il nuovo concetto di sicurezza

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il nuovo concetto di sicurezza
IL NUOVO CONCETTO DI SICUREZZA
Sommario: 1. Considerazioni introduttive: sicurezza interna e sicurezza esterna – 2. La sicurezza interna – 3. La
sicurezza esterna - 4. Conclusioni sulla sicurezza interna ed esterna.
1. CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE: SICUREZZA INTERNA E SICUREZZA ESTERNA
La sicurezza consiste nell’assenza di minacce ai propri interessi vitali (sopravvivenza, integrità territoriale,
ecc.), ovvero nel possesso della capacità di dissuaderle - quando esistono - o in quella di respingere
un’aggressione - qualora essa dovesse verificarsi - e vincere chi ne ha preso l’iniziativa. Il suo contenuto muta a
seconda delle epoche storiche e dei contesti internazionale o interno. La sicurezza interna e quella esterna hanno
molti aspetti comuni – in particolare per minacce come il terrorismo transnazionale – ma presentano anche
notevoli differenze.
La prima è regolata dall’ordinamento giuridico degli Stati e discende dal loro monopolio della forza
legittima. Alle minacce e ai rischi interni (criminalità, terrorismo ideologico o secessionista - tipo Brigate Rosse,
IRA o ETA - ecc.) si sono sommati - soprattutto dopo gli attentati dell’11 settembre a New York e a Washington
- quelli derivanti dal terrorismo transnazionale. Esso viene considerato il maggiore pericolo per il futuro - anche a
breve termine - soprattutto nella prospettiva che si doti di armi di distruzione di massa (nucleari, chimiche,
biologiche e radiologiche) o anche di capacità di attacco massiccio alle reti informatiche e alle banche dati, su cui
si basa la sopravvivenza stessa delle società industriali avanzate 1.
La sicurezza esterna è quella più tradizionale. Gli Stati moderni sono nati e strutturati come “macchine
da guerra”, con il compito principale di difendere i propri cittadini da aggressioni, bloccandole per quanto
possibile alle frontiere. Essa è stata tradizionalmente centrata sulla sua componente militare, cioè sulla difesa. Nel
sistema internazionale, la forza non è monopolizzata (anche nel caso di egemonia o di impero, che possono
essere contrastati con strategie “asimmetriche”, denominate anche “dal debole contro il forte” – quali la
guerriglia, l’insurrezione, il terrorismo o la resistenza civile non violenta), ma è distribuita fra i vari attori delle
relazioni internazionali. Queste ultime sono caratterizzate dalla cosiddetta “anarchia”, giacché il diritto
internazionale non ha la cogenza di quello interno, anche per l’inesistenza di un utopistico “governo mondiale”.
La sicurezza esterna assume tuttora diverse forme: sicurezza nazionale, sicurezza collettiva e sicurezza comune o
globale2.
La prima è alla base delle altre. Fa capo all’azione di ogni singolo Stato, che gode comunque di un diritto
inalienabile di autodifesa, a cui provvede autonomamente o attraverso coalizioni ad hoc con altri paesi sottoposti a
medesime minacce contingenti.
La sicurezza collettiva si esprime nell’adesione ad istituzioni permanenti fra Stati accomunati dagli stessi
valori etico-politici – e quindi da un progetto futuro. Si fonda sull’impegno dei partner di intervenire qualora uno
di essi commetta un’aggressione.
La sicurezza comune obbedisce ad un paradigma cosmopolita – di derivazione kantiana, groziana o
“mercatoria” – in cui le responsabilità della sicurezza sono devolute ad istituzioni internazionali – come il
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – che assolvono il ruolo di garantire la pace internazionale secondo
determinate regole e procedure che superano le sovranità nazionali.
A prescindere dal tipo di sicurezza, alle dimensioni militari veniva attribuita un’importanza centrale, se
non esclusiva. Di fatto, non è mai stato completamente così. A partire dall’antichità, gli aspetti politici ed
economici hanno tradizionalmente fatto parte - con quelli militari - della strategia globale di ogni paese (per gli
Stati Uniti è la National Security Strategy). Nell’attuale era dell’informazione e della globalizzazione, a tali dimensioni
tradizionali se ne sono aggiunte - o hanno acquisito maggiore rilevanza - altre: l’aiuto allo sviluppo, quella
ecologica, quella dei principi e valori che caratterizzano il prestigio di un paese in campo internazionale e che unitamente alle norme e istituzioni internazionali - ne legittimano le iniziative, in particolare quelle che
comportano l’uso della forza. Data la sua nuova complessità, la sicurezza è divenuta così un concetto
multidimensionale.
