non voglio il silenzio

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non voglio il silenzio
PATRICK FOGLI
FERRUCCIO PINOTTI
NON VOGLIO
IL SILENZIO
Il romanzo delle stragi
Realizzazione editoriale: Conedit Libri Srl - Cormano (MI)
I Edizione 2011
© 2011 - Edizioni Piemme Spa
20145 Milano - Via Tiziano, 32
[email protected] - www.edizpiemme.it
L’equivoco su cui spesso si gioca è questo:
quel politico era vicino a un mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con le organizzazioni mafiose, però
la magistratura non lo ha condannato quindi
quel politico è un uomo onesto. E no, questo
discorso non va perché la magistratura può
fare soltanto un accertamento di carattere
giudiziale, può dire, be’, ci sono sospetti, ci
sono sospetti anche gravi ma io non ho la certezza giuridica, giudiziaria che mi consente di
dire quest’uomo è mafioso. [...] Il sospetto
dovrebbe indurre soprattutto i partiti politici
quantomeno a fare grossa pulizia, non soltanto essere onesti, ma apparire onesti facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che
sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti anche se non costituenti reati.
Paolo Borsellino, 26 gennaio 1989,
Bassano del Grappa
Mentire è necessario. Lo stato deve mentire.
In guerra o quando si prepara una guerra non
ci sono bugie che non possono essere difese.
Don DeLillo, Punto Omega
Tutto è cominciato con una telefonata.
E ancora oggi non so chi fosse, la persona che me l’ha
fatta. Era solo una voce, al di là di un ricevitore. Non aveva
un volto, non aveva uno sguardo, non aveva un corpo.
Nelle poche parole che ho scambiato con lei – parole
che hanno cambiato tutta la mia vita – immaginavo mani
sottili e agitate e gesti nervosi con cui accompagnare le frasi, sottolineare un aggettivo, dare forza a un concetto. Non
ho mai saputo se quell’impressione corrispondesse alla
realtà.
Ci sono ipotesi che la vita non ti concede di verificare.
Solo una cosa sono riuscito a scoprire. Aveva occhi che
guardavano avanti. E non aveva paura di farlo.
Non è mia, questa definizione e mi fa rabbia ammetterlo.
È di mia figlia. Mia figlia che di quella voce sa ancora meno di me. Mia figlia che tende all’emotività e all’emozione.
Mia figlia che non ha mai immaginato quelle mani nervose e
che non ha visto neppure per un istante gli occhi che ha
descritto così bene.
Sono nato in una casa di donne, sono cresciuto in una
casa di donne, ho percorso la strada che mi ha portato qui,
a queste parole, per tre donne.
Mia moglie, mia figlia. E la voce di quella telefonata.
Per loro ho preso la mia decisione e quando mi sono reso
conto che non sarei tornato indietro, nel momento in cui ho
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capito quello che andava fatto, mi sono sentito fiero di me
come non lo sono mai stato.
Racconterò una storia. In parte l’ho vissuta e in parte l’ho
ricostruita.
La racconterò perché qualcuno pensa che non vada raccontata. La racconterò perché non ho più scelta. La racconterò per tentare di salvarmi la vita.
La racconterò perché nel paese delle storie dimenticate,
quello che ho da dire non ha mai avuto diritto di cittadinanza.
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«Il futuro era dietro di loro. Davanti, c’erano solo ricordi.»
Jean-Claude Izzo, Casino totale
L’uomo cammina senza fretta.
Ha le mani in tasca e si guarda intorno. Una ragazza
aspetta l’autobus in equilibrio su tacchi troppo alti. Un tizio
parla al cellulare con qualcuno che si chiama Guga. Una
macchina passa col rosso.
L’uomo regala a ognuno di loro un briciolo della sua attenzione. Poi si ferma davanti alla vetrina di un negozio di abbigliamento, controlla che tutto sia in ordine. Ha scelto con
cura cosa indossare. Una camicia bianca, fresca di bucato.
Un paio di jeans chiari, un maglione scuro, un giubbotto
nero. Per un attimo ha pensato di coprirsi lo sguardo dietro
un paio di occhiali da sole. L’idea perfetta per attirare l’attenzione, con quelle lenti enormi e scure che lo fanno assomigliare a una mosca. L’idea sbagliata.
Li ha abbandonati sul letto. Un gesto di disordine, l’ultimo.
Poi è uscito, lasciando la porta socchiusa.
Quando dovranno entrare non ci sarà bisogno di buttarla
giù.
