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Lautréamont
“I CANTI DI MALDOROR”: HUMOUR NERO DI UN DANDY ADOLESCENTE
Presso le edizioni Barbès di Firenze il celebre poema ‘maledetto’ è uscito (2010) in
una nuova traduzione di Stefano Lanuzza, di cui qui pubblichiamo l’introduzione
critica al volume. Opera tuttora vertiginosa, scritta da un autore infebbrato, visionario
e giovanissimo (Isidore Ducasse morì a soli ventiquattro anni nel 1870), la cui
influenza perdura dopo un secolo e mezzo. Non a caso André Gide chiosò: “… egli è
con Rimbaud, forse più di Rimbaud, il padrone delle sorgenti per la letteratura di
domani”. E pensando a Guy Debord, si può ipotizzare che i veri eredi di questo artista
d’avanguardia e di rivolta, in cui si mescolano poesia, romanzo e critica del mondo,
non siano gli storicizzati surrealisti bensì le generazioni libertarie di là da venire,
filiazioni dei sediziosi ‘déragés’ e dei ‘situazionisti’ anticipatori del sessantottesco
Maggio francese.
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di Stefano Lanuzza
Se io esisto, non sono un altro. Non ammetto, in me, nessuna equivoca pluralità.
(Lautréamont)
La lettura di Maldoror è una vertigine
(M. Blanchot)
Generalmente censito come ‘poeta maledetto’, Lautréamont è tuttavia ignorato dal suo coevo Paul
Verlaine cui si deve la celebre antologia Les Poètes maudits, includente Corbière, Rimbaud,
Mallarmé nell’edizione del 1884; con l’aggiunta, nella stampa del 1888, di Desbordes-Valmore,
Villiers de l’Isle-Adam e dello stesso autore dell’opera, anagrammato nello pseudonimo di ‘Pauvre
Lelian’.
Posto ciò e senza contraddire l’evocato maledettismo di Lautréamont, nome di penna di Isidore
Ducasse (1846-1870), diversamente dall’invalsa vulgata si potrebbe considerare questo poeta non
un emulo dell’Apocalisse giovannea, della Commedia dantesca o di Shakespeare, Goethe, Sade,
Byron, bensì come l’adolescenziale seppure smagato interprete d’un humour che, similmente a certi
grandi e talora insospettati ‘umoristi tragici’ (per esempio, i sempre nostri ‘contemporanei’
Dostoevskij e Kafka), volge la propria poetica verso una sorta di ascesi ironica e demistificante sino
al nichilismo. L’equivalente ascesi diffusa in Francia, nella seconda metà del secolo XIX
attraversato da gravi crisi politico-sociali (tra il Secondo impero, 1852-1870; la Comune, 1871; la
fondazione, 1875, della Terza repubblica e l’affaire Dreyfus del 1898), da scrittori ansiosi di
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rinnovamento e sensibili alla voga europea dell’estetismo dandistico quali Nerval, Vigny, Gautier,
Cros, Barbey d’Aurevilly, Huysmans, Moréas. Con Poe, dandy statunitense a Parigi, Borel detto
Pétrus e ribattezzatosi “Licantropo”, il poeta-criminale Lacenaire finito sul patibolo, e Baudelaire,
massimo poeta francese del secolo.
Allora, è riferendosi a simile contesto che ci si chiede se Les Chants de Maldoror (1868, 1869),
prosastico poema in sei parti e umorosi accenti di ‘mal d’aurora’, ‘aurora del male’ e ‘mal d’orrore’
(traslati del ‘male di vivere’), non sia quel repertorio di funeste bizzarrie e ingegnose nefandezze, di
nevrosi, sadismo e masochismo che apparirebbe; ma invece risulti, con le sue sconvolgenti
metamorfosi e visionarità anamorfiche, tornite, più volte in frasi di lungo respiro, da una scrittura
‘visiva’ produttrice di oggetti carichi di simboli, un’epopea, improntata a dandistico humour, del
male esorcizzato da un’esperienza esistenziale che ha nella parodia un’attendibile chiave di lettura.
“Mi capiterà spesso di enunciare solennemente le più buffonesche proposizioni” avverte l’autore.
