Relazione Avv. F.Morgese - Consiglio Nazionale Forense
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Relazione Avv. F.Morgese - Consiglio Nazionale Forense
FRANCESCO MORGESE PER UNA CONCEZIONE UNITARIA DELLA PROFESSIONE FORENSE: LA QUESTIONE DELLA CONSULENZA LEGALE Relazione al Convegno nazionale degli ordini forensi (Bari, 20 novembre 2004) 1. Premessa; il metodo della trattazione. L’argomento di questa relazione si colloca per forza di cose su di una duplice prospettiva. Considerazioni più propriamente giuridiche si affiancheranno necessariamente a valutazioni di politica del diritto, e l’analisi del diritto positivo vigente condurrà – nelle intenzioni di chi vi parla – a suggerire talune prospettazioni che dovrebbero essere accolte – lo anticipo fin d’ora – in un possibile testo normativo che l’Avvocatura può reclamare dalle istituzioni politiche. Non era possibile, peraltro, limitarsi unicamente a formulare le buone ragioni – alcune di evidenza lapalissiana, si potrebbe dire quasi “di buon senso” – che possono essere spese a favore di un intervento legislativo cui la nostra categoria aspira da tempo (basti pensare alla mozione conclusiva del Congresso nazionale forense di Palermo). Infatti, solo da una disamina del diritto vigente può trarsi la considerazione fondamentale che sorregge la richiesta della soggezione a riserva della attività stragiudiziale in favore dell’avvocato; e cioè che la professione forense costituisca un quid unicum, un complesso unitario fondato su di un universo deontico di riferimento che non cambia in alcun modo, sia che il luogo dell’esercizio della prestazione sia quello delle aule processuali, sia che questa si svolga al di fuori di esse. E’ stato anticipato nel titolo di questa relazione: il punto fondante è quello di una visione unitaria della professione forense. Siffatta visione non appartiene ai desiderata della categoria o a meri interessi, ma è radicata nell’ordinamento; è immanente, si può dire, alla logica del sistema: quale logica potrebbe esservi nella radiazione dall’albo di un professionista che si sia macchiato di gravi responsabilità disciplinari, se costui, appena subita la sanzione, possa poi tranquillamente e legittimamente fornire pareri legali alla clientela? Quale tutela della fede pubblica realizzerebbe una situazione quale quella appena ipotizzata? L’ambizione di vedere riconosciuta la riserva dell’attività di consulenza quale elemento connaturato all’unitarietà della concezione della professione; questo è il filo conduttore delle considerazioni qui di seguito sviluppate e che non possono che partire da dati di evidente attualità. 2. Le tariffe stragiudiziali; una nuova questione pregiudiziale. Vi è una recentissima, e appena iniziata, vicenda giudiziaria che dimostra ancora una volta il collegamento tra l’ipotesi secondo la quale l’attività di consulenza legale sia esercitabile da chiunque, e una scorretta percezione del ruolo e dei compiti dell’avvocato, insufficiente a coglierne la vocazione unitaria. Ancora una volta, le preoccupazioni sorgono dal cd. fronte europeo. E riguardano le tariffe forensi, nelle quali, indubbiamente, l’avvocato si riflette nella totalità delle sue attività professionali, nei vari rami del diritto nel quale opera, in ambito giudiziale o stragiudiziale che sia. Malgrado i noti esiti della causa Arduino, che ha riconosciuto la garanzia dell’interesse pubblico nel procedimento di adozione delle tariffe1, i giudici italiani hanno di recente risollevato questione pregiudiziale comunitaria in due occasioni, la seconda delle quali riguarda proprio le attività di consulenza. Diversamente dalla ordinanza 11 febbraio 2004 con la quale la Corte d’Appello di Torino chiedeva alla Corte di giustizia CE di pronunziarsi in merito alla compatibilità della regola dell’inderogabilità dei minimi tariffari con il principio comunitario di libertà di concorrenza (art. 81 Tr. CE), il Tribunale di Roma ha sottoposto nel luglio scorso