Controlla l’ora. È addirittura in anticipo. Svolta l’angolo e si ferma a bere un caffè. Legge con attenzione un articolo sulla partita della sera prima. Alla fine del pezzo si
chiede perché gli interessasse così tanto. Non trova una risposta sensata. Le abitudini sembrano impossibili da abbandonare.
Anche se non hanno più senso di esistere.
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Anche se la tua vita ha i minuti contati.
Solo quando entra nel palazzo di giustizia capisce davvero cosa sta succedendo. Nell’atrio, in piedi ad attendere il
coraggio di proseguire, si rende conto che il tempo delle
scelte è esaurito. Resta quello che si deve fare, la possibilità
a cui non puoi negarti. Fa un passo verso destra, il peso
della realtà arriva a reclamare il suo corpo, si appoggia al
muro, cerca una panca, si siede.
Sto crollando, pensa. Non ce la farò mai.
Chiude gli occhi, appoggia il viso alle mani.
«Va tutto bene?»
Non sente la domanda. Nemmeno quando la ripetono.
Qualcuno gli tocca una spalla, solleva la testa. Un carabiniere.
«Va tutto bene?»
Rispondi. Respira. Pensa. Rispondi. Respira.
Sto per morire. Certo che va tutto bene.
Sorride.
«Sono solo un po’ nervoso. Sto andando a divorziare.»
Sorride anche il carabiniere, accenna un saluto, se ne va.
L’uomo lo guarda sparire in fondo alla sala, si alza, raggiunge il bagno, si sciacqua il viso senza guardarsi allo specchio, esce. Il mondo sembra aver ripreso i suoi contorni. Affonda di nuovo le mani in tasca e ricomincia a camminare.
Pochi minuti e tutto sarà finito.
Pochi minuti e avrà fatto la cosa giusta.
Pochi minuti e non dovrà più preoccuparsi di nulla.
Nemmeno che la paura finisca per strappargli il respiro.
«Ho bisogno di parlarle.»
Il telefono aveva squillato martedì 30 settembre 2003,
strappandomi a un sonno confuso in cui non sapevo di essere precipitato. Avevo risposto senza guardare, solo per far
tacere la suoneria.
«Chi parla?»
«La prego, mi ascolti. Mi chiamo Michela Santini. Lei
non mi conosce. Ma ho bisogno di vederla.»
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Mi ero messo a sedere. Una voce femminile. Giovane. Un
nome che non mi diceva niente.
«Senta, se è uno scherzo...»
Aveva abbassato il tono.
«Non posso permettermi di scherzare.»
La frase sembrava le fosse sfuggita di bocca. Era rimasta
in silenzio qualche secondo. Pentita, forse. Poi aveva ripreso.
«Ho un problema, qualcosa che lei può aiutarmi a capire.
Le chiedo solo di incontrarmi. In un luogo pubblico, affollato.» Una pausa. «La prego.»
«Dove?»
La domanda aveva sorpreso anche me. Le reazioni d’istinto non fanno più parte della mia vita da un sacco di
tempo.
«Al palazzo di giustizia, terzo piano. C’è un corridoio con
una grande vetrata. Sono un avvocato. Ho un’udienza a
mezzogiorno. Prima, però, vorrei che potessimo parlare.
Bastano pochi minuti. Deciderà lei se aspettarmi fino alla
fine dell’udienza e ascoltare il resto. Domani mattina, alle
undici e tre quarti.»
Non aveva neppure aspettato una risposta. Ero rimasto
lì, seduto, il telefono in mano, sul display la traccia di una
chiamata di cinquantasei secondi con un numero non disponibile.
Di solito l’avrei mandata a quel paese. Una sconosciuta,
che mi chiama con un numero anonimo e sembra avere un
bisogno dannato di parlarmi di qualcosa che non ha nessuna intenzione di anticipare. Roba da rimettersi a dormire.
Invece avevo preparato il caffè.
E proprio mentre riempivo la moka avevo deciso che sarei andato all’appuntamento. Al secondo cucchiaino stavo
già cercando di immaginare in che modo la mia vita fosse
venuta a contatto con quella della ragazza.
E soprattutto che cosa le facesse così paura.
Si sentiva dappertutto. Nel tono della voce, nell’esitazione che metteva all’inizio di ogni discorso. Nelle frasi.
Non posso permettermi di scherzare.
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Sono state quelle parole a impedirmi di chiudere la conversazione. Le ha sussurrate, necessarie come un respiro. Le
ho in testa da quel momento, anche adesso che è quasi ora
e comincio a guardarmi intorno, tentando di indovinare
quale delle sconosciute che mi circondano sia la persona
che sto aspettando.
