Senso e non senso

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Senso e non senso
Maurice Merleau-Ponty
Senso e non senso
Introduzione di Enzo Paci
Traduzione di Paolo Caruso
© Editions Gallimard, 1996
© il Saggiatore S.r.l., Milano 2016
Prima edizione il Saggiatore, Milano 1962
Titolo originale: Sens et non-sens­­
Sommario
Nota editoriale
7
Introduzione di Enzo Paci
9
Prefazione
21
opere
Il dubbio di Cézanne
27
Il romanzo e la metafisica
45
Un autore scandaloso
Il cinema e la nuova psicologia
61
Note
69
83
idee
L’esistenzialismo in Hegel87
Le polemiche sull’esistenzialismo
95
Il metafisico nell’uomo
109
Intorno al marxismo
125
Marxismo e filosofia
153
Note
165
politiche
C’è stata la guerra
173
Per la verità
189
Fede e buona fede
209
L’eroe e l’uomo
219
Note
225
Indice dei nomi
227
Senso e non senso
Opere
Il dubbio di Cézanne
Gli ci volevano cento sedute di lavoro per una natura morta e centocinquanta sedute di posa per un ritratto. Quella che noi chiamiamo la sua opera, per lui era soltanto l’esperimento e l’avvio della sua pittura. Scrive nel
settembre 1906, a 67 anni, un mese prima di morire: «Mi trovo in un tale stato di disordine cerebrale, in così grande agitazione, che ho temuto, a
un certo momento, che la mia debole ragione non ce la facesse… Ormai
mi sembra di star meglio e di pensar più giusto nell’orientamento dei miei
studi. Arriverò allo scopo tanto cercato e così a lungo perseguito? Studio
sempre dal vero e mi sembra di fare lenti progressi». La pittura è stata il suo
mondo e la sua maniera di esistere. Lavora solo, senza allievi, senza ammirazione da parte della sua famiglia, senza incoraggiamento di giurie. Dipinge il pomeriggio del giorno della morte di sua madre. Nel 1870, dipinge
all’Estaque mentre i gendarmi lo ricercano come renitente. Eppure gli capita di mettere in dubbio tale vocazione. Invecchiando, si chiede se la novità della sua pittura non derivi da un disordine dei suoi occhi, e se tutta
la sua vita non si sia impostata in base a un difetto del suo corpo. A questo
sforzo e a questo dubbio corrispondono le incertezze o gli sciocchi pregiudizi dei contemporanei. «Pittura di bottinaio ubriaco» diceva un critico nel 1905. Ancor oggi, C. Mauclair trae argomento contro Cézanne dalle
sue confessioni d’impotenza. Nel frattempo, i suoi quadri diventano celebri. Perché mai tanta incertezza, tanta fatica, tanti fallimenti, e all’improvviso il più grande successo?
Zola, che era amico di Cézanne sin dall’infanzia, è stato il primo a tro-
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varlo geniale, e il primo a parlarne come di un «genio abortito». Uno spettatore della vita di Cézanne, come Zola, più interessato al suo carattere che non
al senso della sua pittura, poteva ben ritenerla una manifestazione morbosa.
Sin dal 1852, a Aix, al collegio Borbone dov’era appena entrato, Cézanne preoccupava gli amici con le sue collere e le sue depressioni. Sette anni più tardi, deciso a diventar pittore, dubita del proprio talento e non osa
chiedere al padre, cappellaio e poi banchiere, di mandarlo a Parigi. Le lettere di Zola gli rimproverano l’instabilità, la debolezza e l’indecisione. Viene
a Parigi, ma scrive: «Non ho fatto che cambiar posto e la noia m’ha seguito». Non tollera la discussione, perché lo affatica e perché non sa mai dire le
sue ragioni. Il fondo del suo carattere è ansioso. A 42 anni, pensa di morir
giovane e fa testamento. A 46 anni, per sei mesi, è pervaso da una passione
impetuosa, tormentata, opprimente, di cui si ignora la conclusione e di cui
non parlerà mai. A cinquantun anni, si ritira a Aix, per trovarvi la natura
che meglio si conviene al suo genio, ma anche per ripiegarsi sull’ambiente della sua infanzia, sua madre e sua sorella. Quando sua madre morirà,
egli si appoggerà sul figlio. «È spaventosa, la vita» diceva spesso. La religione, che si mette allora a praticare, comincia per lui con la paura della vita e
la paura della morte. «È la paura» spiega a un amico, «mi sento ancora per
quattro giorni sulla terra; e poi? Credo che non sopravviverò e non voglio
rischiare di arrostire in aeternum.» Per quanto si sia più tardi approfondita,
il motivo iniziale della sua religione è stato il bisogno di fissare la sua vita e
di dimettersene. Diventa sempre più timido, diffidente e suscettibile. Viene talvolta a Parigi, ma, quando incontra amici, fa loro segno da lontano di
non avvicinarlo. Nel 1903, quando i suoi quadri cominciano a vendersi a
Parigi due volte più cari di quelli di Monet, quando giovani come Joachim
Gasquet ed Émile Bernard vengono a trovarlo e a interrogarlo, si distende
un po’. Ma le collere persistono. Un bambino di Aix l’aveva una volta colpito passandogli vicino; da allora non poteva più sopportare un contatto.
Un giorno della sua vecchiaia, siccome barcollava, Émile Bernard lo sostenne con la mano. Cézanne andò in gran collera. Lo si sentiva camminare in
su e in giù nel suo studio gridando che non si sarebbe lasciato mettere «le
zampe addosso». Proprio a causa delle «zampe» escludeva dal suo studio le
donne che avrebbero potuto servirgli da modelle, dalla sua vita i preti che
diceva «attaccaticci», e dal suo spirito le teorie di Emile Bernard quando si
facevano troppo insistenti.
Il dubbio di Cézanne 29
La perdita dei contatti tranquilli con gli uomini, l’impotenza a padroneggiare le situazioni nuove, la fuga nelle abitudini, in un ambiente che
non ponga problemi, la rigida opposizione fra teoria e pratica, fra «zampe» e libertà solitaria – tutti questi sintomi consentono di parlare di una
costituzione morbosa e, per esempio, come si è fatto per El Greco, di uno
schizoide. L’idea di una pittura «dal vero» verrebbe a Cézanne dalla stessa
debolezza. La sua estrema attenzione alla natura, al colore, il carattere disumano della sua pittura (diceva che un viso va dipinto come un oggetto),
la sua devozione al mondo visibile, non sarebbero che una fuga dal mondo
umano, l’alienazione della sua umanità.