Sacrilega, corrosiva, epopeica parodia rappresentata con calcolate modalità mimetiche in un
ordigno supremamente letterario che per certi suoi sontuosi ispanismi rivela il bilinguismo
dell’autore (vissuto in Uruguay la metà della sua breve esistenza) ed è reso, fuori delle
classificazioni e dei luoghi comuni fissati dalle storiografie letterarie, per ‘accumulazione’ anche
incongrua di temi, suggestioni e motivi ossessivi governati da un’inesorabile crudeltà mentale,
requisito primario dell’umorismo. Intricata e non riassumibile epopea, lampeggiante di luce
notturna in contrasto con le Poésies (1870), corpus aforistico pervaso d’una critica solarità e, a
compendiare le due facce d’una stessa moneta, elaborato dall’autore, quale prefazione a un ‘libro
futuro’, pressoché nello stesso periodo della stesura di Maldoror.
Ferocemente lucido e marcato di ‘nero’ è lo humour del dandy ducassiano dalla “fronte di raso”:
volgente in serie di singolari controsensi ogni retorica sia illuministica sia romantica, e apparendo
quasi minaccioso per la carica di rabbia, per l’inaudito spirito di rivolta luciferina e l’oscura,
prorompente energia psichica che riesce a trasfondere.
Se il dandy crede nella possibilità che ci sia un Dio, è solo per esprimergli il proprio risentimento,
attuando con lui un’incessante pantomima mimetica: “una specie di civetteria” – scrive Albert
Camus in L’homme révolté (1951).
Quello di Lautréamont versus Maldoror è, pertanto, l’algido humour di un dandy deluso della
divina Creazione, e che, ammantato di spavento, prende a testimoniare il rimosso indotto sia dalle
leggi divine, sia dalle interdizioni sociali. Il poeta non si lega a niente (nemmeno alla propria
realistica autobiografia) e, alla buona quanto falsa coscienza etico-borghese, oppone sarcasmi e
mascheramenti, oltraggi e dissacrazioni: ciò, aggregando bene e male e propagando canzonatorie
angosce al fine d’inquinare gli stagni del quietismo conformista... Quando il romanticismo,
sconfessato da una parte, ritorna con rinnovate oltranze nel sentimento umoristico.
Finalmente un sentimento sui generis che, in nome d’una vampiresca, adolescenziale illusione
d’onnipotenza dove l’adolescenza è soprattutto un energetico seppure torbido stato psicologico,
infrange la ragione normativa e – scrive André Breton – giunge nell’autore “alla sua suprema
potenza sottomettendoci fisicamente, nel modo più totale, alla sua legge” (Anthologie de l’humour
noir, 1939, 1947, 1966).
Per il resto è possibile che fin dal 1924, quando propone il Manifesto surrealista, Breton consideri il
surrealismo già presagito e forse trasvalutato da Lautréamont; il quale, simulando stati psichici
anomali mimati dal delirio verbale, sembrerebbe, allorché capita che lo humour allenti il proprio
mordente critico, adottare il modulo schizofrenico della ‘scrittura automatica’ assurta nei surrealisti
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a tecnica letteraria. Resta il fatto che diverse radici del surrealismo quale avventura psichica risolta
in hasard objectif (‘casualità obiettiva’) e sperimentazione linguistica affondino nel profondo dei
Chants, caratterizzati dai continui scambi tra piani umoristici e surrealistici.
Tanto più assidue sono le strategie umoristiche, convogliate nel senso del tragico tradotto dal deluso
amore universale del poeta, disperso in una Parigi ridotta a vischiosa sentina di solitudini, quanto
più costante è il contrasto tra la barocca sublimità della sua iperletteraria orchestrazione e molti
referenti ora infimi, ora abnormi e farseschi, ora drammatici. Comunque – chiosa lo stesso
Lautréamont –, “ciò che la propensione del nostro spirito alla farsa crede una mediocre forma
umoristica, spesso, nel pensiero dell’autore è una verità importante…”.