alla Corte di Giustizia una questione più limitata, sotto il profilo materiale: riconosciuto come la tariffa forense comprensiva di minimi e massimi abbia già superato favorevolmente lo scrutinio del giudice comunitario in ordine alla compatibilità con gli artt. 10 e 81 Tr. CE, il giudice a quo chiede ora alla Corte di Giustizia di valutare se sia coerente con il medesimo parametro normativo comunitario che la tariffa si riferisca, oltre che a quelle giudiziali, anche alle cd. prestazioni stragiudiziali2. La ragione del dubbio riposerebbe sulla circostanza per cui tali attività possono essere compiute da chiunque, non essendo soggette a riserva, diversamente dall’attività giudiziale. Il punto al quale tende il giudice romano è il seguente: se è vero che le attività stragiudiziali non sono soggette a riserva, ma sono esercitabili da chiunque, quale motivo vi sarebbe che, ove esercitate dall’avvocato, debbano avere una cornice di riferimento tariffario? Tanto varrebbe eliminare le tariffe stragiudiziali professionali! E possiamo essere sicuri che, ove la 1 Il 19 febbraio 2002 la Corte di Giustizia ha emesso sentenza nella nota causa cd. “Arduino”, dal nome della parte privata coinvolta nel giudizio di fronte al giudice nazionale remittente, il pretore di Pinerolo (proc. C-35/99). 2 Tribunale di Roma (ordinanza 7 aprile 2004) – CAUSA C-202/04. Corte di Giustizia così dovesse decidere, se ne trarrebbe argomento ulteriore per rafforzare la tesi secondo la quale la consulenza può essere compiuta da chiunque. E’ facile riconoscere come il ragionamento finisca per autoalimentarsi viziosamente, e merita di essere contestato recisamente, come ha peraltro già fatto il Consiglio nazionale forense, auspicando l’intervento in giudizio del Governo italiano. Non pare in effetti assumere alcun rilievo la circostanza descritta dal giudice remittente, per il quale le prestazioni cd. stragiudiziali sarebbero al di fuori delle attività professionali riservate agli avvocati e potrebbero essere assolte dal quisque de populo. Anche, infatti, ove si ritenesse di accogliere tale rilievo, la questione pare essere mal posta dal giudice remittente, che incorre nel seguente vizio logico-giuridico: si chiede quali possano essere i motivi di interesse pubblico sottesi all’erogazione di prestazioni stragiudiziali e, conseguentemente, dubita “che sussistano motivi di interesse generale che giustifichino l’adozione di una tariffa professionale che preveda minimi e massimi inderogabili per tali prestazioni, così sottraendo in sede convenzionale la determinazione del corrispettivo alle regole del libero mercato, e, in sede giudiziale, al libero apprezzamento del giudice” (punto n. 8 dell’ordinanza). 3. La prospettiva unitaria. Se è evidente come non corrisponda al vero che le tariffe abbiano per effetto la sottrazione della determinazione del compenso all’accordo delle parti e all’apprezzamento del giudice, il quale ben può disattenderle e decidere nel merito anche in deroga ai minimi tariffari (vedi oltre, par. 5), è ancor più evidente come il Tribunale di Roma sia incorso nell’equivoco di applicare alla questione un ragionamento basato sulla natura delle attività rese, e dunque di tipo oggettivo, mentre la questione va più propriamente ricostruita in termini esclusivamente soggettivi. Non si tratta di valutare le attività stragiudiziali in quanto tali, e di indagare quali eventuali interessi pubblici esse coinvolgano, ma piuttosto di considerare che esse vengono compiute da un soggetto iscritto nell’albo degli avvocati, perché da tale fatto discendono talune conseguenze giuridicamente rilevanti, tra le quali l’applicabilità delle tariffe forensi. Accogliendo, per ipotesi, la premessa della accessibilità a chiunque delle attività stragiudiziali, ne consegue che il cittadino-cliente avrebbe allora la possibilità di effettuare una opzione: può rivolgersi ad un qualsiasi fornitore di prestazioni stragiudiziali, oppure può rivolgersi