Sono nervoso. Cammino avanti e indietro e ogni tanto
guardo di sotto. Il traffico, la gente che sembra avere una
meta precisa. Visto da qui il mondo riesce a farti credere di
avere ancora un senso.
So bene che non è vero. Lo so da molto tempo.
Mancano cinque minuti a mezzogiorno.
Arrivo fino in fondo al corridoio e mi rendo conto che
non ho neppure preso in considerazione l’idea che sia uno
scherzo. O che non mi è venuto in mente di chiamare qualcuno per controllare che esista davvero una Michela Santini
avvocato. Ormai fa lo stesso, basta avere pazienza.
Guardo ancora l’orologio, mentre lo faccio un tizio mi
urta una spalla. Accenna una scusa, senza fermarsi, le mani
affondate nelle tasche di un giubbotto.
E alla fine, proprio una decina di metri davanti a me, la
vedo.
Mi guarda, solo per un istante. Quello che basta a capire
che mi sta aspettando.
È una ragazza, sottile come il sole in autunno.
Al terzo piano c’è troppa luce e lo stanno guardando.
L’uomo sa che non è vero, ma non riesce a non pensarci.
Sono qui per lui. Tutti quanti. Sono qui per impedirgli di
fare quello che deve fare. Sono qui per rovinargli la vita, per
fermare quello che ha programmato e mandare tutto a puttane.
Deglutisce. Pensa. Respira. Pensa.
L’immagine che gli riempie la testa è chiara e precisa.
Stanno sorridendo, tutti e due. Un sorriso che conosce bene.
Un sorriso che non vuole spezzare.
«Sorrideranno ancora» sussurra.
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Un tizio si volta e gli chiede qualcosa. L’uomo non lo
ascolta. L’altro sibila una frase che potrebbe essere anche
un’offesa.
Dettagli per cui non ha tempo.
Muove la mano dentro la tasca. Un gesto istintivo, per
scacciare l’ansia e preparare l’attimo. Guarda dritto davanti
a sé, scopre la sua meta, pensa che lì, proprio lì, è già entrato molti anni fa e che quando la vita si diverte a prenderti
per il culo non puoi davvero farci niente.
Allunga il passo, urta uno che si è messo in mezzo al corridoio, gli chiede scusa, si muove veloce. Inizia a contare.
Una volta funzionava, per scandire il tempo.
Una volta gli serviva, per tenere insieme i pezzi quando la
tensione saliva alle stelle.
Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque.
Deve solo fare quello che sa fare.
L’ultimo pensiero, prima di entrare in aula, è che sta varcando la soglia della stanza in cui la sua vita è destinata a
finire.
L’imputato è un tizio piccolo e con i capelli rasati. Si chiama Nicola Reale, avrà venticinque anni, un brillantino
all’orecchio destro, l’aria sfrontata di chi cerca di scacciare
il terrore simulando indifferenza.
La ragazza lo guarda entrare, mi fa cenno di aspettarla,
attende che si avvicini. Non ci siamo ancora parlati. Un particolare che non conta nulla, ormai. Resterò fino alla fine
dell’udienza e ascolterò quello che ha da dirmi.
Mi è bastato vederla da vicino per capire che ci deve essere qualcosa di importante dietro la sua richiesta. Basta
guardarla in faccia per capire che non dorme da un sacco di
tempo. Notare come posa lo sguardo su ogni persona
nell’aula, per rendersi conto che sta valutando se si tratta di
un pericolo.
Faccio per sedermi in prima fila, alle spalle dei tavoli della difesa. Lei è in piedi, a due metri da me. Il suo cliente la
saluta appena. Anche lui si guarda intorno troppo spesso.
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«Tranquillo, andrà bene» gli dice.
Mi volto per mettermi a sedere.
È lì che vedo l’uomo.
È quello che mi ha spinto, prima. L’ho superato entrando
in aula. Stava aspettando fuori e per un attimo ho pensato
che fosse un giornalista.
Ora che lo vedo avvicinarsi, lo sguardo fisso davanti a sé,
capisco che mi sbagliavo.
Non sta lavorando.
Non è un curioso.
È qui per qualcuno.
Spara.
Spara senza pensare. Spara come se fosse un’altra persona.
Spara come se il passato fosse tornato a reclamare il presente. Spara con la precisione e l’indifferenza che ha sempre
avuto. Spara senza ascoltare le urla, senza vedere la gente.