Tali congetture non danno il senso positivo dell’opera, onde non se ne
può concludere senz’altro che la sua pittura sia un fenomeno di decadenza
e, come afferma Nietzsche, di vita «impoverita», e nemmeno che essa non
abbia niente da insegnare all’uomo completo. Probabilmente Zola ed Émile
Bernard hanno creduto a uno scacco appunto per aver lasciato troppo posto
alla psicologia e alla loro conoscenza personale di Cézanne. Resta possibile che, in occasione delle sue debolezze nervose, Cézanne abbia concepito
una forma d’arte valida per tutti. Lasciato a se stesso, ha potuto guardare
la natura come solo un uomo sa fare. Il senso della sua opera non può essere determinato dalla sua vita.
Né lo si può conoscere meglio in base alla storia dell’arte, cioè riferendosi alle influenze (degli Italiani e di Tintoretto, di Delacroix, di Courbet
e degli Impressionisti), ai procedimenti di Cézanne, o magari alla testimonianza che egli stesso fornì sulla sua pittura.
I suoi primi quadri, fin verso al 1870, sono sogni dipinti, un Rapimento,
un Assassinio. Nascono dai sentimenti e vogliono in primo luogo provocare sentimenti. Sono dunque quasi tutti dipinti a grandi linee e offrono la
fisionomia morale dei gesti più che il loro aspetto visibile. Agli Impressionisti, e in particolare a Pissarro, Cézanne deve di aver inteso poi la pittura,
non come l’incarnazione di scene immaginate o la proiezione esterna dei
sogni, ma come lo studio preciso delle apparenze, non tanto come un lavoro di studio quanto come un lavoro aperto alla natura, e di aver lasciato la
fattura barocca, che cerca anzitutto di rendere il movimento, per i piccoli
tocchi giustapposti e i tratteggi pazienti.
Ma si è presto separato dagli Impressionisti. L’Impressionismo voleva
rendere nella pittura la maniera medesima in cui gli oggetti ci colpiscono
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la vista e aggrediscono i nostri sensi. Li rappresentava nell’atmosfera in cui
li dà la percezione istantanea, senza contorni assoluti, collegati tra loro dalla luce e dall’aria. Per rendere questo involucro luminoso, bisognava escludere i terra, gli ocra e i neri, e utilizzare soltanto i sette colori del prisma.
Per rappresentare il colore degli oggetti, non bastava riportarne sulla tela la
tonalità locale, ossia il colore che assumono quando li si isola da quanto li
circonda, bisognava tener conto dei fenomeni di contrasto che nella natura modificano i colori locali. Per di più, ogni colore che vediamo in natura
provoca, per una specie di contraccolpo, la visione del colore complementare, e tali complementari si esaltano. Per ottenere sul quadro, che sarà visto nella debole luce degli appartamenti, lo stesso aspetto dei colori sotto il
sole, bisogna dunque farvi figurare non solo il verde, se si tratta di erba, ma
anche il rosso complementare che lo farà vibrare. Infine, anche la tonalità
locale viene decomposta negli Impressionisti. Si può in generale ottenere
ogni colore giustapponendo, anziché mescolarli, i colori componenti, per
renderli più vibranti. Risultava da questi procedimenti che la tela non era
più paragonabile alla natura punto per punto, ma restituiva, grazie all’azione reciproca delle parti fra loro, una verità generale dell’impressione. Ma
la pittura dell’atmosfera e la divisione dei toni annegavano in pari tempo
l’oggetto e ne dissolvevano la pesantezza sua propria. La composizione della tavolozza di Cézanne fa presumere che egli si dia un altro scopo: ci sono
non i sette colori del prisma, ma diciotto colori, sei rossi, cinque gialli, tre
blu, tre verdi, un nero. L’uso dei colori caldi e del nero mostra che Cézanne
vuol rappresentare l’oggetto, ritrovarlo dietro l’atmosfera, così pure egli rinuncia alla divisione del tono e la sostituisce con mescolanze graduate, con
un succedersi di sfumature cromatiche sull’oggetto, con una modulazione colorata che segue la forma e la luce ricevuta. La soppressione dei contorni precisi in taluni casi e la priorità del colore sul disegno non avranno
evidentemente lo stesso senso in Cézanne e nell’Impressionismo. L’oggetto
non è più coperto di riflessi né perduto nei suoi rapporti con l’aria e con gli
altri oggetti, ma è come illuminato sordamente dall’interno, la luce emana
da lui, onde ne risulta un’impressione di solidità e di materialità. Cézanne
non rinuncia d’altronde a far vibrare i colori caldi e ottiene questa sensazione colorante con l’impiego del turchino.
Bisognerebbe quindi dire che egli ha voluto ritornare all’oggetto senza abbandonare l’estetica impressionista, che prende modello dalla natura.
Il dubbio di Cézanne 31
Émile Bernard gli ricordava che un quadro, per i classici, esige circoscrizioni mediante i contorni, la composizione e la distribuzione delle luci. Cézanne risponde: «Loro facevano il quadro e noi tentiamo un pezzo di natura».
Egli ha detto dei maestri che essi «sostituiscono la realtà con l’immaginazione e con l’astrazione che l’accompagna», e della natura che «bisogna
sottomettersi a quest’opera perfetta. Tutto ci proviene da essa, per essa noi
esistiamo; dimentichiamo tutto il resto». Dichiara di aver voluto rendere
l’Impressionismo «qualcosa di solido come l’arte dei musei». La sua pittura sarebbe un paradosso: ricerca della realtà senza abbandono della sensazione, senza altra guida che la natura nell’impressione immediata, senza
precisare i contorni, senza circoscrivere il colore nel disegno, senza comporre la prospettiva né il quadro. Ecco appunto quel che Bernard chiama
il suicidio di Cézanne: egli ha di mira la realtà e si vieta gli strumenti per
raggiungerla. In ciò consisterebbe la ragione delle sue difficoltà e anche delle deformazioni riscontrabili in lui soprattutto tra il 1870 e il 1890. I piatti o le tazze collocati di profilo su un tavolo dovrebbero essere ellissi, ma i
due vertici dell’ellisse sono ingrossati e dilatati. Il tavolo di lavoro, nel ritratto di Gustave Geffroy, è disposto nella parte bassa del quadro, contro
le leggi della prospettiva. Lasciando il disegno, Cézanne si sarebbe abbandonato al caos delle sensazioni. Orbene, le sensazioni farebbero vacillare
gli oggetti e suggerirebbero costantemente delle illusioni, come fanno talvolta – per esempio l’illusione d’un movimento degli oggetti quando muoviamo la testa –, se il giudizio non correggesse di continuo le apparenze.