ad un professionista che è iscritto nell’albo degli avvocati, e che dunque ha compiuto un certo corso di studi, ha superato un esame di Stato di abilitazione, è membro di un ordinamento sezionale che lo assoggetta ad una serie di prescrizioni di ordine deontologico e ad un sistema – il procedimento disciplinare – attraverso il quale possono essere rilevate e sanzionate le violazioni dei suoi doveri. Un ordinamento sezionale che comprende, per l’appunto, le tariffe forensi. Rispetto alla prestazione resa dal quisque de populo, il cittadino ha in questo caso la possibilità di far valere, oltre alla responsabilità contrattuale del prestatore d’opera (e a quella per fatto illecito, ove ne ricorrano i presupposti), anche la responsabilità disciplinare. E, non a caso, la sentenza Arduino non insegue questa artificiosa distinzione tra attività giudiziale e stragiudiziale, risolvendo positivamente la questione della compatibilità del sistema tariffario con gli artt. 5 e 81 Tr. CE3: la decisione non distingue affatto tra prestazioni rese in sede giudiziale e prestazioni rese in sede stragiudiziale, ma più semplicemente, e in senso propriamente “soggettivo”, considera le prestazioni in quanto rese da soggetti “membri dell’ordine”, come peraltro dispone la legge italiana, la quale riferisce il criterio della inderogabilità dei minimi alle prestazioni degli avvocati come tali, e non solo alle prestazioni giudiziali, come erroneamente riferisce il giudice remittente (al punto 3 dell’ordinanza)4 . 4. Il quadro di riferimento giurisprudenziale. Ma pare opportuno ritornare sul presupposto della pacifica non soggezione a riserva delle attività stragiudiziali, da cui muove il giudice remittente, e la cui ipotesi viene temporaneamente accettata solo per comodità di esposizione. L’ordinanza di remissione è 3 Val la pena riportare nei suoi lineamenti essenziali le conclusioni raggiunte nel caso Ardoino. Il giudice remittente aveva adito la Corte del Lussemburgo per far rilevare la asserita violazione dell’art. 85 trattato CE da parte della normativa italiana in materia di tariffe forensi, deducendo che queste, adottate da un ente qualificabile come associazione di imprese (il Consiglio nazionale forense), avrebbero integrato intese restrittive della libertà di concorrenza. In buona sostanza l’oggetto del contendere era proprio la compatibilità con il quadro normativo comunitario del sistema tariffario vigente in Italia per l’esercizio della professione forense. La conclusione cui arriva la Corte è la piena compatibilità dei sistemi tariffari con il diritto comunitario della concorrenza: “Gli artt. 5 e 85 del Trattato CE (divenuti artt. 10 CE e 81 CE) non ostano all'adozione da parte di uno Stato membro di una misura legislativa o regolamentare che approvi, sulla base di un progetto stabilito da un ordine professionale forense, una tariffa che fissa dei minimi e dei massimi per gli onorari dei membri dell'ordine, qualora tale misura statale sia adottata”. Da ciò l’importante conseguenza che non spetta al giudice nazionale (come potevano lasciar intendere le conclusioni dell’avvocato generale) compiere una valutazione caso per caso e applicare o disapplicare le tariffe se non ha motivo di ritenere che siano state adottate nell’interesse generale. La valutazione l’ha già compiuta una tantum la Corte di giustizia. 4 L’art. 24, comma 1, della legge 13 giugno 1942, n. 349, dispone infatti che “I diritti e gli onorari minimi stabiliti per le prestazioni degli avvocati sono inderogabili”. infatti sul punto sbrigativamente assertiva, e pur non mancando di citare un importante precedente giurisprudenziale di segno opposto alla tesi sostenuta (Cass. pen., sez. VI, n. 1151/02), lo considera un episodio isolato, in un contesto normativo ed interpretativo assolutamente inequivocabile. I termini, in effetti, sono diversi e la questione rimane sostanzialmente aperta e controversa, specie ove l’indagine sia condotta alla luce degli