviluppo
partecipato e sostenibile, condotti dalla società civile locale, magari
in partenariato con le Ong del nord del mondo.
D. - Nell‟ultima Enciclica, Benedetto XVI ha espresso la sua
convinzione che la crisi economica mondiale possa essere
arginata proprio attraverso la cooperazione, uno strumento
in grado di creare ricchezza per tutti, a livello globale…
R. - Sebbene la solidarietà internazionale sia innanzitutto un
dovere morale nei confronti delle nazioni svantaggiate, sono
convinto che fare cooperazione sia anche conveniente per il nord
del mondo. Questo perché senza lo sviluppo dell‟Africa, le economie
63
ricche non potranno mai godere di stabilità. Una prova evidente
della necessità di una crescita globale coerente è il fenomeno
dell‟emigrazione. I milioni di persone costrette a fuggire dalla
disperazione e dalla miseria delle nazioni d‟origine, si riverseranno
sempre più nei nostri paesi ricchi. Quindi è interesse proprio delle
nazioni sviluppate attivare politiche di cooperazione efficaci e
puntare a riforme strutturali globali, le sole in grado di arginare
questo flusso migratorio.
D. - Esistono in Africa determinati modelli culturali, ad
esempio nel settore sanitario. Come può la cooperazione
inserirsi in tali contesti?
R. - La promozione delle diverse culture dei popoli è il pilastro sul
quale fondare qualsiasi modello di sviluppo. Penso che sia
necessario cercare di comprendere quali siano i valori etici di
riferimento delle comunità che si intende accompagnare nella fase
di sviluppo, rafforzare le buone tradizioni locali e centrare su
queste, modelli di crescita specifici. La storia è ricca di esempi che
dimostrano come sistemi culturali trapiantati, imposti dall‟esterno,
abbiano portato le più grandi catastrofi. Un atteggiamento di
apertura e di confronto verso gli ideali di base delle popolazioni
africane, che spesso sono modelli nobili di grande insegnamento,
può aiutare lo stesso Occidente sviluppato a recuperare l‟essenza
della propria etica originaria, oggi spesso eclissata dai modelli
culturali dettati dalle necessità materialistiche. (…) La riscoperta
dei valori tradizionali, in un‟ottica di interdipendenza culturale,
può essere la ricetta giusta per la promozione di uno sviluppo
sostenibile, a livello globale.
Intervista con il prof. JUSTINO PINTO DE ANDRADE,
Preside della Facoltà di Economia
dell‟Università Cattolica di Luanda, in Angola
(A cura di Antonio Pinheiro)
D. - A cosa è dovuto il ritardo nello sviluppo dell‟Africa?
R.- Se, ad eccezione dell‟ultima crisi economica mondiale, ci
concentriamo sulla crescita economica mondiale degli ultimi tempi, ci
rendiamo conto che la crescita dell‟economia africana è insignificante
e piena di disparità, paragonata a quella di Paesi emergenti. Per
esempio, il Prodotto Interno Lordo dell‟Africa subsahariana
64
corrisponde al 28% del PIL della Cina, al 69% del PIL del Brasile e
all‟80% di quello dell‟India. Guardando alla situazione interna della
regione africana subsahariana, ci rendiamo conto che il Sudafrica che
rappresenta la più grande economia africana, detiene il 33% del PIL di
tutta la regione a sud del Sahara. Se mettiamo insieme il PIL del
Sudafrica e quello della Nigeria, notiamo che queste due economie
concentrano più della metà del PIL di tutti i Paesi africani a sud del
Sahara.
D. – Ma si tratta di una disparità solo economica?
R. - Questa disparità si trova anche a livello dell‟estensione
geografica, della disponibilità di ricchezze naturali e del reddito. Per
esempio, il PIL pro capite delle Isole Seychelles è 77 volte superiore a
quello della Repubblica Democratica del Congo. A livello demografico,
ci sono Paesi africani che hanno conosciuto una significativa
esplosione demografica che è stata, però, spazzata via dagli alti livelli
di mortalità infantile e dai bassi livelli di speranza di vita alla nascita,
a causa delle gravi incidenze di malattie come la malaria, il colera, la
tubercolosi, la dissenteria. A queste malattie negli ultimi tempi si è
associato l‟AIDS che, in certi casi, ha invertito negativamente la
tendenza alla crescita demografica, colpendo anche i ceti elitari in
Paesi come Sudafrica, Mozambico, Swaziland, Botswana, Lesotho e
altri ancora. Invece, in pochi casi, come in quello delle Isole
Mauritius, la speranza di vita alla nascita si è alzata fino a 73,2 anni,
collocandosi abbastanza vicina a quella dei Paesi economicamente più
sviluppati.
D. – Ma l‟Africa dispone comunque di grandi potenzialità…
R. - Sì, l‟Africa dispone di grandi potenzialità per lo sviluppo,
soprattutto per quello che riguarda le ricchezze naturali. Ma bisogna
anche da ricordare che l‟attuazione di tali potenzialità richiede delle
politiche di correzione delle tendenze negative che abbiamo fin qui
analizzato. A questo punto, la responsabilità diventa di tutti, cioè dei
governi africani, dei governi dei Paesi economicamente più sviluppati
e degli operatori economici privati. È da ricordare come Paesi
ricchissimi di risorse naturali, come per esempio la Nigeria e l‟Angola,
tutti e due produttori di petrolio e con grandi estensioni di terre
arabili, non abbiano ancora trovato il modo per sfamare totalmente le
loro popolazioni e continuino ad essere principali importatori di
alimenti.
65
D. - Che tipo di popolazione presenta l‟Africa?
R. - L‟Africa è il continente con la popolazione più giovane del
pianeta, i giovani al di sotto dei 18 anni costituiscono il 50% del totale
della popolazione. Questo suppone però un grande impegno nella
creazione di posti di lavoro, nella costruzione di scuole e di parchi
d‟infanzia, soprattutto considerando che la fascia che va da 0 a 14
anni è improduttiva e che i tanti giovani dai 10 ai 14 lavorano nei
campi e aiutano il reddito familiare, ma lo fanno contro la legge sullo
sfruttamento dei minori e perdono la possibilità di vivere un‟ infanzia
tranquilla e di studiare. Se consideriamo che i giovani che fanno parte
della popolazione attiva in Africa costituiscono il 40% del totale,
possiamo anche costatare che il ritmo della creazione di nuovi
impieghi è molto basso in rapporto ai reali bisogni dello sviluppo e
dell‟occupazione della grande forza di lavoro disponibile e molte volte
poco qualificata.
D. – Cosa auspica che il prossimo Sinodo possa fare per
l‟Africa?
R. - Sappiamo che questo Sinodo ha come scopo quello di
illuminare le vie intraprese dai governanti africani che, nonostante gli
sbagli, vorrebbero trovare le strade giuste per tirare fuori l‟Africa dalla
situazione di sottosviluppo. E il Sinodo vuole anche incoraggiare i
fedeli cristiani e i popoli africani, in generale ad avere speranza nel
Vangelo che salva l‟uomo nella sua totalità di corpo e anima, in modo
tale che l‟uomo africano abbia accesso alle possibilità di diventare,
come tutti gli altri, immagine di Dio.
66
3. La fame e la crisi dell‟agricoltura
(cfr. Instr. Laboris: cap. I, punto 29, pp.12; cap. II, p. 22, punto 60)
La crisi dell‟agricoltura in Africa ha molte cause, prime fra tutte il difficile
ecosistema e la tendenza alla desertificazione. Tuttavia, le riforme
contenute nei PAS (Programmi di Aggiustamento Strutturale), imposti dalle
Istituzioni internazionali in cambio dei finanziamenti, hanno dato un
contributo decisivo nella distruzione del delicato equilibrio naturale. La
vulnerabilità delle nuove economie agricole e il difficile accesso alla terra
sono annoverati tra le cause di molti conflitti locali. Eppure, ancora oggi
molti Stati industrializzati continuano a difendere i propri interessi,
illudendosi di poter ignorare il dramma dell‟Africa (es. gli Epas). D‟altra
parte però, sono stati anche istituiti Organismi ad hoc, come il Programma
Alimentare Mondiale dell‟Onu, proprio allo scopo di estinguere la fame nel
mondo. Un esempio concreto dell‟intervento ecclesiastico nella lotta alla
fame in Africa è rappresentato dalla Fondazione per il Sahel, istituita nel
1984 da Giovanni Paolo II, che si impegna nella lotta alla desertificazione
e nel soccorso delle vittime della siccità in nove paesi del Sahel.
Intervista con MARIA VITTORIA DE MARCHI,
portavoce per l‟Italia del WFP (World Food Programme)
(A cura di Silvia Koch)
D. - Circa un miliardo di individui, una persona su sei al
mondo, soffre la fame. Di questi, oltre 270 milioni si trovano
in Africa. Come si distribuisce la povertà sul continente
africano e quali sono le principali cause?
R. - La più colpita dalla povertà è l‟Africa sub-sahariana, dove si
concentra un numero molto alto di persone che soffrono la fame e
nella quale quasi tutti i paesi ciclicamente rischiano la povertà. La
non accessibilità al cibo è la prima causa di morte in Africa:
provoca più vittime della malaria, della tubercolosi e dell‟Aids
combinati insieme. Questa miseria - che direi endemica - ha
ragioni diverse a seconda dell‟area specifica. In alcuni casi è dovuta
ai conflitti – ne sono esempio il Darfur, il Ciad o il Congo, dove una
guerra strisciante obbliga da anni le popolazioni a fuggire e spinge
chi ne ha la possibilità a trovare riparo altrove. Altre volte è invece
riconducibile allo smembramento di uno Stato nazionale, come in
67
Somalia - dove la fame si associa alla realtà di un territorio fuori
controllo per il governo. Ancora, un‟altra causa di povertà sono i
fattori climatici – pensiamo al Corno d‟Africa, colpito da frequenti
siccità o inondazioni. Diversi paesi, poi, hanno difficoltà a dotarsi
di infrastrutture, di istituzioni politiche stabili e sono restii nel
darsi buone pratiche di governo – la cosiddetta good governance.
L‟inefficienza degli Stati è un‟aggravante che, in molti contesti,
impedisce di far fronte al dramma della povertà. Ci sono però
anche esempi positivi, come il Ghana, che è riuscito a combattere
con grande efficacia la povertà e che rappresenta uno degli esempi
riusciti di progresso, anche dal punto di vista del raggiungimento
degli obbiettivi di sviluppo del Millennio.
D. - In Africa, continente ancora prevalentemente agricolo, la
fame è collegata direttamente con le caratteristiche del
sistema produttivo rurale. Quali sono i principali elementi
della crisi agricola che affligge molti paesi africani?
R. - La mancanza di infrastrutture, di servizi, di tecnologie e di
sementi. Ma anche la difficoltà di accesso ai mercati in quanto
venditori. Le merci dei piccoli contadini spesso non sono in grado
di reggere la concorrenza con le produzioni industriali. Inoltre,
l‟instabilità politica e sociale, come anche lo stato di belligeranza
che persevera in diversi paesi, sono tutti fattori che danneggiano, a
volte distruggono, l‟apparato produttivo locale. Le conseguenze
principali di un sistema economico che non funziona si registrano
nella denutrizione - specialmente delle mamme e dei bambini nella penalizzazione del sistema sanitario ed istruttivo - a causa
della mancanza di risorse – e nella distruzione del tessuto di
protezione sociale, che è fondamentale in questi paesi. Ecco perché
anche nei periodi di forte emergenza economica, come quello in
atto, il Programma Alimentare delle Nazioni Unite continua a
promuovere la creazione di reti di sicurezza, affinché le persone che
non hanno possibilità di accesso autonomo ai beni di prima di
prima necessità, possano sempre trovare un sostegno nella
comunità di appartenenza.
D. - Benedetto XVI, nell‟Enciclica “Caritas in Veritate”, fa
riferimento allo “scandalo delle disuguaglianze clamorose”,
che persistono nel mondo. Il divario tra paesi ricchi e poveri
sta aumentando sotto i colpi cella crisi mondiale? Qual‟è la
responsabilità delle Istituzioni Finanziarie Internazionali?