La comparsa del terrorismo transnazionale ha eroso le frontiere fra sicurezza interna ed esterna. Tipica al
riguardo è la tanto discussa “guerra al terrorismo”, dichiarata dal Presidente Bush, dopo gli attentati dell’11
Centro Studi di Geopolitica Economica (a cura di), Sicurezza: le nuove frontiere – cultura, economia, politiche, tecnologie, F. Angeli, Milano, 2005;
C. S. Gray, Modern Strategy – specie cap. 10, Small Wars and Other Savane Violence, pp. 273-96 – Oxford University Press, New York, 1999.
2 C. Jean, Guerra, strategia e sicurezza, Laterza, Roma-Bari, 2002 (II ed.); idem, Manuale di Studi Strategici, F. Angeli, Milano, 2003.
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settembre 20013. Discussa perché, con essa, i terroristi - fino ad allora considerati criminali - sono stati
trasformati in nemici, sebbene non rispettino le norme del diritto internazionale bellico. Ne è conseguito un
serrato dibattito, che continua tuttora, sullo status giuridico dei terroristi catturati e sull’accettabilità di considerare
come facenti parte della “guerra al terrorismo” azioni come quelle dell’imposizione della democrazia con la forza,
dell’attacco all’Iraq e della sostituzione del regime dittatoriale di Saddam Hussein (o, con la seconda
Amministrazione Bush, l’azione contro gli Stati considerati “le avanguardie della tirannia”).
In qualche misura connessa è la discussione su che cosa sia e su come debba essere garantita la sicurezza.
Dopo il collasso dell’ordine bipolare, non è stato ancora definito il paradigma a cui ispirarla. Durante la Guerra
Fredda era il contenimento dell’URSS, tramite la dissuasione nucleare estesa dagli Stati Uniti all’Europa. Tale
concetto era inequivocabile e condiviso dall’intero Occidente. Né la guerra al terrorismo, né l’“attacco preemptivo” previsto nella National Security Strategy del 2002 possono essere considerati sostituti del contenimento
come paradigmi del nuovo ordine mondiale e delle conseguenti politiche e strategie di sicurezza. La prima avrà
una durata limitata nel tempo, ed è comunque marginale rispetto alla prospettiva di un futuro confronto
geopolitico fra grandi potenze. Il secondo – la pre-emption anticipatoria di un attacco - è una modalità tattica, non
un obiettivo politico, quale era invece il containment. Inoltre, essa è rifiutata in linea di principio da molti paesi
europei, come lo è anche l’unilateralismo americano che li marginalizza nel contesto internazionale.
Per esaminare le caratteristiche della la “nuova sicurezza”, verranno analizzate prima la sicurezza interna,
con specifico riferimento alla minaccia del nuovo terrorismo (difesa civile, che in USA è denominata Homeland
Security). Successivamente, saranno approfondite le principali problematiche della sicurezza esterna, connesse con
la scomparsa del mondo bipolare e con il contestato emergere di un mondo unipolare, connotato dall’egemonia non solo militare - degli Stati Uniti o, come taluni affermano, da una nuova forma di “repubblica imperiale”, che
caratterizzerebbe la pax americana dell’inizio del XXI secolo e che sarebbe destinata a durare decenni.
2. LA SICUREZZA INTERNA
Le nuove tecnologie da un lato e l’interconnessione delle società e delle economie dall’altro consentono a
piccoli gruppi e a singoli individui di disporre di una capacità distruttiva che un tempo era posseduta solo dai
governi. Quanto più sono organizzate - per accrescere la loro efficienza - tanto più le società e le economie sono
vulnerabili. Si tratta di una “vulnerabilità da rigidità”, diversa da quella “da labilità” derivante dalla scarsa
organizzazione di un sistema, poco efficiente e facilmente penetrabile dall’esterno. Essendo più vulnerabili,
società ed economie moderne si trovano sottoposte a un maggior potenziale di danno, e quindi a maggiori rischi
rispetto alle moderne minacce - soprattutto a quelle del terrorismo suicida. Non costretti a predisporre vie di fuga
dopo gli attentati, i kamikaze o shahid (martiri) sono difficilmente intercettabili 4. La sicurezza tende a ridurre il
danno potenziale derivante dal loro materializzarsi; lo fa sia rafforzando i confini e i meccanismi di controllo
interno del sistema, sia attribuendo a quest’ultimo una maggiore flessibilità e quindi una capacità di assorbire
dinamicamente gli shock. Rafforzamento dei confini e dei controlli ed aumento di flessibilità comportano un
costo: la diminuzione dell’efficienza e - fatto particolarmente grave nelle società democratiche - delle libertà e
della privacy dei cittadini 5.
Il significato di rischio, vulnerabilità e danno, utilizzato nel presente lavoro, è riportato nell’Allegato A.
