2 Breve storia della chirurgia addominale d`urgenza

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2 Breve storia della chirurgia addominale d`urgenza
1 • General Philosophy
Breve storia della chirurgia addominale
d’urgenza
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HAROLD ELLIS
“Nello studio di alcuni problemi apparentemente nuovi facciamo spesso dei progressi
leggendo i lavori di grandi uomini del passato.” (Charles H. Mayo, 1865-1939)
A partire dall’antichità fino ad epoche relativamente moderne, i chirurghi
ignoravano le cause della maggior parte delle urgenze addominali acute ed i loro
trattamenti erano perciò inefficaci. Ovviamente conoscevano bene i traumi
addominali e le spaventose conseguenze delle ferite penetranti dell’addome, la
maggior parte delle quali risultavano fatali. Nella Bibbia, nel Libro dei Giudici,
leggiamo:
Ehud si fece una spada a due tagli, lunga un cubito; e se la cinse sotto la veste
al fianco destro. Ed offrì il regalo ad Eglon, re di Moab, ch’era un uomo molto grasso… E Ehud, stesa la mano sinistra, trasse la spada dal fianco destro e gliela piantò
nel ventre. Anche l’elsa entrò dopo la lama ed il grasso si richiuse attorno ad essa
cosicché egli non poté tirar via la spada dal ventre; uscì la sporcizia… Ed ecco che il
loro signore giaceva a terra morto.
A volte poteva formarsi una fistola fecale ed il paziente comunque sopravviveva. Un famoso chirurgo militare francese del XVI secolo, Ambroise Paré, scrive,
facendo riferimento alla propria casistica clinica ed autoptica:
Nel tempo ho trattato diversi uomini che sono guariti dopo che il loro corpo
era stato trafitto da una spada o da una pallottola. Uno di questi, nella città di Melun,
era l’attendente dell’Ambasciatore del Re del Portogallo. Questi era stato trafitto da
una spada che gli aveva leso l’intestino cosicché quando fu medicato una notevole
quantità di materiale fecale uscì dalla ferita; tuttavia guarì.”
A volte veniva ridotta in cavita addominale, con successo, un’ansa intestinale prolassata protrudente da una lacerazione addominale. Meno frequentemente, qualche intraprendente chirurgo suturava una lacerazione dell’ansa, salvando così la vita del paziente. Nel 1676, Timothy Clark riportò il caso di un
macellaio, nel villaggio di Wayford nel Somerset, nell’angolo sud-occidentale
dell’Inghilterra, che aveva tentato il suicidio con il proprio coltello. Dopo tre giorni, un chirurgo, il cui nome non viene menzionato da Clark, riposizionò l’intestino prolassato, rimosse l’omento e la milza prolassati ed il paziente guarì. Clark
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stesso, nel 1633, aveva rimosso la milza ad un cane che poi era sopravvissuto,
dimostrando così che quell’organo non era fondamentale per la vita e confermando l’osservazione fatta da Vesalio il secolo precedente.
Gli antichi erano anche a conoscenza dell’ernia strozzata. Il trattamento
generalmente consisteva in una energica riduzione manuale favorita da bagni
caldi, cataplasmi e dal porre il paziente a testa all’ingiù con i piedi in alto. A volte i loro sforzi erano ricompensati da successo, ma ovviamente c’era il temibile
rischio di una rottura intestinale, soprattutto nei casi più gravi. Nel 1723
William Cheselden riportò il caso di una donna di 73 anni con un’ernia ombelicale strozzata. Durante l’intervento, resecò 66 cm di intestino in gangrena. La
donna guarì con, ovviamente, una fistola fecale persistente. Che un’ernia strozzata fosse estremamente pericolosa è dimostrato dal fatto che la regina Carolina,
moglie di Giorgio II d’Inghilterra, morì, nel 1736, a 55 anni, per un’ernia ombelicale strozzata.
Le urgenze addominali acute hanno indubbiamente afflitto il genere umano
sin dagli albori, tuttavia è soltanto in tempi relativamente recenti – gli ultimi due
secoli – che la patologia ed il suo trattamento sono stati descritti, poiché per molti
secoli, nella maggior parte delle società, gli esami post-mortem erano vietati o visti
di cattivo occhio. Gli interventi sull’addome erano eseguiti di rado o addirittura
non furono eseguiti fino all’inizio del XIX secolo. Quella che Berkeley Moynihan
chiamò la patologia dei viventi, ovvero la patologia della cavità addominale diagnosticata in sala operatoria, dovette aspettare a lungo l’avvento dell’anestesia, nel 1840,
e della chirurgia in asepsi, nel 1870.