Epifanie-guida inauguranti un imponderabile bestiario moralizzato e subito metamorfosante nelle
svariate immanenze provocatorie che discoprono il grottesco dell’esistente introducendo, col
dramma e la tragedia, la critica degli assetti sociali, sono, esordendo nei Chants, lo stormo di gru
comandato dalla vecchia gru-filosofa, l’acaro sarcopto propagatore della scabbia e il vampiro
autobiografico identificato con l’adolescente Isidore, memore degli adombrati compagni di liceo
Falmer, Reginaldo, Edoardo, Elsseneur, Mervyn…; che in Maldoror, lungo sogno neobarocco ed
espressionistico nella patria dell’illuminismo, interagiscono coi personaggi, taluni deformi e
paradossali ‘figure dello schermo’, di Lemano, Lombano, Lohengrin, Mario, Tremdall, Holzer,
Aghone.
Similitudini d’una vivente metamorfosi, ingegnose dislocazioni e stupefacenti proliferazioni dell’Io
immane del poeta, ora seguono e s’affollano in allegorica ridda ed eterogeneo, dilagante pullulìo,
col polpo e la piovra, il grillo, i cani impazziti, la foca e l’elefante, il pesce martello, la razza, la
tarantola e il ragno, l’avvoltoio, il pellicano, il capodoglio e l’ippopotamo, la rana, il coccodrillo, il
gabbiano e l’airone, la lumaca, il millepiedi e la chiocciola, la torpedine, l’anarnak groelandese e lo
scorfano-orribile, il nibbio, il bozzagro e, giunto dall’inferno e covato dall’uomo, il diabolico
pidocchio alleato della sporcizia... Poi, in allucinati turbini, l’istrice, il picchio, la civetta, l’asino, il
rospo, la piattola e la vipera, alleati, insieme all’uomo, nel coprire d’insulti il Creatore, sorpreso a
giacere in mezzo alla strada, ubriaco fradicio e coi vestiti a brandelli. Un Dio fallito, valetudinario e
insulso, che disprezza se stesso e l’uomo sua immagine e somiglianza, è quello messo in scena:
quasi un fenomeno da baraccone, irriso e disprezzato dal poeta blasfemo e terrorista.
Carnefice e, insieme, vittima della divinità, arcangelo degenerato ma ricco d’una furibonda sapienza
parodistica, nobile reietto e orfano circuito dai precettori dei collegi, incompreso e trascurato dagli
insegnanti, vediamo Maldoror, “divino adolescente” e “misterioso giovane” – metamorfico
“predatore di rottami celesti”, “fratello della sanguisuga”, “corsaro dai capelli d’oro”, “uomo dalle
labbra di bronzo […], di diaspro” […], di zaffiro” – errare tra la place Vendôme e Montmartre, rue
Colbert e rue Vivienne, rue Rivoli, rue de la Verrerie e rue Lafayette, le Tuileries, i lungosenna
Conti, Malaquais e dei Grands-Augustins, i ponti di Austerlitz, del Carrousel e dell’Alma, i viali
Sébastopol, Poissonnière e Bonne-Nouvelle, i giardini del Palais Royal, il Panthéon, il sobborgo
Saint-Denis e i dedali d’una Parigi pietrificata in irreali, inquietanti panorami: dentro un globo di
enigmi dove tutto è vero e niente è davvero ciò che appare.
Eccolo, Ducasse-Maldoror, il “Montevideano” di cui udiamo i “profondi gemiti”, il bambino
abbandonato che “fu buono”, il bardo senza patria che digrigna parole con la bocca piena di
venefiche “foglie di belladonna” e non scrive per cercare il plauso altrui, affida ai sogni ‘guidati’ la
propria stessa scrittura e ha sete d’infinito… “La fine dell’Ottocento vedrà il suo poeta” attesta non
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senza ragione. Aggiungendo, a mo’ d’umoristico e dissimulato viatico: “Se vuoi seguire le mie
istruzioni, la mia poesia t’accoglierà a braccia aperte, così come un pidocchio recide coi suoi baci la
radice d’un capello”...
