Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist

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Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist
Simone Germini
Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist
Introduzione
Heinrich von Kleist (1777-1811) approda tardi alla scrittura. Egli nasce inevitabilmente militare, in
quanto rampollo di una aristocratica famiglia che vanta una illustre tradizione in questo campo,
diviene poi studioso e infine drammaturgo e scrittore, all’età di ventiquattro anni, in seguito alla
“famigerata” e decisiva crisi kantiana. La sconvolgente lettura di Immanuel Kant (1724-1804),
imponente spettro filosofico con il quale, prima o poi, tutti gli scrittori di lingua tedesca a lui
successivi hanno dovuto fare i conti1, convince Kleist del fatto che l’autentica verità è
irraggiungibile, e dunque, inconoscibile. Una rivelazione tanto sconcertante lo fa sprofondare nella
disperazione, lo getta nello sconforto, ma, al tempo stesso, lo avvia definitivamente verso la sua
originale e più naturale vocazione. Kleist riemerge dalle ceneri della crisi kantiana in una nuova, e
fino a quel momento inedita, veste, la veste di autore. E con lui emergono inoltre molti dei grandiosi
ed indimenticabili personaggi delle sue opere. Personaggi che nei loro caratteri complessi, spesso
contraddittori e laceri, contengono tratti della crisi. Mi riferisco all’Agnes de La famiglia
Schroffenstein, all’Eva de La brocca rotta, all’Alcmena dell’Anfitrione, all’Achille e alla Pentesilea
dell’omonima e discussa tragedia, alla Käthchen della Käthchen di Heilbronn ovvero la prova del
fuoco, alla Tusnelda de La battaglia di Arminio, al principe di Homburg dell’omonimo e celebre
dramma, all’ufficiale russo e alla marchesa de La marchesa di O..., alla Toni de Il fidanzamento di
Santo Domingo, all’Elvira de Il trovatello, alla Littegarde de Il duello, al Michael Kolhaas
dell’omonimo racconto.
In questo saggio concentreremo in particolar modo le nostre attenzioni sulle figure femminili che
meglio delle altre incarnano la crisi kantiana vissuta da Kleist, quelle che possono essere
considerate, quelle che possono essere definite, come già annunciato nel titolo, delle vere e proprie
figlie della crisi.
Se davvero non esiste alcuna verità conoscibile, allora cosa resta? Resta il cuore. Resta il
sentimento. Ed è soprattutto la donna ad abbandonarsi al suo più intimo, istintivo, a tratti
primordiale sentire, dimentica di qualunque convenzione sociale, dimentica di qualunque norma
precostituita.
1. La crisi kantiana
Bernd Heinrich Wilhelm von Kleist nasce a Francoforte sull’Oder il 18 ottobre 1777, da Joachim
Friedrich, membro di un’insigne famiglia prussiana dall’importante tradizione militare2, e da
Juliane Ulrike von Pannwitz, sposata in seconde nozze.
Il giovane Heinrich intraprende da subito, nel 1792, la carriera militare. Sono gli anni in cui scoppia
la guerra tra la Francia rivoluzionaria e la Prima coalizione degli alleati, di cui fa parte anche
1
Tra i molti casi ricordo quello emblematico di Robert Musil (1880-1942), che nel romanzo I turbamenti del giovane
Törless (1906) dedica ampio spazio alla scoperta di Kant da parte del protagonista. Scoperta che apre una falla nel
mondo matematico, falla nella quale il giovane Törless si insinua sospinto dalla sua sconfinata sete di conoscenza del
mondo e di se stesso.
2
L’autore e l’opera, di Hermann Dorowin, in H. v. Kleist, La marchesa di O..., a cura di Rossana Rossanda, Marsilio
Editori, Venezia 2001, p. 31.
1
l’esercito prussiano, e Kleist, ancora ragazzo, si trova coinvolto in diverse ed importanti battaglie,
partecipando anche all’assedio di Magonza (1793)3. La pace di Basilea del 1795 pone
momentaneamente fine alle sanguinose ostilità tra i Francesi e i Tedeschi e Kleist, rientrato a
Potsdam, può così avvicinarsi allo studio della filosofia e alla letteratura. Da quel che si evince dal
suo fitto epistolario si dedica alla lettura di autori del passato, come Lucrezio e Shakespeare, ma
anche del presente, come Schiller, Goethe e Wieland4. Supponiamo che tali ed importanti letture
abbiano influito in modo significativo sull’improvvisa decisione di Kleist di abbandonare l’esercito,
dopo sette anni di onorato e intenso servizio.
La carriera militare gli ripugna, egli brama ora la conoscenza, vuole studiare, sapere e raggiungere
la verità. E non lo toccano le naturali preoccupazioni dei familiari, perplessi dal fatto che il
rampollo abbandoni un avvenire sicuro in favore di un avvenire incerto e denso di inquietanti e
minacciosi punti interrogativi. Kleist è determinato e, come scrive al suo ex precettore Martini,
«Nessuno può sapere meglio di me che cosa serva alla mia felicità, nessuno può sapere bene come
me quale via, data la mia costituzione fisica e morale, io debba battere, proprio perché nessuno lo sa
così esattamente né può indagarlo come me»5. Sono ora il sapere, la conoscenza le uniche fonti
nelle quali Kleist crede di poter attingere la propria felicità. Lo studio è la sola via che sente di
dover battere. La vita militare, le battaglie, le armi, i cadaveri, le gozzoviglie e le relazioni sociali
con le importanti signore non lo interessano più. Egli ha l’impellente bisogno di indagare ed
acquisire nozioni, acquisire certezze scientifiche.
Kleist vuole dedicarsi completamente alla propria Bildung (“formazione”), e per questo motivo ha
in mente un definito e dettagliato «piano di vita»: dopo il congedo, che gli viene accordato il 4
aprile 1799, intende studiare un anno all’Università di Francoforte e trasferirsi poi in quella ben più
stimata di Göttingen6. Tuttavia, l’esperienza universitaria di Kleist dura poco, appena tre semestri, e
si conclude nell’estate del 1800. I motivi che lo hanno condotto ad abbandonare gli studi sono
molteplici: innanzitutto, nonostante gli sforzi straordinari, Kleist è insoddisfatto e deluso, dallo
studio non ottiene quello che sperava, quello che desiderava, non è affatto una fonte di felicità, anzi,
gli sembra la causa di una sorta di prosciugamento, di inasprimento sentimentale e spirituale, il suo
animo ed il suo cuore naturalmente travolgenti ed impetuosi sembrano infiacchirsi, indebolirsi,
piegarsi e sottomettersi del tutto alla fredda razionalità scientifica; in secondo luogo, ed è Ludwig
Tieck (1773-1853) a sottolinearlo nella sua prefazione alle opere del 18267, il fatto che Kleist, da
semplice ed impreparato autodidatta, debba confrontarsi con colleghi ben più giovani e competenti
di lui, non lo aiuta affatto ed immaginiamo il suo ego afflitto e talvolta persino offeso da una tale,
fastidiosa circostanza.
Kleist vive un periodo complicato e doloroso, divorato dall’incertezza, e solamente il fidanzamento
con Wilhelmine von Zenge (1780-1852) riesce ad allentare almeno un poco le preoccupazioni, a
mitigarle, soprattutto per il suo intenso impegno pedagogico volto a curare la formazione educativa
della donna.
3
Cronologia, a cura di Anna Maria Carpi, in H. v. Kleist, Opere, a cura e con un saggio introduttivo di Anna Maria
Carpi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2011, pp. XLVIII - XLIX.
4
Ivi, pp. XLIX - L.
5
Briefe von und Heinrich von Kleist 1793-1811, a cura di Klaus Müller-Salget e Stefan Ormanns, Deutscher Klassiker
Verlag, Frankfurt am Main 1997, trad. it. di Anna Maria Carpi, lettera del 18-19 marzo 1799.
6
Cronologia, a cura di Anna Maria Carpi, in H. v. Kleist, Opere, cit., p. LI.
7
Ivi, p. LI.
2
Il 1 novembre 1800 Kleist sembra aver preso una decisione: intraprendere la carriera amministrativa
- del resto il fidanzamento e la prospettiva matrimoniale richiedono una certa stabilità economicofinanziaria e, diciamo così, esistenziale. Si rivolge al ministro von Struensee chiedendogli di poter
partecipare alla Deputazione Tecnica8. Ma ecco quel che scrive solo pochi giorni dopo, esattamente
il 13 novembre, alla fidanzata Wilhelmine: «Non voglio impieghi [...]. Amore e formazione sono
due irrinunciabili condizioni della mia futura felicità. [...] Basta coi pregiudizi, basta con la nobiltà,
basta col ceto - uomini buoni vogliamo essere e contentarci della gioia che ci dà la natura»9. Parole
che stridono incredibilmente con la sua, a questo punto presunta, decisione di dedicarsi alla
pubblica amministrazione. Kleist comunque tenta, si sforza con tutto se stesso, provando a
rinnegare la sua stessa natura ribelle e fuori dagli schemi, ma le sedute gli provocano «una
sensazione ripugnante», come scrive alla sorella Ulrike10. Può un uomo che ha rifiutato
l’adrenalinica carriera militare prima e l’entusiasmante attività intellettuale poi, trascorrere la
propria vita partecipando a lunghe e noiose riunioni, chino su di enormi volumi impolverati e
indecifrabili? No, non può, nonostante provi con tutto se stesso a raggiungere un compromesso
apparentemente necessario.
Il 1801 è per Kleist l’anno decisivo, un vero e proprio spartiacque all’interno della sua tormentata
vicenda esistenziale. Kleist scopre Kant, ed ecco che l’intero suo mondo deflagra, va in pezzi per
non ricomporsi mai più. Dal filosofo tedesco, come preannunciato nell’introduzione di questo
saggio, Kleist apprende un unico e decisivo insegnamento: la verità è inconoscibile. Questa
rivelazione lo sconvolge, lo getta nella disperazione e neppure il conforto dei vecchi amici,
raggiunti a Potsdam, dove aveva già vissuto quando era ancora un giovanissimo soldato, può
alleviare le sue sofferenze. Kant frantuma, con spietata lucidità e chiarezza, ogni certezza,
rivoluziona l’intera filosofia, colpisce Kleist nel profondo, distruggendo con chirurgica precisione
ogni sua precedente convinzione.