Le conoscenze sulle cause dell’addome acuto fecero pochi progressi nei 2000
anni successivi ad Ippocrate (V secolo a.C.). I medici greci e romani erano degli
acuti osservatori clinici. Riconoscevano che un ascesso addominale profondo poteva, di tanto in tanto, drenarsi spontaneamente o essere drenato chirurgicamente
con la guarigione del paziente. Qualsiasi altro tipo di emergenza addominale grave, denominata ileo o passione iliaca, era dovuto ad una occlusione intestinale.
Ovviamente, le urgenze addominali fatali da loro osservate erano davvero causate
dall’ostruzione meccanica o dall’ileo paralitico da peritonite generalizzata.
Leggiamo quanto scrive Ippocrate:
Nell’ileo la pancia diventa dura, non ci sono movimenti, l’addome intero è
dolente, c’è febbre e sete e a volte il paziente è così tormentato che vomita bile… Le
medicine non vengono trattenute ed i clisteri non riescono a penetrare. È una malattia acuta e pericolosa.
Nel corso dei secoli non ci furono altre soluzioni da offrire ai pazienti se non
cataplasmi sull’addome, coppettazioni, salassi, purghe e clisteri, che probabilmente facevano più male che bene. Fu soltanto nel 1776 che William Cullen di
Edimburgo coniò il termine peritonite per indicare l’infiammazione della membrana che riveste la cavità addominale e la sua estensione ai visceri. Tuttavia, egli
non reputò molto importante stabilire una diagnosi esatta, poiché anche “quando
riconosciuta, i pazienti non necessitano di altri rimedi se non quelli per l’infiammazione in generale”.
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Appendicite
Fu Lorenz Heister di Helmstadt, Brunswig, che, nel 1755 durante una autopsia, fece per primo riferimento all’appendice come sede di una infiammazione
acuta. Dopo Heister, per oltre un secolo, i referti autoptici furono sporadici e la
maggior parte dei casi misconosciuti o etichettati come tiflite, peri-tiflite o passione iliaca.
Nel 1848 Henry Hancock del Charing Cross Hospital di Londra riportò il drenaggio di un ascesso appendicolare in una giovane donna incinta di 8 mesi. La donna guarì ma, malgrado l’appello di Hancock, la convinzione circa l’inutilità di operare una volta insorta una peritonite era così radicata che il suo consiglio fu ignorato per circa 40 anni.
In realtà fu un medico, e non un chirurgo, a proporre l’appendicectomia e la
necessità di una diagnosi precoce. Nel 1886, Reginald Fitz, professore di medicina
ad Harvard, pubblicò infatti una revisione di 257 casi, descrivendo chiaramente
questa patologia e le sue caratteristiche cliniche e consigliando l’asportazione della
parte acutamente infiammata o, in presenza di un ascesso, il drenaggio chirurgico.
Negli Stati Uniti il consiglio di Fitz fu accolto rapidamente. Nel 1887 Thomas
Morton di Filadelfia fu il primo a riferire su una corretta diagnosi e sulla rimozione riuscita di una appendice perforata (benché nel 1880 Robert Lawson Tait avesse trattato un caso simile, riportandolo però soltanto nel 1890). Il boom delle diagnosi precoci e dei trattamenti chirurgici avvenne soprattutto grazie a Charles
McBurney del Roosvelt Hospital di New York che descrisse il punto di McBurney ed
ideò l’incisione con divaricamento del muscolo e a J.B. Murphy di Chicago, che
enfatizzò la modifica della reazione dolorosa nel segno di Murphy. Nel 1902
Frederick Treves del London Hospital drenò un ascesso appendicolare a Re Edoardo
VII, due giorni prima della sua incoronazione, e si attivò per rendere di dominio
pubblico questa patologia.
Rottura splenica
In un trauma addominale chiuso la milza è il viscere che viene più frequentemente leso, tuttavia i primi chirurghi addominali erano stranamente restii ad
eseguire una splenectomia in pazienti fortemente anemizzati, anche se, nel 1867,
Jules Pean di Parigi aveva eseguito con successo una splenectomia in una ragazza
affetta da una voluminosa cisti splenica. Nel 1892 Sir Arbuthnot Lane del Guy’s
Hospital di Londra riportò il fallito tentativo di salvare 2 pazienti con rottura splenica ed altri 3 casi di decesso furono riferiti, l’anno seguente, da Freidrich
Trendelenburgh di Lipsia. Dalla lettura di questi rapporti si desume che se fosse
stata disponibile una trasfusione ematica, i pazienti sarebbero probabilmente
sopravvissuti.