Cézanne avrebbe, dice Bernard, sprofondato «la pittura nell’ignoranza e il
suo spirito nelle tenebre».
In realtà, si può giudicare così la sua pittura solo non tenendo conto della
metà di quel che ha detto e chiudendo gli occhi dinanzi a quel che ha dipinto.
Nei suoi dialoghi con Émile Bernard, è chiaro che Cézanne cerca sempre di sfuggire alle alternative già bell’e fatte che gli si propongono – fra
sensi e intelligenza, fra pittore che vede e pittore che pensa, fra natura e
composizione, fra primitivismo e tradizione. «Bisogna farsi un’ottica» dice, ma «per ottica intendo una visione logica, cioè senza niente d’assurdo.» «Si tratta della nostra natura?» chiede Bernard. Cézanne risponde: «Si
tratta di entrambe». «La natura e l’arte non sono forse differenti?» «Vorrei
unirle. L’arte è un’appercezione personale. Io pongo tale appercezione nella sensazione e domando all’intelligenza di organizzarla in opera.» Ma an-
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Senso e non senso
che queste formule si valgono troppo delle nozioni abituali di «sensibilità»
o «sensazione» e di «intelligenza», ed ecco perché Cézanne non poteva persuadere e preferiva dipingere. Anziché applicare alla sua opera dicotomie,
che d’altronde appartengono più alle tradizioni di scuola che ai fondatori – filosofi o pittori – di tali tradizioni, sarebbe meglio essere docili al senso peculiare della propria pittura, che è di rimetterle in questione. Cézanne
non ha creduto di dover scegliere tra sensazione e pensiero come tra caos e
ordine. Non vuole separare le cose fisse che appaiono sotto il nostro sguardo e la loro labile maniera di apparire, vuole dipingere la materia che si sta
dando una forma, l’ordine nascente attraverso un’organizzazione spontanea. Non introduce la frattura tra «i sensi» e l’«intelligenza», ma tra l’ordine
spontaneo delle cose percepite e l’ordine umano delle idee e delle scienze.
Noi percepiamo le cose, ci intendiamo su di esse, siamo ancorati a esse e
solo su queste fondamenta di «natura» costruiamo delle scienze. Cézanne
ha voluto dipingere questo mondo primordiale, ed ecco perché i suoi quadri danno l’impressione della natura alla sua origine, mentre le fotografie
dei medesimi paesaggi suggeriscono i lavori degli uomini, le loro comodità
e la loro presenza imminente. Cézanne non ha mai voluto «dipingere come un bruto», ma rimettere l’intelligenza, le idee, le scienze, la prospettiva e la tradizione a contatto con il mondo naturale che esse sono destinate
a comprendere, e confrontare con la natura, come egli afferma, le scienze
«che ne sono scaturite».
Le ricerche di Cézanne nella prospettiva scoprono, in virtù della loro
fedeltà ai fenomeni, quanto la psicologia recente doveva formulare. La prospettiva vissuta, quella della nostra percezione, non è la prospettiva geometrica o fotografica: nella percezione, gli oggetti vicini sembrano più piccoli,
e gli oggetti lontani più grandi, di quanto non lo sembrino su una fotografia, come si può osservare al cinema quando un treno si avvicina e ingrandisce molto più rapidamente di un treno reale nelle medesime condizioni.
Dire che un cerchio visto obliquamente è visto come un’ellisse, significa sostituire alla percezione effettiva lo schema di quel che dovremmo vedere se
fossimo macchine fotografiche: in realtà vediamo una forma che oscilla intorno all’ellisse senza essere un’ellisse. In un ritratto della signora Cézanne,
il fregio della tappezzeria, ai due lati del corpo, non costituisce una linea
retta: ma è noto che se una linea passa sotto una larga striscia di carta, i due
tronconi visibili sembrano dislocati. Il tavolo di Gustave Geffroy è disposto
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nella parte bassa del quadro, ma quando il nostro occhio percorre una larga superficie, le immagini che ottiene volta a volta sono prese da differenti
punti di vista e la superficie totale è incurvata. È vero che riportando sulla
tela queste deformazioni, le fisso e arresto il movimento spontaneo per cui
si ammassano le une sulle altre nella percezione e tendono verso la prospettiva geometrica. È quanto succede anche a proposito dei colori. Una rosa
su un foglio di carta grigio colora di verde lo sfondo. La pittura di scuola dipinge lo sfondo di grigio, contando sul fatto che il quadro, come l’oggetto reale, produrrà l’effetto di contrasto. La pittura impressionista mette
del verde sullo sfondo, per ottenere un contrasto tanto vivo quanto quello degli oggetti all’aria aperta. Non falsa forse, in tal modo, il rapporto fra
i toni? Lo falserebbe se si limitasse a questo. Ma è proprio del pittore far sì
che tutti gli altri colori del quadro, convenientemente modificati, tolgano
al verde posto sullo sfondo il carattere di colore reale. Analogamente, il genio di Cézanne fa sì che le deformazioni prospettiche, in virtù dell’impianto complessivo del quadro, cessino di essere visibili per se stesse quando lo
si guarda globalmente, e contribuiscano soltanto, come fanno nella visione
naturale, a dar l’impressione di un ordine nascente, di un oggetto che sta
comparendo, che sta coagulandosi sotto i nostri occhi. Allo stesso modo il
contorno degli oggetti, concepito come una linea che li recinga, non appartiene al mondo visibile ma alla geometria. Se si segna con una linea il contorno di una mela, lo si rende una cosa, mentre esso è il limite ideale verso
cui i lati della mela fuggono in profondità. Non segnare nessun contorno,
significherebbe togliere agli oggetti la loro identità. Segnarne uno solo, significherebbe sacrificare la profondità ossia la dimensione che ci dà la cosa, non come esibita davanti a noi, ma come piena di riserve e come realtà
inesauribile. Ecco perché Cézanne seguirà in una modulazione colorata il
rigonfiamento dell’oggetto e segnerà a tratti turchini parecchi contorni. Lo
sguardo, rinviato dall’uno all’altro, avverte un contorno nascente tra loro
tutti come fa nella percezione. Non c’è niente di meno arbitrario di quelle
celebri deformazioni, che d’altronde Cézanne abbandonerà nel suo ultimo
periodo, a partire dal 1890, quando non riempirà più la tela di colori e abbandonerà l’esecuzione serrata delle nature morte.