interessi pubblici coinvolti. Anche in questo caso, secondo l’opzione di metodo adottata e manifestata all’inizio, bisogna partire da un dato giuridico, e cioè da una delle più recenti decisioni in materia di consulenza legale: Cass. Sez. VI pen., n. 17921/03, che esclude la sussistenza del reato di cui all’art. 348 cp con riguardo al caso di un soggetto che abbia reso un parere legale in merito ad un procedimento penale in corso, funzionalmente connesso, dunque, ad un’attività sicuramente riservata (il parere era reso oltretutto su carta intestata recante la scritta “studio legale…”). Questa decisione affronta direttamente uno dei capitoli più rilevanti (anche sotto il profilo degli interessi economici coinvolti) del più generale problema della linea di confine tra attività riservate ad iscritti negli albi ed attività soggettivamente libere. Non è un caso che la Commissione ministeriale per la riforma delle professioni (cd. Commissione Vietti) abbia registrato proprio sul punto uno dei motivi di maggiore frizione, fino alla definitiva dissociazione delle associazioni delle professioni non regolamentate, insospettite dalla nozione di attività qualificante una professione regolamentata come condizione ostativa al riconoscimento pubblico della associazione medesima (cfr. l’art. 8 della bozza)5. Se la nozione di attività qualificante una professione regolamentata non può, con tutta evidenza, non integrare una categoria più ampia della nozione di attività riservata (altrimenti questa sarebbe stata la soluzione accolta nei lavori preparatori), appare evidente 5 Si riporta, per completezza, il delicato passaggio della “bozza Vietti”: “Articolo 8 - Riconoscimento pubblico e organizzazione delle professioni intellettuali 1. Ai sensi dell’articolo 35 il Governo è delegato ad emanare uno o più decreti legislativi per la disciplina del riconoscimento pubblico e dell’organizzazione delle professioni che non risultano disciplinate da disposizioni legislative, nel rispetto e in coerenza con la normativa comunitaria e in conformità alla presente legge. 2. La disciplina di cui al comma precedente è adottata sulla base dei seguenti principi: a) nel rispetto degli articoli 4, 33 e 35 della Costituzione, prevedere il diritto dei professionisti a ottenere il riconoscimento pubblico delle professioni che non sono disciplinate da disposizioni legislative; b) disciplinare condizioni e limiti per il riconoscimento pubblico, individuando le soglie di rilevanza, soggettiva e oggettiva, che devono essere rispettate in relazione al settore economico di riferimento della attività ed escludendo che possa essere considerata professione una attività che riguardi prestazioni che hanno una connotazione qualificante delle professioni di interesse generale; (…)”. come sia tutt’altro che chiusa la partita della delimitazione del recinto delle attività riservate agli iscritti in albi professionali. Certamente non si può dire che dal giudice di legittimità arrivino segnali univoci in grado di orientare il dibattito su binari di maggiore certezza. Non che, ovviamente, possa chiedersi al giudice di svolgere attività che non è di sua competenza, cioè di sostituirsi al legislatore nell’assunzione delle decisioni di indirizzo, ma è certo che ogni qualvolta l’assetto della giurisprudenza in materia pare offrire canoni più affidabili di interpretazione, ecco che il giudice smentisce sé stesso, e lascia gli interpreti con il dubbio e la insoddisfazione. Non tanto per l’esito della decisione, quanto per la difficoltà di cogliere in essa un ragionamento logico giuridico idoneo ad offrire elementi ulteriori rispetto alla vicenda dedotta in giudizio. Che anzi nel caso di specie la valutazione del fatto pare assumere un peso forse eccessivo rispetto all’economia del giudizio di legittimità, con ulteriore nocumento per la possibilità di rendere agli operatori un servizio utile nel senso della corretta interpretazione del quadro normativo di riferimento. E’ la stessa decisione n. 17921/2003 a richiamare l’ambito tematico innanzi descritto, dedicando ampia parte della pur succinta motivazione proprio alla giustificazione della netta discordanza tra l’orientamento ora espresso e quello seguito pochi mesi or sono con la nota decisione n. 1151/02, relativa al caso di esercizio abusivo della professione di ragioniere commercialista. Tale decisione aveva avuto il pregio di tornare a riflettere sulla questione cercando di ancorarla saldamente al livello dei principi generali dell’ordinamento, o, più correttamente, al terreno dei beni giuridici tutelati dalle norme in questione. Questo è, o dovrebbe essere, il compito del giudice di legittimità, ed in ispecie di quello penale: collegare l’applicazione delle fattispecie di reato agli interessi pubblici che la norma intende tutelare, proprio per apprezzare l’effettiva o presunta offensività del contegno concreto posto in essere dall’imputato. 5. Gli interessi pubblici coinvolti. Il bene giuridico tutelato dalla norma di cui all’art. 348 cp (e a ben vedere dall’intero impianto dell’assetto normativo delle professioni regolamentate) è quello della “necessità di tutelare il cittadino dal rischio di affidarsi, per determinate esigenze, a soggetti inesperti nell’esercizio della professione, o indegni di esercitarla”; “la libera professione, per la sua naturale attitudine a soddisfare bisogni collettivi rilevanti anche per l’interesse generale della comunità, e per la funzione di mediazione che spesso svolge tra lo Stato e il cittadino, ha una rilevanza sociale e pubblica”. Così recita espressamente la sentenza n. 1151/02. Il punto è la protezione del ragionevole affidamento del cittadino che, dovendo usufruire di una prestazione professionale, si rivolge ad un professionista che ha superato un esame di Stato di abilitazione, e che è membro di un ordinamento sezionale che lo assoggetta ad una serie di prescrizioni di ordine deontologico e ad un sistema - il procedimento disciplinare che può rilevare e far valere le violazioni dei suoi doveri. Da qui la distinzione tra atti riservati espressamente dalla legge agli iscritti negli albi, ed atti non riservati ma comunque caratteristici della professione, ed il cui compimento può essere considerato libero solo se non condotto in forma sistematica ed organizzata, e dietro corrispettivo. Solo, insomma, se non è svolto in modo professionale! La vera posta in gioco è la fede pubblica. In questo caso, infatti, il “presunto professionista” si colloca sul mercato giocando su di un equivoco. Cioè sul fatto che la clientela non particolarmente informata possa non distinguere tra un iscritto ad un ordine, che – lo si ribadisce ancora una volta – ha sostenuto un esame di Stato ed è soggetto ad un codice deontologico, ad un procedimento disciplinare attivabile anche dal pubblico ministero, ad un obbligo di aggiornamento e formazione, ed un altro soggetto del tutto estraneo a questo circuito, ma che pure si “traveste” da professionista. Ora, non vi è chi non veda che l’espressione “studio legale”, usata nella vicenda decisa con questa sentenza, presenti una direzione di senso inequivocabile: e non solo perché nel linguaggio comune e nella comune percezione della collettività indichi lo studio di un avvocato, ma anche perché tale locuzione è legislativamente “coperta” dalla legge 23 nov. 1939, n. 1815, quella che impone appunto agli studi associati l’uso della dizione “studio legale” (art. 1) Questo ragionamento potrebbe anche non essere condiviso, ma è comunque la conseguente conclusione di un procedimento logico. Parte dalla considerazione del bene giuridico protetto dall’ordinamento, e ne trae talune conclusioni. Dove si stenta a trovare un vero e proprio ragionamento e si sfiora la asserzione tautologica è allorquando la stessa Sezione della Corte di Cassazione ha ritenuto con la decisione dello scorso anno di non ravvisare “...nè sul piano giuridico né sul piano logico ragioni