Eccolo, colui che ha un “viso di platino” e non vuole emozionarsi né sa piangere, chiamare sorella
la sanguisuga, compiangere la solitudine dell’ermafrodito, deplorare ma poi compatire gli
“incomprensibii pederasti” e ‘trasporsi’ quale omosessuale sadico, pedofilo e corruttore… Eppure,
supponendo che l’identità dell’autore riposi, come per altri moderni classici, su una retorica e
autoreferenziale invenzione/nozione di scrittura, “quanto Lautréamont ci fa leggere” – ipotizza
Marcelin Pleynet – non parrebbe verificabile nella realtà effettuale; “e insomma non ha niente a che
fare con la sua biografia […]. Attraverso il tracciato della sua opera, Lautréamont è stato la sua
scrittura e basta” (Lautréamont par lui-même, 1967).
Espressione d’un sovrasenso allucinatorio, lo humour lautréamontiano – aggiunge e puntualizza
Blanchot – “rappresenta la lucidità di uno scrittore capace di prendere le sue distanze nei confronti
di ciò che scrive” (Lautréamont et Sade, 1949).
Erigendo sempre nuove, spiazzanti estetiche, col bello convenzionale fatto brutto e il brutto
rovesciato in bello, Maldoror lotta col soave angelo che vorrebbe redimerlo; venera, lui cultore
dell’irrazionale antiumanistico, l’esattezza delle “severe matematiche”; riconosce la propria anima
gemella nella femmina di squalo con cui s’accoppia in un mucido amplesso; sogna di trasformarsi
in grufolante maiale; deride i riti semilustrali delle famigliole borghesi; fa della crudeltà la maschera
d’una dubbia compassione verso le creature sofferenti e abbandonate alla loro sorte da un demiurgo
scandaloso, un “bandito” pure inetto, ostile all’umano e perciò dissacrato e secolarizzato…
Ecco quell’avventuriero luciferino descriversi amico della morte come un Satana miltoniano e
fatalmente infermo al pari d’un eroe sconfitto e ferito, carico di morbi disgustosi e col corpo
putrescente invaso da animali ripugnanti: i pidocchi gli succhiano il grasso delle costole, un
granchio gli custodisce l’ano e glielo smangia con le chele, due meduse gli poppano i glutei, una
perfida vipera gli divora il pene e ne prende il posto (“Eunuco mi ha reso, quell’infame!”)..
Inorridito e coperto di sangue, Maldoror sogna la propria thanatografia: sognato a sua volta da
Lautréamont, che lo nomina e raffigura in visioni oniriche o ‘sogni che scrivono’ delle realtà
effigiate in imperterriti simulacri ed esposte con oblique affettazioni umoristiche.
Nell’aperto, eccitato spazio della poesia ducassiana, dove – ammonisce, celiando, l’autore – non c’è
posto per il sorriso “stupidamente sarcastico dell’uomo dalla faccia di papera” e, piuttosto, ha
“molto spazio [il] simpatico uso della metafora”, si scorgono una lucciola parlante, l’aquilaMaldoror in tenzone col drago della Speranza, un incontro di frigidi sensi fra una macchina da
cucire e un ombrello sopra un tavolo anatomico, un omnibus-fantasma che sfreccia per le strade
deserte, una bambina adescatrice di passanti, un antropofago che si dice Creatore Onnipotente…
E ancora, in sequenze idealmente incrociate: una pazza che passa ballando per le strade, inseguita
dai ragazzi (“la prendono a sassate, come fosse un merlo”: è la madre della bambina, somigliante a
una rosa e stuprata da Maldoror insieme al suo mastino).
Grida di dolore, che diventano rettili.
Vomitano, i porci, guardando Maldoror che cambia e degrada restando sempre se stesso.
Si materializza l’odio, assumendo l’aspetto “spezzato” d’un bastone calato nell’acqua.
Maldoror-polipo attacca le ventose dei suoi tentacoli all’augusto corpo d’Iddio.
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Una frotta di galline e un gallo tempestano di beccate la vagina tumefatta d’una prostituta abitatrice
d’un convento divenuto fetido bordello, dove un ragazzo viene scorticato vivo e va trascinando sul
pavimento la propria stessa pelle rivoltata, simile a un mantello intriso di sangue.
Caduto dalla testa del Creatore, un capello biondo, lungo e petulante quanto un uomo, saltella nella
stanza del convento-bordello e parla, parla.