Il disegno deve dunque risultare dal colore, se si vuole che il mondo sia
reso nella sua densità, poiché esso è una massa senza lacune, un organismo
di colori, attraverso i quali la fuga della prospettiva, i contorni, le rette e le
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curve si dispongono come linee di forza, e la dimensione spaziale si costituisce vibrando. «Il disegno e il colore non sono più distinti; nella misura in cui si dipinge, si disegna; più il colore si armonizza e più il disegno si
precisa… Quando il colore raggiunge la sua ricchezza, la forma è alla sua
pienezza.» Cézanne non cerca di suggerire con il colore le sensazioni tattili
che darebbero la forma e la profondità. Nella percezione primordiale, tali
distinzioni fra il tatto e la vista sono ignote. È la scienza del corpo umano
che ci insegna poi a distinguere i nostri sensi. La cosa vissuta non è ritrovata o costruita in base ai dati dei sensi, ma si offre di primo acchito come
il centro donde essi si irradiano. Noi vediamo la profondità, il vellutato, la
morbidezza, la durezza degli oggetti – Cézanne dice perfino: il loro odore.
Se il pittore vuole esprimere il mondo, bisogna che la disposizione dei colori rechi in sé questo Tutto indivisibile; altrimenti la sua pittura sarà un’allusione alle cose e non le offrirà nell’unità imperiosa, nella presenza e nella
pienezza insuperabile che è per noi tutti la definizione del reale. È questo il
motivo per cui ogni pennellata deve soddisfare a un’infinità di condizioni,
e per cui Cézanne meditava talvolta per un’ora prima di darla; essa deve,
come dice Bernard, «contenere l’aria, la luce, l’oggetto, il piano, il carattere,
il disegno e lo stile». L’espressione di quel che esiste è un compito infinito.
Né si può dire che Cézanne abbia meno curato la fisionomia degli oggetti e dei volti, che egli voleva solo cogliere quando essa emerge dal colore.
Dipingere un volto «come un oggetto», non vuol dire privarlo del suo «pensiero». «Intendo che il pittore lo interpreta,» dice Cézanne «il pittore non è
un imbecille.» Ma questa interpretazione non deve essere un pensiero separato dalla visione. «Se dipingo tutte le sfumature di azzurro e di marrone
che ci vogliono, lo faccio guardare come guarda… Certo loro non sospettano come, sposando un verde sfumato a un rosso, si rattristi una bocca o
si faccia sorridere una guancia.» Lo spirito si vede e si legge negli sguardi,
che sono peraltro soltanto insieme colorati. Gli altri spiriti ci si offrono solo incarnati e aderenti a un volto e a gesti. Non serve a nulla contrapporre
qui le distinzioni fra anima e corpo, o fra pensiero e visione, poiché Cézanne ritorna appunto all’esperienza primordiale donde tali nozioni sono tratte e che ce le presenta inseparabili. Il pittore che pensa e che cerca in primo
luogo l’espressione, si lascia sfuggire il mistero, rinnovato ogni volta che
guardiamo qualcuno, della sua comparsa nella natura. Balzac descrive nella
Pelle di Zigrino una «tovaglia bianca come uno strato di neve caduta di fre-
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sco e sulla quale si elevavano simmetricamente i coperti coronati di panini
biondi». «Per tutta la mia giovinezza» diceva Cézanne «ho voluto dipingere questo, quella tovaglia di neve fresca… Ormai so che bisogna limitarsi
a voler dipingere il “s’elevavano simmetricamente i coperti”, e il “di panini
biondi”. Se dipingo “coronati”, sono fregato, capite? E se davvero equilibro
e sfumo i coperti e i panini come dal vero, siate sicuri che le corone, la neve e tutto il tremito vi saranno.»
Viviamo in un ambiente di oggetti costruiti dagli uomini, tra utensili,
in case, strade, città, e il più delle volte non li vediamo se non attraverso le
azioni umane di cui possono essere i punti d’applicazione. Ci abituiamo a
pensare che tutto ciò esiste necessariamente ed è incrollabile. La pittura di
Cézanne mette in sospeso queste abitudini e rivela la base di natura disumana su cui l’uomo si colloca. Ecco perché i suoi personaggi sono strani e
come visti da un essere di un’altra specie. Anche la natura è spogliata degli attributi che la preparano per comunioni animiste: il paesaggio è senza
vento, l’acqua del lago d’Annecy senza movimento, gli oggetti gelati esitanti
come all’origine della terra. È un mondo senza familiarità, in cui non ci si
trova bene, che vieta ogni effusione umana. Se si vanno a vedere altri pittori lasciando i quadri di Cézanne, si prova distensione, come dopo un corteo
funebre il riprendere delle conversazioni maschera quella novità assoluta
e restituisce ai viventi la loro solidità. Ma solo un uomo, per l’appunto, è
capace di questa visione che va sino alle radici, al di qua dell’umanità costituita. Tutto fa credere che gli animali non siano capaci di guardare, d’immergersi nelle cose senza altro motivo che di coglierne la verità. Dicendo
che il pittore delle realtà è una scimmia, Émile Bernard dice quindi esattamente il contrario di quel che è vero, e si capisce come Cézanne potesse riprendere la definizione classica dell’arte: l’uomo aggiunto alla natura.
La sua pittura non nega né la scienza né la tradizione. A Parigi, Cézanne
si recava ogni giorno al Louvre. Pensava che a dipingere si impara, e che lo
studio geometrico dei piani e delle forme sia necessario. Si informava sulla struttura geologica dei paesaggi. Tali relazioni astratte dovevano operare
nell’atto del pittore, ma regolate sul mondo visibile. L’anatomia e il disegno
sono presenti, quando dà una pennellata, come le regole del gioco in una
partita di tennis. Non può mai essere la prospettiva da sola o la geometria,
né le leggi della decomposizione dei colori né qualunque altra cognizione a
motivare i gesti del pittore. Per tutti i gesti che pian piano danno luogo a un
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Senso e non senso
quadro, non c’è che un solo motivo, il paesaggio nella sua totalità e nella sua
pienezza assoluta, che per l’appunto Cézanne chiamava «motivo». Cominciava con lo scoprire gli strati geologici. Poi non si muoveva più e guardava,
dilatando gli occhi, diceva la signora Cézanne. «Germinava» con il paesaggio. Si trattava, dopo aver dimenticato tutte le scienze, di riafferrare, valendosi di tali scienze, la costituzione del paesaggio come organismo nascente.