apprezzabili per conferire rilievo penalistico a fatti di tale rilievo pacificamente privi di per sé stessi, che dovrebbero essere considerati penalmente rilevanti soltanto in considerazione della loro reiterazione o della loro riconducibilità ad una attività organizzata”. L’assunzione di rilievo penale per fatti di per sé leciti - se compiuti occasionalmente e gratuitamente - è proprio nel vulnus alla fede pubblica cagionato da un quadro fattuale (compimento in via professionale ed organizzata di attività) idoneo a trarre in inganno il cittadino. Si può dissentire, certo, ma limitarsi a dire che non si ravvisano ragioni logiche e giuridiche per seguire questa impostazione sembra voler pretermettere ingiustificatamente il momento volitivo della decisione all’iter logico che dovrebbe sostenerlo. “Spontaneo qui si presenta il dubbio, se la sentenza sia un atto puramente teoretico della mente, ossia un atto dell’intelligenza, ovvero un atto pratico, ossia un atto della volontà, ovvero contenga insieme l’uno e l’altro”, direbbe Alfredo Rocco!6. A meno che non si voglia ritenere sufficiente l’affermazione posta dal giudice a sostegno dell’indirizzo qui seguito, e cioè che esistono da tempo agenzie di infortunistica stradale che svolgono attività di consulenza legale la cui liceità non è mai stata posta in discussione. L’affermazione lascia interdetti. Come perplessi lascia i lettori l’altro rilievo mosso a sostegno della decisione, e cioè la dichiarata adesione all’“orientamento in precedenza costante” che la Cassazione avrebbe seguito sul punto, quasi che la sentenza 17921 abbia ricondotto a coerenza un filone giurisprudenziale interrotto dalla stravagante sentenza n. 1151/02. La realtà è che le oscillazioni sono state molte: accanto a decisioni (quali la n. 1525/00, o la 260/01) ascrivibili al filone preferito in quest’ultima occasione, ve ne sono state parecchie altre di segno opposto, anche prima della 1151/02 (ad esempio Cass. pen., 11 dicembre 1979, in Riv. pen., 1980, 563; o ancora Cass. 19 giugno 1973, n. 1806)7. Preciso: le oscillazioni possono essere fisiologiche, in un quadro di riferimento così complesso, ed a fronte di interessi contrapposti e tutti meritevoli di tutela (la protezione della fede pubblica, ma anche la libertà di lavoro autonomo, collegabile all’art. 41 Cost., cfr. Corte cost. n. 418/1996). In qualche misura, nonostante le inevitabili sfavorevoli conseguenze sul principio di certezza del diritto, possono financo essere considerate un arricchimento. Purché siano argomentate. 6. Altri riferimenti di diritto positivo. Forse non sono stati considerati adeguatamente altri recenti elementi di diritto positivo che si sono aggiunti al quadro di riferimento, pure segnalati in dottrina8. 6 A. ROCCO, La sentenza civile. Studi, Torino 1906, 32. Vedi sul tema R. DANOVI, Corso di ordinamento forense e deontologia, VII ed., Milano 2003, 195 e ssg 8 cfr. R. DANOVI, S. BASTIANON, G. COLAVITTI, La libertà di stabilimento e la società tra avvocati, Milano 2001, spec. 106 e ssg. 7 Si tratta del decreto legislativo n. 96/2001, che ha recepito la direttiva comunitaria in materia di libertà di stabilimento. A fronte di un impianto onnicomprensivo proprio della direttiva 98/5/CE, che sembrava accedere ad una concezione tutto sommato unitaria della professione forense, nelle sue sedi giudiziali e stragiudiziali, il decreto legislativo citato si occupa della consulenza legale esercitata da singoli solo per precisare che gli avvocati stabiliti possono esercitare l’attività professionale stragiudiziale senza le limitazioni previste per l’esercizio di quella giudiziale (art. 10)9, mentre nulla dice in ordine alla consulenza legale esercitata in forma comune. Qual è il senso della disposizione di cui all’art. 10? Qui il legislatore ha voluto forse dire un po’ troppo, senza accorgersi che porre un diritto in capo ad un soggetto può equivalere a porre in dubbio la titolarità di questo in capo ad altri