68
R. - Esiste soprattutto un‟enorme diseguaglianza nel modo con cui
determinate crisi colpiscono, con maggiore intensità, il sud del
mondo. Pensiamo, ad esempio, all‟aumento dei prezzi alimentari
che si è registrato l‟anno scorso. Vero è che il fenomeno ha colpito
in generale tutti i continenti ma, mentre nei paesi occidentali, la
spesa per il cibo incide per circa il 20% sul budget familiare, in un
paese in via di sviluppo questa percentuale arriva al 60, a volte il
70%. Spesso in Africa il problema delle vittime della fame non è la
mancanza di cibo, ma l‟assenza di denaro per acquistarlo. È chiaro,
dunque, che alcuni fenomeni globali hanno ripercussioni
particolarmente drammatiche sulle economie del sud del mondo,
perché qui non sono stati attivati dei meccanismi di protezione e di
sostegno all‟agricoltura, non sono state create infrastrutture
sanitarie e non è stato investito abbastanza nel settore
dell‟educazione. Anche la drastica riduzione delle rimesse, causata
dall‟aumento della disoccupazione nei paesi industrializzati, rende
più gravi gli effetti della crisi finanziaria sulle economie già deboli.
Ci sono paesi africani, ma anche asiatici o del sud America che
sono stati interessati da una forte emigrazione e il cui prodotto
interno lordo dipende in larga misura dalle rimesse. Nell‟ambito
degli stessi paesi in via di sviluppo, poi, si è creato un nuovo
divario tra alcune nazioni emergenti dell‟Asia e del Sudamerica che hanno registrato un tasso accelerato di sviluppo negli ultimi
anni e che si avviano a una relativa autonomia anche
nell‟elaborazione delle politiche sociali - e l‟Africa sub-sahariana
che, salvo rarissime eccezioni, registra invece le maggiori battute di
arresto. Nel continente africano la crisi economica tende ad
annullare anche i pochi vantaggi acquisiti dai ceti urbanizzati,
dalla classe media in formazione. Da non dimenticare, poi, la
riduzione degli investimenti e degli aiuti allo sviluppo devoluti
dall‟Occidente. Credo sia responsabilità proprio dei paesi
industrializzati e delle Organizzazioni Internazionali riattivare un
circolo virtuoso a favore delle economie deboli, per mezzo degli
investimenti ma anche grazie alla revisione di quei negoziati
commerciali che non promuovono la crescita dei paesi svantaggiati.
D. - Sempre nell‟Enciclica, il Papa sottolinea la necessità di
impostare un nuovo modello di sviluppo sulla giustizia e
sull‟inclusione delle realtà più svantaggiate. Da dove si deve
partire per fondare un‟economia in grado di generare
ricchezza per tutti?
69
R. - Innanzitutto reimpostando le regole internazionali del
commercio, affinché i prodotti delle economie in via di sviluppo
possano avere uguale dignità e possibilità di accesso ai mercati
internazionali. È importante anche aiutare questi paesi a
organizzare meglio il proprio sistema agricolo. Questo non significa
soltanto migliorare le produzioni o aumentare gli investimenti nel
settore specifico, ma anche aiutare i piccoli contadini a rendere le
proprie merci competitive sul mercato locale e internazionale. Come
PAM, abbiamo recentemente avviato diversi progetti pilota,
nell‟ambito dei quali sosteniamo piccoli agricoltori acquistando i
loro prodotti, che poi ci serviranno per intervenire in situazioni di
emergenza nella regione stessa. L‟altro elemento, a mio avviso
fondamentale per poter realizzare, in futuro, una giustizia sociale
ed economica, è garantire l‟educazione. Ricordo un altro
programma realizzato dal PAM, che prevede la fornitura dei pasti ai
bambini che vanno a scuola. Per alcuni di essi questo cibo
rappresenta l‟unica fonte di nutrimento, ma il progetto vuole essere
anche un motore per l‟alfabetizzazione i giovani. L‟istruzione è
fondamentale per la costruzione del proprio futuro.
D. - Quali sono le maggiori difficoltà che
nell‟attuare i vostri programmi di sviluppo?
riscontrate
R. - Il problema principale - per noi che siamo un‟agenzia delle
Nazioni Unite finanziata dai contributi volontari dei governi e dei
privati – è quello di riuscire ad avere fondi per attuare i nostri
progetti. Generalmente riusciamo a raccogliere addirittura meno
della metà di quello che, secondo il nostro bilancio, sarebbe
necessario per assistere oltre 100 milioni di persone. Questo si
tradurrà in un taglio drastico nei programmi e nelle razioni di cibo.
D. - Esistono alcune Organizzazioni sovranazionali africane che
cercano di promuovere lo sviluppo nei paesi membri.
Istituzioni come il NEPAD (New Partnership for Africa‟s
Development) o la CEDEAO (Communauté économique des
États de l‟Afrique de l‟Ouest) costituiscono strumenti
efficaci per rilanciare le economie del continente? Esistono
forme di collaborazione tra le Organizzazioni panafricane e
quelle internazionali, come le agenzie di sviluppo delle
Nazioni Unite?
R. - Ritengo che gli organismi panafricani siano fondamentali e mi
auguro che i singoli Stati promuovano anche in futuro nuove forme
70
di coordinamento sovranazionale. Sono segnali di un protagonismo
politico dell‟Africa essenziale affinché le esigenze e le iniziative del
continente possano avere più peso, anche sulla scena mondiale.
Già in passato, ci sono stati molti interventi paralleli e forum
mondiali ai quali hanno partecipato, tra gli altri, le Nazioni Unite,
l‟Unione Africana e il Nepad. In generale, si sta promuovendo una
sempre maggiore collaborazione internazionale, sia sul fronte del
peacekeeping che dal punto di vista del peacebuilding.
71
4. Globalizzazione e distruzione dell‟identità africana, dei suoi
valori, del tessuto familiare e della coesione sociale
(cfr. Instr. Laboris: cap. I, punti 30-31, pp. 12-13; cap II, punto 66,
p. 24)
Sulla spinta della globalizzazione, i mezzi di comunicazione hanno
provocato un‟invasione dei modelli occidentali sulla scena culturale
africana e l‟economia capitalistica all‟abbandono dei sistemi di
sussistenza,
con
un
conseguente
incremento
accelerato
dell‟urbanizzazione. I giovani che migrano dalle campagne alle città si
ritrovano spesso in uno stato di emarginazione, di alienazione dal proprio
background socio-culturale e familiare (che è considerato un valore
essenziale nelle culture africane). Questa destrutturazione della protezione
sociale e dei valori originari africani, associati alla miseria che costringe a
condizioni di vita disumane, possono favorire quell‟instabilità sociale e
moltiplicare, in ultimo, le possibilità di conflitto. Le società multietniche
sono oggi una realtà diffusa, in Occidente come nelle stesse città africane.
Le Chiese locali sono impegnate in prima linea nella promozione di una
dignitosa accoglienza degli stranieri e nella difesa dei diritti dei rifugiati
politici.
Intervista con MARGUERITE PEETERS, autrice del libro “La
Mondializzazione della Rivoluzione Culturale Occidentale”
(A cura di Dulce Araujo)
D. Lei parla del pericolo che una nuova cultura globalizzata e la
sua etica rappresentano per l‟identità culturale africana e anche
per il cristianesimo. Perché?
R. – Per diverse ragioni: la prima è che c‟è un deficit democratico nel
senso che questi concetti (prendo l‟esempio della “salute riproduttiva”
e di “genere” che sono i più conosciuti) non sono stati sottomessi a
dibattito democratico come si fa normalmente. Quindi, non
provengono dalle popolazioni, non rappresentano la volontà dei
popoli, bensì – e questo può essere provato storicamente – da certe
minoranze occidentali, partners di certi organismi dell‟ONU che
hanno svolto un ruolo determinante nella formulazione di queste
norme mondiali negli anni „90. Quindi c‟è innanzitutto un problema
democratico, cioè una presa di potere normativo da parte di certe
minoranze occidentali. In secondo luogo, mi preoccupa perché pone
un problema per i cristiani, nella misura in cui chi conosce la storia
72
dell‟Occidente sa molto bene che la rivoluzione culturale del mondo
occidentale (e non parlo semplicemente del maggio del 1968) è una
lunga storia di secolarizzazione della civiltà occidentale, e questa
rivoluzione culturale ha avuto come risultato la perdita della fede in
Occidente. Costatiamo questo ora che le chiese sono vuote o
frequentate solo da anziani; i giovani prendono le distanze. È chiaro
che c‟è un rinnovamento della Chiesa, ma la cultura occidentale, che
era cristiana, ha smesso di esserlo. Io vorrei chiamare l‟attenzione
delle popolazioni e delle culture non occidentali che stano passando,
artificialmente, per questo stesso fenomeno di una rivoluzione
culturale, come in Africa, dove si parla dappertutto di “genere”, di
“salute riproduttiva” … Come ho detto, si tratta solo di due esempi in
mezzo a tanti altri, ma sono forse i più eloquenti di questa rivoluzione
occidentale che è letteralmente imposta all‟Africa non solo attraverso i
governi, ma soprattutto attraverso la cultura (la mondializzazione
culturale), internet, media, tv, stili di vita…
D. - Questo rappresenta quindi una sfida per le culture non
occidentali. Conserveranno le loro culture o si lasceranno
occidentalizzare?
R. - Si tratta anche di una sfida per la fede cristiana perché questi
concetti rappresentano un pericolo, nella misura in cui posso sedurre
i cristiani, allontanandoli del Vangelo.
D. - Ma ci sono segnali di speranza che l‟Africa non si lascerà
travolgere dalla spirale di questa nuova cultura occidentale e
riesca a svilupparsi partendo dalle sue proprie realtà, dalle sue
proprie ricchezze culturali, pur innovando quando e dove è
necessario?
R. - Io penso che Dio abbia dato all‟Africa alcuni doni che non ha dato
ad altri continenti; che ci sono doni che Dio ha fatto specificamente
all‟Africa; che l‟Africa ha una missione; che l‟ora di questa missione è
arrivata. Per me, personalmente è una grande allegria, un grande
regalo cominciare a conoscere l‟Africa, a scoprire innanzitutto quello
che è immediatamente percettibile, cioè, questo senso fondamentale
di fraternità: qualsiasi uomo, qualsiasi donna è un fratello, una
sorella, non importa chi sia, conosciuto o sconosciuto. È un fratello,
una sorella! Ed è una fraternità molto diversa dal concetto di
fraternità della Rivoluzione francese, fraternità senza padre. In Africa,
al contrario, si tratta di una fraternità filiale. Cioè, siamo fratelli
perché abbiamo lo stesso padre. Questo senso di paternità, di
73
maternità, di vita, questa gioia di vivere, questo senso del sacro…La
natura in Africa è chiamata “Creato”, questo vuol dire che c‟è un
Creatore. Ora, nella civiltà caratterizzata dall‟apostasia, cioè dal
rifiuto di Dio, non si parla più di Creatore. In Africa la natura viene da
Dio. E penso che questo dono che Dio ha fatto all‟Africa è senza
pentimento; cioè, quando Dio ha fatto questo dono all‟Africa è stato
per sempre. Penso che, con lo shock della mondializzazione, sta
nascendo nel cuore degli africani un desiderio di conservare la propria
identità, stanno prendendo coscienza di quello che sono, dei doni che
hanno ricevuto da Dio…Sono stata di recente in Ouagadougou in
Burkina-Faso e mi è sembrato che le persone sono coscienti di questo
rapido, rapidissimo cambiamento culturale che sta avvenendo e,
quindi, questo desiderio di resistere a tutto questo. Il quadro è
comunque abbastanza preoccupante, perché questa nuova cultura
avanza in modo estremamente rapido .