Spara per uccidere.
I due poliziotti, prima. La ragazza, poi. Il tizio pelato, per
ultimo.
Tiene la pistola puntata, prima su un uomo, poi su una
donna, poi su quel coglione che si era messo in mezzo al
corridoio e che adesso sta inginocchiato accanto alla ragazza.
Non la salverai, illuso. Nessuno di noi si salverà.
Sposta la canna verso un poliziotto. È entrato dal fondo
dell’aula, lo tiene sotto tiro, gli urla di gettare la pistola, che
non ha scampo.
Non ho scampo, pensa l’uomo. Non aspettavo uno sbirro
di merda per saperlo.
Sorride. Il ghigno affamato di una iena che scopre i denti.
«Mi chiamo Angelo Mazza!» grida e il silenzio riempie di
colpo l’aula.
Ancora più forte.
«Mi chiamo Angelo Mazza! Mi vedete? Mi vedete tutti?»
«Mi chiamo Angelo Mazza» ripete per l’ultima volta. «E
ho punito un infame.»
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Michela cade a terra senza capire cosa le sta succedendo.
Crolla accanto al corpo degli agenti, il sangue che si mescola al sangue.
Le finisco accanto per caso. Volo sul pavimento non appena l’uomo spara al primo poliziotto. Lo colpisce alla nuca, un colpo solo. Un colpo anche per l’altro, che non riesce
nemmeno a girarsi.
A Michela spara al petto, due volte. L’ultimo proiettile è
per il suo cliente, che cerca di fuggire, senza fare nemmeno
due metri. Un colpo solo, appena sotto il collo.
Mi punta la pistola addosso e il mondo sparisce in una
bolla di vetro.
L’aria che respiro brucia i polmoni, qualcosa di gelido mi
segna la spina dorsale come un chiodo sulla lavagna. Dura
un paio di secondi. Quando arriva la polizia, la bolla si rompe in miliardi di frammenti. Stanno tutti gridando, uno sopra l’altro.
Poi quel nome, il suo. Lo ripete tre volte, sempre più forte, spaccando il silenzio e cancellando tutto il resto.
Anche la morte.
Ha conservato per sé l’ultima pallottola e quando lo vedo
crollare, un conato di orrore e sollievo mi rovescia il respiro.
Ho gli occhi sgranati e il fiato corto. Le mani gelate e sporche di sangue.
Il sangue di Michela.
Michela che spalanca gli occhi e mi guarda.
Michela che mi guarda e socchiude la bocca.
Michela che socchiude la bocca e dice qualcosa.
Una parola.
Che cambia tutto.
Venezia ha l’aspetto decadente delle città che si sono arrese. È un posto in cui mi sento a disagio. Come se non
fossi nemmeno all’altezza di stare seduto da qualche parte
fra San Rocco e Santa Croce, a mangiarmi un panino in una
giornata d’autunno.
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Lo dico a Giulia e lei mi risponde con la solita frase secca di quando non ritiene importante sostenere la conversazione.
«È perché vorresti essere snob e non ci riesci.»
La guardo, la testa alta, i capelli raccolti, gli occhi scuri e
sottili, i gesti precisi e morbidi con cui arrotola gli spaghetti
sulla forchetta. Se n’è andata di casa da due anni e a volte mi
sembra di averla dimenticata. Così, quando vengo a trovarla, compilo uno strano inventario di tutto quello che mi trovo di fronte e scopro che non ho abbandonato per strada
nemmeno un particolare.
«Mi stai ascoltando?»
«Certo» rispondo. Una bugia impossibile da credere.
«È anche per quelli come te che siamo ridotti così di merda, lo sai?»
«Per quelli come me?»
Riempie il bicchiere d’acqua, un gesto che sembra catalizzare tutta la sua attenzione.
«Quelli come te, certo. Quelli che se ne fregano del
mondo. Quanto tempo è che non leggi un giornale, papà?
Quanto tempo è che non ti fai una domanda su quello che
succede?»
Non ho una risposta. Nemmeno per la sua rabbia. Non
ho una risposta che mi faccia sentire meno in colpa. Non ho
una risposta che possa cambiare il modo in cui mi vede.
Così non dico niente. Aspetto, come sempre, che la marea
salga a ricoprire tutto.