Fu Oskar Riegner ad eseguire, nel 1893 a Breslavia, la prima splenectomia per
una milza spappolata, con sopravvivenza del paziente. Il paziente, un ragazzo di 14
anni, aveva una rottura completa di milza e 1,5 litri di sangue in addome. In tutti
e quattro gli arti fu infusa, per via sottocutanea, della normale soluzione salina. La
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guarigione fu complicata da gangrena del piede sinistro che richiese l’amputazione, tuttavia, 5 mesi dopo il primo intervento, il ragazzo lasciò l’ospedale con tanto
di arto artificiale.
Occlusione intestinale
Non sorprende il fatto che i primi tentativi di trattare l’ostruzione del colon
(di solito causata da un tumore del colon sinistro) abbiano previsto l’esecuzione di
una colostomia.
Il primo tentativo fu compiuto da Pillore di Rouen nel 1776. Questi eseguì una
cecostomia in un mercante di vino affetto da una voluminosa distensione addominale dovuta ad una massa della giunzione retto-sigmoidea. L’intervento portò al
paziente un grande sollievo, ma questi morì in XXVIII giornata per la necrosi di
un’ansa digiunale, dovuta all’ingente quantità di mercurio somministrato pre-operatoriamente nel tentativo di risolvere l’ostruzione. Nel 1797 Pierre Fine di Ginevra
eseguì con successo una colostomia sul trasverso. La paziente, una signora di 63 anni
affetta da occlusione per una massa del sigma, morì dopo 14 settimane con ascite.
Fu solo con l’avvento dell’anestesia e della asepsi che fu possibile eseguire di
routine la resezione di una neoplasia intestinale: il primo successo fu riportato da
Vincent Czerny ad Heidelberg nel 1879. Presto ci si rese conto che la resezione del
colon ostruito aveva spesso come risultato una fistola anastomotica fatale.
L’esteriorizzazione della massa, con la creazione e la successiva chiusura di una
colostomia a canna di fucile, fu introdotta, nel 1895, da Frank Thomas di Liverpool
e poco più tardi da Johannes von Mikulicz-Radecki di Breslavia. Quest’ultimo
dimostrò che la procedura (intervento di Paul-Mikulicz) aveva ridotto, nella propria serie di pazienti, la mortalità dal 43%, con resezione primaria, al 12,5% con
esteriorizzazione.
Dati gli evidenti aspetti clinici dell’occlusione intestinale nei neonati – emissione di feci gelatinose rossastre, presenza di una massa addominale palpabile e a
volte di una massa prolassata palpabile per via rettale o protrudente attraverso la
rima anale – non sorprende che l’intussuscezione, nei bambini, sia stata una delle
prime patologie specifiche riconosciute dell’addome acuto. Il trattamento era attendistico e prevedeva l’utilizzo di clisteri o di candelette rettali nel tentativo di ridurre la massa. I chirurghi erano incoraggiati ad utilizzare questi metodi grazie agli
sporadici resoconti di successo e, quelli ancora più sporadici, di guarigione dopo
l’espulsione dell’intestino necrotico dal retto. Il primo successo chirurgico fu riferito da Sir Jonathan Hutchinson del London Hospital, nel 1871. Alla paziente, una
bambina di 2 anni, fu ridotta l’intussuscezione con una breve incisione mediana,
un intervento che richiese soltanto pochi minuti. Nel meticoloso rapporto di
Hutchinson erano catalogati 131 casi precedenti: una lettura davvero deprimente.
La nuova chirurgia addominale presentava però un aspetto negativo. Poco
dopo l’inizio di questa nuova era, cominciarono ad apparire i primi resoconti di
ostruzione dell’intestino tenue da aderenze post-operatorie. Thomas Bryant del
Guy’s Hospital di Londra lo descrisse per la prima volta nel 1872 – un caso letale
dopo ovariectomia. Nel 1883 William Battle di Londra riportò un secondo decesso
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dopo l’asportazione di una massa ovarica avvenuta 4 anni prima. Attualmente, nel
mondo occidentale, le briglie e le aderenze post-operatorie costituiscono i tre-quarti di tutti i casi di occlusione dell’intestino tenue.