74
5. La corruzione e la debolezza dello Stato-Nazione
(cfr. Instr. Laboris: cap. I, p. 5, punto 11)
“Tutti i mali che destabilizzano il continente africano hanno origine nel
cuore ferito dell‟uomo”. Non c‟è pace senza giustizia e non c‟è giustizia
senza perdono. Questo il pensiero che Giovanni Paolo II ha espresso
nell‟Esortazione Apostolica Postsinodale, Reconciliatio et paenitentia, nel
1984. L‟imperialismo occidentale ha generato profonde fratture nel tessuto
sociale africano e gravi contraddizioni nel processo evolutivo politico. La
conseguenza (in molti contesti, ma non in tutti) è un‟evoluzione delle sue
forme statali alquanto distorta, caratterizzata da: assenza del senso dello
Stato e del bene comune, debolezza delle Istituzioni politiche (fino al
“collasso”), populismo, uso coercitivo della violenza come strategia
politica, eccesso di militarizzazione (e frequenti colpi di Stato) infine da
una gestione delle risorse economiche di natura neopatrimoniale e
clientelistica. L‟esempio più eclatante è la Somalia, dove sono subentrati
gruppi fondamentalisti, milizie private o forze internazionali nella gestione
del potere e dell‟ordine socio-politico. La veicolazione dei valori cristiani
può rivelarsi essenziale nella cura di quelle ferite che marcano, indelebili,
la storia del continente. La testimonianza e il ruolo profetico della Chiesa
sono le principali forme di educazione dei fedeli al perdono, alla giustizia e
al rispetto reciproco.
Intervista con PADRE FRANCO MORETTI,
direttore della rivista dei comboniani “Nigrizia”
(A cura di Isabella Piro)
D. – Quali sono le cause della corruzione in Africa?
R. – Spesso e volentieri, la classe politica non è degna di questo nome,
anche perché spesso i politici raggiungono il potere non attraverso
elezioni democratiche, ma attraverso colpi di Stato e imbrogli, e una
volta raggiunto il potere, poi, è difficile perderlo. Qualche decennio fa,
in Africa circolava una battuta: “Per far perdere le elezioni ad un
presidente africano, bisogna sparargli direttamente in testa”. Era un
modo crudo per dimostrare quanto è difficile che un politico che
assurge al potere, poi, possa accettare di perderlo. Farà di tutto per
rimanerci. C‟è poi il fatto che la popolazione, la società civile non è
ancora ben educata ad un‟etica sociale, proprio perché la stragrande
maggioranza della gente vive nella miseria, non solo nella povertà.
Ecco: quando ci sono intere popolazioni che vivono nella disperazione,
75
il personaggio corrotto non è, di per se stesso, odiato o inviso, ma è
quasi invidiato. Spesso e volentieri, chi è nella disperazione sogna di
poter arrivare ad una situazione che possa assomigliare, nel suo
piccolo, a quella di un “grande” che è corrotto. Il misero, il disperato è
pronto a qualunque cosa, anche ad imitare il suo politico corrotto,
quindi farà di tutto per poter imbrogliare il suo vicino, non perché lo
voglia di per sé, ma perché è disperato, non sa come “sbarcare il
lunario”.
D. – Quando si parla di corruzione in Africa, si parla
principalmente di compravendita dei posti di potere o anche di
gestione pratica del potere stesso?
R. - Bisogna tener presente una cosa: in molti Stati africani, non
esiste un sistema fiscale appropriato. Pochi africani pagano le tasse,
se non l‟IVA che pagano quando comprano un oggetto in città (non è
così, però, nei mercati rionali o rurali). Quindi, il politico quasi si
sente di poter dire alla gente: “Io non vi chiedo molti soldi, quindi non
preoccupatevi di come mi comporto”. Sta di fatto che le nazioni più
corrotte in Africa corrispondono a quelle più ricche di risorse naturali,
quindi l‟Angola, il Ciad, il Congo. I proventi che il governo ottiene
attraverso la vendita delle risorse naturali – in particolare, minerali
preziosi, greggio e gas – sono proventi quasi avvertiti come proprietà
privata da parte del governo stesso. L‟esecutivo qualcosa fa, per
esempio nella riparazione delle strade, ma la maggior parte di questi
soldi viene usata in maniera distorta: una buona parte di essi viene
inviata in Occidente, in qualche banca, su conti privati. Ma la gente,
proprio perché non ha dato molto al governo, non sente il dovere di
dire: “Usa bene questi soldi”. Per esempio, in Italia, in Europa noi
diciamo sempre: “Sono soldi dei contribuenti”. In Africa, questa
espressione non è ancora molto usata proprio perché il contribuente
non contribuisce in modo adeguato allo sviluppo del Paese ed i politici
approfittano di questa situazione: sfruttano le risorse naturali, le
vendono o le svendono, in modo corrotto spesso, e considerano i
proventi un po‟ loro proprietà privata e fanno ciò che vogliono con
questi soldi. Ci vorrebbe, da parte della gente, un senso di sdegno, più
che di rabbia o di invidia. Questa capacità sta crescendo, soprattutto
in alcuni gruppi della società civile, ma questo senso di sdegno nei
confronti dei politici corrotti non è ancora generalizzato.
D. – Quali sono le conseguenze di tutto questo sulla popolazione
africana?
76
R. – L‟Africa sta diventando sempre più povera. Mentre le piccole
élites si arricchiscono in maniera sfacciata, la stragrande
maggioranza della popolazione giace ancora all‟ombra della povertà e
peggiora sempre di più. Il sistema sanitario in molti Paesi è allo
sfacelo; ricordo che nel „63-‟64, in Kenya, ad esempio, si arrivava a
spendere il 53% del bilancio dello Stato per l‟educazione, oggi invece
siamo al 3 o 4%. Quindi educazione, sanità, servizi sociali sono tutti
settori allo sfascio.
D. – Ci sono comunque degli esempi positivi di buon governo tra i
vari Paesi africani?
R. – Sì, per esempio mi viene in mente il Ghana che, anche grazie ad
una tradizione di democrazia pluridecennale, ha una certa parvenza
di etica sociale e di politica basata sul buon governo. Ma si tratta di
casi rari. Potremmo citare il Sudafrica, ma anche qui, pur se la
popolazione sta meglio che nel resto del Continente, la corruzione è ad
altissimi livelli. È difficile citare un caso, oggi, che possa diventare un
esempio di buon governo in Africa.
D. – Quali sono le possibili soluzioni alla piaga della corruzione?
R. – Ce ne sono tante. Senz‟altro, la formazione e l‟educazione della
società civile così che, quando si arriva al momento di eleggere i
leader (politici ndr), si sappiano eleggere persone davvero degne di
essere capi di un dicastero, di un governo, di un ufficio ministeriale.
Poi, ci vorrebbe – anche da parte del nord del mondo, delle banche
mondiali che fanno prestiti a questi Paesi africani – un po‟ più di
lealtà. È un po‟ troppo facile accusare l‟Africa di essere così povera a
causa della corruzione dei suoi governanti, quando noi accettiamo
nelle nostre banche questi soldi, frutto di corruzione, frutto di
estorsione. E ce ne facciamo anche vanto. (…) Ultimamente, nel
maggio scorso, c‟è stato il rapporto della Global Witness, una ONG
statunitense, che ha presentato al Congresso degli Stati Uniti un
documento in cui si dice che le banche del nord del mondo fanno
affari con questi governi corrotti del sud (…). Molte di queste banche
sono quelle in cui noi depositiamo i nostri conti, a cui chiediamo
prestiti, fingendo di non sapere che queste banche stanno facendo
affari corrotti con i politici del sud del mondo. Quindi, è necessaria la
pulizia in Africa, la crescita del senso civico in Africa, ma anche la
crescita del senso di responsabilità da parte nostra. Molti dei soldi
che hanno contribuito a creare questo ingente debito estero del sud
del mondo sono stati inviati dalle banche, dalle istituzioni del nord del
77
mondo come aiuti. Poi, però, venivano depositati su conti privati dei
presidenti africani, e lo si sapeva, ma si accettava il fatto. Quindi, ci
vuole una cooperazione: più serietà da parte loro, ma anche più
onestà da parte nostra.
D. – La Chiesa locale, nei differenti Paesi africani, è sempre stata
impegnata nella lotta alla corruzione. Secondo Lei, è possibile
fare ancora di più?
R. – Senz‟altro è possibile fare di più. Io direi che il “momento magico”
della Chiesa cattolica in Africa è stato il decennio del 1970, quando in
molti Stati africani la Chiesa era davvero l‟unico “partito” di
opposizione. Uso la parola “partito” in modo improprio, ma la Chiesa
era davvero una voce profetica. Poi c‟è stato un altro momento in cui
la Chiesa cattolica si è dimostrata capace di dire qualcosa di nuovo in
Africa ed è stato l‟inizio degli anni ‟90, durante le famose “primavere
democratiche” dell‟Africa. Da allora, la voce profetica della Chiesa
cattolica in Africa si è un po‟ smorzata. (…) Si spera comunque che i
pochi buoni esempi vengano imitati e si moltiplichino. Ci sono stati,
senz‟altro, dei casi in cui le Chiese si sono dimostrate davvero capaci
di puntare il dito contro i veri mali e hanno fatto nomi e cognomi. Mi
vengono in mente il Kenya, in cui la Chiesa africana non ha taciuto
durante i disordini che sono seguiti alle elezioni del 2007, o la
Repubblica Democratica del Congo, in cui i vescovi dicono
chiaramente cosa sta accadendo in questo Stato, dove tutte le grandi
potenze del mondo sono lì per fare affari e fanno questi affari a spese
della povera gente. Speriamo che il prossimo Sinodo per l‟Africa sia
davvero un “altoparlante” potente, che faccia giungere queste voci
profetiche a tutto il mondo.
D. – A cosa è dovuto, secondo Lei, l‟affievolimento della voce
della Chiesa contro la corruzione?
R. – Forse, al fatto che i vescovi e le Conferenze episcopali di oggi
sono, in un modo o nell‟altro, un po‟ più legati ai politici, a livello
quasi “partitico”. E lo dice chiaramente anche l‟Instrumentum Laboris
in cui si legge che alcuni pastori si schierano decisamente con un
partito (cfr. IL, II, 53 ndr). (…) Poi, forse, c‟è un certo senso di
stanchezza nella Chiesa, di delusione: teniamo presente che è da
trent‟anni che la Chiesa sta cercando, sta dicendo di sforzarsi (nella
lotta alla corruzione ndr.) Dopo tanti anni, può venire meno questa
speranza, qualche Pastore può, magari, scoraggiarsi o, addirittura,
dire: “Non c‟è niente da fare”.
78
D. – Quindi di corruzione si parla nell‟Instrumentum Laboris…
R. – Certo! La parola “corruzione” appare ben nove volte nel testo,
quindi figura tra i primi posti nella lista delle ombre che oscurano il
Continente ed impediscono il suo sviluppo. La parola “corruzione”
appare in tutti i contesti: quello civile, quello sociale, quello
economico, in quello etico…dappertutto! Ovviamente, l‟Instrumentum
Laboris non lesina parole di critica per questo malcostume.
D. – Alla luce di tutto quello che abbiamo detto, possiamo
comunque dire che l‟Africa resta un Continente di grandi
speranze e di grandi possibilità?
R. – Vorrei sottolineare il fatto che sia Giovanni Paolo II, sia Benedetto
XVI hanno il coraggio di esprimere questa fiducia nel Continente. Sia
l‟uno che l‟altro usano questa espressione: “L‟Africa è il Continente
della speranza per il futuro del mondo”. (…) A livello prettamente
cristiano, non può darsi il fatto che un continente così provato dal
dolore non stia maturando in sé i semi del suo futuro migliore (…).
Bisogna credere per forza che, prima o poi, il Terzo Giorno per l‟Africa
ci sarà. Dobbiamo pregare perché ciò avvenga presto, ma anche
impegnarci nel fare le cose necessarie. E l‟Instrumentum Laboris le
indica tutte, punto per punto: educazione, formazione, piccole
comunità, riflessione sulla Parola di Dio, grande studio
sull‟insegnamento sociale della Chiesa. Questi piccoli passi ci sono,
ma vanno incrementati.
Intervista con MARIA TERESA BRASSIOLO,
presidente di Transparency International Italia
(A cura di Isabella Piro)
D.