Occorreva saldare le une alle altre le visioni di tutti i punti di vista particolari che lo sguardo assumeva, riunire quel che viene disperso dalla versatilità
degli occhi, «congiungere le mani erranti della natura», dice Gasquet. «C’è
un minuto del mondo che passa, bisogna dipingerlo nella sua realtà.» La meditazione terminava a un tratto. «Dispongo del motivo» diceva Cézanne, e
spiegava che il paesaggio deve essere cinturato né troppo in alto né troppo
in basso, o anche ricondotto vivo in una rete che non lasci passare niente.
Allora aggrediva il quadro da tutti i lati alla volta, e contornava di macchie
colorate le prime linee al carboncino, lo scheletro geologico. L’immagine
si saturava, si amalgamava, si disegnava, si equilibrava e maturava tutta in
una volta. Il paesaggio, diceva, si pensa in me e io ne sono la coscienza. Nulla è più lontano dal naturalismo di questa scienza intuitiva. L’arte non è né
un’imitazione, né peraltro una costruzione che segua i dettami dell’istinto o
del buon gusto. È un’operazione d’espressione. Come la parola chiama, cioè
coglie nella sua natura e al suo posto dinanzi a noi in qualità d’oggetto riconoscibile quel che appariva confusamente, il pittore, dice Gasquet, «oggettiva», «progetta», «fissa». Come la parola non assomiglia a quel che designa,
la pittura non è un’illusione; Cézanne, secondo le sue proprie parole «scrive
da pittore quel che non è ancora dipinto e lo rende pittura assolutamente».
Dimentichiamo le apparenze viscose ed equivoche, per andare, tramite loro, dritti alle cose che rappresentano. Il pittore riprende e converte appunto
in oggetto visibile ciò che senza di lui resta rinchiuso nella vita separata da
ogni coscienza: la vibrazione delle apparenze che è la genesi delle cose. Per
quel pittore, una sola emozione è possibile, il sentimento d’estraneità, e un
solo lirismo, quello dell’esistenza sempre ricominciata.
Leonardo da Vinci aveva adottato come divisa il rigore ostinato, e tutte le
Arti poetiche classiche dicono che l’opera è difficile. Le difficoltà di Cézanne – come quelle di Balzac o di Mallarmé – non sono della stessa natura.
Balzac immagina, senza dubbio sulla scorta delle indicazioni di Delacroix,
un pittore che vuole esprimere la vita medesima con i soli colori e che tie-
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ne nascosto il suo capolavoro. Quando Frenhofer muore, gli amici non trovano che un caos di colori e di linee inafferrabili, una muraglia di pittura.
Cézanne fu commosso fino alle lacrime leggendo il Capolavoro sconosciuto
e dichiarò di essere lui Frenhofer. Lo sforzo di Balzac, anch’egli ossessionato dalla «realizzazione», fa capire quello di Cézanne. Egli parla, in Pelle di
Zigrino, di un «pensiero da esprimere», di un «sistema da costruire», di una
«scienza da spiegare». Fa dire a Louis Lambert, uno dei geni mancati della Commedia Umana: «… Cammino verso certe scoperte…; ma che nome
dare al potere che mi lega le mani, mi chiude la bocca e mi trascina in senso contrario alla mia vocazione?». Non basta dire che Balzac si sia proposto
di capire la società del suo tempo. Descrivere il tipo del commesso viaggiatore, fare un’«anatomia dei corpi insegnanti» o magari fondare una sociologia, non era un compito sovrumano. Una volta nominate le forze visibili,
come il denaro e le passioni, e una volta descritto il funzionamento manifesto, Balzac si chiede come mai tutto ciò, quale ne sia la ragion d’essere, che
cosa voglia dire per esempio questa Europa «i cui sforzi tendono tutti a non
so quale mistero di civiltà», il che regge dall’interno il mondo, e fa pullulare
le forme visibili. Per Frenhofer, il senso della pittura è il medesimo: «… Una
mano non è solo attaccata al corpo, ma esprime e continua un pensiero che
va colto e reso… La vera lotta è questa! Molti pittori trionfano istintivamente ignorando questo tema dell’arte. Voi disegnate una donna, ma non la vedete». L’artista è colui che fissa e che rende accessibile ai più «umani» fra gli
uomini lo spettacolo di cui fanno parte senza vederlo.
Non esiste dunque arte dilettevole. Si possono fabbricare oggetti che
producono piacere collegando altrimenti idee già pronte e presentando forme già viste. Questa pittura o questa parola seconda è quanto si intende di
solito per cultura. L’artista secondo Balzac o secondo Cézanne non si contenta di essere un animale colto, ma assume la cultura dal suo principio e
la fonda di nuovo, parla come il primo uomo ha parlato e dipinge come se
non si fosse mai dipinto. L’espressione non può essere allora la traduzione di un pensiero già chiaro, perché i pensieri chiari sono quelli che sono
già stati detti in noi stessi o da altri. La «concezione» non può precedere
l’«esecuzione». Prima dell’espressione, non c’è nient’altro che una febbre vaga e solo l’opera fatta e compresa proverà che vi si doveva trovare qualcosa
piuttosto che niente. Poiché è ritornato, per prenderne coscienza, al fondamento d’esperienza muta e solitaria sul quale sono edificate la cultura e lo
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Senso e non senso
scambio delle idee, l’artista lancia la sua opera come un uomo ha lanciato la prima parola, senza sapere se essa sarà qualcosa d’altro che un grido,
se potrà distaccarsi dal flusso di vita individuale in cui nasce e presentare,
sia a questa medesima vita nel suo avvenire, sia alle monadi che coesistono con essa, sia alla comunità aperta delle monadi future, l’esistenza indipendente di un senso identificabile. Il senso di quanto l’artista sta per dire
non c’è in nessun luogo, né nelle cose, che non sono ancora senso, né in lui
stesso, nella sua vita informulata. Esso chiama dalla ragione già costituita,
e in cui si rinchiudono gli «uomini colti», a una ragione che abbraccerebbe le proprie origini. Volendo Bernard ricondurlo all’intelligenza umana,
Cézanne risponde: «Io mi volgo verso l’intelligenza del Pater Omnipotens».