In preda ad una vera e propria crisi, che lo costringe a rivedere il proprio rapporto con il mondo e
con l’uomo, Kleist prorompe, come sempre, nelle lettere. Scrive alla fidanzata Wilhelmine: «Se gli
uomini invece degli occhi avessero delle lenti verdi, dovrebbero ritenere che tutto ciò che vedono
sia verde [...]. Così è con l’intelletto: non possiamo decidere se ciò che chiamiamo la verità sia
davvero tale, e non un’apparenza. La verità che qui raccogliamo dopo la morte non c’è più, e ogni
sforzo per appropriarci di qualcosa che ci segua nella tomba, è vano. [...] Così il mio unico, il mio
sommo scopo è crollato e io non ne ho più alcuno»11. Alla sorella Ulrike invece, parla della filosofia
di Kant addirittura in termini di colpevolezza. Kleist accenna infatti a tutti quegli uomini che,
sconvolti dalle rivelazioni del pensatore tedesco, sono sprofondati nella «follia»12. Riguardo se
stesso Kleist non parla di follia, ma di «inquietudine»13. E se in passato era stata la conoscenza la
sua massima aspirazione, una conoscenza che Kant ha dimostrato essere di fatto irraggiungibile, ora
Kleist brama la pace più di ogni altra cosa, tende ad essa con ogni singola fibra del suo corpo debole
e stanco. È quanto scrive a Wilhelmine il 9 aprile: «Ah, Wilhelmine, se il cielo mi regalasse una
casa nel verde, io rinuncerei per sempre a tutti i viaggi e alla scienza e a tutte le ambizioni. Perché
8
Ivi, p. LV.
Briefe von und Heinrich von Kleist 1793-1811, a cura di Klaus Müller-Salget e Stefan Ormanns, Deutscher Klassiker
Verlag, Frankfurt am Main 1997, trad. it. di Anna Maria Carpi, lettera del 13 novembre 1800.
10
Ivi, lettera del 5 febbraio 1801.
11
Ivi, lettera del 22 marzo 1801.
12
Cronologia, a cura di Anna Maria Carpi, in H. v. Kleist, Opere, cit., p. LVII.
13
Ivi, p. LVII.
9
3
niente fuorché dolori mi procura questo mio cuore eternamente agitato che nella sua traiettoria
oscilla incessantemente a sinistra e a destra, e io con tutta l’anima bramo ciò a cui tendono tutta la
creazione e tutti i corpi terrestri in moto sempre più lento: alla pace!»14. Ma Kleist, per sua sfortuna
- anche se in fondo crediamo che non sarebbe poi cambiato molto, tanto il suo cuore era irrequieto e
straripante - non possiede una casa immersa nel verde, e allora si dedica all’erranza. Il suo è un
destino di erranza.
A Dresda, suggestionato dalle inestimabili bellezze artistiche della Gemäldegalerie e dalla musica
religiosa suonata nelle chiese, è scosso da impetuosi slanci religiosi. La vista di un fedele immerso
nella preghiera gli ispira parole di fuoco, indirizzate alla lontana fidanzata: «Nessun dubbio lo
tormenta. Lui crede. Io ho provato un indescrivibile desiderio di gettarmi per terra accanto a lui e di
piangere. Ah, solo una goccia d’oblio e con voluttà mi farei cattolico»15.
Il cuore e l’animo di Kleist sono in subbuglio, o meglio, in tempesta. Una tempesta violenta, che
innalza onde, spezza alberi maestri e straccia vele, e che non accenna a diminuire di intensità
nonostante l’azione del tempo. Kleist si sposta in continuazione. In poche settimane attraversa
mezza Germania per poi trasferirsi infine a Parigi. Ed è proprio durante il soggiorno parigino che
Kleist approda finalmente, dopo anni ed anni di dolorosi naufragi, al proprio porto: la scrittura. Lo
dimostrano queste parole indirizzate ancora a Wilhelmine: «Scriver libri per denaro - questo mai.
Perché trovo così poco per il mio bisogno, in un’ora solitaria (giacché esco assai poco) ho elaborato
un ideale: però non capisco come un poeta possa consegnare il figlio del suo amore a questa rozza
masnada che sono gli uomini. Lo chiamano bastardo. Mi piacerebbe condurti nella grotta dove
custodisco mio figlio, come una vestale il suo, al lume di una lampada. Perciò di questa possibile
branca di guadagno non se ne fa nulla. La disprezzo, per molti motivi e basta»16.
A Parigi Kleist inizia a lavorare alla sua prima opera, La famiglia Schroffenstein, ed inoltre matura
quella sua personale idea della donna che ha ispirato il presente lavoro. Riprendendo un quesito già
formulato nell’introduzione: se la verità è inconoscibile, allora cosa resta? Il cuore, nient’altro. E
ciò è riscontrabile soprattutto nella donna, come afferma lo stesso Kleist in una lettera indirizzata
all’amica Caroline von Schlieben: «[...] se l’uomo si riconosce dall’intelletto, la donna si riconosce
dal cuore [...]. C’è una certa bontà celeste con cui la natura ha contraddistinto le donne e che è
soltanto loro, tutto ciò che vi si accosta con un cuore lo stringe a sé con trepido affetto. Come fa il
sole [...] con tutti i corpi celesti che si trovano nel suo raggio d’azione [...] finché al termine del suo
cammino a spirale non riposano sul suo petto ardente»17.
Le donne si riconoscono dal cuore, il loro petto arde come arde il sole. A loro non interessano la
ragione, la verità, la conoscenza. Le donne sentono e provano senza nessun filtro, senza nessuna
mediazione, le loro sensazioni e le loro emozioni sgorgano impetuose ed istintive. Ed i personaggi
femminili di Kleist, nati con lui in seguito alla crisi kantiana, si caratterizzano proprio per questo
spontaneo, impulsivo, patetico e spesso drammatico aspetto, già a partire dall’Agnes de La famiglia
Schroffenstein.
2. La divina Agnes
14
Briefe von und Heinrich von Kleist 1793-1811, a cura di Klaus Müller-Salget e Stefan Ormanns, Deutscher Klassiker
Verlag, Frankfurt am Main 1997, trad. it. di Anna Maria Carpi, lettera del 9 aprile 1801.
15
Ivi, lettera del 21 maggio 1801.
16
Ivi, lettera del 10 ottobre 1801.
17
Ivi, lettera del 18 luglio 1801.
4
Per la creazione della sua prima opera, La famiglia Schroffenstein, Kleist trae evidentemente
ispirazione da William Shakespeare (1564-1616), ed in particolar modo dalla tragedia più celebre
del drammaturgo inglese: Romeo e Giulietta (1594-1596)18.
Già in questa prova d’esordio Kleist dimostra tutta la propria originalità: l’illustre modello letterario
di riferimento non viene freddamente imitato, ma singolarmente rielaborato. Ed è una
rielaborazione che riguarda sia la forma che il contenuto. In questo senso, nella Famiglia
Schroffenstein, rispetto alla tragedia tradizionale, fondata sulle antiche poetiche, e soprattutto sulla
poetica aristoteliana, è del tutto assente l’unità azione-spazio-tempo, mancano inoltre i cori, con la
loro funzione di commento, e i monologhi, attraverso i quali veicolare gli stati d’animo dei
personaggi e dunque spiegarne i comportamenti e gli atteggiamenti. Questo sul piano della forma.
Sul piano invece del contenuto, al centro dell’opera Kleist non pone l’amore tra i rampolli delle
famiglie rivali, come accade in Romeo e Giulietta, ma l’odio tra i padri. È l’odio il vero motore
dell’intera vicenda, e innesca uno dei temi in assoluto più cari a Kleist, che in seguito ricorrerà in
molti altri dei suoi lavori: l’impossibilità di comunicazione tra gli uomini e, di conseguenza, il loro
non riuscire a comprendersi19. Questi elementi di discontinuità, o meglio, di rottura con il passato,
sono evidenti manifestazioni del carattere avanguardista20 del Kleist drammaturgo, e permettono di
definire La famiglia Schroffenstein, secondo la felice intuizione di Anna Maria Carpi, un «noir di
pura azione»21.
Pubblicata anonima in Svizzera nel 1802, sebbene Kleist stesso la ritenga un’opera di scarso valore,
a tal punto da giungere persino a definirla un «miserabile scartafaccio»22, la tragedia ottiene un
grande ed unanime successo, entusiasmando la critica letteraria dell’epoca: ad insaputa dell’autore
va in scena il 9 gennaio 1804 all’importante Teatro Comunale di Graz, dopo quello di Praga il più
grande dell’impero Asburgico; Ludwig Ferdinand Huber (1764-1804) la esalta in «Der
Freimüthige», definendola «la culla del genio», Charlotte von Kalb (1761-1843), cara amica di
Schiller, individua in essa il «secondo paradiso più bello, e pure l’inferno», consigliandola con
entusiasmo a Jean Paul (1763-1825), che la inserisce, nella sua Propedeutica all’estetica (1804), tra
quelle opere che secondo lui compongono «un bel mattino poetico»23. Nessun’altra opera teatrale di
Kleist successiva alla Famiglia Schroffenstein godrà di un simile ed entusiastico consenso critico24,
e ciò perché quel carattere avanguardista dell’autore, cui ho accennato sopra, andrà via via
radicalizzandosi, fino a rendere incomprensibili per la società tedesca dei primi anni del XIX secolo
le opere di questo genio, innumerevoli passi avanti rispetto alla sua contemporaneità, ancora troppo
legata alla convenzionale tradizione.
Nella Famiglia Schroffenstein, ambientata in un immaginario Medioevo feudale in cui tuttavia non
mancano critici, taglienti e talvolta comici riferimenti all’attuale mondo borghese, due rami della
stessa famiglia sono in conflitto tra di loro. Da una parte il casato di Rossitz, con a capo il diabolico
e spietato Rupert, dall’altra il casato di Warwand, con a capo il più umano e mite Sylvester. Un
18
Anna Maria Carpi, Kleist, il «genio sinistrato», in H. v. Kleist, Opere, cit., p. XIV.
Ivi, p. XIV.
20
L’utilizzo del termine “avanguardia” ha lo scopo di mettere chiaramente in risalto il notevole scarto che separa Kleist
dalla sua contemporaneità, e allude al fatto che saranno proprio le avanguardie del Novecento a rivalutare la sua
produzione teatrale, per lo più bistrattata nel XIX secolo.
21
Anna Maria Carpi, Kleist, il «genio sinistrato», in H. v. Kleist, Opere, cit., p. XIV.
22
Notizie sui testi e note di commento, a cura di Anna Maria Carpi e Stefania Sbarra, in H. v. Kleist, Opere, cit., p.
1148.
23
Ivi, p. 1148.