- Quali sono i Paesi africani colpiti maggiormente dal
problema della corruzione?
R. – L‟indice di corruzione stilato da Transparency è un indice di
percezione della corruzione e dà alcuni punteggi: 10 sono i Paesi
senza corruzione e 1, o anche meno, sono quelli più corrotti. Quindi,
gli Stati che sono intorno al punteggio di 1 sono: la Somalia, che è al
livello più basso del nostro indice, poi abbiamo il Sudan, la Guinea, il
Ciad, la Guinea Equatoriale, il Congo, lo Zimbabwe, e poi il Gambia e
la Repubblica Democratica del Congo al 158° posto, il Burundi,
79
l‟Angola…Insomma, troviamo molti Paesi africani in fondo alla
classifica.
D. – Quali sono le cause principali della corruzione in Africa?
R. – Io penso che siano molteplici: a mio giudizio, sono le scarse
risorse che vengono dedicate all‟educazione. Quando le persone non
riescono a difendersi, evidentemente sono soggette ad ogni tipo di
sopruso e la possibilità di difendersi anche creandosi un‟attività
economica, un‟indipendenza economica passa, assolutamente,
attraverso l‟educazione. Molta parte degli aiuti che sono stati
distribuiti dalle nazioni – aiuti materiali - hanno avuto sicuramente
un impatto poco importante. Molto più lo hanno avuto quelle
operazioni religiose, della Chiesa cattolica per esempio, che
promuovono i valori, l‟integrità, una modalità di comportamento che
riesce a combattere la corruzione e che riesce anche a formare delle
coalizioni virtuose contro la corruzione stessa.
D. – Prima abbiamo citato i Paesi più corrotti; possiamo ora citare
i Paesi in cui lo Stato effettivamente funziona?
R. – Mi viene in mente il Botswana, che viene spesso citato per la
qualità del suo governo e anche per il relativo benessere che è stato
raggiunto. Però, dobbiamo dire che accanto a questo caso non è che
ce ne siano molti altri. Anche il Sudafrica, che sta facendo dei
grandissimi sforzi, comunque non è in una posizione molto
soddisfacente.
D. – L‟Occidente che parte ha in tutto questo?
R. – Mi riferisco alle pubblicazioni della Banca Mondiale, che sta
diventando molto scettica sul genere di aiuto che è stato dato
all‟Africa: sembra che il 40% degli aiuti, elargiti dalla Banca stessa,
sia stato usato per obiettivi diversi da quelli previsti. Altri studi (…)
hanno identificato negli aiuti, così come sono stati dati finora,
addirittura la fonte stessa della corruzione. Il denaro che entrava (in
Africa ndr) a qualsiasi titolo benefico, poi usciva per altre strade,
andando nei “paradisi fiscali” e quindi non producendo alcun
benessere per il Paese o per gli obiettivi per i quali era stato dato. Per
cui, un‟azione meritoria come poteva essere un aiuto si trasformava
addirittura in un abuso (…), perché serviva a rimpinguare i conti dei
vari personaggi che governavano quel Paese. Questo è un dato
agghiacciante!
80
D. – La Chiesa locale, nei diversi Paesi africani, è sempre stata
impegnata nella lotta alla corruzione. Secondo Lei, è stato fatto
abbastanza? La Chiesa può fare ancora di più?
R. – La Chiesa ha fatto moltissimo ed è stata, probabilmente, quella
che ha fatto di più nell‟aiutare la società civile a formarsi una
coscienza, una forza interna per combattere le violenze. Certo, si può
fare di più, ma le risorse della Chiesa non sono infinite. Le risorse che
arrivano, ad esempio, da Banca Mondiale, dovrebbe essere indirizzate
verso l‟educazione, perché ci sarebbero meno abusi, ci sarebbe meno
corruzione e si andrebbe ad incidere davvero su un punto
fondamentale. Qualche anno fa c‟è stata un‟inchiesta che ha
evidenziato come l‟aumento degli stanziamenti nel settore
dell‟educazione faceva crescere il PIL dall‟1 all‟1,5%.
D. – Il Sinodo dei Vescovi per l‟Africa può dettare delle lineeguida, tracciare delle strade in quest‟ambito?
R. – Sicuramente sì, anche per l‟autorevolezza della Chiesa e,
soprattutto, per la possibilità che ha la Chiesa di entrare nelle case, di
entrare nell‟animo delle persone, cosa che i politici normalmente non
hanno. La Chiesa si rivolge anche, molto spesso, alle donne che sono,
molto più sensibili a queste problematiche, perché pensano più ai loro
figli che non a motivazioni politiche. Penso che la Chiesa abbia
sempre avuto, ma dovrebbe avere ancora di più, un ruolo
fondamentale, e dovrebbe chiedere ai donatori internazionali che
facciano passare le loro donazioni attraverso dei sistemi educativi,
magari coinvolgendo anche molto la società civile, dando i
finanziamenti non ai governi, ma alle organizzazioni sul territorio. E
sicuramente quella più rappresentata, quella che ha un potere di
convinzione forte è senz‟altro l‟organizzazione religiosa. È una strada
che la Banca Mondiale sta già percorrendo.
D. – Il propagarsi della corruzione si può dire anche che è legato
ad una debolezza dello Stato-nazione in Africa?
R. – È difficile dirlo (…) Però, io penso che lo Stato-nazione si crei
anche intorno a dei valori. Non si può creare uno Stato a tavolino,
tracciando dei confini, ma bisogna crearlo intorno a dei valori nella
politica, nella popolazione (…) L‟ha fatto Mandela, e il risultato è sotto
gli occhi di tutti. Dove, invece, questi valori non ci sono, si creano le
guerre civili, lo sperpero e l‟abuso dei cittadini inermi.
81
6. Le violazioni dei diritti umani: pena di morte, sfruttamento
di donne e bambini, le migrazioni
(cfr. Instr. Laboris: cap. I, punti 12-13, pp. 9-10-11, punto 32, p.
13; cap. II, punti 56-59, pp. 21-22)
In Africa si perpetuano gravi violazioni dei diritti umani, sia sul piano
collettivo sia su quello individuale. Le donne subiscono violenze
domestiche e discriminazioni in ambito pubblico. La schiavitù è ancora
molto praticata, ad esempio in Niger. In Liberia, Costa d‟Avorio, Sierra
Leone, Repubblica Democratica del Congo, Congo-Brazzaville e GuineaConakry è ancora diffuso il sequestro e l‟arruolamento dei minori.3 Infine,
in alcune regioni (ad esempio in Somalia) è stata reintrodotta la Sharia,
che rappresenta una minaccia specialmente per le donne e per i fedeli di
confessioni diverse da quella islamica. Pur promuovendo il dialogo
interreligioso e il contributo delle religioni alla crescita delle società
africane, la Chiesa non può accettare le politiche che comportano una
minaccia alla dignità individuale e numerose volte vescovi o associazioni
cristiane hanno sostenuto battaglie contro determinate pratiche non
rispettose dei diritti della persona e delle collettività.
Intervista con RICCARDO NOURY,
portavoce di Amnesty International Italia
(A cura di Isabella Piro)
D. – Partiamo dalla pena di morte: in quali Paesi africani è ancora
in vigore e in quali, invece, è stata abolita?
R. – La cosa importante da sottolineare è che si fa prima ad elencare i
Paesi che ancora la mantengono, perché sono ormai una minoranza
rispetto a quelli che ormai l‟hanno abolita. Nelle leggi è prevista
ancora in sedici Paesi: sono Botswana, Ciad, Comore, Egitto, Etiopia,
Guinea, Guinea Equatoriale, Lesotho, Libia, Nigeria, Repubblica
Democratica del Congo, Sierra Leone, Somalia, Sudan, Uganda e
Zimbabwe. In realtà, nel 2008 la pena di morte è stata applicata
soltanto in Botswana, Egitto, Libia e Sudan, quindi in quattro di
questi sedici Paesi. La seconda cosa importante da sottolineare è che
negli ultimi dieci anni i Paesi africani che hanno abolito la pena di
morte sono stati ben quindici. Burundi e Togo l‟hanno abolita nel
3
Oggi ci sono oltre 300.000 bambini soldato nel mondo, ben 120.000 solo nel continente africano. Il 40 % circa dei
soggetti rapiti, spesso drogati, è costituito da bambine, reclutate per prestazioni sessuali.
82
2009 e certamente il Paese che ha fatto più storia e in cui l‟abolizione
è stata più significativa è il Rwanda, che l‟ha abolita nel 2007,
mostrando all‟intero mondo che si può rinunciare alla pena capitale
anche nella fase dolorosissima post-genocidio in cui le autorità ed il
popolo del Rwanda hanno deciso che si poteva ricostruire la società e
fare giustizia senza ricorrere ad uno strumento supremo di ingiustizia
quale è la pena capitale.
D. – Possiamo quindi dire che è cambiata la sensibilità dei
governi africani nei confronti del diritto alla vita?
R. - Certamente. Per quanto riguarda l‟applicazione della pena
capitale, c‟è una sensibilità maggiore e tra i numerosi argomenti
abolizionisti certamente quello che fa più presa, in questi Paesi, è il
diritto alla vita. Ha aiutato anche la moratoria internazionale che è
stata finalmente proclamata nel 2007 e poi ribadita nel 2008 dalle
Nazioni Unite. Insomma, l‟Africa è il continente che in questi ultimi
venti anni ha fatto passi avanti enormi sul tema della pena capitale.
Ripeto: ormai, il numero dei Paesi nei quali viene effettivamente
applicata si è ridotto a quattro e possiamo che, con alcune limitate
eccezioni, la pena di morte nell‟Africa sub-sahariana è del tutto
scomparsa.
D. – A livello internazionale – lo abbiamo detto poco fa a
proposito della moratoria – la mobilitazione contro la pena
capitale è molto forte. L‟Africa come vive questo clima?
R. – Lo vive in maniera saggia, evitando, salvo alcuni casi specifici, di
ricorrere al consueto tema che invece utilizzano molti Paesi del Medio
Oriente e dell‟Asia, cioè dell‟ingerenza negli affari interni. Al contrario,
Paesi africani sono stati essi stessi promotori della mobilitazione
internazionale che ha dato vita alla risoluzione dell‟ONU sulla
moratoria e di questa moratoria hanno beneficiato certamente le
associazioni laiche e religiose, i movimenti per i diritti umani che
hanno fatto pressione sui governi. Da ultimo, voglio ricordare che
proprio in Africa è stata registrata la più grande commutazione della
pena capitale che si ricordi nella storia moderna: è avvenuto in Kenya,
ai primi di agosto, con la commutazione (in ergastolo ndr) di
quattromila condanne a morte. Il presidente del Kenya (Mwai Kibaki
ndr) ha motivato questa decisione dicendo delle cose importanti che
sembrano quasi richiamare le motivazioni di Amnesty International,
cioè che la permanenza nei bracci della morte è una condizione
83
disumana, degradante, equiparabile alla tortura, è una condizione
che causa stress, ansia, angoscia sul piano fisico e mentale.
D. – Apriamo ora un altro drammatico scenario dell‟Africa, ovvero
quello dei bambini-soldato: in quali Paesi sono più numerosi?
R. – Nei Paesi in cui ci sono guerre: certamente lo scenario peggiore è
quello dei Grandi Laghi, in particolare nella Repubblica Democratica
del Congo, ma anche in Uganda movimenti di opposizione armati,
gruppi armati che utilizzano bambini-soldato sono numerosi. È
difficile tener conto, esattamente, della dimensione di questo
fenomeno perché si tratta, in larga parte, di regioni in cui non è facile
accedere, di regioni in cui ci sono scoppi improvvisi di ostilità, di Paesi
anche molto grandi, come la Repubblica Democratica del Congo. (…)
Poi, per quanto riguarda il fenomeno nella sua globalità, al di là
dell‟Africa ci sono Paesi – penso allo Sri Lanka, penso al Myanmar –
nei quali i bambini-soldato sono utilizzati non soltanto come parte
attiva nei combattimenti, ma anche ridotti, possiamo dire, in stato di
schiavitù, cioè utilizzati come portantini o addirittura per soddisfare
appetiti sessuali o dati in ricompensa per vittorie militari. Un
fenomeno veramente turpe!