«Tu scrivi libri per ragazzini, papà. E quello ti basta. Ma
il mondo si muove lo stesso. Non sei meglio dei miei compagni di corso. Basta una che te la dia, avere qualche soldo
per calarsi una pasta il sabato sera, una macchina che vada,
un telefonino che faccia foto da almeno trenta megapixel,
che chissà che cosa te ne fai. O comprarti un paio di scarpe
con un tacco abbastanza alto da spezzarti le caviglie.»
«Non siete tutti così, dai...»
Appoggia i gomiti sul tavolo e sfodera un sorriso che
sembra una coltellata.
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«Certo che non siamo tutti così. Certo. Ma conta qualcosa che non siamo tutti così, quando la maggioranza è anche
peggio? C’è un tizio che sta con una che conosco che compra i risultati dei test. Sempre. Ha scoperto come si fa, ha dei
soldi da spendere e lo fa. Ho provato a chiedergli perché e
mi ha risposto che così è più facile, che non ha palle di mettersi sui libri, che quello che gli frega è prendere la laurea
per far star zitto suo padre e che poi ci pensa. Conta il risultato. Vincere, come se tutto fosse una partita di calcio. Dice
che passare la notte a studiare è da coglioni, quando c’è un
altro sistema.»
Rimane in silenzio. Studia la mia reazione.
«Profondo, vero?» Fa una pausa. «Vedi, una volta pensavo che gli stronzi come questo prima o poi la pagassero. Che
bastasse aspettare un po’ per vederli passare stecchiti. Oggi
ho cambiato idea. Questo paese sta morendo, papà. E tu
continui a raccontare del lupo cattivo.»
Bevo un sorso di birra.
«Una volta ti piacevano le mie storie.»
«Sì. Quando credevo ancora che il mondo fosse una favola.»
Fa una pausa, mangia una forchettata di pasta. Poi mi
guarda, un’occhiata che dovrebbe sembrare distratta e in
realtà ha studiato a lungo. Quando sua madre voleva farmi
arrabbiare, faceva allo stesso modo.
«D’altra parte, chi non ha il coraggio non se lo può dare.»
Sorrido. Un omaggio alla sua cultura classica e al modo
raffinato, trasversale e tagliente con cui è riuscita a darmi
del vigliacco.
Non rispondo, non avrebbe senso. È una discussione
vecchia di anni e con troppe repliche, per avere ancora
qualcosa di originale da dire. Forse l’unica cosa sensata sarebbe ammettere che ha ragione, ma finirei per deluderla
ancora di più.
La verità è che non posso farle una colpa se le manca sua
madre.
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Manca anche a me.
Se fossi capace di resuscitare i morti, avrei risolto il problema molto tempo fa.
«Ho visto una persona morire.»
Non so nemmeno perché lo dico. Mi scivola dai pensieri
senza che me ne accorga. Giulia è la prima persona a cui lo
racconto.
Appoggia la forchetta. Cambia espressione di colpo.
«Quando?»
«Una settimana fa. Un tizio le ha sparato. A lei e ad altri
tre.»
«Quella del tribunale... Che cazzo ci facevi lì?»
«Non mi chiedi nemmeno se ho avuto paura?»
«È ovvio che hai avuto paura. Racconta, dai.»
Racconto, certo. Comincio da quando il tizio si mette a
sparare e vado indietro, alla telefonata.
«Non ho idea di cosa volesse dirmi» spiego, alla fine.
Lei, però, non si accorge della bugia.
«Ci sarà un modo per saperlo. Sei un giornalista, trovalo.»
Sono un giornalista.
Lo dice con un entusiasmo tale da farmi credere per un
attimo che sia vero. Per questo non le dico che non ho mai
sopportato quelli che si presentano così. Sono un giornalista, sono uno scrittore, sono un medico.
Il verbo, poi, è coniugato al tempo sbagliato. Ero un giornalista e lo sono stato per una stagione molto breve. Smettere di esserlo non era stata una mia scelta.
Il giorno in cui sua madre è morta mi sono trovato solo, col
lavoro più precario del mondo, una figlia di otto anni da mantenere e il desiderio di non dover dipendere da mio padre.
Le storie per ragazzini, come le chiama lei, sono state
l’unica fortuna di una combinazione di eventi molto disgraziata. Ne avevo pubblicata una, sei mesi prima di rimanere
vedovo. Ha cominciato a vendere all’improvviso, con quel
passaparola fortuito e incomprensibile che nessun editore è
mai riuscito a riprodurre in vitro.
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I soldi erano arrivati. Abbastanza per chiudermi in casa,
crescere mia figlia, scappare dal precariato professionale ed
economico. Bastava pubblicare una volta all’anno.