24
Anna Maria Carpi, Kleist, il «genio sinistrato», in H. v. Kleist, Opere, cit., pp. XIV-XV.
19
5
conflitto aspro, che diviene sanguinoso ed autodistruttivo in seguito alla presunta uccisione da parte
degli uomini di Sylvester del piccolo Philipp, l’ultimogenito di Rupert, e che tuttavia non impedisce
ai rampolli dei due casati rivali, Ottokar ed Agnes, di amarsi. Ottokar non è però il solo ad amare
Agnes, anche il fragile fratellastro Johann nutre per la giovane lo stesso sentimento, ed è proprio
attraverso un dialogo tra i due che l’autore introduce e presenta al lettore e allo spettatore il
personaggio di Agnes (I, I).
I due personaggi attribuiscono ad Agnes tratti divini. Johann la paragona ad «una dea», Ottokar
invece «alla Madonna», battezzandola con l’evocativo nome di Maria. Queste due definizioni date
alla giovane, sostanzialmente opposte, la prima legata alla dimensione sensuale e pagana della
classicità, la seconda legata invece alla dimensione pura e solenne della cristianità, rivelano da
subito gli esiti ben differenti delle due esperienze amorose: quello di Johann è un amore non
corrisposto, che lo porterà prima a sfidare il fratello e poi a sprofondare nella follia, quello di
Ottokar è, al contrario, un amore fertile, fecondo, destinato a trionfare e schiantato, stroncato
solamente dalla violenza cieca dei padri. Il fatto che le opposte definizioni attribuite ad Agnes dagli
innamorati rivelino il dissimile destino dei due amori, è riconducibile allo stato d’animo
particolarmente tormentato di Kleist in quei mesi: il suo animo in subbuglio, sconvolto, lacerato
dalla crisi kantiana, durante il soggiorno a Dresda (come già scritto nel primo capitolo, una delle
tappe precedenti all’approdo a Parigi), si rivolge con passione e commozione ai valori, agli ideali
cattolici, sospinto dall’ascolto della musica religiosa e dall’estatica contemplazione, nella
Gemäldegalerie, dell’impressionante Madonna Sistina di Raffaello25. È lo stesso Kleist a parlarne
con impeto e fervore in una lettera indirizzata alla fidanzata Wilhelmine: «Credo che in tutto il mio
viaggio imminente non troverò una città, neppure Parigi, in cui le distrazioni siano così agevoli e
gradevoli come a Dresda. Nulla poté allontanarmi, senza che ne restasse alcun ricordo, dal triste
territorio della scienza quanto le opere d’arte accumulate in questa città. La pinacoteca, i calchi in
gesso, la raccolta di antichità, la collezione di incisioni in rame, la musica religiosa nella chiesa
cattolica: sono, queste, tutte cose che è possibile godere senza il ricorso all’intelligenza, poiché
agiscono soltanto sul sentimento e sul cuore. Non appena entrai in questo mondo colmo di bellezza,
del tutto nuovo per me, mi sentii benissimo. Ogni giorno tornai ad ammirare gli ideali greci e i
capolavori dell’arte italiana, e nella pinacoteca rimanevo per ore e ore davanti all’unico Raffaello di
questa collezione, davanti a quella Madonna dalla solenne serietà e dalla pacata grandezza che nei
suoi lineamenti mi ricorda, oh, Guglielmina, due creature amate... [...] Ma in nessun luogo provai
una così profonda commozione come nella chiesa cattolica, in cui la musica più solenne e più
edificante si unisce alle altre arti per scuotere violentemente il cuore. Oh, Guglielmina, il nostro non
è un servizio divino. Esso si rivolge soltanto al freddo raziocinio, mentre i riti cattolici parlano a
tutti i sensi. Nel mezzo, davanti all’altare, su uno dei gradini più bassi, stava inginocchiato, isolato
dagli altri, un uomo con il capo chinato sui gradini più alti, immerso nella più fervida preghiera.
Non era tormentato da alcun dubbio, lui “aveva fede”... provai un indescrivibile desiderio di
25
Oltre a Kleist molti altri scrittori hanno subito il fascino irresistibile della tela. Ricordo Goethe, Schopenhauer,
Nietzsche, Freud. Ma il caso più eclatante è forse quello di Fëdor Dostoevskij (1821-1881), che, durante la
composizione dei Demòni (1873), nei giorni bui, funesti, minacciati dalla terribile malattia, in cui l’inquietudine e
l’angoscia lo stringevano in una feroce morsa dalla quale gli era impossibile liberarsi, animato da quel suo ardente e
totalizzante fervore religioso tipicamente russo, si rifugiava nella pinacoteca di Dresda e si perdeva per ore ed ore
nell’inebriante contemplazione della Madonna Sistina.
6
inginocchiarmi al suo fianco e di piangere. Oh, una sola goccia di oblio e con voluttà mi farei
cattolico...»26.
Johann ed Ottokar considerano Agnes come un’entità sovrannaturale, ornata di qualità divine. In
realtà la giovane è innanzitutto una donna ed agisce come tale, abbandonandosi istintivamente al
proprio sentire, sottomessa alle irrazionali leggi del cuore e dunque del tutto indifferente ai freddi
calcoli della ragione. Così Agnes vive il suo amore per Ottokar pienamente, con coraggio e
noncuranza, dimentica del pericolo che incombe su di lei. C’è una scena della tragedia, la prima del
III atto, in cui più di ogni altra questo aspetto caratteristico del personaggio di Agnes si manifesta
con estrema chiarezza. Ella è ben consapevole della condanna a morte che pende su di lei all’inizio della Famiglia Schroffenstein tutti i componenti del casato di Rossitz, Ottokar compreso,
giurano dinanzi a Dio, in occasione delle esequie del piccolo Philipp, di voler sterminare i rivali di
Warwand - eppure non rinuncia al suo amore per Ottokar e, pur temendo che l’acqua sia avvelenata,
beve. Inoltre dubita. Dubita che siano stati proprio gli uomini del padre, Sylvester, ad uccidere
Philipp. Se l’amato non si spinge oltre la confessione dei presunti colpevoli della morte del fratello
minore - confessione comunque ambigua e dai molti lati oscuri in quanto estorta sotto tortura - la
giovane crede invece nel «sentimento della bontà d’animo d’altri».
Un’altra evidente manifestazione del carattere irrazionale e puramente sentimentale27 di Agnes, è
rappresentata dalla prima scena del V ed ultimo atto, quella dello scambio degli abiti. Senza opporre
resistenze la giovane si lascia spogliare da Ottokar, incurante di quanto, secondo le convenzioni
sociali dell’epoca, ciò sia sconveniente e scandaloso. Ma ad Agnes non importa, il suo amore è
sconfinato, totale e sovrasta, annichilisce qualunque altro aspetto della sua esistenza. Alla giovane
basta avere accanto l’adorato Ottokar. Tutto il resto è superfluo, inutile. Tuttavia lo stratagemma
escogitato dall’amato non va a buon fine, anzi, si ritorce contro i due innamorati. I padri, furiosi, si
avventano infatti con veemenza contro i figli, uccidendoli entrambi - Rupert trafigge Ottokar
credendolo Agnes e Sylvester trafigge Agnes credendola Ottokar. E solamente dopo l’orrendo
misfatto si verrà a sapere che tutto questo sangue innocente è stato versato a causa di un errore, di
un malinteso innescato dall’incomprensione.
Il sogno di felicità coniugale come sublimazione del sentimento amoroso, esaltato nell’ultimo atto
della tragedia, resta tale ed Agnes, la prima delle eroine kleistiane, paga a caro prezzo, con la vita,
quel suo caratteristico abbandonarsi con tutta se stessa all’irrazionale ed impetuoso volere del cuore.
Non sarà l’unica.
3. L’ingannata Alcmena
Così come per la creazione della Famiglia Schroffenstein, anche per la creazione dell’Anfitrione
Kleist trae ispirazione da un illustre modello letterario del passato: l’omonima commedia
seicentesca di Molière (1622-1673)28. Dall’opera del commediografo francese Kleist riprende
l’inizio e l’epilogo, pressoché invariati, e la presenza del doppio: Sosia-Mercurio e AnfitrioneGiove. Per quanto riguarda tutto il resto, Kleist rielabora completamente l’Anfitrione, in un certo
senso lo ristruttura, ammodernandolo. Così, se in Molière Alcmena si dissolve, svanisce nel nulla
26
H. v. Kleist, Lettere alla fidanzata, a cura di Ervino Pocar, SE Studio Editoriale, Milano 1985, lettera del 21 maggio
1801.
27
Il termine “sentimentale” non viene qui utilizzato nella sua accezione romantica, schilleriana. Semplicemente, indica
l’incondizionato abbandono di Agnes al proprio sentire.
28
Anna Maria Carpi, Kleist, il «genio sinistrato», in H. v. Kleist, Opere, cit., p. XVII.
7
alla fine del secondo atto, in Kleist diviene l’indiscussa protagonista dell’opera. Questo perché
l’obiettivo dell’autore tedesco è creare un dramma dell’io che rappresenti una profonda crisi
interiore, e l’idea kleistiana della donna si adatta alla perfezione ad un tale obiettivo - come
vedremo più avanti, nell’universo ordinato, logico e razionale dell’uomo la donna rappresenta
l’infrazione, la rottura. Inoltre Kleist aggiunge due ideazioni che contribuiscono a rendere il suo
lavoro ulteriormente originale e moderno. Il Giove kleistiano, solo nella sua onnipotenza, nella sua
eternità, prova un impellente bisogno d’amore, ed è attratto da Alcmena perché solamente una
creatura umana, dunque terrena e, soprattutto, mortale, è capace di amare29:
GIOVE
[...]
Anche l’Olimpo è vuoto senza amore.
Cosa può offrire alla sua grande sete
l’adorazione di folle servili?
Vuole lui stesso essere amato, non
che sia lo spettro del loro delirio30.
È del tutto inedito ed innovativo anche l’inserimento di una sorta di inno in cui il dio canta, o
meglio, esalta la creatura ideale, colei che vive in perfetta sintonia con il creatore e dunque con il
tutto. Il tema dell’amore, trattato da Kleist in precedenza nella Famiglia Schroffenstein - in cui
tuttavia, come abbiamo visto, fa da contraltare all’odio, vero motore dell’intera vicenda - e
successivamente nella Pentesilea e nella Käthchen di Heilbronn, raggiunge in questi splendidi versi
di goethiana memoria, vette liriche elevatissime31:
GIOVE
Mia dolce, adorata creatura!