soggetti: se infatti la consulenza legale è, secondo alcuni, attività del tutto “libera”, cioè non soggetta ad alcuna esclusiva, ed esercitabile da chiunque, la precisazione per cui “l’avvocato stabilito ha il diritto di esercitare, senza le limitazioni di cui all’art. 8, l’attività professionale stragiudiziale...” (art. 10) suonerebbe come del tutto inutile. Se è vero, per contro, che spetta comunque al giurista interpretare la legge assegnandole un preciso significativo normativo, piuttosto che ritenerla come una proposizione priva di senso, non appare certo infondata l’idea di ritenere tale elemento rilevante ai fini di una riflessione più ponderata sul concetto di esclusività, nella consapevolezza che la delicatezza e la rilevanza sociale ed economica delle attività stragiudiziali non sembra possano tollerare gradi di affidabilità e di controllo sui requisiti di professionalità inferiori a quelli previsti per chi esercita in sede giudiziale. Se in questo ambito il legislatore ha forse detto un po’ troppo (rispetto alle sue stesse intenzioni: chi ha partecipato ai lavori preparatori non può dubitare dell’idea che le burocrazie ministeriali non avessero alcuna intenzione di restringere l’area soggettiva di esercizio della consulenza legale), nella parte relativa alle società professionali il silenzio del legislatore sulla consulenza è un silenzio ricco di contenuti. E’ noto che il Ministero della Giustizia avrebbe voluto inserire una norma che recasse un riferimento alla possibilità di esercizio dell’attività stragiudiziale per qualsiasi tipo di società, anche di capitali, ed è noto che tale opzione sia caduta solo dopo una strenua opposizione del Consiglio Nazionale Forense e dopo i pareri contrari delle Commissioni 9 L’avvocato stabilito è l’avvocato di altro paese europeo che esercita in Italia con il titolo di origine, e con particolari limitazioni (la principale è la necessaria intesa con avvocato iscritto in albo italiano) per un periodo di tre anni, dopodichè acquisisce un’integrazione piena. parlamentari competenti. Anche questa contrapposizione merita un’analisi: l’insistenza nel sostenere tale introduzione tradisce evidentemente una debolezza nella tesi di fondo sostenuta anche dalla sentenza 17921/2003 - in base alla quale già oggi, allo stato del diritto vigente, queste attività di consulenza sarebbero esercitabili da chiunque, e conseguentemente anche da società di capitali, cooperative, ecc. ecc.. Il decreto legislativo n. 96/2001 può non offrire insomma spunti esegetici tali da considerare definitivamente risolta l’annosa questione della soggezione a riserva della consulenza legale (né ovviamente si proponeva di farlo); è peraltro evidente che i due elementi qui sottolineati, e cioè il tenore della disposizione di cui all’art. 10, e la mancata inserzione di una esplicita disposizione in tema di consulenza legale prestata da società di capitali, non possono comunque che essere considerati come dati che muovono nella direzione di una concezione unitaria della professione forense piuttosto che verso un modello ricostruttivo in forza del quale esisterebbe non già un’unica professione - come peraltro la direttiva 98/5/CE sembrava prospettare - che si esercita in due diversi ambiti (giudiziale e stragiudiziale), bensì due diverse professioni, l’una soggetta a innumerevoli limiti e restrizioni, a condizioni rigorose per l’ingresso, ad un universo deontico ponderoso di prescrizioni ed obblighi comportamentali, l’altra priva invece di qualsiasi cornice, aperta a tutti, senza alcuna misura di cautela per i pur rilevanti interessi della comunità che è in grado di coinvolgere. 