Egli si volge in ogni caso verso l’idea o il progetto di un Logos infinito. L’incertezza e la solitudine di Cézanne non si spiegano, per l’essenziale, con la
sua costituzione nervosa, ma con l’intenzione della sua opera. L’eredità aveva potuto dargli sensazioni ricche, emozioni sorprendenti, un vago sentimento di angoscia o di mistero che disorganizzavano la sua vita volontaria
escludendolo dagli uomini; ma queste qualità fanno un’opera solo grazie
all’atto di espressione e non costituiscono affatto le difficoltà né le virtù di
questo atto. Le difficoltà di Cézanne sono quelle della prima parola. Egli si
è creduto impotente perché non era onnipotente, perché non essendo Dio
voleva tuttavia dipingere il mondo, convertirlo tutto intero in spettacolo e
farlo vedere come esso ci concerne. Una teoria fisica nuova può provare se
stessa perché l’idea o il senso sono in essa legati al calcolo e alle misure che
appartengono a un dominio già comune a tutti gli uomini. Un pittore come Cézanne, un artista o un filosofo, devono non solo creare ed esprimere un’idea, ma anche ridestare le esperienze che la radicheranno nelle altre
coscienze. Se l’opera è riuscita, ha lo strano potere di insegnarsi da sé. Seguendo le indicazioni del quadro o del libro, stabilendo confronti, urtando
da un lato e dall’altro, guidati dalla chiarezza confusa di uno stile, il lettore o lo spettatore finiscono per ritrovare quel che si è voluto comunicare loro. Il pittore ha potuto solo costruire un’immagine. Bisogna attendere
che questa immagine si animi per gli altri. Allora l’opera d’arte avrà unito le vie separate, e non esisterà più semplicemente in una di loro come un
sogno tenace o un delirio persistente, o nello spazio come una tela colorata, ma abiterà indivisa in parecchi spiriti, presuntivamente in ogni spirito
possibile, come un’acquisizione per sempre.
Il dubbio di Cézanne 39
Così le «eredità» e le «influenze» – le disgrazie di Cézanne – sono il testo che la natura e la storia gli hanno dato come sua parte da decifrare. Esse
non forniscono che il senso letterale della sua opera. Le creazioni dell’artista, come d’altronde le decisioni libere dell’uomo, impongono a questo dato
un senso figurato che non esisteva prima di loro. Se ci sembra che la vita di
Cézanne abbia racchiuso in germe la sua opera, ciò deriva dal fatto che conosciamo anzitutto l’opera e che vediamo attraverso di essa le circostanze
della vita caricandole di un senso ricavato dall’opera. I dati di Cézanne che
enumeriamo e di cui parliamo come di condizioni importanti, hanno potuto figurare nel tessuto di progetti che egli era, solo proponendoglisi come
ciò che egli doveva vivere e lasciando indeterminata la maniera di viverlo.
Tema obbligato in partenza, essi, ricollocati nell’esistenza che li contiene,
altro non sono che il monogramma e l’emblema di una vita che si autointerpreta liberamente.
Ma comprendiamo bene questa libertà. Guardiamoci dall’immaginare
una forza astratta che sovrapporrebbe i suoi effetti ai «dati» della vita o che
introdurrebbe fratture nello sviluppo. È certo che la vita non spiega l’opera,
ma è altrettanto certo che esse comunicano. La verità è che quell’opera da
fare esigeva quella vita. Sin dall’inizio, la vita di Cézanne non trovava equilibrio se non appoggiandosi all’opera ancora futura, di cui era il progetto,
e l’opera si annunciava mediante segni premonitori che avremmo torto a
ritenere cause, ma che rendono vita e opera una sola avventura. Non ci sono più qui cause ed effetti, le une e gli altri si raccolgono nella simultaneità di un Cézanne eterno che è la formula di quel che ha voluto essere e, a
un tempo, di quel che ha voluto fare. Esiste un rapporto fra la costituzione schizoide e l’opera di Cézanne perché l’opera rivela un senso metafisico
della malattia – la schizoidia come riduzione del mondo alla totalità delle
apparenze irrigidite e «messa tra parentesi» dei valori espressivi –, perché
la malattia cessa allora di essere un fatto assurdo e un destino per diventare una possibilità generale dell’esistenza umana quando essa affronta con
conseguenza uno dei suoi paradossi – il fenomeno d’espressione – e perché infine è tutt’uno in quel senso essere Cézanne ed essere schizoide. Non
si dovrebbe dunque separare la libertà creatrice dai comportamenti meno
deliberati che si indicavano già nei primi gesti di Cézanne bambino e nella maniera in cui le cose lo concernevano. Il senso che Cézanne nei suoi
quadri darà alle cose e ai volti gli si proponeva anche nel mondo che gli ap-
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Senso e non senso
pariva, Cézanne l’ha solamente esplicitato, erano le stesse cose e gli stessi
volti, quali egli li vedeva, a richiedere di essere dipinti così, e Cézanne ha
solo detto quel che essi volevano dire. Ma allora dov’è la libertà? È vero, le
condizioni d’esistenza non possono determinare una coscienza se non in
virtù delle ragioni d’essere e delle giustificazioni che essa si dà, e possiamo
vedere solo davanti a noi e sotto la parvenza di fini quel che noi stessi siamo, in modo che la nostra vita ha sempre la forma del progetto o della scelta e ci appare così come spontanea. Ma dire che siamo di primo acchito la
visione di un avvenire, significa dire anche che il nostro progetto è già fermo con le nostre prime maniere di essere e che la scelta è già fatta al nostro
primo respiro. Nulla ci costringe dal di fuori proprio perché siamo tutto il
nostro esterno. Quel Cézanne eterno che vediamo sorgere in primo luogo,
che ha attirato sull’uomo Cézanne gli eventi e le influenze ritenuti esterni a
lui, e che disegnava tutto quanto gli era successo, quell’atteggiamento verso gli uomini e verso il mondo che non era stato deliberato, libero rispetto alle cause esterne, è forse libero rispetto a se medesimo? La scelta non è
forse respinta al di qua della vita, e c’è forse scelta quando non c’è ancora
un campo di possibili chiaramente articolato, ma un solo probabile e come
una sola tentazione? Se sono sin dalla nascita progetto, impossibile distinguere in me fra dato e creato, impossibile dunque designare un solo gesto
che sia ereditario o innato e che non sia spontaneo; ma anche un solo gesto che sia assolutamente nuovo rispetto a quella maniera di essere al mondo
che io sono sin dall’inizio. È la stessa cosa dire che la nostra vita è tutta costruita o che è tutta data. Una libertà autentica può esistere solo nel corso
della vita, con il superamento della nostra situazione di partenza e tuttavia
senza che cessiamo di essere gli stessi – questo è il problema. Due cose sono sicure a proposito della libertà: che non siamo mai determinati – e che
non mutiamo mai, ossia che, retrospettivamente, potremo sempre trovare
nel nostro passato l’annuncio di quel che siamo divenuti. Sta a noi capire le
due cose in pari tempo e come la libertà si faccia strada in noi senza rompere i nostri rapporti con il mondo.