Felice, sì, felice, io mi compiaccio
in te. Così conforme al pensiero divino
per forma e per misura, accordo e suono
come nessuna me ne uscì di mano
dalla notte dei tempi32.
Sono evidenti i motivi di queste differenze tra l’Anfitrione di Molière e quello di Kleist. Il
commediografo francese vuole offrire alla corte, suo habitat naturale, una parodia delle capricciose
bizze e dei comici dissidi matrimoniali dell’autorità monarchica33. Al contrario Kleist vuole creare,
come già accennato, un dramma dell’io, rispondendo a quella nuova esigenza letteraria di
psicologia ed esplorazione interiore che culminerà, di lì a qualche decennio, nella nascita di un
nuovo genere, il romanzo psicologico.
29
Ivi, p. XVIII.
H. v. Kleist, Anfitrione, trad. it. di Roberta De Monticelli, in H. v. Kleist, Opere, cit., p. 253.
31
Notizie sui testi e note di commento, a cura di Anna Maria Carpi e Stefania Sbarra, in H. v. Kleist, Opere, cit., p.
1168.
32
H. v. Kleist, Anfitrione, trad. it. di Roberta De Monticelli, in H. v. Kleist, Opere, cit., p. 255.
33
Notizie sui testi e note di commento, a cura di Anna Maria Carpi e Stefania Sbarra, in H. v. Kleist, Opere, cit., p.
1167.
30
8
Al momento dell’uscita dell’Anfitrione, la prima opera pubblicata da Kleist con il suo nome, nel
1807, la critica reagisce in modi differenti. C’è chi considera il lavoro di Kleist niente di più che una
semplice traduzione in lingua tedesca del testo originale di Molière; chi invece lo interpreta in
chiave politica, dunque antifrancese (l’Anfitrione esce l’anno successivo all’occupazione di Berlino
da parte delle milizie di Napoleone), esaltandone la profondità e la sacralità, del tutto assenti
nell’opera frivola e superficiale di Molière; chi infine lo considera un lavoro in tutto e per tutto
romantico. Ed è proprio grazie a quest’ultimo approccio critico, che accosta Kleist ad autori
romantici dell’epoca come Brentano, Arnim, Jean Paul e Hoffmann, che l’opera riesce ad ottenere
qualche favore di pubblico. Un favore tuttavia ben presto cancellato dai giudizi eccessivamente
duri, eccessivamente severi di Tieck e Goethe34. Delle tre chiavi di lettura fornite dalla critica del
tempo, nessuna coglie il senso più profondo dell’Anfitrione di Kleist, e ciò dimostra chiaramente
quanto l’autore fosse distante dalla contemporaneità e dunque incomprensibile per essa. Risibile e
persino offensivo l’intravedere nell’opera kleistiana una semplice traduzione, fuorviante e riduttivo
interpretarla politicamente - Kleist è sì un convinto antifrancese, ma saranno altri lavori ad andare
dichiaratamente in questa direzione, e penso per esempio alla Battaglia di Arminio - troppo comodo
considerarla un’opera romantica. Kleist, con il suo Anfitrione, si spinge ben al di là di tutto ciò,
nelle più profonde, recondite ed insondate regioni dell’io umano, approdando infine, come vedremo
più avanti, ad una dimensione di assurdità ed insensatezza nella quale all’individuo non resta altro
da fare che sospirare.
Tornando al testo, le infuocate ore di passione tra Alcmena e Giove, nelle sembianze di Anfitrione,
si sono appena concluse, ed il dio adduce a pretesto gli impegni bellici per lasciare la donna (I, IV).
Giove parla di guerra, di patria, di gloria, ma Alcmena, talmente presa dall’amore, in balia del suo
più intimo sentire, del suo sconfinato sentimento, non lo può comprendere. Al cospetto di un cuore
che ama persino la gloria, il potere, la ricchezza possono apparire insignificanti. In questo caso è
evidente lo scarto chilometrico che separa l’Alcmena di Molière, intrisa d’orgoglio per le gesta del
marito e sempre pronta ad assolvere la sua funzione pubblica, dall’Alcmena di Kleist, che con gioia
baratterebbe l’inestimabile diadema con qualche fiorellino di campo35. Inoltre Giove parla di
matrimonio in termini di legge e di dovere, ma anche queste sono parole incomprensibili per
Alcmena. Ella domanda all’amato come possa angustiarlo una legge del mondo ed è proprio in
questo tratto che la donna si manifesta come infrazione, come rottura all’interno dell’ordinato,
logico e razionale universo dell’uomo. Dissolta ogni certezza, svanita ogni possibilità di
raggiungere la verità, in seguito alla traumatica scoperta di Kant, la componente femminile
rappresenta per Kleist quel che resta: il cuore, il sentimento.
Solamente grazie al decisivo aiuto di Charis, dunque di un elemento esterno, imparziale Alcmena si
accorge che sul monile di Labdaco non è incisa una «A.», bensì una «G.», avvedendosi così
dell’inganno (II, IV). Come è stato possibile un simile, grossolano abbaglio? La donna, travolta
dalla passione amorosa, ha visto una lettera invece di un’altra perché proprio quella lettera voleva
vedere e nessun’altra. La ragione è sottomessa al cuore, e non solo la ragione, ma anche i sensi,
come sottolinea la stessa Alcmena poco più avanti. Ma anche il cuore può sbagliare, sì, anche il
cuore, ed ora che la protagonista si è avveduta dell’incredibile errore reagisce rifiutando e
respingendo quel che prova e sente nell’intimo. Giove la giustifica, per il dio Alcmena non ha
alcuna colpa, resta comunque pura, innocente. E in effetti la protagonista ha numerose attenuanti
34
35
Ivi, p. 1171.
Ivi, p. 1173.
9
che scusano il suo madornale fallo: scaltro e subdolo Giove le si è presentato come l’idealizzazione
del marito Anfitrione e Alcmena non poteva certo notare la cifra differente impressa sul diadema in
quanto, come già accennato, il cuore sovrasta i sensi e fa vedere ciò che si vuole vedere, anche se in
realtà non esiste.
La vicenda si chiarisce definitivamente, la matassa dell’intreccio si dipana quando Giove si mostra,
in un tripudio di lampi, tuoni e nubi impreziosito dal volo di un’aquila che stringe la folgore.
L’opera si conclude con il celebre sospiro di Alcmena, quel sordo «Ach!» divenuto topos letterario,
che racchiude il senso più profondo dell’Anfitrione kleistiano. In questo lavoro Kleist si è voluto
spingere oltre, persino oltre il cuore, oltre il sentimento e sperimentando, sondando le profondità
umane, ed in particolar modo le profondità femminili, è approdato ad una nuova via, una terza via
dopo quelle della ragione e del cuore: la via dell’assurdo, del nonsenso, nella quale è impossibile
ogni forma di linguaggio e nella quale all’individuo è concesso solo sospirare.
4. La bestiale Pentesilea
A differenza della Famiglia Schroffenstein e dell’Anfitrione, per la creazione della Pentesilea Kleist
non trae ispirazione da un illustre modello letterario del passato, ma dalla narrazione mitologica, la
quale passa attraverso l’iconografia e una tradizione letteraria discontinua e composita36. Anche in
questo caso l’autore tedesco attua una originale rielaborazione della vicenda, che capovolge e
dunque sconvolge. Così, se per la tradizione Achille si innamora di Pentesilea dopo averla ferita a
morte, nella tragedia di Kleist l’Amazzone - la maiuscola indica lo status della protagonista, regina
di questo bellicoso popolo femminile radicalmente matriarcale - si innamora del Pelide, e ne è
ricambiata, ma, preda di un incontrollabile impeto passionale, erotico, lo uccide. Il carattere
avanguardista37 dell’autore non si manifesta tanto nel capovolgimento del mito, quanto nel modo
brutale in cui Pentesilea pone fine all’eroica vita di Achille: insieme alle sue fameliche cagne anch’esse tutte rigorosamente femmine - l’Amazzone sbrana il Pelide. In questo modo, attraverso
lo sconvolgente ed orrido epilogo, Kleist demolisce con violenza l’ideale della classicità imposto in
quell’epoca da Winckelmann, che vedeva nei Greci «nobile semplicità e quieta grandezza», e
consolidato da Wieland, Schiller e Goethe38 - di quest’ultimo vien subito da pensare ad un’opera in
particolare, Ifigenia in Tauride (1787), nella quale l’eterea protagonista è l’incarnazione di un
perfetto ideale di pace ed umanità39.
Il pubblico e la critica non sono pronti per un tale stravolgimento e il dramma, composto tra il 1806
ed il 1807, e pubblicato prima in forma ridotta, nel primo numero del «Phöbus» con il titolo
Frammento organico della tragedia Pentesilea, poi in versione integrale nel 1808, suscita
imbarazzo e talvolta persino ribrezzo - ovviamente anche in Goethe, al quale Kleist, animato da uno
sconfinato sentimento di ammirazione, invia una copia del numero d’esordio della rivista,
accompagnata dalla struggente, ma inutile ed incompresa dedica «sulle ginocchia del mio cuore»40.
Roberto Nicolai, Un caso di traduzione intergenerica: Pentesilea dall’epos arcaico al dramma romantico, in Scienze
dell’Antichità 20.3, 2014. Dell’arte del tradurre. Problemi e riflessioni, a cura di A. M. Belardinelli, Edizioni Quasar,
2015.
37
Si veda la nota 20.
38
Anna Maria Carpi, Kleist, il «genio sinistrato», in H. v. Kleist, Opere, cit., p. XIX.
39
Roberto Fertonani, Ifigenia in Tauride, in J. W. Goethe, Ifigenia in Tauride, introduzione, traduzione e note di
Roberto Fertonani, Garzanti Editore, Milano 2008, p. XXIX.
40
Anna Maria Carpi, Kleist, il «genio sinistrato», in H. v. Kleist, Opere, cit., p. XXI.
36
10
Eccetto gli isolati pareri favorevoli dei romantici Ludwig Uhland (1787-1862) e Friedrich de la
Motte Fouqué (1777-1843), sono le cifre a dare l’esatta misura dell’incompatibilità del lavoro di
Kleist con il proprio tempo: nel 1885 i 750 esemplari della Pentesilea stampati nel 1808 non sono
ancora esauriti41.