7. Conclusioni. Questo è il nodo della questione. La professione forense è un’insieme di attività che devono essere considerate unitariamente, in maniera onnicomprensiva. E’ sufficiente avere riguardo ad una serie di elementi, che non sono rivendicazioni corporative della Avvocatura, ma dati di diritto positivo; la professione, infatti, oggi è: - oggetto di tassazione, senza differenze - oggetto di prelievo previdenziale, senza differenze - oggetto di responsabilità civile e penale, senza differenze - oggetto di responsabilità deontologica, senza differenze. La distinzione, dunque, tra attività giudiziale e stragiudiziale, ha carattere meramente fattuale, salve le disposizioni speciali che riguardano la partecipazione dell'avvocato al giudizio nella qualità di rappresentante e di difensore. Ma queste regole riguardano il processo, non la categoria professionale, e neppure la natura giuridica dell'attività, in quanto tale. La consulenza legale, infatti, come ogni prestazione professionale dell’avvocato, è oggetto di uno specifico contratto che ha regole sue proprie (alcune sono state accennate poco sopra): il contratto di prestazione professionale, che può essere forse considerato un tipo speciale di contratto d’opera. In questo contratto assume un rilievo determinante il profilo soggettivo di una delle due parti contrattuali; deve trattarsi di soggetto che ha non solo una particolare qualificazione tecnico-culturale, ma che si muove nella vicenda in questione in condizioni di indipendenza e autonomia intellettuale. Tutte condizioni che debbono presidiare non solo alla attività giudiziale, ma anche alle attività di assistenza e consulenza, se correttamente intese. Anche sul fronte dell’antiriciclaggio, vi segnalo che la direttiva europea recepita con il d. lgsl.vo n. 56/2004 presenta una concezione unitaria della professione: infatti, sono esonerate dall’obbligo di segnalazione non solo le informazioni acquisite dall’avvocato nel corso della difesa giudiziale, ma anche quelle raccolte nell’“esame della posizione giuridica del cliente”. Concludo con una notazione di politica del diritto, in riferimento agli scenari prossimi nei quali il nostro mestiere intellettuale, con tutta probabilità, è destinato ad inserirsi. Ci viene ripetuto da più parti che l’area della giurisdizione è troppo ampia, che occorre deflazionare la macchina della giustizia, che vanno potenziate e sviluppate tutte le tecniche di modalità di risoluzione alternativa delle controversie, prima e fuori dal processo. L’Avvocatura può essere concorde, e svolgere la propria parte, ma cosa accadrà se questo processo di tendenza si accompagnerà ad un mancato riconoscimento della natura delle attività di consulenza? Se le liti andranno risolte fuori dalle aule di giustizia, possiamo tollerare ancora a lungo un’opzione semplificatoria che ci vuole confinare sempre più nella riserva indiana del processo, e non coglie come la funzione di cura, di assistenza, di difesa degli interessi della parte necessita dell’avvocato anche prima ed al di fuori della fase giudiziale? Il dibattito è aperto in tutta Europa; gli avvocati tedeschi sono tornati sull’argomento con un recente convegno a metà settembre. In Portogallo, addirittura, la legge 24 agosto 2004 n. 49 ha espressamente riconosciuto agli avvocati l’esclusiva per l’attività di consulenza svolta in forma professionale, ribadendo la legittimazione processuale dell’ordine per reprimere i contegni abusivi. Vale la pena ricordare che la legge portoghese, a riprova che la ratio della legge si ponga come obiettivo la tutela del pubblico interesse, prevede che il ricavato delle sanzioni per le violazioni delle norme venga destinato per il 40% all’Istituto del Consumatore e per il 60% allo Stato. I risarcimenti da responsabilità civile saranno invece devoluti ad un fondo destinato alla promozione di azioni di informazione presso i cittadini e di prevenzione per far sì che l’attività legale venga svolta da soggetti autorizzati! Credo fermamente che questa sia una battaglia da compiere anche in Italia, se non vogliamo rischiare una progressiva marginalizzazione, considerato il quadro di riferimento che ho cercato di tracciare. Mi auguro che tutti quanti, ordini ed associazioni, possano svolgere con impegno la propria parte.