Ci sono sempre dei rapporti, anche e soprattutto quando rifiutiamo
di ammetterlo. Valéry ha descritto in base ai quadri di Leonardo un mostro di libertà pura, senza amanti, senza creditori, senza aneddoti e senza
avventure. Nessun sogno gli maschera le cose stesse, nessun sottinteso sostiene le sue certezze ed egli non legge il suo destino in qualche immagine
Il dubbio di Cézanne 41
favorita come l’abisso di Pascal. Non ha lottato contro i mostri, ma ne ha
capito gli espedienti, li ha disarmati con l’attenzione e li ha ridotti alla condizione di cose note. Niente di più libero, cioè niente di meno umano dei
suoi giudizi sull’amore e sulla morte. Egli ce li dà a indovinare da alcuni
frammenti nei suoi quaderni. «L’amore nel suo furore [dice press’a poco] è
cosa tanto brutta che la razza umana s’estinguerebbe – la natura si perderebbe1 – se quelli che lo fanno si vedessero.» Questo disprezzo è manifestato
da vari schizzi, poiché il colmo del disprezzo per certe cose sta, in definitiva, nell’esaminarle tranquillamente. Disegna dunque qua e là unioni anatomiche, «sezioni orribili delle fasi culminanti dell’amore»,2 è padrone dei
suoi mezzi, fa quel che vuole, passa a suo piacimento dalla conoscenza alla
vita con un’eleganza superiore. Ha fatto quel che ha fatto sapendo quel che
faceva e l’operazione dell’arte come l’atto di respirare o di vivere non supera la sua conoscenza. Ha trovato l’«atteggiamento centrale» in base al quale
è parimenti possibile conoscere, agire e creare, perché l’azione e la vita, divenute esercizi, non sono contrarie al distacco della conoscenza. Egli è un
«potere intellettuale», è l’«uomo dello spirito».
Guardiamo meglio. Niente rivelazioni per Leonardo. Niente abissi aperti alla sua destra, dice Valéry. Senza dubbio. Ma c’è in Sant’Anna, la Vergine
e il Bambino quel manto della vergine che disegna un avvoltoio e termina
contro il viso del bambino. C’è quel frammento sul volo degli uccelli in cui
Leonardo si interrompe improvvisamente per inseguire un ricordo di infanzia: «Sembro essere stato destinato a occuparmi particolarmente dell’avvoltoio, poiché uno dei miei primi ricordi d’infanzia è che, quando io ero
ancora in culla, un avvoltoio venne a me, mi aprì la bocca con la coda e più
volte mi colpì con tale coda fra le labbra».3 Così anche questa coscienza trasparente ha il suo enigma – vero ricordo d’infanzia o fantasma dell’età matura. Non partiva da nulla, non si nutriva di se stessa. Eccoci impegnati in
una storia segreta e in una selva di simboli. Se Freud vuole decifrare l’enigma in base a quello che sa sul significato del volo degli uccelli, sui fantasmi
di fellatio e il loro rapporto con il periodo dell’allattamento, si protesterà
senz’altro. Eppure è un fatto che gli Egiziani consideravano l’avvoltoio simbolo della maternità, perché, credevano, tutti gli avvoltoi sono femmine e
sono fecondati dal vento. Ed è un fatto che i Padri della Chiesa si servissero di questa leggenda per confutare con la storia naturale chi non voleva
credere alla maternità di una vergine, come è probabile che, nelle sue in-
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Senso e non senso
finite letture, Leonardo abbia incontrato questa leggenda. In essa trovava
il simbolo della sua propria sorte. Era il figlio naturale di un ricco notaio
che sposò, l’anno stesso della sua nascita, la nobildonna Albiere da cui non
ebbe figli, onde accolse al suo focolare Leonardo quando aveva già cinque
anni. I suoi primi quattro anni, Leonardo li ha dunque trascorsi con la madre, la contadina abbandonata: è stato un bambino senza padre e ha accostato il mondo nella sola compagnia di questa grande mamma infelice che
sembrava averlo miracolosamente creato. Se ora ci ricordiamo che non gli
si conobbe nessuna amante e nessuna passione, che fu accusato di sodomia, ma rilasciato, che il suo diario, muto su molte altre spese più costose, annota meticolosamente il particolare delle spese per la sepoltura della
madre, ma anche le spese di biancheria e di vestiti che fece per due suoi allievi, non si progredirà molto dicendo che Leonardo amava una sola donna, sua madre, e che questo amore non lasciava posto se non a tenerezze
platoniche per i giovani che lo circondavano. Nei quattro anni decisivi della sua infanzia, aveva stretto un rapporto affettivo fondamentale, al quale
dovette rinunciare quando fu chiamato al focolare del padre e in cui aveva messo tutte le sue risorse d’amore e tutto il suo potere di abbandono. La
sua sete di vivere poteva ormai impiegarla solo nell’investigazione e nella conoscenza del mondo, e, siccome lo si era distaccato,4 gli era necessario
diventare quel potere intellettuale, quell’uomo di spirito, quello straniero
tra gli uomini, quell’indifferente, incapace d’indignazione, d’amore o di
odio immediati, che lasciava incompiuti i suoi quadri per dedicare il tempo a bizzarri esperimenti, e nel quale i suoi contemporanei hanno presentito un mistero. Tutto avviene come se Leonardo non fosse mai maturato
del tutto, come se tutti i posti del suo cuore fossero stati occupati in anticipo, come se lo spirito d’investigazione fosse stato per lui un modo di sfuggire la vita, come se avesse investito nei suoi primi anni tutto il suo potere
d’assenso, e come se fosse rimasto fino all’ultimo fedele alla sua infanzia.