D. – Quali sono le cause principali del coinvolgimento dei minori
nei conflitti armati?
R. – Uno Stato certamente debole, che non riesce ad imporre uno
stato di diritto; il fatto che i bambini sono facilmente manovrabili,
cadono in queste “trappole” dei grandi; costano poco dal punto di
vista del loro mantenimento in vita; sono più docili, addomesticabili, e
quindi, dal punto di vista di chi li usa, sono purtroppo delle prede
facili da arruolare e dei soldati assolutamente economici da usare.
D. – Se ne parla poco, ma ci sono anche le bambine-soldato…
R. – Sì, (…) è un fenomeno che è stato denunciato recentemente più
volte da organismi per i diritti umani ed è purtroppo collegato anche
alla riduzione in schiavitù sessuale. Molto spesso le bambine-soldato
non sono attive nei combattimenti, ma stanno nelle retrovie, nei
campi, utilizzate proprio per scopi sessuali dai comandanti delle
truppe per premiare il comportamento dei soldati, per premiare il
valore mostrato in battaglia. Anche questo è un fenomeno veramente
terribile.
84
D. – Su quali fattori agiscono i programmi di reinserimento dei
bambini-soldato e, secondo Lei, sono efficaci?
R. – Sulla carta sono molto efficaci. Ovviamente, prima del
reinserimento dei bambini e delle bambine soldato all‟interno delle
proprie comunità, occorre un processo di pace e di smobilitazione e
questi non sempre sono facili. I motivi per cui spesso questi
programmi sono destinati all‟insuccesso sono, da un lato, il fatto che
sono scarsamente finanziati da Stati che sono poveri, ridotti in
condizioni terribili, di non funzionamento proprio a causa della
guerra. C‟è anche un notevole disinteresse della comunità dei (Paesi
ndr) donatori che sembra non puntare molto sull‟importanza di avere
una smobilitazione e un reinserimento effettivo. In terzo luogo,
purtroppo, queste guerre a cui partecipano i bambini e le bambine
soldato sono così crudeli che a volte è difficile accettare il ritorno nelle
comunità di questi ragazzi, perché spesso sono stati protagonisti, loro
malgrado, di episodi efferati proprio all‟interno delle loro comunità.
D. – Un‟altra grande questione riguardante l‟Africa è quella delle
migrazioni: possiamo tracciare una mappa, a grandi linee, delle
principali rotte di partenza e di arrivo dei migranti?
R. – Sì: certamente le due zone da cui partono i principali flussi di
migranti sono l‟Africa Occidentale, con episodici scoppi di crisi
(abbiamo avuto, ad esempio, negli anni scorsi, grandi afflussi di
migranti dalla Costa d‟Avorio,) e, in secondo luogo, il Corno d‟Africa
dove ci sono, da un lato, Stati al collasso che esistono solo sulla carta,
come la Somalia; dall‟altro Paesi in condizioni perenne di guerra o di
conflitto latente, come l‟Eritrea e l‟Etiopia. Poi, c‟è da sottolineare che
ci sono dei flussi interni che sfuggono alla nostra vista e che Amnesty
International ed altre organizzazioni per i diritti umani cercano di
verificare: penso, ad esempio, a movimenti dal Darfur verso il Ciad,
penso al recente flusso di migranti dallo Zimbabwe verso il Sudafrica.
Ecco, questi sono fenomeni più invisibili, ma certamente non meno
numerosi.
D. – A Suo parere, cosa c‟è all‟origine del bisogno di emigrare?
R. – La ricerca di un luogo sicuro in cui stare, in cui non ci sia guerra,
non ci sia persecuzione per motivi politici, etnici, religiosi, la ricerca di
un lavoro che è una necessità certamente non meno nobile della
ricerca di sicurezza. Tutto un insieme di fattori che danno luogo a
quei così detti “flussi misti” di migranti per cui a volte, su un‟unica
85
rotta e su un‟unica imbarcazione, si incontrano centinaia di persone
provenienti da Paesi diversi dell‟Africa, con ragioni diverse, ma tutte
quante certamente molto impellenti.
D. – Al di là delle normative messe in atto dai singoli Paesi nei
confronti dell‟immigrazione, dal punto di vista umano un
migrante di cosa ha veramente bisogno?
R. – Ha bisogno intanto di sicurezza ed incolumità fisica, nel breve
periodo. Poi, nel periodo più lungo, ha bisogno di una prospettiva, che
è quella di avere un luogo sicuro e stabile in cui trovare riparo,
formare una famiglia, cercare un lavoro, con – io credo – la visione
ultima di poter rientrare un giorno nella propria terra. Ricordiamoci
che sono persone che vengono e cercano di entrare nelle nostre terre
perché nelle loro non possono più restare.
D. – Spesso sembriamo dimenticarci che il migrante è anche una
risorsa: in un mondo globalizzato, il razzismo è ancora una
realtà?
R. – È una realtà molto diffusa, tant‟è che proprio il diritto d‟asilo è
uno dei diritti più compromessi in questi ultimi decenni. C‟è una
situazione di discriminazione, di razzismo che Amnesty International
denuncia da moltissimo tempo e che si aggrava proprio nel momento
in cui una crisi economica globale prende piede. Il che vuol dire
restringere il mercato del lavoro proprio mentre aumentano i flussi di
migranti anche in cerca di lavoro; vuol dire soprattutto, all‟indomani
dell‟11 settembre 2001, che ci troviamo in un mondo nel quale vige la
paura, il sospetto, l‟insicurezza, il timore che il diverso e l‟altro da noi
sia una minaccia. Ecco, questo insieme di insicurezza economica, di
incertezza, di sospetto, di paura, di minaccia è un mix terribile che
costituisce proprio il luogo di coltura del razzismo.
D. – Parliamo ora dello sfruttamento di donne e bambini africani:
quali sono i settori i cui si contano più casi?
R. – Oltre ai bambini e le bambine soldato di cui abbiamo parlato
prima, altri due fenomeni particolarmente gravi sono il ricorso al
lavoro minorile, che è una condizione largamente praticata: penso alle
piantagioni di cacao nell‟Africa occidentale. Poi, nei confronti delle
donne, c‟è ancora, in diversi Paesi africani e poi arriva anche in
Europa e in Italia, un traffico turpe di donne destinate al mercato
della prostituzione. Si tratta di persone ridotte in condizione di
86
schiavitù. Tutto questo ha a che fare, da un lato, con condizioni
difficili di vita che spingono persone nelle mani di bande criminali;
dall‟altro, per quanto riguarda il lavoro minorile, ha a che fare anche
con il fatto che l‟Africa è un continente ricchissimo di risorse e il
lavoro minorile è quello più economico. Ciò fa sì che oggi, nelle
miniere della Repubblica Democratica del Congo o di altri Paesi il cui
sottosuolo è ricchissimo, si trovino a lavorare moltissimi bambini. Il
tutto, ovviamente, con il beneficio economico di multinazionali che
sono ben lontane da quei Paesi e che però dalle risorse di quei Paesi
traggono beneficio.
D. – Secondo Lei è giusto dire che lo sfruttamento è legato anche
in parte a situazioni culturali e a tradizioni locali?
R. – Non è sbagliato dirlo. Però, nei casi che ho descritto, l‟interesse e
il beneficio vanno lontani dall‟Africa, verso Paesi e culture che non
sono africane. In Africa, ci sono forme di discriminazione: penso in
particolare a quelle nei confronti delle donne, che hanno uno status
inferiore non tanto nella legge, quanto nella prassi. Il che fa sì che le
donne siano cittadine di serie B. Molti Paesi africani, in questi ultimi
anni, si sono dotati di normative che cercano di porre fine alla
discriminazione sul piano dei diritti civili, politici, sul piano della
successione dell‟eredità, sul piano del matrimonio. Però, esistono
ancora molte resistenze sul piano tradizionale. Poi, non va
dimenticato che ci sono alcune prassi, alcune tradizioni, alcuni
costumi che vanno a colpire in maniera feroce le donne: penso alle
mutilazioni genitali femminili che, nonostante siano in diminuzione,
restano un fenomeno molto diffuso in Africa.
D. – Come aiutare le vittime di questa piaga?
R. – Denunciando, facendo sapere, aiutando l‟Africa, ma aiutandola
dando voce, spazio, risorse anche donazioni, alle associazioni spesso
di donne che, in moltissimi Paesi cercano di porre fine a queste
violazioni dei diritti umani, in una società civile, che è precaria,
povera, ma molto attiva.
D. – Di fronte a tutto ciò che abbiamo detto, quali sono le
aspettative di Amnesty International per il prossimo Sinodo dei
Vescovi per l‟Africa?
R. – Fare della questione dei diritti umani, a tutto tondo, una grande
priorità, continuare a farlo nei casi in cui ciò già avviene, appoggiare
87
le associazioni di base che fanno un lavoro straordinario, sia quelle
legate alla Chiesa sia quelle laiche, che sono coloro che danno voce a
persone che, altrimenti, non hanno voce. Quindi, puntare molto sui
diritti umani nella consapevolezza che l‟Africa è un continente in
grande sviluppo, con grandi problemi di guerre, di povertà, di miseria,
ma è un continente dal quale arrivano segnali, sui diritti umani,
straordinari. Intercettare questi segnali ed aiutarli a rafforzarsi credo
sia uno degli auspici che Amnesty International si propone per questo
Sinodo.
D. – Secondo Lei la Chiesa come può agire in questo campo?
R. – Può agire con parole importanti, autorevoli, può agire con le
Chiese locali, con le associazioni. La voce della Chiesa è molto
ascoltata e una parola che proviene dalla Chiesa è una parola che fa
sempre la differenza.
88
7. Le „guerre dimenticate‟
(cfr. Instr. Laboris: cap. II, p. 23, punto 64)
Somalia, Etiopia (Ogaden), Repubblica Democratica del Congo (Kivu),
Uganda, Sudan (Darfur), Repubblica Centroafricana, Ciad, Nigeria (delta)
e Algeria sono afflitti da guerre civili. Negli ultimi mesi il Madagascar è
stato colpito da una crisi istituzionale e in Kenya, Mauritania e Zimbabwe
l‟equilibrio politico risulta ancora precario. Infine, i Saharawi dell‟Africa
Occidentale, i Tuareg del Mali e del Niger, gli abitanti della Casamance
(nel sud del Senegal) e altre popolazioni sono impegnate in conflitti di
bassa intensità dettati da esigenze di autonomia politica, di spartizione del
territorio e dei siti produttivi. Si tratta di “emergenze complesse” (nel senso
che coinvolgono attori di varia natura), la cui conseguenza è una
“normalizzazione” della violenza e l‟istituzione di una vera e propria
economia di guerra (basata su sfruttamento delle risorse energetiche,
privatizzazione della sicurezza, contrabbando di armi e di droga). 4
Nonostante la loro gravità, molte emergenze vengono “dimenticate” dai
media internazionali, che tendono a dare rilievo (anche per mezzo di
esagerate “spettacolarizzazioni”) solo alle realtà riconducibili, in qualche
modo, a elementi occidentali.5 In molte occasioni esponenti della Chiesa
hanno svolto importanti funzioni di mediazione fra le parti in conflitto nelle
guerre africane, promuovendo sempre un nuovo concetto di sicurezza,
ispirato a “assenza di povertà”, autosufficienza e incremento delle
opportunità di emancipazione socio-economica per gli individui.6
Intervista con GIAMPAOLO CALCHI NOVATI,
ordinario di Storia e istituzioni dei Paesi Afro-Asiatici
all‟Università di Pavia
(A cura di Silvia Koch)
D. - Professore, quali sono le principali aree di conflitto oggi in
Africa?
4
Il fine ultimo di questa nuova tipologia di guerre (spesso celato dietro giustificazioni di natura etnico-culturale) è il
perpetuare situazioni di conflittualità, necessaria per i profitti delle imprese coinvolte nell’economia bellica.