Giulia, però, non me l’aveva perdonato mai.
Hai rinunciato ai tuoi sogni, dice ogni volta in cui torna
sulla questione.
Difficile darle torto.
Finisco quello che resta di una birra media.
«Dovresti parlarne col nonno» riprende, e pare impegnata a costruire un sistema con cui permettermi di ricominciare a fare il mio vecchio lavoro. La missione della sua vita, in
fondo.
«Sì, forse.»
«Sai qual è l’unica domanda che conta, papà? Hai voglia
di raccontare questa storia?»
Raccontare una storia. La sua ossessione.
Prima o poi la seguirà, lo so. Manderà in malora i compagni di corso che rubano gli esami, la facoltà, la carriera da
architetto e finirà in qualche redazione, sotto pagata, precaria a vita, ma protetta dal nume tutelare del cognome di famiglia, a inseguire la storia che vuole raccontare. Quella per
cui vale la pena sbattersi senza intascare una lira con cui
coprire le bollette.
Quando ho conosciuto sua madre era esattamente come
lei. Alla ricerca della verità, a tutti i costi. È uno dei motivi
per cui me ne sono innamorato. Le stavi accanto e ti sembrava che esistesse, da qualche parte, una forma compensatoria di giustizia. La ascoltavi parlare e diventava logico lottare per una causa, riuscivi perfino a credere che alla fine ne
saresti uscito vincitore.
Era la parte giusta dell’universo, quella che un solitario e
disilluso come me non è mai riuscito a vedere.
Valeva per lei e vale per nostra figlia. Con la stessa luce
disperata.
«Papà, mi rispondi?»
Annuisco. Accarezzo la mano che Giulia ha allungato
verso di me. Provo a organizzarmi una via di fuga.
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«Non so nemmeno se c’è, una storia da raccontare.»
Non appena capisce dove sto andando a parare, scappa
dal gesto.
«Allora scoprilo» dice. «Glielo devi. Quella ragazza è
morta per parlare con te.»
La macchina blu volta a sinistra e infila la provinciale.
C’è il sole, è pomeriggio, la primavera assomiglia all’estate, la radio manda in sottofondo una canzone che nessuno
ascolta, la strada costeggia i campi, si arrampica su un cavalcavia, si stringe, sale verso la collina.
Sono in tre, dentro. Due uomini e una donna. Non so
dove stiano andando, né perché. Posso provare a ricostruire
qualcosa guardando fuori dal finestrino, ma è un gioco di
cui mi stanco subito.
Che è sabato, invece, lo so per certo. Un sabato di maggio.
L’uomo che guida guarda la strada, dice qualcosa, cerca di
ricordare un dettaglio importante, ma non ne avrà il tempo.
Nemmeno adesso, nemmeno in sogno.
Quando succede quello che deve succedere, il silenzio
cala di colpo. Riempie l’abitacolo senza un motivo, si mangia l’aria e le parole con la stessa ferocia con cui un temporale prende possesso del cielo d’estate.
È lì che arriva la macchina rossa.
Sbuca dalla curva e non è né veloce né lenta. Solo una
delle tante che hanno incrociato dall’inizio di quel viaggio.
Dietro c’è una bmw. Grigia metallizzata, non posso dimenticarmela. Lo stesso colore del fiume, una decina di metri più
in basso. Nel momento in cui comincia ad accelerare, la distanza fra la macchina blu e quella rossa è troppo breve per
tutto.
La bmw mette il muso fuori.
Accelera ancora.
L’uomo al volante guarda verso di noi.
Occupa la carreggiata.
E sono sicuro che stia sorridendo.
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Quando mi sveglio sono le quattro del mattino, la televisione è accesa su un vecchio film con James Stewart e faccio
quell’incubo da troppi anni.
Mi metto a sedere, passo le mani sul viso, prendo un lungo respiro. Per un attimo l’immagine del parabrezza dell’auto che si spezza riempie tutto il campo visivo. Allontano le
mani, spalanco gli occhi.
Il muro, il telefono, la libreria, il giornale per terra, aperto
sulla pagina degli spettacoli, un camion che attraversa l’incrocio sotto casa. Il mondo è rimasto al suo posto anche
questa volta.
Mi alzo. Ho freddo, ma non ci faccio caso. Un altro effetto collaterale, insieme all’odore di marcio e di sangue con
cui la mia mente si diverte a prendermi in giro. La scia del
passato che richiama le truppe, precisando che non si tratta
di una resa.