Giocava come un bambino. Vasari racconta che «formando una pasta di
cera, mentre che camminava, faceva animali sottilissimi pieni di vento,
nei quali soffiando, li faceva volare per l’aria, ma cessando il vento cadevano in terra. Formò in un ramarro (trovato dal vignaruolo di Belvedere, il
quale era bizzarrissimo), di scaglie, da altri ramarri scorticate, ali addosso, con mistura d’argenti vivi che nel muoversi quando camminava tremavano, e fattogli gli occhi, corna, e barba, domesticatolo e tenendolo in una
Il dubbio di Cézanne 43
scatola, tutti gli amici ai quali lo mostrava per paura faceva fuggire».5 Lasciava le sue opere incompiute come suo padre l’aveva abbandonato. Ignorava l’autorità, e, in materia di conoscenza, si fidava solo della natura e del
suo proprio giudizio, come fanno spesso coloro che non sono stati allevati
nell’intimidazione e nella potenza protettrice del padre. Così anche il puro
potere d’esame, la solitudine e la curiosità che definiscono lo spirito, si sono stabiliti in Leonardo solo in rapporto con la sua storia. Al colmo della
libertà, egli è, proprio in ciò, il bambino che è stato, non è distaccato da un
lato se non perché è attaccato altrove. Diventare una coscienza pura è ancora una maniera di prendere posizione nei confronti del mondo e degli altri,
e tale maniera Leonardo l’ha imparata assumendo la situazione che la nascita e l’infanzia avevano determinato in lui. Non c’è coscienza che non sia
retta dal suo impegno primordiale nella vita e dal modo di tale impegno.
Quanto può esserci di arbitrario nelle spiegazioni di Freud non vale qui
a screditare l’intuizione psicanalitica. Più di una volta, il lettore avverte
l’insufficienza delle prove. Perché questo e non altro? Il problema sembra
imporsi con tanta maggior gravità in quanto Freud dà spesso parecchie
interpretazioni, essendo ogni sintomo, secondo lui, «sovradeterminato».
Infine è chiarissimo che una dottrina che fa intervenire la sessualità dappertutto, non potrebbe, secondo la legge della logica induttiva, stabilirne
l’efficacia in nessun settore, in quanto, escludendo in anticipo ogni caso
differenziale, si priva di ogni controprova. Così si trionfa della psicanalisi,
ma solo sulla carta. Infatti le suggestioni dello psicanalista, se non possono
mai essere provate, non possono neppure essere eliminate: come imputare
al caso le concordanze complesse che lo psicanalista scopre tra il bambino
e l’adulto? Come negare che la psicanalisi ci ha insegnato a percepire, da un
momento all’altro di una vita, echi, allusioni, riprese, un concatenarsi che
non ci sogneremmo di mettere in dubbio se Freud ne avesse fatto correttamente la teoria? La psicanalisi non è fatta per darci, come le scienze della
natura, rapporti necessari di causa ed effetto, ma per indicarci rapporti di
motivazione che, per principio, sono semplicemente possibili. Non raffiguriamoci il fantasma dell’avvoltoio in Leonardo, con il passato infantile che
dissimula, come una forza che abbia determinato il suo avvenire. È piuttosto, come la parola dell’àugure, un simbolo ambiguo che si applica in anticipo a parecchie possibili sequenze di avvenimenti. Più precisamente: la
nascita e il passato definiscono, per ogni vita, categorie o dimensioni fonda-
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Senso e non senso
mentali che non impongono nessun atto in particolare, ma che si leggono o
si ritrovano in tutti. Sia che Leonardo ceda alla sua infanzia, sia che voglia
sfuggirle, non mancherà mai di essere quello che è stato. Anche le decisioni che ci trasformano sono sempre prese rispetto a una situazione di fatto,
e una situazione di fatto può certo essere accettata o rifiutata, ma non può
in nessun caso mancare di fornire il nostro slancio e di essere per noi, come situazione «da accettare» o «da rifiutare», l’incarnazione del valore che
le attribuiamo. Se l’oggetto della psicanalisi è descrivere questo scambio tra
avvenire e passato e dimostrare come ogni vita sogni su enigmi il cui senso
finale non è inscritto anticipatamente in nessun luogo, non si deve esigere
da essa il rigore induttivo. La fantasticheria ermeneutica dello psicanalista,
che moltiplica le comunicazioni fra noi e noi stessi, considera la sessualità come simbolo dell’esistenza e l’esistenza come simbolo della sessualità,
cerca il senso dell’avvenire nel passato e il senso del passato nell’avvenire,
ed è, meglio che un’induzione rigorosa, adatta al movimento circolare della
nostra vita, che fonda il suo avvenire sul passato, il suo passato sull’avvenire, e nel quale tutto simbolizza tutto. La psicanalisi non rende impossibile
la libertà, ma ci insegna a intenderla concretamente, come ripresa creatrice di noi stessi e, a cose fatte, sempre fedele a noi stessi.
È dunque vero sia che la vita di un autore non ci insegna nulla sia che, se
sapessimo leggerla, vi troveremmo tutto, in quanto essa è aperta sull’opera.
Come osserviamo i movimenti di un animale sconosciuto senza capire la
legge che li abita e li governa, così i testimoni di Cézanne non indovinano
le trasmutazioni che egli fa subire agli eventi e alle esperienze, sono ciechi
per il suo significato e per quel bagliore scaturito da chissà dove che l’avvolge a tratti. Ma anche lui non è mai al centro di se stesso, nove giorni su
dieci non vede attorno a sé che la miseria della sua vita empirica e dei suoi
tentativi mancati, resti di una festa sconosciuta. Proprio nel mondo, su una
tela, con colori, egli deve realizzare la sua libertà. Dagli altri, dal loro consenso, deve attendere la prova del suo valore. Ecco perché interroga il quadro che nasce sotto le sue mani e spia gli sguardi altrui indirizzati alla sua
tela. Ecco perché non ha mai finito di lavorare. Non abbandoniamo mai la
nostra vita. Non vediamo mai l’idea né la libertà in pieno volto.