5
Emblematici, in questo senso, sono la crisi in Somalia, nella quale sono coinvolti alcuni italiani; la malnutrizione
infantile, di cui si parla principalmente in occasione di vertici della FAO o del G8; infine il Sudan, perché le relative
iniziative di sensibilizzazione vedono coinvolti testimonial famosi.
6
Alcune Chiese particolari hanno appositamente fondato progetti allo scopo di produrre risorse per le popolazioni (es.
banche, compagnie di assicurazione e unità di produzione agricola).
Inoltre, la condanna della violenza armata è stata oggetto di alcuni interventi di Benedetto XVI, come già dei suoi
predecessori (per il 2009 ricordiamo l’Angelus del 1° gennaio; l’Udienza ai giovani in Servizio Civile; infine l’Udienza
del 20 maggio “Ricercare la pace con metodi non violenti”).
89
R. - La Somalia e il Sudan, specialmente sul fronte Sudan-Darfour.
L‟altro conflitto sudanese, quello tra il nord e il sud, è in via di
pacificazione, benché ci si possa aspettare qualche recrudescenza
in vista delle elezioni previste per il 2011, quando si dovrebbe
votare per un‟eventuale secessione del sud dal resto del paese.
C‟è, poi, una situazione di conflittualità, poco nota ai media
internazionali, nella fascia immediatamente sub-sahariana,
chiamata saheliano-sudanese, dove la tensione è generata dal
confronto
tra
movimenti
cosiddetti
salafisti,
islamistifondamentalisti e forme di repressione delle stesse, coordinata
anche a livello internazionale. Va ricordato il Congo, perché la
parte nord-orientale è probabilmente fuori dal controllo del governo
centrale ed è continuamente oggetto di tensioni. Attualmente si sta
portando avanti un processo di pace tra il Congo e il Rwanda, che
erano i principali competitori. Un altro caso poco noto è quello
della Guinea Bissau, che recentemente è stata teatro di colpo di
Stato e dove passa, pare, tutto il traffico della droga che è in
transito per il continente africano. L‟Africa australe sta vivendo,
invece, una situazione relativamente più stabile. La crisi in
Zimbabwe, che tra l‟altro sembra aver trovato una soluzione nella
creazione di un governo bipartisan, non è fortunatamente sfociata
in una vera guerra, sebbene si siano registrati episodi di abusi nei
confronti dei diritti dell‟uomo, delle associazioni e dei partiti.
D. - Perché queste crisi belliche vengono comunemente dette
“guerre dimenticate”?
R. - L‟espressione “conflitto dimenticato” non rappresenta sempre
la realtà. È diventato un modo di dire mediatico, con cui da una
parte si vuole ribadire la perifericità e quasi la marginalità
dell‟Africa nel sistema mondiale, nella nostra attenzione e nella
nostra coscienza. Dall‟altra, si vuole assolvere la Comunità
Internazionale dall‟incapacità di far fronte non tanto alla crisi in sé,
ma ai motivi più profondi, reali e globali delle stesse guerre. Ci
sono delle guerre croniche che si trascinano quasi come un modus
vivendi regolare. Su questo stato di conflittualità latente a volte si
registrano delle impennate e generalmente soltanto questi episodi
vengono divulgati dai media internazionali. Spesso tali eventi o
elementi parziali, che non consentono di comprendere la
complessità della crisi, vengono addirittura “spettacolarizzati” dai
media, esagerati rispetto alla realtà dei fatti – è il caso, ad esempio,
delle cifre sulle vittime di alcune emergenze. Il fatto che l‟opinione
pubblica venga informata solo di tanto in tanto è un‟aggravante,
90
perché fa si che si ignorino le permanenze, le cause, le radici dei
conflitti. La guerra del Sudan è un perfetto esempio di crisi bellica
saltuariamente mediatizzata. Il conflitto “classico” è quello fra il
nord e il sud, che in teoria si è concluso per mezzo di un accordo di
pace firmato nel 2005. Tuttavia, dal 2003 si è aperto un secondo
fronte, conosciuto con il nome di Darfur, una regione che
tecnicamente appartiene al nord del paese. Sul Darfur si è
concentrata l‟attenzione dell‟opinione pubblica e l‟incriminazione
del presidente del Sudan, Omar Al Bachir (o El Bachir) davanti alla
Corte Penale Internazionale è diretta conseguenza proprio della
forte mediatizzazione di questa crisi. Un secondo esempio di
“guerre dimenticate” è la Somalia, dal momento che l‟attenzione
mediatica tende a concentrarsi sui fenomeni che coinvolgono anche
la dimensione internazionale, come la pirateria, piuttosto che sugli
episodi di belligeranza interna.
D. - Quali fattori determinano la „ribalta mediatica‟ o meno di
un conflitto?
R. - L‟Africa nel suo complesso non è certamente al centro
dell‟attenzione mondiale. La realtà di alcuni paesi africani sono
sconosciuti ai più. Quando un evento compare molto sui media
internazionali, è probabile che ci siano dietro interessi materiali o
strategici. Ad esempio, si parla molto di Zimbabwe, specialmente
sulla stampa anglosassone, perché in Inghilterra è molto forte la
lobby che rappresenta gli ex-coloni inglesi, penalizzati dagli ultimi
avvenimenti politici di Harare. Di conseguenza, le turbolenze
registrate nel paese africano, pur gravi, sono state in parte
“ingigantite”. Ugualmente, la regione sudanese, ovvero la fascia a
sud del Sahara, ha attirato l‟opinione pubblica, soprattutto durante
l‟amministrazione Bush, perché è stato uno dei teatri di guerra
della battaglia globale al terrorismo di matrice islamica, che in
quest‟area si contrapponeva all‟Islam politico. Ancor più grave della
non mediatizzazione di una guerra è, a mio avviso, il fatto che non
ci sia un‟informazione sistematica sulle vicende, anche positive,
dell‟Africa. Una conoscenza delle sue problematiche, delle culture,
dei processi costituzionali, senza aspettare necessariamente
l‟emergenza, il colpo di Stato o la guerra. Quello che si sa dell‟Africa
è ben poco. In generale poi, la capacità dell‟opinione pubblica
mondiale di influire sulla realtà della periferia del mondo sta
diminuendo drasticamente. Si registra una sorta di connivenza che
tollera forme di repressione e di violenza nei confronti dei popoli e
dei paesi che non appartengono al centro del sistema.
91
D. - Si possono individuare delle cause che accomunano i
principali conflitti africani?
R. - Innanzitutto, la debolezza che potrei definire strutturale delle
istituzioni politiche. Tipico dei sistemi africani è il cosiddetto
“quasi-Stato”, ovvero un sistema che non riesce a far fronte alle
problematiche del territorio. Di conseguenza, sebbene si siano fatti
molti progressi in direzione della democratizzazione, esiste una
tendenza a ricorrere alla violenza per risolvere i contrasti. Questo
spiega perché, paradossalmente, spesso le crisi si acuiscono in
coincidenza delle elezioni. Generalmente, la competizione elettorale
è caratterizzata da una condizione di ineguaglianza fra la forza al
potere e le forze di opposizione, sia dal punto di vista del monopolio
dei mezzi di comunicazione sia, soprattutto, dal punto di vista della
proprietà dei beni, spesso in mano alla classe dirigenziale uscente.
A parte la facilità nel ricorso alla violenza, un altro fattore
scatenante le crisi africane è il fatto che sin dall‟indipendenza, in
generale, lo Stato africano non ha mai goduto del monopolio legale
della violenza, intesa come sovranità verso l‟esterno e quale uso
legale della forza all‟interno per la tutela delle Istituzioni, che è una
delle caratteristiche fondanti dello Stato in quanto tale. In Africa,
invece, l‟uso della violenza è stato appannaggio di altre forme di
“sub-sovranità”. Tale caratteristica, naturalmente, rende più facile
che altrove il progressivo scivolamento di un contrasto politico, in
una crisi a sfondo bellico. Il 90 % dei conflitti africani sono guerre
“infra-statuali”, civili, domestiche, che si svolgono fra competitori
interni. Anche quando ci siano interferenze di Stati “occidentali” o
di paesi africani confinanti – come è il caso della guerra in Congo –
gli scontri hanno sempre come obiettivo originario la conquista del
potere interno. Forse l‟unico esempio di guerra “inter-statale” è la
guerra combattuta tra Etiopia ed Eritrea dal 1998 al 2000.Spesso,
poi, alle guerre africane si associa l‟aggettivo “tribale”, perché,
sebbene l‟elemento tribale sia spesso esterno alle cause originarie
della crisi, tuttavia esso diventa quasi sempre rilevante in una fase
del conflitto. L‟appartenenza ad un medesimo gruppo è uno
strumento utile, ad esempio, dal punto di vista della mobilitazione
e della creazione del consenso alla propria causa. Infine, altra
pratica diffusa nei sistemi africani è il “neo-patrimonialismo”,
ovvero la tendenza dello Stato a gestire le risorse pubbliche non a
favore della popolazione, ma a favore della classe dirigente. È
chiaro come questo susciti facilmente frustrazione e ribellismo. A
queste motivazioni interne a volte si sovrappongono, poi, gli
92
interessi delle Potenze esterne, che si coalizzano con una delle due
parti. Da questo punto di vista, il pericolo è che si trovi soluzione
solo ad una delle varie dimensioni del conflitto - come è avvenuto
in Angola nel 1988, quando si è trovato un accordo sulle questioni
internazionali, ma non sulle problematiche interne, ovvero sui
rapporti tra governo e ribelli. Questo è uno dei motivi per cui
spesso le turbolenze continuano, anche dopo la pacificazione
ufficiale.
D. - In che modo le ingenti risorse del continente africano e i
traffici internazionali, spesso illegali come nel caso del
contrabbando delle armi, intervengono nell‟economia di
guerra che alimenta il conflitto interno?
R. - Il problema delle ricchezze del continente ha due facce. Da una
parte le risorse sono una delle poste in gioco nel conflitto, a cui si
può accedere legalmente – attraverso l‟ascesa all‟arena politica – o
illegalmente, perché durante la guerra cresce la possibilità di
occupare le zone produttrici di risorse e di aumentare i traffici
illeciti - anche detti informali - di beni, di armi o di droghe. È il
caso, ad esempio, dei diamanti e delle altre miniere del Congo. In
un certo senso le risorse “attivano” la guerra, perché danno la
possibilità di raccogliere fondi per poter acquistare armi e reclutare
soldati. La dimensione internazionale è certamente coinvolta. Le
potenze straniere che ambiscono a monopolizzare le risorse o i
mercati africani saranno certamente tentate di intervenire in difesa
di quella classe dirigente, in grado di assicurare loro diritti di
sfruttamento o spazi di commercio nei mercati locali. Si è anche
detto che la guerra abbia una propria economia perversa, perché
facilita i traffici informali, diventando in sé fonte di risorse. In
alcuni
casi
gli
stessi
aiuti
internazionali
sono
stati
involontariamente cause guerra, perché costituivano la principale
risorsa di un paese, sulla quale si sono concentrate le ambizioni dei
governi e dei ribelli.
D. - Diversi interventi delle Organizzazioni Internazionali nei
conflitti africani hanno fallito nel tentativo di ristabilire un
clima di pace. Quali sono stati i principali errori commessi?
R. - Bisogna intanto chiedersi quali obiettivi avesse l‟intervento.
Quasi sempre le Grandi Potenze che gestiscono gli interventi
internazionali, anche sotto la debole copertura di organismi
sovranazionali come le Nazioni Unite o l‟Unione Africana, hanno in
93
realtà degli obiettivi propri. E difficilmente gli interessi del paese in
guerra coincidono con quelli internazionali. Nella risoluzione dei
conflitti è necessario risalire alla causa originaria, possibilmente
essere neutrali, non avere secondi fini e avere una certa capacità di
persuasione morale sui contendenti. Queste qualità oggi mancano
persino all‟Onu, che purtroppo ha perso credibilità (…) L‟Onu ha
perso la sua autorità sui paesi belligeranti, proprio perché in
passato la sua neutralità originaria è stata sacrificata in nome della
difesa di interessi di parte. Di conseguenza, gli stessi strumenti
attivati per risolvere i conflitti sono risultati spesso inadeguati. Un
caso riuscito di risoluzione è quello del Mozambico, un episodio
lusinghiero per la politica italiana anche perché il negoziato è stato
mediato in parte dalla Comunità di S. Egidio, in parte dal Ministero
degli Esteri italiano. Il successo di questo conflitto è riconducibile
alla decisione di procedere al disarmo ancor prima di avviare la
normalizzazione politica. È un raro caso positivo, da prendere ad
esempio.