Kleist crea inoltre un’ambientazione originale e straniante, niente affatto convenzionale, e questo
nuovo ed eccentrico paesaggio riflette tutta l’impetuosa sensualità e la carica erotica dei
protagonisti. La rielaborazione dell’autore tedesco non riguarda solamente la vicenda, il contenuto,
ma, come già accaduto nella Famiglia Schroffenstein, anche la forma. Kleist abbandona infatti la
tradizionale suddivisione in atti e riparte la tragedia in 24 scene, tante quante sono i libri dell’Iliade,
che ricorda inoltre nel copioso utilizzo della similitudine42.
Ciò che rende la Pentesilea unica all’interno della vasta e varia produzione kleistiana è il suo
carattere autobiografico. La tragedia infatti assume talvolta i tratti della confessione 43, in una ricomposizione mitografica della propria esperienza esistenziale, del resto Kleist stesso, in una lettera
indirizzata alla cugina Marie, confessa di aver riversato nella Pentesilea tutto il suo più intimo
essere, «tutta la sozzura e tutto lo splendore» della sua anima44. In particolar modo, come vedremo
più avanti, alcune battute dell’Amazzone, soprattutto quando la protagonista è in preda alla
disperazione, ricordano molte delle parole scritte dall’autore nelle sue epistole personali.
Gettando uno sguardo al testo, in apertura della Pentesilea Kleist, attraverso la rielaborazione della
Teichoskopie45, introduce la vicenda servendosi del punto di vista dei Greci, ed in particolare di
Ulisse, il quale peraltro, sorprendentemente, anticipa la conclusione del dramma. Gli Ellenici non
capiscono, non possono capire il comportamento delle Amazzoni, riflesso della volontà della loro
regina. Per quanto cerchino di indagare, per quanto calino «la sonda del pensiero», i Greci non
riescono a raccapezzarsi, non riescono a trovare il bandolo della matassa. Per Ulisse in natura esiste
«soltanto forza, e resistenza ad essa, non una terza cosa». Questa «terza cosa» è il cuore, il
sentimento, qualcosa di talmente inconcepibile per i Greci da non riuscire neppure a nominarlo.
Diomede poi dimostra di fraintendere completamente la ragione dell’atteggiamento di Pentesilea.
Crede che l’Amazzone provi un «odio personale» nei confronti di Achille, ma in realtà è amore. Né
Ulisse né Diomede, nella loro logica bellica e raziocinante, che non prevede altro che vittoria o
sconfitta, trionfo o disfatta, possono comprendere il sentimento amoroso.
In più occasioni i Greci paragonano Pentesilea, travolgente nella sua ferocia guerresca, ad un
animale. Antiloco la definisce «iena» e «belva inferocita». Questo perché ai loro occhi il
comportamento irragionevole, insensato dell’Amazzone ricorda molto più quello di una bestia che
quello di una creatura umana. I Greci non comprendono, eccetto uno, Achille, l’amato. Tuttavia è
evidente la distanza incolmabile che separa il sentimento del Pelide, prototipo del virile seduttore
(«In vita mia, mai mi ritrassi di fronte ad una bella; da quando la barba mi è spuntata, amici cari, lo
sapete, volentieri ho assecondato le voglie di ciascuna [...]»), da quello di Pentesilea. Lo scopo di
41
Notizie sui testi e note di commento, a cura di Anna Maria Carpi e Stefania Sbarra, in H. v. Kleist, Opere, cit., p.
1181.
42
Anna Maria Carpi, Kleist, il «genio sinistrato», in H. v. Kleist, Opere, cit., p. XIX.
43
Notizie sui testi e note di commento, a cura di Anna Maria Carpi e Stefania Sbarra, in H. v. Kleist, Opere, cit., p.
1176.
44
Anna Maria Carpi, Kleist, il «genio sinistrato», in H. v. Kleist, Opere, cit., p. XXI.
45
La Teichoskopie è una tecnica narrativa piuttosto diffusa nella letteratura greca, e consiste nella descrizione dei fatti
dal punto di vista di un personaggio collocato in posizione elevata rispetto al luogo vero e proprio dell’azione.
L’esempio più celebre di Teichoskopie è senza dubbio rappresentato dai versi 121-244 del III libro dell’Iliade.
11
Achille è saziare i propri istinti fisici e dimostrare la propria superiorità maschia, mentre
l’Amazzone è animata dal sogno di un amore totale, quasi trascendentale.
In precedenza ho accennato al carattere autobiografico della tragedia, e al fatto che in alcune battute
pronunciate da Pentesilea sia in realtà Kleist stesso a parlare, in prima persona. Un esempio
evidente di ciò lo troviamo nella V scena, dove nelle parole dell’Amazzone troviamo concentrata
tutta la sete di gloria dell’autore. E nella triste e tragica vicenda esistenziale di Kleist la gloria gioca
un ruolo fondamentale. L’impossibilità di ottenere il tanto agognato successo, il tanto sospirato
riconoscimento, sarà tra le cause principali del suo suicidio.
Se i Greci, come già scritto, in quanto uomini, non possono comprendere gli atteggiamenti di
Pentesilea - eccezion fatta per Achille, l’amato, che comunque non comprende del tutto -, le
Amazzoni, in quanto donne, sì.
Ciò che fino ad ora è stato solo accennato, l’amore sconfinato di Pentesilea per Achille, si chiarisce
definitivamente attraverso le parole della diretta interessata (IX). E dopo la chiarificazione del
sentimento, dopo la confessione, Kleist in poche battute rappresenta l’intero corso di un amore non
corrisposto (IX). Alla delusione segue la rabbia, Pentesilea straccia le corone di fiori, poi la
rassegnazione, racchiusa nella battuta «La mia anima è spossata a morte!». In questa scena emerge
inoltre l’essenza della femminilità della protagonista, il suo essere donna ancor prima che guerriera:
«[...] meglio essere polvere, che una donna che non seduce».
Quando manca ancora molto alla conclusione della tragedia, il destino di Pentesilea è già segnato,
l’epilogo tragico già scritto, annunciato. Non si può redimere un cuore, per di più se innamorato. La
ragione si prostra impotente al suo cospetto. Più volte la fedele ed amorevole Protoe esorta la regina
alla fuga, la sprona, presagendo il dramma, ma ogni tentativo è vano. Un amore pieno, totale,
condiviso è impossibile. Inoltre nelle parole di Pentesilea, «bisogna che capisca... e che capisca che
ho perduto» (IX), riecheggia sinistro, come il cigolio di una vecchia porta non oliata, il destino
drammatico di Kleist, la sua dipartita volontaria e prematura.
È Protoe, personaggio determinante, a pronunciare parole fondamentali, di un’importanza
straordinaria, che sottolineano la netta e radicale differenza che separa le donne dagli uomini:
PROTOE [...] Quante cose si agitano nel cuore delle donne, che non sono fatte per la luce del giorno! [...]46.
Eppure tutto, ma proprio tutto ciò che si agita nel cuore di Pentesilea eromperà alla luce del giorno.
E proprio per questo motivo l’Amazzone si avventerà sull’amato Achille. Dall’incapacità della
protagonista di reprimere, o quantomeno nascondere, i suoi impeti tempestosi, deriverà la sua
disumana metamorfosi in bestia, in cagna famelica avida di carne umana.
Come se non bastasse, anche nell’ambito istituzionale Pentesilea manifesta il suo caratteristico e
prorompente sentimentalismo. Ella infatti sostituisce alla norma l’effetto47.
A sorpresa c’è spazio per l’idillio, lungo un’intera scena, la XV, che però si infrange bruscamente,
come il sogno matrimoniale di Agnes ed Ottokar, come l’illusione di Alcmena che Giove fosse
davvero Anfitrione. Achille svela la verità all’Amazzone, è stato l’eroe ad atterrare in battaglia la
regina, non il contrario, ed ora il vincitore esige la preziosa posta in palio.
46
H. v. Kleist, Pentesilea, trad. it. di Enrico Filippini, in H. v. Kleist, Opere, cit., pp. 338-339.
Notizie sui testi e note di commento, a cura di Anna Maria Carpi e Stefania Sbarra, in H. v. Kleist, Opere, cit., p.
1185.
47
12
Pentesilea accetta con ira il falso duello proposto dal Pelide, sprofonda nella follia ed è magnifico
l’urlio dei cani che la circondano, in una sorta di solidarietà ferina, animalesca, bestiale. Nel
frattempo Achille svela a Diomede il suo piano, il suo stratagemma. Il duello non è che un pretesto
per assecondare la legge delle Amazzoni. Achille finge, calcola, ragiona e, soprattutto, crede di
sapere come agirà Pentesilea, «lei non mi farà niente» (XXI), grida a Diomede sicuro ed
egocentrico. Il Pelide si sottomette alla legge anche nell’amore, organizza una messa in scena per
rispettare il codice legislativo delle amazzoni, per seguire la norma secondo la quale il prigioniero
deve necessariamente cadere in battaglia. Ma Achille si sbaglia, egli non può neanche lontanamente
immaginare cosa sta accadendo in quegli istanti a Pentesilea, che «imperversa, con la schiuma alle
labbra, tra le sue cagne, e chiama sorelle quelle ululanti bestie» (XXII). La metamorfosi è oramai
completa e l’Amazzone, tra le bestie, è divenuta essa stessa bestia. Così, strisciante, si avventa sul
vigoroso corpo di Achille e lo sbrana, con veemenza, con ferocia, con voluttà, affamata.
L’AMAZZONE Pentesilea, per terra, unita ai cani inferociti, lei che è stata partorita da un grembo umano, e
strazia... e strazia le membra del Pelide!48
Kleist dà vita a pagine tra le più sconvolgenti, orrende e potenti dell’intera storia della letteratura49.
L’immagine di Pentesilea che, carponi, la bocca grondante sangue, strazia e divora le carni di
Achille come una furia si imprime nella mente del lettore per non andarsene più. Resta lì
quell’immagine, accovacciata negli anfratti della memoria, pronta a sbucare fuori da un momento
all’altro e a ricordare con spaventosa chiarezza quanto possa essere orribile e disumano, persino
cannibalesco, un amore spinto oltre il limite.
Tornata in sé, rinsavita dopo l’insano gesto, l’Amazzone osserva il cadavere smembrato del Pelide,
dell’amato e celebra la morte: la meravigliosa e sospirata festa delle rose diviene una macabra
«festa dei vermi» (XXIV). Quindi Pentesilea giunge persino a giustificare il proprio gesto,
pronunciando la celebre battuta nella quale sostiene che «Küsse» fa rima con «Bisse» (XXIV).