Bevo un sorso di latte dal cartone, guardo una goccia che
chiazza il pavimento della cucina, la pulisco, ritorno sul divano. Il film ha lasciato il posto alla pubblicità di un telefono erotico. Muovo le dita sul telecomando solo per vedere
le immagini cambiare alla svelta, alla fine spengo.
Ho la testa che scoppia e quando mi infilo a letto sono
sicuro che, non appena chiuderò gli occhi, il resto di quel
giorno di primavera tornerà a farmi visita.
Ma non accade.
Non ho bisogno di incubi per ricordare le cose che contano.
La macchina blu era una Golf. Quasi nuova, meno di un
anno di vita.
Avevo bevuto qualche bicchiere di vino, a pranzo. Rosso.
Ma il colore non fa la differenza.
L’uomo nella macchina è mio padre.
La donna nella macchina si chiamava Elena ed era mia
moglie.
È morta sabato 7 maggio 1994. Quel sabato, quel pomeriggio, in quel viaggio che sogno come se fossi un passeggero.
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L’ho uccisa sbandando sulla destra, per evitare la bmw.
Siamo volati nella scarpata e poi nel fiume. Mio padre ha
perso l’uso delle gambe e non ricorda nulla dell’incidente.
Io sono stato in coma due mesi e ne sono uscito indenne,
ammesso che la morte di Elena, il senso di colpa, la rabbia e
le macerie in cui è annegato il rapporto con mia figlia, non
siano un impedimento fisico.
Chiunque fosse a bordo della macchina rossa non si è
reso conto di niente o ha pensato di non immischiarsi. Siamo rimasti in quel fiume per diverse ore, prima che una
coppia si accorgesse di quello che era successo. A quanto ne
so, il tempo perso non le avrebbe comunque salvato la vita.
Non hanno mai trovato la bmw.
Credo che i risultati del mio test alcolemico abbiano scoraggiato una ricerca vera e propria, eppure so che c’è, so che
è là fuori, da qualche parte. Allo stesso modo in cui so che
non ero ubriaco e che non ho causato la morte di mia moglie.
Lo so perché fra le cose che ricordo di quell’istante, ce
n’è una che il rimorso, la paura, il rimpianto, il passato, il
dolore e perfino tutti gli incubi del mondo non hanno mai
cambiato.
Ogni volta che ci penso, ogni volta che sogno quel momento e poi mi sveglio, qualcosa mi blocca il respiro come
un cappio.
È un’immagine.
Quella con cui devo convivere. Quella che ho raccontato
fino a non avere più voce. Quella che solo io posso raccontare, perché non è rimasto nessuno che abbia visto, nessuno
che sappia, nessuno che ricordi.
Il muso della bmw.
Una macchina nuova. Apparsa dal nulla.
Una macchina senza targa.
Le cose cambiano alla svelta.
Basta un dettaglio, un punto di vista che non avevi preso
in considerazione. Un ricordo. Una parola.
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Ci penso dal giorno in cui sono andato all’appuntamento
in tribunale.
Quando Elena si fissava con qualcosa, diceva che il pensiero che non la lasciava stare era come un secondo cuore.
Non ti rendi nemmeno conto di averlo, eppure non puoi
vivere senza.
Il mio secondo cuore ha cominciato a battere un istante
prima che Michela Santini morisse. È un cuore strano, un
cuore che conosco, rintocca di un ritmo quasi familiare. Mi
fa paura e mi incuriosisce.
Da quel giorno è passato un mese. Non ho più chiamato
mia figlia. Se lo facessi vorrebbe sapere se ho parlato con
suo nonno, se ho cercato di capire che cosa aveva da dirmi
quella ragazza. Se mi sono arreso.
Fino a stamattina non avevo una risposta.
È successo in un momento e non è stata la voglia di raccontare una storia o la noia o una stupida sfida con me stesso, a farmi prendere una decisione.
È stata la paura. Il terrore, forse.
Quella ragazza è morta per parlare con te, mi ha detto
Giulia.
Sarei bugiardo se dicessi che non ci ho pensato o che la
frase non fa parte di quel secondo cuore che mi accompagna da un mese.
Alla polizia non ho detto tutto.
Nessuno crederebbe fino in fondo a quello che ho da dire, come nessuno ha creduto fino in fondo alla macchina
senza targa.
Tecnicamente è falsa testimonianza.
Ho raccontato una storia credibile e omesso un dettaglio
che non dimenticherò mai, ma di cui tutti ignorano l’esistenza.
Una parola.