D. - Negli ultimi decenni gli Stati africani si sono dotati di una
serie di organismi regionali sovranazionali. Si può guardare
a tali strumenti come a un mezzo efficace per arginare i
fenomeni di violenza diffusi sul continente?
R. - Il principale organismo inter-africano, l‟Unione Africana, è
un‟istituzione ancora relativamente giovane (ha preso vita fra il
2002 e il 2003, sulle spoglie dell‟OUA, l‟Organizzazione dell‟Unione
Africana) per cui non si può ancora valutare appieno la sua
esperienza. Tuttavia, possiamo sottolineare che, nello Statuto
dell‟UA, trova riconoscimento il diritto all‟ingerenza negli affari
interni degli Stati membri, cosa che dovrebbe distinguerla e
renderla più efficace della precedente OUA. Inoltre, l‟UA è dotata di
un organo interno, il Consiglio per la Pace e la Sicurezza, pensato
ad hoc per intervenire, per mezzo di sanzioni o altre misure
politiche, nella gestione pratica delle emergenze, nelle situazioni di
belligeranza e di violazione dei diritti umani. Quindi, nella sua
impostazione, questa istituzione panafricana ha tutti gli strumenti
per risolvere i conflitti africani. I risultati non sono mancati: la
mediazione dell‟UA è stata efficace in Burundi, in Costa d‟Avorio e
in Congo. Le missioni in Somalia e in Sudan non sono riuscite,
invece, nell‟opera di pacificazione tra le parti in conflitto. C‟è da
dire che nella Repubblica democratica del Congo si registra un
tentativo di “ri-costituzionalizzazione” del sistema politico interno,
stravolto dalla guerra. Se un domani questo paese riuscisse a
94
ristabilire la sua unità e la sua capacità di influenza politica anche
all‟esterno, allora ci sarebbero tre poli di riferimento sulla scena
africana - il Sudafrica, la Nigeria e lo stesso Congo - in grado, forse,
di garantire maggiore operatività agli organi dell‟UA e, di riflesso,
un certo equilibrio al continente.
D. - Come può la Comunità Internazionale intervenire per
contribuire a risollevare i sistemi politici e le economie
africane?
R. - La premessa è che si perseguano i valori di pace, di
riconciliazione e di ricostruzione, essenziali allo sviluppo del
continente. Le potenze europee dovrebbero adottare politiche che
consentano all‟Africa, ai suoi prodotti, alle sue istituzioni, alle sue
popolazioni, di inserirsi nel sistema mondiale partendo, almeno
tendenzialmente, da una condizione di parità e di uguaglianza. A
oggi l‟Africa è, invece, tenuta in una condizione di subalternità
paternalistica dalla Comunità Internazionale, a tutti i livelli. È
inevitabile che l‟Africa sia beneficiaria di flussi finanziari perché da
sola non è in grado di accumulare capitale e surplus da destinare
agli investimenti. Ma, invece di concentrare l‟intervento di sostegno
all‟Africa sui cosiddetti aiuti economici - il cui impatto è, come
noto, ambiguo e incerto, a volte addirittura dannoso o nullo - a mio
avviso sarebbe molto più utile operare sul commercio e riformare
tutte quelle regole che ostacolano i paesi svantaggiati, nella libertà
degli scambi. In primo luogo, abolendo le sovvenzioni sui beni
alimentari, che impediscono l‟accesso ai prodotti africani sul
mercato internazionale. Si dovrebbe poi riaprire la strada agli
investimenti e a forme di partecipazione economica. Tutto questo,
naturalmente, comporta un‟assunzione di responsabilità anche da
parte dell‟Africa, che deve garantire un certo grado di stabilità e
sicurezza, assenza di corruzione e capacità di ritorno economico, se
gli investitori sono soggetti privati. Questo si sta realizzando già
con la cosiddetta cooperazione sud-sud. La Cina, l‟India, il Brasile
e alcuni paesi del Golfo stanno operando in Africa soprattutto nel
settore delle infrastrutture, partendo da un‟impostazione
totalmente diversa da quella occidentale.
D. - Il mandato di arresto emanato dalla Corte Penale
Internazionale nei confronti del Presidente Omar al-Bashir è
stato rifiutato dallo stesso Presidente sudanese come
episodio di ingerenza delle Potenze straniere nelle questioni
nazionali. Cosa pensa al riguardo?
95
R. - In generale, la giustizia ha senso quando è neutrale e uguale
per tutti. La giustizia internazionale non è né equa né neutrale. Il
fatto che la giustizia internazionale si sia concentrata solo su
determinati casi africani, ha fornito le giuste argomentazioni per
un‟autodifesa a coloro che sono stati accusati dalla Corte. Una
seconda considerazione da tener presente è che la giustizia
africana di tipo “tradizionale” tende a riconoscere una maggiore
importanza al ripristino della coesione sociale e alla riconciliazione
tra diversi villaggi, che non all‟individuazione dei colpevoli e alla
punizione individuale. Non è certo che la giustizia formalizzata, su
cui si basa il Tribunale dell‟Aja, costituisca lo strumento migliore
per la risoluzione delle diverse crisi africane, in quanto tale
approccio giuridico romanistico-occidentale rischia di non tenere
conto, sufficientemente, delle caratteristiche specifiche del
contesto. Tuttavia, non si deve dimenticare che anche le forme
improprie, e certamente discutibili, di giustizia internazionale,
hanno comunque il merito di cercare di difendere tutti gli africani
che sono stati vittime di crimini. Questo dovrebbe essere tenuto
maggiormente in considerazione dagli stessi africani.
96
8. Il rapporto tra Chiesa e cultura tradizionale locale, nel caso
della famiglia e del celibato dei sacerdoti
(cfr. Instr. Laboris: cap. I, p. 6; cap. III, punti 70-74, pp. 27-28)
L‟apertura alla comprensione reciproca, promossa dalla Chiesa, favorisce
una certa integrazione delle Nazioni, di cui il continente ha ora un bisogno
urgente. L‟evangelizzazione ha portato al radicamento delle comunità
cristiane nelle società africane e al lievito dei valori cattolici nelle culture
locali. Tuttavia, l‟“inculturazione della Chiesa in Africa”, che era già tra i
temi trattati nella Prima Assemblea speciale per l‟Africa nel 1994, viene
riproposto anche per questo secondo Sinodo, in quanto si ritiene che non
siano stati raggiunti risultati del tutto soddisfacenti. Il pensiero comune e la
vita quotidiana dei fedeli (veicoli di diffusione della Parola di Dio) risultano
ancora oggi solo in minima parte ispirati ai valori cristiani. La sfida è di
portare il Vangelo al cuore sia della cultura dominante, sia delle culture
minoritarie. D‟altra parte, questo implica anche una certa
“africanizzazione” delle tradizioni e prassi cattoliche.7
Intervista con JEAN BAPTISTE SOUROU,
autore del libro “Come essere africani e cristiani?
Saggio sulla cultura del matrimonio in Africa”.
(A cura di Alessandra De Gaetano)
D. - Come nasce l‟idea di questo libro?
R. - Questo libro risponde ad un‟esigenza anche personale, nel senso
che, studiando teologia, vivendo le realtà concrete della Chiesa in
Italia, trovo sempre una domanda che io porto dentro di me: tutto
questo bagaglio culturale e spirituale che ricevo, come poterlo
tradurre nella mia realtà culturale? Perché io vivo in Europa, ma sono
africano, prima di tutto. Quindi: come fare affinché tutto quello che
sto scoprendo possa entrare davvero a far parte di me, come uomo del
Benin, come uomo dell‟Africa, affinché la mia cultura, che porto con
me già, possa essere tutt‟uno con la fede che vado approfondendo,
tramite gli studi e tramite la ricerca.
D. - Come essere cristiani e africani nella realtà Sahoué?
7
Esemplare in questo senso è stata la messa nello stadio Amadou Ahidjo di Yaoundé, il 19 marzo 2009, in occasione
della visita di Papa Benedetto XVI che ha consegnato ai vescovi l’Instrumentum Laboris del prossimo Sinodo. Un coro
di oltre sessantamila persone ha accompagnato l’evento.
97
R. - Non è altro che cercare di essere, nello stesso momento, fedele a
quello che noi abbiamo come ricerca culturale, quello che lo Spirito di
Dio ha già seminato nella nostra cultura. Bisogna riconoscere, infatti,
che Dio ha dato ad ogni cultura delle cose meravigliose, che già ci
aiutano a vivere, ci aiutano ad esprimere il nostro rapporto con Dio,
con i nostri fratelli, con la realtà che ci circonda. Come fare, allora,
perché tutto quello che c‟è di bello nella nostra cultura sahoué del
Benin possa essere illuminata nuovamente dalla fede in Gesù Cristo?
È questa la realtà concreta. E, nello stesso tempo, se deve essere
illuminata, vuol dire che contiene qualcosa di buono. Ma sappiamo
che tutto ciò che noi facciamo e pensiamo, come uomini, non è
sempre buono: ci sono delle debolezze, delle ombre. L‟auspicio,
quindi, è che queste ombre vengano illuminate dalla luce di Gesù
Cristo, dalla sua Risurrezione e dal suo Vangelo per permetterci di
andare oltre quello che la cultura, umanamente parlando, non ci può
dare per essere degli uomini realmente e completamente realizzati.
D. - Quali sono i valori legati al matrimonio nella tradizione
sahoué?
R. – Ho scelto il tema del matrimonio perché, per noi africani, il
matrimonio e la famiglia sono dei valori molto importanti: Giovanni
Paolo II, nel documento post-sinodale “Ecclesia in Africa”, lo ha
sottolineato fortemente. Un valore è, ad esempio, l‟importanza che il
sahoué dà ai figli, al loro ruolo. Esiste tutta una serie di proverbi che
dice l‟importanza del figlio. Un altro valore è il rapporto tra marito e
moglie e, soprattutto, la preparazione al matrimonio: c‟è tutta una
serie di tappe che aiuta davvero i giovani sahoué del matrimonio.
Quindi ci si sente aiutati, sostenuti dalla famiglia, dal villaggio. Tutto
il contesto sociale aiuta e rinforza in te la convinzione della scelta che
stai per fare. Per esempio: presso i sahoué non puoi sposarti se non
hai un lavoro, se non sei capace di dare una dote a tua moglie. Non si
tratta – come qualcuno potrebbe pensare – di una dote data per
comprare la moglie, non è così, ma è perché con questo tu dimostri a
te stesso e alla società che sei capace di fare qualcosa. Allora, quando
sei capace di fare qualcosa, qualcuno può dire: “Prendi in sposa mia
figlia” e tu dimostri, anche davanti alla società, che sei capace di
assumerti le tue responsabilità, perché per un sahoué avere una
famiglia è assumersi una responsabilità. Un altro valore è anche il
rapporto tra le famiglie: il matrimonio diventa, per la famiglia di lui e
quella di lei, un momento per creare solidarietà. Cioè: le due famiglie
finiscono per vivere una comunione totale nei momenti belli, come nei
98
momenti dolorosi o di sofferenza. Quindi, a tutti i livelli si innesca
una comunione totale che è una cosa molto bella perché non soltanto
sostiene la coppia, la famiglia che sta nascendo, ma sostiene anche
tutte e due le famiglie d‟origine degli sposi. È molto bello vedere che il
matrimonio non è soltanto una cosa legata ai due coniugi, ma ha
radici profonde. Importante è, anche, il riferimento agli antenati, il
che vuol dire, nello stesso tempo, riferimento a Dio, che è la base, la
sostanza proprio del matrimonio. Tu non puoi sposarti, nella cultura
sahoué, senza questo riferimento agli antenati e a Dio. Ti senti
sostenuto da Dio e dagli antenati e capisci che ci sono delle cose che
non puoi fare: i divieti e le proibizioni, nella cultura sahoué, hanno
radici spirituali.