Ora a Pentesilea non resta che morire, non resta che togliersi la vita per cancellare e, soprattutto,
dimenticare ciò che è stato. Qualunque altro epilogo sarebbe stato impossibile. Dopo quanto
accaduto, la vita non sarebbe stata altro che un insostenibile compromesso senza senso. Dopo aver
ucciso Pentesilea si uccide, proprio come l’autore.
Nella Pentesilea Kleist scava nel cuore umano in profondità, varca la soglia oltre la quale mai
nessuno si era spinto prima, con entusiasmo si getta nell’oblio, là dove il sentimento è radicalizzato,
esasperato e compie una scoperta sconvolgente: se si spinge la passione, nella fattispecie la passione
amorosa, oltre il limite, si giunge alla follia, addirittura all’imbestiamento e infine, inevitabilmente,
alla fine di ogni cosa, al buio sempiterno, al silenzio assoluto, ovvero: alla morte.
5. La devota Käthchen
Negli stessi mesi in cui compone la tragedia Pentesilea, in un intenso fervore creativo e dunque
produttivo, Kleist compone anche la commedia seria a lieto fine Käthchen di Heilbronn ovvero la
prova del fuoco. Le protagoniste delle due opere sono facce della stessa medaglia, come scrive
48
H. v. Kleist, Pentesilea, trad. it. di Enrico Filippini, in H. v. Kleist, Opere, cit., p. 371.
In questo senso, personalmente ricordo di aver trovato una tale e sconvolgente potenza nel maledetto capitolo Da
Tichon dei Demòni (1873) di Dostoevskij e nell’assurdo incipit della Metamorfosi (1915) di Kafka.
49
13
l’autore stesso nell’autunno del 1807 in una lettera indirizzata alla cugina Marie: «Mi ha
infinitamente commosso ciò che lei mi scrive di Pentesilea. [...] Ora sono solo curioso di sapere che
cosa dirà di Käthchen von Heilbronn poiché è il rovescio di Pentesilea, un essere tanto potente per
la sua dedizione quanto quella per il suo agire...»50. Concetto ribadito con ancora maggiore
chiarezza qualche mese più tardi al poeta austriaco Heinrich Joseph von Collin (1771-1811),
sovrintendente del Burgtheater di Vienna: «A chi ama Käthchen non può riuscire incomprensibile
Pentesilea, sono legate come il + e il - dell’algebra»51.
Se, come già scritto nel capitolo precedente, per la creazione della tragedia Kleist attinge
direttamente alla narrazione mitologica, per la creazione della commedia trae invece ispirazione
dalle lezioni sul sonnambulismo tenute dal medico e naturalista Gotthilf Heinrich Schubert (17801860), autore del testo Aspetti del lato notturno delle scienze naturali (1808), e seguite in prima
persona, con passione ed entusiasmo, a Dresda durante l’inverno 1807-180852. L’autore tedesco,
abbandonata la scienza in seguito alla crisi dovuta alla scoperta della filosofia di Kant, si avvicina al
cuore umano, al sentimento e a questi nuovi saperi il cui oggetto di studio è l’uomo nei suoi aspetti
più misteriosi e primordiali. In questo senso, non è certo un caso se Kleist, nelle pagine conclusive
della Käthchen, come vedremo più avanti, opererà una violenta critica alla scienza del proprio
tempo, oramai solamente al servizio del progresso incontrollato. Critica che in un certo senso si
potrebbe paragonare al concetto di ”Instrumentelle Vernunft” (“ragione strumentale”) teorizzato nel
Novecento da Max Horkheimer (1895-1973), tra i massimi esponenti della Scuola di Francoforte53.
Secondo Schubert il sonnambulo possiede l’eccezionale capacità di scrutare all’interno dei corpi,
oltre i muri, ed è in grado di compiere con straordinaria naturalezza, sebbene sprovvisto dei sensi,
azioni solitamente difficoltose. È da queste nozioni che possiamo dedurre il motivo del fervido
interesse di Kleist per il sonnambulismo: in esso l’autore tedesco intravede un’affinità con la
febbrile attività poetica, fitto dialogo di difficile decodificazione tra la componente sensoriale e la
componente psichica, dunque inconscia, dell’uomo54. Le teorie di Schubert, non ponendo più alcun
limite tra il sonnambulismo, il sogno e l’allucinazione causata dalla brama, corrispondono in
sostanza alla visione romantica dell’arte, Kleist ne è del tutto consapevole, e infatti senza troppi
indugi definisce la Käthchen, tra tutte le sue opere scritte fino a quel momento, quella più
«romantica»55. Non solo la più romantica, ma anche, proprio per questa ragione e per il fatto che la
casta e devota protagonista incarna l’ideale di donna cui anela il pubblico femminile borghese
dell’epoca, l’opera kleistiana più rappresentata dell’Ottocento, soprattutto nella prima metà del
secolo, anche se in una versione notevolmente rimaneggiata56.
La commedia, pronta già nel 1807, ma messa in scena e pubblicata solamente tre anni dopo, nel
1810, entusiasma Brentano, Hoffmann, che nel sonnambulismo descritto da Kleist trova «l’essenza
50
Briefe von und Heinrich von Kleist 1793-1811, a cura di Klaus Müller-Salget e Stefan Ormanns, Deutscher Klassiker
Verlag, Frankfurt am Main 1997, trad. it. di Anna Maria Carpi, lettera dell’autunno 1807.
51
Ivi, lettera dell’8 dicembre 1808.
52
Anna Maria Carpi, Kleist, il «genio sinistrato», in H. v. Kleist, Opere, cit., p. XXII.
53
Secondo il filosofo tedesco, a partire dall’età moderna, la ragione non si pone più lo scopo di stabilire i fini razionali,
ma i mezzi necessari al conseguimento degli obiettivi. In tal modo essa diviene “strumentale”, cioè assoggettata alle
norme dell’ordine sociale vigente. Così per Horkheimer si giunge ad una materializzazione della natura e ad una
spersonalizzazione dell’individuo. L’uomo, sprovvisto di volontà, non è più libero, e la sua anima è ridotta a mera
«cosa» dalla società industriale.
54
Notizie sui testi e note di commento, a cura di Anna Maria Carpi e Stefania Sbarra, in H. v. Kleist, Opere, cit., p.
1188.
55
Ivi, p. 1188.
56
Ivi, p. 1190.
14
del romanticismo»57, e Wilhelm Grimm; meno, molto meno il fratello Jacob, Friedrich Schlegel e,
verrebbe quasi da dire ovviamente, Goethe, che pare l’abbia addirittura gettata tra le fiamme58.
La Käthchen si apre con un’udienza del Tribunale Segreto. Il fabbro Theobald Friedeborn ha citato
in giudizio il conte Friedrich Wetter vom Strahl, accusandolo di aver soggiogato, attraverso
l’utilizzo di misteriose pratiche magiche, diaboliche la figlia Käthchen, promessa sposa del giovane
possidente Gottfried Friedeborn. Incalzato dalle domande del conte Otto von der Flühe, presidente
del Tribunale, di Wenzel von Nachtheim e Hans von Bärenklau, i due coadiutori, l’umile fabbro,
provato, riepiloga la vicenda esistenziale della figlia e racconta, con dovizia di particolari, il primo,
decisivo incontro tra la giovane e Strahl (I, I). Dalle parole di Theobald si intuisce da subito tutta la
potenza del sentimento di Käthchen, che, incurante delle conseguenze, agisce impetuosamente. Così
si getta da trenta piedi, quasi per abbracciare in volo il conte vom Strahl, indifferente all’inevitabile
ed atroce dolore fisico, fracassandosi «i suoi due femori delicati, appena sopra le rotule d’avorio».
Così, rialzatasi dal letto di morte dopo «sei settimane interminabili», abbandona la casa paterna e si
mette sui passi del cavaliere, indifferente alle inesorabili maldicenze che scaturiranno da questa sua
sconveniente azione. Ed è proprio il padre il primo, implacabile, severo e arcigno critico; dopo il
racconto di come tutto ebbe inizio infatti, definisce la figlia prima una «baldracca» - perché così
appare la giovane agli occhi della società, e più di una volta nel corso della commedia verrà additata
con questo sgradevole e bigotto epiteto -, poi un «cane che lecca il sudore del padrone» e infine una
«serva». Kätchen manifesta una sconfinata devozione nei confronti di Strahl, lo segue in qualunque
condizione meteorologica e dorme nelle sue stalle. Otto von der Flühe, il presidente del Tribunale
Segreto, ne chiede conferma al conte e quest’ultimo sottoscrive le dichiarazioni di Theobald:
«Quando mi guardo attorno, vedo due cose: la mia ombra e lei».
Al momento è ancora sconosciuta la ragione del comportamento di Käthchen, la scopriremo più
avanti. Intanto scopriamo, in apertura del II atto - il I è interamente dedicato all’udienza - che il
conte vom Strahl non è affatto insensibile all’eterea bellezza ed alla sconfinata devozione della
protagonista, anzi, dichiara persino di amarla. Il pensiero di Käthchen produce nell’animo di questo
uomo, di questo antieroe sostanzialmente debole, avvinghiato alle norme sociali come il neonato al
seno della madre, slanci poetici di bucolica memoria dalla dubbia sincerità (nonostante questa
presunta passione per la protagonista, il conte non esiterà a gettarsi tra le braccia della nobile
«avvelenatrice» Kunigunde). In ogni caso, sincero oppure no, l’amore del conte vom Strahl per
Käthchen non può concretizzarsi, la protagonista appartiene infatti, almeno per ora, ad un rango
sociale troppo più basso rispetto a quello del pavido cavaliere. Sposare la figlia di un fabbro
equivarrebbe a porre fine ad ogni ambizione, che il conte dimostra invece di voler coltivare - rivolto
ai suoi antenati egli dichiara di voler unirsi al loro «stuolo superbo». È evidente la differenza tra
l’uomo e la donna: lui è legato alle regole, alle convenzioni, ai costumi, lei no, lei si abbandona con
tutta se stessa al proprio sentimento e lascia addirittura la casa paterna per unirsi a lui, per divenirne
l’ombra, nulla di più, e dormire nelle sue stalle. L’uomo e la donna hanno modi differenti,
diametralmente opposti, di vivere l’amore. L’uomo è comunque sempre legato alla ragione, la
donna no, lascia che sia il proprio cuore a prendere il sopravvento, anche con il rischio di passare
per una «baldracca», oppure di sfociare nella follia e nella bestialità. Di fatto, è quanto è già
57
Sämtliche Werke und Briefe in 4 Bänden, a cura di Ilse-Marie Barth, Hinrich C. Seeba, Klaus Müller-Salget, Stefan
ormanns, 4 voll., Deutscher Klassiker Verlag, Frankfurt am Main 1987-1997, II vol., p. 881.