Delle monache sepolte nelle catacombe del convento-bordello si destano dopo secoli dal loro
letargo mortale, escono scarmigliate dai loculi e, non potendo ritrovare il sonno, intonano ipnotiche
preghiere.
Un asino mangia un fico, e c’è Maldoror che sostiene d’avere visto un fico mangiare un asino; ma
non per questo si mette a ridere: gli sembrerebbe di somigliare alla stupida capra. Piange, invece: al
pari del cinghiale che lo sfiora correndo e lascia cadere una lacrima.
Appeso per i capelli a una forca, un uomo con le braccia legate dietro la schiena viene seviziato da
due donne-orango: sua madre e sua moglie.
Di fronte a tutto ciò, “ridete, ma nello stesso tempo piangete” raccomanda l’umorismo nero e
pressappoco giocondo del dandy adolescente. Che aggiunge: “Sia maledetto dai suoi figli e dalla
mia scarna mano, chi insiste a non capire i crudeli canguri del riso e gli audaci pidocchi della
caricatura!”.
Inventario moltiplicato di ossessioni, paradossi e simboli capziosi, i Chants maldororiani:
parossismi onirici e abissi regolati da una parola che, per farsi schietta letteratura e autentica poesia,
non si pone limiti né censure; fino a scardinare gli invalsi modelli estetici. Al punto che, a
discoprire una singolare ‘estetica del brutto’, per Lautréamont il volto d’un amico è bello come “il
fiore del cactus” e il ‘viso’ d’un rospo antropomorfico è triste come l’universo e bello come il
suicidio. Il gufo reale della Virginia appare bello come la curva descritta da un cane in corsa e i
rapaci sono belli come “scheletri che sfoglino pannocchie dell’Arkansas”. L’uomo con la testa di
pellicano – probante antefatto e conio d’un metafisico quadro di Savinio – è bello come “i due
lunghi filamenti tentacolari di un insetto”, il pio ma non innocente Mervyn, sedicenne insidiato dal
vieppiù tenebroso Maldoror, è bello come gli artigli retrattili dei rapaci; e lo scarabeo, che si balocca
con una palla di sterco come fa il Demiurgo col mondo, è bello come il tremito delle mani causato
dall’alcolismo...
Posseduto dal demone periglioso della similitudine, da un culto del paragone profuso in gran parte
dei Canti, l’autore, da Paul Eluard definito “maestro di metafore” (Donner à voir, “Nouvelle Revue
Françoise”, 1939), si compiace, in una sequela di sarcasmi, di decontestualizzare, mistificare,
allucinare o addirittura ‘sconclusionare’ la logica; e lo fa non ricorrendo all’automatismo inconscio
praticato dai surrealisti, ma all’insegna d’una iper-retorica che non può essere se non parodistica.
Piene sono, qui, la jouissance dandistica e la consapevolezza del giovane poeta di talento che
ricerca e sperimenta, mediante correlazioni dinamiche dilatate in inimmaginabili apparizioni,
accostamenti inusuali e inedite prospettive, uno stile rivoltoso, avverso e oppositivo: perché è
proprio del dandy stare all’opposizione; e costui – scrive Camus – “non può porsi se non
opponendosi” (cit).
Alle nequizie di un Dio dipinto “in tutta la splendente aureola del suo orrore”, Maldoror obietta con
la bestemmia, con la superbia gnostica di chi vuole giudicare il proprio divino giudice (gli
improperi maldororiani contro il Creatore annunciano gli insulti che i surrealisti rivolgono al Papa).
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Dio esiste? Allora, questa suprema e mutevole essenza, “pitone […], drago […], rinoceronte”, è a
maggior ragione colpevole del male degli uomini… È per non dimenticarsene che l’inconsolabile
bestemmiatore non cessa la sua lesa santità: maledice sapendo che non c’è salvezza possibile, e
perché l’Onnipotente è lui stesso dannato.
Per tali sue implicazioni, che sembrerebbero d’un aspirante ‘teologo ateo’ e sono piuttosto
emblematizzate nelle confluenze del racconto poetico, è ben più d’un protosurrealista l’irripetibilità
della meteora-Lautréamont: la cui scrittura contraddice, con la sua puntualità lessicale e il suo
humour dolente, l’antiletteraria immediatezza psichica professata dai surrealisti.