Sei lettere, tre sillabe di cui mi fa paura anche sentire il
suono fra i pensieri. Tre consonanti e tre vocali che non ho
la più pallida idea di cosa significhino, ma che sono quel
dettaglio che fa cambiare le cose alla svelta e che ha scatena25
to il domino di terrore da cui non sono più in grado di uscire se non affrontandolo.
Per farlo, stamattina, ho acceso il computer e cercato
ogni notizia che riguarda la morte di Michela.
Angelo Mazza, l’uomo che ha sparato, era latitante. Accusato della morte di due spacciatori che avevano alzato un
po’ troppo la cresta. Droga. Lo stesso ramo d’azienda di
Nicola Reale, il cliente di Michela, fratello minore di Marcello Reale, una volta socio in affari di Mazza e poi collaboratore di giustizia. È stato lui a scaricare sulle spalle di Mazza i due morti. Nicola, invece, l’hanno beccato con una
soffiata. A quanto si sa aveva in casa qualche chilo di roba.
Un deposito che gli ha chiesto un amico, ha raccontato, e
ormai è troppo tardi per scoprire il resto.
Mi chiamo Angelo Mazza e ho punito un infame.
Non riesco a togliermi dalla testa quella frase. L’ultima
che un uomo disperato pronuncia, prima di farsi saltare la
testa. Le parole di un assassino che pur di uccidere il fratello dell’uomo che lo ha fatto condannare, decide di entrare
in un’aula di tribunale e togliersi la vita.
Ho punito un infame.
Le parole sono importanti e scivolose. Scappano di mano
e cambiano significato. Nascondono dove sembrano rivelare, spostano l’attenzione quando sembrano attirarla.
Angelo Mazza uccide il fratello di Marcello Reale e si suicida. Prima, però, destina un proiettile a testa ai poliziotti
che lo scortano in aula. E due colpi a Michela.
Ho punito un infame.
E se l’infame non fosse Marcello, ma Nicola? Se la punizione non fosse il dolore per il fratello che è rimasto vivo,
ma la morte per quello ucciso?
Domande che potrebbero sembrare inutili. Una teoria
del complotto ridicola e complicata. Un gioco stupido con
cui passare il tempo a cena con gli amici. O costruire un
romanzo.
Questo, però, non è un gioco.
Ci penso sopra da quel giorno, sempre, per ogni respiro.
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È questo, il mio secondo cuore.
Quando Angelo Mazza ha premuto per l’ultima volta il
grilletto, Michela era ancora viva. Era venuta lì per incontrare me, aveva qualcosa da dire e doveva dirlo.
Anche se sarebbe stato solo un accenno. Una parola. Tre
sillabe. Sei lettere.
Solara.
Solara, ha sussurrato.
Solara ha tentato di dire ai miei occhi, che la guardavano
senza capire.
Solara ha ripetuto. E l’ultima volta ho sentito bene.
È morta così, con quella parola in bocca, e io non ho
spiegato alla polizia che cosa mi ha detto. Mi sono limitato
a raccontare che voleva dire qualcosa, ma che non c’era riuscita o che non avevo capito.
Dei giorni che hanno preceduto la morte di mia moglie
ho un ricordo molto preciso.
La felicità che finisce senza preavviso ti lascia in ricordo
gli ultimi dettagli.
Era una serata di pioggia. Un temporale molto forte scoppiato di colpo. Eravamo in casa. Stavo leggendo Pastorale
americana e lei rivedeva i suoi appunti. Sembrava confusa,
come se girasse intorno a qualcosa senza riuscire a coglierne
i contorni. Si è messa a scarabocchiare su un notes. Lo faceva spesso, per chiarirsi le idee. Poi ha smesso. Si è alzata e il
blocco è caduto.
L’ha lasciato lì, sul pavimento, finché non è tornata con
due birre e mi ha baciato.
Ho chiuso il libro, ho bevuto con lei, abbiamo fatto
l’amore sul divano mentre fuori la pioggia si trasformava in
grandine e poi in silenzio.
È stata l’ultima volta.
Quando ci siamo alzati per andare a letto, ho raccolto il
blocco.
L’ho appoggiato sul tavolo, insieme alle sue cose.
C’era una sola frase, scritta decine di volte. La ripetizione
costante di un’ossessione. Una domanda a cui allora non ho
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dato peso, ma che adesso riempie tutto lo spazio fra i miei
pensieri.
L’unica a cui voglio dare una risposta, qualunque cosa
serva per trovarla.
Chi è Solara?
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