58
Heinrich von Kleists Lebensspuren. Dokumente und Berichte der Zeitgenossen, a cura di Helmut Sembdner, Carl
Schünemann Verlag, Bremen 1957; VII edizione rivista e ampliata, Carl Hanser Verlag, München 1996.
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accaduto nella Pentesilea, nel rapporto tra l’Amazzone ed Achille. Così la passione di Strahl
diviene una semplice ferita rimarginabile. Inoltre, come se non bastasse, il conte dimostra di amare
non tanto Käthchen in quanto donna, in quanto corpo, carne e sangue, ma l’ideale che essa incarna e
rappresenta: «[...] se mai troverò, Käthchen, una donna che ti somigli [...]».
È nel III atto della commedia, dopo che è stato suggellato il fidanzamento tra il conte vom Strahl e
Kunigunde von Thurneck - fidanzamento sancito da un contratto, dunque per becero interesse -, che
Kleist colloca la più grande manifestazione di devozione di Käthchen nei confronti del cavaliere.
Durante l’assalto del conte vom Stein il castello di Thurneck è in fiamme. Pur di soddisfare il volere
della promessa sposa di Strahl, e dunque compiacere indirettamente Strahl stesso, Käthchen si
sacrifica, si lancia temeraria tra le lingue di fuoco mettendo a repentaglio la propria vita. Ecco, ecco
fino a che punto può condurla la sua immensa devozione! Grazie al provvidenziale e miracoloso
intervento di un cherubino, la protagonista riesce a salvare dall’incendio il ritratto del conte ed
uscire indenne. Dalla sua Käthchen ha le schiere celesti.
In apertura del IV atto si svela finalmente la ragione della totale e servile devozione della
protagonista nei confronti di Strahl. I due si sono incontrati, e hanno così sancito la loro unione, nel
sogno. Ciò che nella realtà è impossibile nell’inconscio diviene possibile. È in questo fondamentale
passo della commedia che Kleist ricorre al sonnambulismo. Il sogno rivelatore di Käthchen è
conforme a quello del conte, lo completa e lo chiarisce. Il loro legame è definitivamente stabilito. In
questo senso, valutando le inconsce visioni profetiche dei due protagonisti, è come se Käthchen e
Strahl appartenessero ancora a quel primordiale stato di natura, oramai perduto, in cui all’uomo era
concesso il dono della preveggenza. Un tempo, come scrive Schubert, «[...] di infanzia, ma più alto
di questa infanzia smarrita che conosciamo ora. Sono madri mortali che partoriscono ora,
quell’infanzia invece era cura di una madre immortale, e l’uomo è partito da quella visione
immediata di un ideale eterno, è stato inconsciamente al centro di quel sommo sapere e di quelle
eccelse forze che ora la generazione più tarda deve riconquistare in una lotta nobile ma dura. [...] A
quel tempo il fatalismo - il completo abbandono della volontà a una legge eterna - era il suo posto.
Allora la natura appariva all’uomo divina e pura, e così pure era l’armonia con essa»59. In questo
aspetto caratteristico dei due protagonisti c’è tutto il rimpianto di Kleist per quell’età primigenia,
per sempre svanita, in cui tutto era più autentico, spontaneo, naturale, e, al tempo stesso, una critica
alla contemporaneità artefatta e falsa, che Kunigunde rappresenta e incarna alla perfezione, non solo
attraverso il suo agire calcolatore ed opportunista - spinge Käthchen tra le fiamme non perché vuole
il ritratto del conte, ma l’astuccio che lo contiene, in quanto in esso ha riposto la documentazione
che attesta il passaggio di proprietà in suo favore - ma anche, e soprattutto, attraverso la sua
fisionomia.
FREIBURG [...] Quella è un mosaico, messo insieme con i tre regni della natura. I suoi denti sono di una
ragazza di Monaco, i suoi capelli sono stati ordinati in Francia, la salute delle sue guance proviene dalle
miniere dell’Ungheria; e quel rigoglio che ammirate in lei, lo deve a una camicia eseguita dal fabbro con
ferro svedese...60
59
Gotthilf Heinrich Schubert, Ansichten über die Nachtseite der Naturwissenschaft, Arnold, Dresden-Leipzig 1840,
trad. it. di Stefania Sbarra.
60
H. v. Kleist, Käthchen di Heilbronn ovvero la prova del fuoco, trad. it. di Giorgio Zampa, in H. v. Kleist, Opere, cit.,
p. 491.
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Nella raffigurazione di un personaggio assemblato ed innaturale come quello di Kunigunde, si cela
l’odio di Kleist nei confronti del progresso incontrollato ed una violenta polemica nei confronti
della scienza, rea di aver tralasciato lo studio e la ricerca della verità e di essersi assoggettata al
volere del mercato, che in sostanza sfrutta gli impulsi e i vizi più ripugnanti dell’uomo - proprio
come quello di volersi sostituire alla natura e mutare il proprio aspetto fisico61. In tal senso vien
subito da pensare ad alcune illuminanti parole del già citato Horkheimer: «Il principio del dominio
dell’uomo sulla natura è divenuto l’idolo al quale si sacrifica tutto»62.
Nonostante i sogni, occorre tuttavia un colpo di scena affinché Strahl e Käthchen possano
concretizzare, formalizzare la loro unione. E così accade. La protagonista è infatti, incredibilmente
ma non troppo, la figlia dell’imperatore. Käthchen entra dunque a far parte dello stesso mondo al
quale appartiene il conte ed egli, senza dover infrangere alcuna regola, né dover rinunciare
all’ambizione ed umiliare la memoria degli illustri avi, può sposarla.
La Käthchen è una commedia a lieto fine, certo, che tuttavia lascia aperti alcuni spiragli sinistri,
inquietanti. La protagonista, abbandonata la dimensione grezza, ma tutto sommato sincera e
genuina del popolo, entra a far parte del mondo dorato, lussuoso, ma artefatto e corrotto della
nobiltà. Il sambuco sarà sradicato dalla terra per far posto ad una residenza estiva e il conte chiederà
a Käthchen di comparire al matrimonio per recitare una parte, la parte di dea, come dea era apparsa
nel II atto l’artificiosa Kunigunde a Freiburg63. Per questi motivi e per molti altri, come ad esempio
la presenza di un antieroe norma-dipendente e la critica alla scienza, la Käthchen, la più romantica
tra le opere di Kleist, è altresì la meno romantica tra tutte le opere romantiche.
6. L’innocente marchesa di O...
Kleist si avvicina al genere letterario del racconto suo malgrado, più per necessità che per vocazione
- sono infatti i ripetuti fallimenti teatrali e le disastrose condizioni finanziarie in cui versa ad
imporgli questa scelta. È quanto emerge dal seguente giudizio sul romanzo, di cui il racconto è una
sorta di sottoinsieme, contenuto in una lettera indirizzata nel 1801 da Parigi alla fidanzata
Wilhelmine: «I romanzi ci hanno guastato la mente. Con essi il sacro ha cessato di essere sacro e la
più pura, umana, ingenua felicità è stata degradata a mera fantasticheria»64. Inoltre, da una
dichiarazione di Ernst von Pfuel (1779-1866), intimo amico di Kleist, citata da Brentano in una
missiva ad Arnim, veniamo a conoscenza del fatto che per l’autore passare dal teatro, e in particolar
modo dalla tragedia, al racconto è una «sconfinata umiliazione»65.
A malincuore Kleist si allontana dal mito, dai personaggi straordinari ed imponenti che lo
caratterizzano, per concentrarsi sulla quotidianità, scrutando con occhio vigile gli interni della
borghesia e della piccola nobiltà, e prendendo nota di quanto accade in essi. A questo cambiamento
di materia corrisponde necessariamente un cambiamento di stile. Kleist crea una prosa essenziale,
61
Notizie sui testi e note di commento, a cura di Anna Maria Carpi e Stefania Sbarra, in H. v. Kleist, Opere, ci., pp.
1193-1194.
62
Max Horkheimer, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, trad. it. di Elena Vaccari Spagnol,
Biblioteca Einaudi, Torino 2000.
63
Notizie sui testi e note do commento, a cura di Anna Maria Carpi e Stefania Sbarra, in H. v. Kleist, Opere, cit., p.
1194.
64
Briefe von und Heinrich von Kleist 1793-1811, a cura di Klaus Müller-Salget e Stefan Ormanns, Deutscher Klassiker
Verlag, Frankfurt am Main 1997, trad. it. di Anna Maria Carpi.
65
Heinrich von Kleists Nachruhm. Eine Wirkungsgeschichte in Dokumenten, a cura di Helmut Sembdner, Carl
Schünemann Verlag, Bremen 1967; IV edizione rivista e ampliata, Carl Hanser Verlag, München 1996.
17
dal ritmo incalzante, talvolta febbrile, in cui discorso diretto e indiretto si accavallano, si
confondono, quasi si calpestano l’un l’altro. Leggendo i racconti di Kleist si ha come la sensazione
che l’autore abbia fretta di giungere al termine di una mera cronaca giornalistica. Ciò tuttavia non
gli impedisce di mettere in risalto alcuni dettagli che rendono unica l’intera vicenda - facendo
riferimento alla Marchesa di O... vien subito da pensare agli innumerevoli rossori dei personaggi.
Scrivere racconti per Kleist è umiliante, eppure la critica del tempo li accoglie con entusiasmo, con
maggiore entusiasmo rispetto ai drammi. E già allora inizia a diffondersi l’idea, giunta di fatto fino
a noi, che i suoi racconti posseggano un valore letterario di gran lunga superiore rispetto alle sue
opere teatrali. È quanto sostengono Tieck e i fratelli Jakob e Wilhelm Grimm. Quest’ultimo li
definisce il meglio della letteratura tedesca «per radicalità, profondità e per senso puro della vita
come pure per l’energia, l’evidenza e l’efficacia della forma»66.