Riferendosi a Lautréamont, André Gide scrive: “La sua influenza lungo il XIX secolo è stata nulla,
ma egli è con Rimbaud, forse più di Rimbaud, il padrone delle sorgenti per la letteratura di domani”
(“Le Disque Vert”, Le cas Lautréamont, Paris-Bruxelles, 1925). A sua volta, Guy Debord, autore
del primo, eversivo e attualissimo trattato di critica del sistema dello spettacolo (La société du
spectacle, 1967) e tra i fondatori dell’Internazionale situazionista (1957), nel suo autobiografico
Panégyrique (1989) proclama di stimare, “più di chiunque al mondo […,] Arthur Cravan”,
sconosciuto ‘poeta-pugile’, fondatore della rivista “Maintenant” venduta per le strade di Parigi con
un carrettino da fruttivendolo, “e Lautréamont”…
Chissà allora che i più legittimi eredi dei Chants – profezia dell’orrore postmoderno e poema di
rivolta in cui convergono poesia, romanzo, critica del mondo – e di Lautréamont, poeta ricco di
destino, alfine riconoscibile come agitatore letterario d’avanguardia, non siano gli storicizzati
surrealisti bensì le generazioni libertarie di là da venire, eredi dei sediziosi déragés e dei
‘situazionisti’ anticipatori del sessantottesco Maggio francese.
Una conclusione ‘aperta’ o una franca promessa è infine la seguente frase all’inizio dell’ultimo
canto maldororiano: “Insomma, pretendereste che avendo, nelle mie chiare iperboli, insultato un po’
per gioco l’uomo, il Creatore e me stesso, la mia missione fosse compiuta? No: la parte più
importante del mio lavoro è ancora tutta da fare”.
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Scelta bibliografica
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Balitout, Questroy et Cie (di cui esistono solo due esemplari: Bibliothèque Nationale et Bibliohèque Doucet); Les
Chants de Maldoror, Bruxelles, A. Lacroix, Verboeckhoven et Cie, 1869; Les Chants de Maldoror, Paris-Bruxelles,
Typ. E. Wittmann, 1874; Les Chants de Maldoror, Paris, Genonceaux, 1890;
Poésies I, Paris, Librairie Gabrie, 1870; Poésies II, Paris, Librairie Gabrie, 1870.
[Per una bibliografia completa delle opere di Lautréamont, cfr., tra le altre bibliografie, soprattutto le Ouvres complètes
(con un saggio di E. Jaloux e un frontespizio di S. Dalì), Paris, Corti, 1938; e P.O. Walzer, Lautréamont (Germain
Nouveau), Paris, Gallimard, 1970].
***
Tra gli innumerevoli scritti in francese sull’opera di Lautréamont, si segnalano: L. Bloy, Le cabanon de Prométhée, “La
Plume”, 1 settembre 1890; C. Arnauld, Les Chants de Maldoror, “L’Esprit Nouveau”, n. 2, 1919; A. Breton, Les
Chants de Maldoror, “Nouvelle Revue Française”, 1 giugno 1920; R. De Gourmont, Introduzione ai Chants de
Maldoror, Paris, La Sirène, 1921; L. Treich, Lautréamont, “Nouvelles Littéraires”, 6 dicembre 1924; P. Dermée,
Lautréamont, “Esprit Nouveau”, n. XX, 1924; G. Bauer, Le cas Lautréamont, “Echo de Paris”, 18 febbraio 1926; A.
Breton, Isidore Ducasse, “Littérature”, dicembre 1929; G. Truc, Le comte de Lautréamont et Dieu, “Comoedia”, 8
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aprile 1930; H. de Régnier, Le comte de Lautréamont et Dieu, “Figaro”, 6 maggio 1930; P. Daumal, Le comte de
Lautréamont et la critique, “Nouvelle Revue Française”, novembre 1930; R. Lalou, Lautréamont, “Nouvelles
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Chants de Maldoror et l’histoire, “Europe”, 15 settembre 1930; I. Denis, Lautréamont, “Nouvelle Équipe”, n. 1, 1931;
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