Ulcera peptica perforata
Di solito un’ulcera peptica perforata non trattata determina l’insorgenza di
una peritonite letale. Tentativi di riparazione furono fatti, senza alcun successo, da
Mikulicz-Radecki nel 1884, da Czerny nel 1885 e successivamente da altri chirurghi. Questa deprimente serie di insuccessi ebbe termine in circostanze particolarmente difficoltose. Nel 1892, Ludwig Heusner di Wuppertal, Germania, riparò una
ulcera gastrica alta della piccola curva, perforata da 16 ore, in un uomo d’affari di
41 anni: l’intervento fu eseguito in piena notte a lume di candela! La convalescenza fu complicata da un empiema sinistro che dovette essere drenato. Dopo due
anni, a Norwich, Thomas Morse pubblicò un caso di riparazione riuscita di una
perforazione para-cardiale in una ragazza di 20 anni. Grazie a questi due successi,
l’intervento per questa patologia divenne routinario. È interessante notare che, all’inizio del XX secolo, l’ulcera gastrica era molto più frequente di quella duodenale e
veniva soprattutto riscontrate in giovani donne.
Rottura di gravidanza ectopica
Fino al 1883 la rottura di una gravidanza ectopica equivaleva ad una condanna a morte.
Questo sorprende poiché, già prima dell’avvento dell’anestesia, i pionieri della chirurgia addominale si ponevano il problema di rimuovere le masse ovariche.
Infatti, il primo intervento addominale in elezione per una patologia conosciuta,
eseguito nel 1809 da Ephraim McDowell a Danville, Kentucky, fu l’asportazione di
una grossa cisti ovarica. Tuttavia, per qualche ragione incomprensibile, il chirurgo
rimaneva impotente al capezzale di giovani donne mentre queste, nel periodo più
utile della loro vita, si dissanguavano per la rottura di una tuba. Il primo chirurgo
ad eseguire con successo un intervento per questa patologia fu Robert Lawson Tait
di Birmingham, già conosciuto per un intervento riuscito di appendicectomia nel
1880. Il dott. Hallwright, un medico generico, chiese a Tait di visitare una ragazza
con una rottura di gravidanza ectopica. Hallwright suggerì a Tait di asportare la
tuba rotta. Tait riporta:
Il suggerimento mi lasciò senza fiato e temo, non lo accolsi bene. Mi rifiutai
di agire ed una ulteriore emorragia uccise la paziente. L’esame post-mortem dimostrò l’esattezza della diagnosi. Analizzai attentamente il pezzo operatorio e scoprii
che se avessi legato il legamento largo e rimosso la tuba avrei completamente
arrestato l’emorragia e, adesso, credo che se lo avessi fatto avrei salvato la vita della paziente.
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Diciotto mesi più tardi Tait operò una paziente in fin di vita: questa fu la prima occasione in cui fu eseguito questo tipo di intervento. La paziente, in un’epoca in cui non esistevano ancora le trasfusioni, morì tuttavia dissanguata. Infine, nel
marzo 1888, Tait eseguì con successo, in un caso analogo una salpingectomia: la
paziente sopravvisse benché, all’intervento, presentasse un addome pieno di coaguli. Qualche anno dopo, Tait descrisse 39 casi e soltanto due decessi, compreso il
primo.
Conclusioni
Ancora oggi, un addome acuto rappresenta per il chirurgo una sfida sia diagnostica che terapeutica, malgrado esistano esami radiologici, biochimici ed ematologici di ausilio alla diagnosi, e trasfusioni ematiche, reintegrazione dei liquidi,
sondino naso-gastrico in aspirazione, terapie antibiotiche ed anestesisti esperti di
ausilio alla terapia.
“Guardiamo perciò indietro, con un misto di stupore, orgoglio ed umiltà, agli
sforzi dei nostri progenitori chirurghi mentre questi ci spianano la strada verso il trattamento di questo affascinante gruppo di malattie.” (Harold Ellis)
Commento del curatore
Siamo orgogliosi di pubblicare questo capitolo del prof. Ellis di Londra: un
famoso chirurgo, scrittore, anatomista e storico della chirurgia. Tra i suoi tanti libri
raccomandiamo in particolare Operations That Made History e A Brief History of
Surgery.