Kleist concepisce La marchesa di O... nel 1805-1806 a Königsberg. Scrive poi il racconto nel 1807,
durante i mesi di prigionia trascorsi a Fort-Joux e Châlons-sur-Marne, e lo pubblica, in una prima
versione, nel febbraio del 1808, tra le pagine del secondo numero del «Phöbus»67. Il discorso sulle
fonti alle quali l’autore tedesco attinge per la creazione della Marchesa di O... è colmo di punti
interrogativi, numerosi sono infatti i casi di abusi sessuali nel sonno e di concepimenti involontari
nella letteratura precedente a Kleist - i più illustri si trovano nel Saggio sull’ubriachezza di
Montaigne, contenuto nei Saggi (1588), e nelle Novelle esemplari (1613) di Cervantes. Non ci sono
dubbi invece sul modello che ispira l’incestuosa scena di riconciliazione tra l’inconsapevole
protagonista e l’arcigno padre: il romanzo epistolare Giulia o la nuova Eloisa (1761) di Rousseau68,
il pensatore più affine all’autore tedesco. Kleist dona alla letteratura tedesca una vicenda licenziosa
per la quale essa, a differenza della letteratura francese, non è ancora moralmente pronta, e infatti
La marchesa di O..., come accade con la Pentesilea, è accolta con sdegno ed imbarazzo - tra tutti i
giudizi negativi, emblematico quello di Henriette von Knebel (1755-1813), autorevole ed erudita
dama di Weimar, che trova la storia oscena e soporifera69.
In apertura del racconto Kleist colloca quel fatto sconvolgente che anima ed alimenta l’intera
vicenda: il famigerato annuncio sul giornale da parte della marchesa. Le ragioni che hanno portato
la rispettabile signora a compiere «un passo singolare, tale da suscitare lo scherno del mondo», si
intrecciano con la storia. Durante le guerre napoleoniche infatti, la cittadella di M... è presa
d’assalto dalle truppe russe e, durante l’offensiva militare la marchesa, nel mezzo di una complicata
fuga, si imbatte «in un manipolo di fucilieri nemici», una «orribile masnada» che la agguanta
proprio come una succulenta preda e la trascina via con violenza, animata dalle peggiori intenzioni.
Fortunatamente per lei interviene in suo soccorso un ufficiale russo, il conte F... Il trattino più
celebre dell’intera letteratura tedesca, così simile all’«Ach» di Alcmena, contiene e racchiude
l’abuso. Un segno grafico piccolo, apparentemente insignificante, ma dotato di una potenza
eccezionale. Compiuto l’infido e dissoluto gesto, l’angelico ufficiale si impegna in prima persona,
con impeto e coraggio, a spegnere le fiamme che sferzano la cittadella oramai conquistata, in preda
ad un’incontenibile iperattività: si arrampica sui tetti incendiati e si spinge negli arsenali spingendo
66
Heinrich von Kleists Lebensspuren. Dokumente und Berichte der Zeitgenossen, a cura di Helmut Sembdner, Carl
Schünemann Verlag, Bremen 1957; VII edizione rivista e ampliata, Carl Hanser Verlag, München 1996, trad. it. di
Anna Maria Carpi.
67
Notizie sui testi e note di commento, a cura di Anna Maria Carpi e Stefania Sbarra, in H. v. Kleist, Opere, cit., p.
1236.
68
Ivi, p. 1237.
69
Ivi, p. 1237.
18
fuori barili colmi di polvere da sparo e bombe cariche. La sua prorompente reazione è quella tipica
dell’uomo esaltato da un’impresa superlativa. Ha appena sbaragliato un manipolo di barbari e
salvato dalla loro furia cieca una nobile e bella signora, intravedendo nel suo sguardo riconoscenza,
ammirazione e forse anche un riverbero d’amore. Non prova rimorso per l’abuso, o presunto tale,
anzi, ne è entusiasmato.
Gli iniziali sintomi della gravidanza della marchesa, che indirettamente scopriamo chiamarsi
Giulietta, sono accolti con ironia e giubilo sia da lei che dalla madre. Tuttavia, quando la misteriosa
maternità della protagonista diviene certa, confermata prima dal medico e poi dalla levatrice, la
reazione della famiglia, e in particolar modo del padre, è inflessibile e crudele: la marchesa viene
allontanata con sdegno dalla casa paterna. La donna, «armata di tutto l’orgoglio dell’innocenza»,
trova dentro di sé una forza insperata, e dopo aver negato al torvo padre i suoi figli, decide di
pubblicare sui giornali di M... il singolare annuncio, incurante dello «scherno del mondo». Si è
parlato molto dell’emancipazione della marchesa, ma non si tratta solo di questo. La protagonista
sfida le convenzioni perché in lei è troppo forte il desiderio di conoscere l’identità del colpevole. E
nella sua coraggiosa decisione si manifesta tutto il suo essere donna, si manifesta l’essenza stessa
della femminilità. Indifferente a quanto possa pensare il mondo intero e al modo in cui possa
etichettarla - Käthchen più e più volte viene definita una «baldracca» -, Giulietta si abbandona al
volere del proprio cuore. Un cuore che vuole sapere, o meglio, che forse vuole solo avere delle
conferme.
Nel giorno e nell’ora stabiliti dalla marchesa nell’inserzione, il 3 alle 11 - Giulietta si è oramai
riconciliata con entrambi i genitori, convinti della sua innocenza - ecco apparire il conte F..., quello
stesso conte F... che mesi prima le aveva salvato la vita e poi si era ripresentato con una
irragionevole proposta di matrimonio. L’ufficiale russo si presenta alla marchesa vestito come
quella notte per facilitare il riconoscimento, per suscitare il ricordo ed utilizzare così il minor
numero possibile di parole. Parole impossibili da pronunciare in una simile situazione. La
protagonista reagisce con violenza, aggredisce l’ufficiale, che devoto, pentito e balbettante si
prostra dinanzi a lei e dinanzi alla madre. Proprio come Pentesilea nel momento del decisivo assalto
ad Achille, assume tratti ferini: il suo sguardo è terribile come quello di una furia. Comunque, dopo
la reazione scomposta e rabbiosa, la marchesa decide di mantenere la parola data nell’annuncio e
dunque sposa il conte F...
Nell’ultima, geniale battuta del racconto Kleist svela le ragioni dell’iniziale diniego della
protagonista, e rende praticamente certo il sospetto che accompagna il lettore durante l’intera
vicenda: lei sapeva, ha sempre saputo, cercava solo una conferma.
[...] Quando una volta il conte, in un’ora felice, domandò alla moglie perché, in quel terribile giorno 3,
quando sembrava preparata a qualunque depravato, fosse fuggita davanti a lui come da un demonio, lei
rispose, buttandogli le braccia al collo: non le sarebbe apparso allora come un demonio, se alla sua prima
apparizione non le fosse sembrato un angelo70.
E forse, in quella lontana notte sconvolta dall’assalto dei russi e illuminata dalle fiamme, la
marchesa non si è concessa al conte F... del tutto inconsapevolmente. Solamente non immaginava
che l’amore di un «angelo» potesse essere tanto simile a quello di un uomo, e generare persino un
figlio.
70
H. v. Kleist, La marchesa di O..., trad. it. di Marina Bistolfi, in H. v. Kleist, Opere, cit., p. 844.
19
Conclusione
In questo saggio si è trattato spesso di amore, e a ragion veduta, poiché tutte le eroine delle opere di
Kleist analizzate amano. Tuttavia reputo doveroso mettere in risalto, prima di concludere, la
chilometrica distanza che separa l’idea kleistiana di amore da quella romantica, caratteristica
dell’epoca e, di fatto, seppur con innumerevoli sfumature, comune a tutti gli autori del periodo.
Se per il Romanticismo l’amore è estasi, ricerca della totalità, eterna armonia tra gli amanti, fulgida
manifestazione dell’infinito, per Kleist è invece infrazione, strappo, lacerazione, deflagrazione
interiore, impeto carnale visceralmente naturale, prepotente sconvolgimento che porta
all’irreversibile rottura di qualunque convenzione sociale, di qualunque norma legislativa
precostituita. È quanto emerge con chiarezza, a tratti con spaventosa chiarezza, dai comportamenti
impetuosi e veementi delle varie Agnes, Alcmena, Pentesilea, Käthchen, Giulietta.
Tra Kleist e la donna esiste un legame intimo e profondo, una affinità intensa e passionale. Mentre
l’uomo ragiona, calcola, valuta, pesa, servendosi di quell’invisibile bilancia interiore che ne
condiziona gli atteggiamenti, è prudente e conforme alla legge, Kleist, proprio come la donna,
proprio come una sua eroina, agisce con impulso, fedele solamente al volere del proprio cuore e
dimentico di tutto il resto, in particolar modo delle conseguenze. Basta dare una fugace occhiata alla
sua biografia per rendersene conto: incurante delle preoccupazioni familiari abbandona la sicura
carriera militare gettandosi con tutto se stesso, a capofitto prima nello studio e poi, in seguito alla
crisi kantiana, che lo avvicina ancor di più all’universo femminile, nella letteratura; incurante del
pericolo, dopo una violenta lite con il caro amico Pfuel, si dirige a piedi da Parigi a St. Homer con
l’infausta intenzione di unirsi ai Francesi, pronti a sbarcare in Inghilterra; incurante dello scandalo e
del giudizio della gente si uccide, sparandosi un colpo di pistola in bocca sulle rive del Wannsee,
proprio in compagnia di una donna, Henriette Vogel, e lo fa con gioia71, saziando così
l’incontenibile brama di morte del suo cuore esausto, spossato, e ponendo in tal modo fine alla sua
breve, ma straordinariamente produttiva esistenza.
È nei suoi straordinari personaggi femminili, è in queste vere e proprie figlie della crisi, che Kleist
condensa i suoi tormenti e le sue inquietudini, i suoi tentativi e i suoi fallimenti, le sue aspirazioni e
le sue speranze, insomma, in una sola parola, il fondo stesso della sua persona. Animato dal sacro
fuoco del genio l’autore tedesco giunge, attraverso la figurazione di ciascuna delle immagini
femminili, ad un kompositum polifonico in cui l’insieme di queste ultime rappresenta una ricostruzione artistico-letteraria della propria persona e della propria vicenda esistenziale.
71
Che Kleist sia felice di morire lo si evince dalla lettera d’addio indirizzata alla sorella Ulrike: «Non posso morire
senza essermi riconciliato, contento e sereno come sono, col mondo intero e soprattutto con te, mia carissima Ulrike.
Lascia, l’affermazione precisa è contenuta nella lettera ai Kleist, lascia ch’io mi ritiri. In realtà, tu hai fatto per me non
dico quanto stava nelle forze di una sorella, ma nelle forze di una creatura umana, al fine di salvarmi: la verità è che per
me non c’era aiuto possibile sulla terra. E ora addio; possa il cielo donarti una morte solo a metà così gioiosa e
indicibilmente serena come la mia: questo è l’augurio più cordiale e più profondo che io possa concepire per te».
20
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22