D. – Perché si pone l‟esigenza dell‟inculturazione
cristianesimo nella cultura sahoué del Benin?
del
R. – L‟inculturazione si impone perché le nostre culture sono dei doni
che Dio ci ha fatto: lo Spirito di Dio ha messo nel cuore di ogni uomo
dei valori. Ma per poter realizzare questi valori, per poterci realizzare
come uomini noi, a volte, troviamo delle difficoltà, non riusciamo
sempre a fare il “salto di qualità”, le nostre culture non hanno queste
possibilità. Allora, cosa fa il Vangelo? Il Vangelo arriva, come una
luce, per dire: “Nella vostra cultura, alcune cose sono buone, belle,
Dio le ha messe in voi. Ma ci sono anche delle ombre”, come ad
esempio: nella cultura sahoué, l‟uomo può prendere più di una
moglie, in alcune circostanze? E però la donna non può avere altri
mariti? Allora, in questo caso cosa ci direbbe il Vangelo? Il Vangelo ci
insegna ad amare la propria moglie e ad avere solo quella. E per quale
motivo la Chiesa ci chiede di prendere soltanto una moglie? Non è
una cosa “campata per aria”, ma si tratta, prima di tutto, di
un‟esigenza umana. I sahoué sanno benissimo che, quando tu ami
una donna, vuoi che sia soltanto per te e quando una donna ama un
uomo vuole che quell‟uomo sia soltanto per lei, però non rispettano
questo principio, contenuto anche nel loro cuore, nella loro cultura.
Allora: in questo caso, l‟inculturazione li aiuta ad avere una forza in
più, perché credono in Gesù Cristo, per mantenersi fedeli a Cristo. Ma
quando uno è fedele a Cristo, alla fine è anche fedele a se stesso e alla
sua cultura.
D. – L‟inculturazione del cristianesimo provoca un contrasto o
una successiva integrazione?
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R. – Bisogna tener presente che molte di queste popolazioni sono
analfabete. Allora non si verifica tanto un contrasto, quanto una
misconoscenza di quello che la Chiesa ed il Vangelo richiedono. E
questo potrebbe portare qualche contrasto. Le nostre popolazioni in
Africa hanno bisogno di gente che le aiuti a capire cos‟è effettivamente
il Vangelo, cos‟è il matrimonio secondo la Chiesa, per spiegare bene
loro i valori che hanno già, quello che propone la Chiesa, il Vangelo,
ed aiutarli a mettere insieme il tutto. Quindi, facendo così,
sicuramente – e questo si nota anche parlando con le popolazioni – le
popolazioni sono entusiaste perché capiscono quello che la Chiesa sta
chiedendo loro. Perché fino a quando la gente non capisce quello che
la Chiesa sta chiedendo – in Africa come nelle altre culture – viene
vista sempre come un‟imposizione. Ma non è vero, è solo perché non
capiscono. Se capiscono, invece, accettano questi valori. Cioè, se tu
proponi un cammino inculturato, per esempio, del matrimonio presso
i sahoué, prendendo le varie tappe già contenute nella loro cultura,
spiegando loro le tappe del matrimonio secondo la Chiesa, li vedi che
rimangono a bocca aperta! Allora è lì che può nascere una certa
inculturazione, facendo vedere loro le cose importanti e quelle che
non lo sono. Il tutto alla luce del Vangelo e della Risurrezione.
D. - Quindi, a chi è indirizzato questo libro?
R. – Soprattutto ai pastori – sacerdoti, seminaristi, ricercatori – ma
anche a quei sahoué che, essendo cristiani, vorrebbero sapere di più
come poter vivere la loro fede. Ma oltre a questo, il libro pone il
problema dell‟inculturazione in generale in Africa: “come essere
africani e cristiani?” è una domanda che dobbiamo continuamente
farci se vogliamo essere cristiani convinti e convincenti in Africa.
Questo libro, allo stesso tempo, risponde alla domanda, ma la pone
anche agli africani. Cioè, teniamo sempre a mente che siamo africani,
ma siamo chiamati ad essere discepoli di Cristo. E non discepoli
qualsiasi, ma discepoli veri di Cristo, che annunciano oggi che Cristo
è la luce, il pane, la speranza per il nostro popolo. Il libro vuole
spronare gli africani dicendo loro: “Abbiamo tante belle cose, ma
dobbiamo essere vigili e rispondere alla domanda che Cristo ci fa,
ovvero „Per te, chi sono io?”.
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Intervista con DON DARIO VITALI, docente di Ecclesiologia
presso la Pontificia Università Gregoriana
(A cura di Isabella Piro)
D. – Partiamo da una premessa generale: quali sono le origini
storiche e teologiche del celibato sacerdotale?
R. - Il celibato sacerdotale si afferma nella Chiesa in genere e,
soprattutto nella Chiesa latina, nei primi secoli, in relazione proprio
con il ministero sacerdotale. Un‟interpretazione del ministero in senso
pieno come totale dedicazione di sé e del proprio servizio alla Chiesa,
che non sembra poter accettare nessuna divisione del cuore. Quindi,
una totale presenza al Signore e una totale presenza al ministero da
offrire alla Chiesa. Già nei primi secoli questo diventa una realtà ben
consolidata e nella Chiesa latina diventa una modalità piena per
l‟esercizio del ministero sacerdotale.
D. – Spostiamoci nello specifico e guardiamo all‟Africa: a Suo
parere, in questo Continente il non rispetto del celibato
sacerdotale rappresenta un problema particolarmente sentito? E
per quale motivo?
R. – Da quello che io posso cogliere, anche attraverso l‟incontro con i
miei studenti che provengono dall‟Africa – io insegno Ecclesiologia alla
Pontificia Università Gregoriana – questo problema è sicuramente
avvertito. È un problema di carattere, mi pare, fortemente culturale,
nel senso che, nella tradizione africana, l‟idea di un‟interruzione della
generazione e quindi di quella che, secondo la prospettiva tipica loro,
è chiamata “la prospettiva degli antenati o degli avi” è sicuramente di
grande peso. Per cui, forse non è tanto il problema del celibato in sé,
quanto dell‟impossibilità di generare figli che pone una questione di
grande peso e quindi che pone difficoltà, esattamente, all‟accettazione
piena di questa tradizione tipica della Chiesa latina.
D. - In Occidente, invece, questa prospettiva non c‟è?
R. – Non manca la riflessione sulla famiglia, sicuramente. Piuttosto, si
è sviluppato un doppio registro di riflessione: quello tipico relativo alla
famiglia per quanto riguarda il matrimonio, il matrimonio cristiano,
quindi la forma di dedicazione al Signore attraverso questa vocazione,
ma contemporaneamente anche una forte riflessione sul ministero
ordinato e quindi sulla possibilità e sulla “necessità” che questo sia
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un ministero totalmente dedicato al Signore e quindi non all‟interno di
una famiglia.
D. – A livello formativo, nei seminari ad esempio, c‟è sufficiente
attenzione a questo problema, secondo Lei?
R. – Possiamo dire che questo è uno degli argomenti più guardati con
profonda attenzione, anche con quella forma di rispetto e di dovuta
problematicità che oggi ha assunto, a causa di una mentalità così
poco attenta all‟oblatività nel campo della sessualità e nel campo,
quindi, della vita donata totalmente nel ministero sacerdotale. Quindi,
su questo fronte di una non comprensione, da parte della cultura
contemporanea, di questo valore, mi pare che nei seminari si proceda
dovutamente e attentamente a questa riflessione intorno al celibato e
intorno, mi pare, alla verginità, tenendo conto che le due realtà,
sostanzialmente, non differiscono. Non si tratta, semplicemente, di
non procedere alla costruzione della famiglia, ma di mantenere un
atteggiamento di totale dedicazione al Signore, di offerta di sé e della
propria sessualità. E non solo: di offerta del proprio cuore al Signore e
al servizio da rendere a Lui e alla Chiesa.
D. – Gli episcopati locali africani, secondo Lei, quali strategie
potrebbero mettere in atto per contrastare il fenomeno dei preti
sposati?
R. – Per contrastare questo fenomeno credo che si debba affermare,
con estrema chiarezza, quella che è la tradizione, la forma piena
dell‟appartenenza alla Chiesa. Mi pare, però, che il problema non sia
tanto quello dei preti sposati, ma di coloro che vivono come se lo
fossero, senza porsi il problema, senza riflettere, quasi che fosse una
realtà scontata, e quindi producendo un doppio registro di vita: quello
pubblico, che si manifesta in un modo, e quello privato che procede
su tutt‟altri registri. E allora mi pare che, sotto questo profilo, la
prima e fondamentale necessità sia quella di una riflessione attenta e
anche di una verifica attenta, a monte, di coloro che accedono al
ministero ordinato. Perché troppe volte, come dice il proverbio,
“necessità fa virtù” e si ammette all‟ordine gente che, sicuramente,
non ha motivazioni profonde, semplicemente perché bisogna coprire
dei posti. Allora, la prima strategia, sicuramente, è quella di una
verifica attenta della vocazione a monte e poi quella di
un‟appartenenza forte, sicura, nella Chiesa locale, con un servizio al
popolo di Dio, nella collaborazione con il Vescovo, nell‟appartenenza
soprattutto ad un presbiterio dove la fraternità ministeriale, che è una
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fraternità fondata sul ministero dell‟ordine, permette sicuramente una
vita all‟interno del ministero più serena, più motivata e più capace, di
conseguenza, di resistere a queste forme di “contaminazione”,
potremmo dire, che tanto turbano la Chiesa.
D. – Di fronte, invece, ad un caso ormai compiuto di violazione
del celibato come si comporta la Chiesa?
R. – Mi pare che per questo, ormai, Benedetto XVI e la Chiesa abbiano
tracciato un‟indicazione precisa: stante la legislazione della Chiesa di
un ministero che sia fondato esattamente su questa prospettiva, la
scelta è quella di procedere alla verifica delle intenzioni, degli
atteggiamenti, delle motivazioni e, di conseguenza, o richiamare ad
una rettitudine di vita, se è ancora possibile, o altrimenti dimettere
dal ministero perché la contraddizione, la contro-testimonianza non
fanno bene a nessuno.
D. - A Suo parere, il prossimo Sinodo dei Vescovi per l‟Africa
potrà offrire una risposta a questa problematica?
R. – È possibile. In questa prospettiva, è chiaro che dipende dalla
sinergia di molte volontà: la volontà dei Vescovi dovrebbe essere
quella di un rinnovamento della Chiesa d‟Africa con coraggio, con
fermezza, secondo, sicuramente – come diceva il Concilio Vaticano II –
le tradizioni delle parti in comunione con la Chiesa universale e
quindi in ascolto di quelle che sono le indicazioni che provengono dal
Santo Padre. La possibilità è data davvero da questa forma di
consenso a cui tutti gli appartenenti a quella Chiesa d‟Africa sono
chiamati, quindi: un popolo di Dio che voglia vivere il Vangelo, i suoi
Pastori che vogliano testimoniarlo e vogliano rinnovare la forza
dell‟obbedienza alla Parola di Dio e i suoi ministri che possano
testimoniare, non solo con le parole, ma anche con la vita, una
capacità di incarnazione del Vangelo che si rinnova sempre per
l‟azione dello Spirito. Quindi, la possibilità c‟è e c‟è chiaramente.
Dipende da quanta volontà c‟è, da quanta disponibilità c‟è ad
ascoltare il Signore ed il Suo Spirito, ad ascoltare il Vangelo, a
metterlo in pratica, di quanta volontà c‟è a camminare come popolo di
Dio nella fedeltà alla Parola che il Signore ci ha dato ed alla strada
che Lui ci ha tracciato.
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