A) LE CARATTERISTICHE DELLA MINACCIA RAPPRESENTATA DAL NUOVO TERRORISMO
Il terrorismo non è un fenomeno nuovo. Il World Trade Center era stato attaccato dagli anarchici con un
autocarro carico di dinamite già il 16 settembre 19206. Non è nuovo neppure il terrorismo suicida, che fiorì
proprio nell’attuale Iraq - dal X al XIII secolo - con la setta degli Assassini, determinati a purificare la regione dai
cristiani, dagli ebrei e soprattutto dai musulmani “apostati”. Lo fecero fino alla loro eliminazione da parte dei
Mongoli, dopo la distruzione di Bagdad7.
Nonostante i precedenti storici, l’attuale terrorismo di matrice islamica presenta aspetti del tutto inediti:
in parte per la sua importanza e globalità, iscrivibile alla diffusione delle diaspore islamiche nel mondo; in parte
G. Andréani, The War on Terror: Good Cause, Wrong Concept, Survival, November-December 2004, pp. 31-50; M. Howard, What’s in a Name.
How to Fight Terrorism, in Foreign Affairs, January-February 2002, pp. 8-13.
4 M. Fiocca, La vita è altrove. Un’analisi del mercato del terrorismo suicida, in Riv. s.s.e.f., 2004, n. 12; W. Laqueur, Il nuovo terrorismo, Corbaccio,
Milano, 2002.
5 R. O. Keohane, The Globalization of Informal Violence – Theories of World Politics and the Liberation of Fear, International Organization, Spring
2002, pp. 29-43.
6 G. W. Bush, National Security Strategy for Combating Terrorism, The White House, Washington , DC, February 2002, p. 5.
7 S. Atran, Mishandling Suicide Terrorism, in The Washington Quarterly, Summer 2004, pp. 67-80.
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perchè nel 2025 i musulmani passeranno dall’attuale 20 al 30 per cento della popolazione mondiale. La nuova
importanza demografica8 potrà assumere una rilevanza politico-strategica cruciale, anche perché il declino
demografico dell’Europa imporrà di assorbire masse di immigrati islamici, a cui verrà inevitabilmente concessa la
cittadinanza. Senza una politica di integrazione ed assimilazione – a cui la cultura islamica cerca di resistere per
mantenere la propria identità – si rischierà uno scontro di civiltà all’interno delle società occidentali, soprattutto
se sarà incoscientemente proseguita la trasformazione delle società nazionali europee in multiculturali. Non è
pessimistico pensare che si determinerà in Europa una situazione simile a quella bosniaca. Basti considerare
quanto è avvenuto in Olanda dopo l’assassinio del regista Theo van Gogh.
Poiché è praticamente impossibile debellare le reti terroristiche immerse nelle società occidentali, non vi
è altra soluzione che quella di eliminarne le radici profonde nei paesi musulmani - in particolare in quelli arabi - e,
nel contempo, promuovere l’integrazione delle crescenti masse di immigrati islamici in Europa, perseguendo allo
stesso tempo una politica di differenziazione per paesi di origine degli immigrati allo scopo di facilitarne
l’integrazione.
La pericolosità del nuovo terrorismo deriva dalla tecnologia e dalla globalizzazione, fenomeni tra loro
correlati. (cfr. punti b) e d)).
In secondo luogo, sono mutati il contesto politico e gli obiettivi dei terroristi. Chi li manipola e li sfrutta
persegue una politica ed una strategia del tutto razionali per il raggiungimento dei propri fini 9 (cfr. punto c)).
Occorre comprenderle, per poterle combattere e vincere10. Occorre essere altresì consapevoli delle motivazioni
che inducono tanti giovani islamici (tra i più dotati culturalmente e in gran parte appartenenti a classi sociali
medio-alte) ad arruolarsi nei movimenti e ad effettuare attacchi suicidi.
La natura razionale del terrorismo e della sua leadership è confermata dalle analisi psicologiche effettuate
sui terroristi detenuti a Guantanamo, dagli israeliani, e dall’intelligence e dalle polizie dei paesi arabi. I terroristi
suicidi di Al-Qaeda sono vere e proprie “avanguardie della rivoluzione”. Commette un’ingenuità grave la stessa
National Strategy for Combating Terrorism (dicembre 2003), quando afferma che la guerra al terrorismo è una “guerra
di idee” ed “una guerra contro la povertà”, e quando assume che i terroristi siano nemici dei valori occidentali e
della democrazia in quanto tali, e che il supporto popolare di cui essi godono sia dovuto alla miseria e alle
frustrazioni delle masse musulmane “povere”.
Invece, gli studi più recenti dimostrano che il terrorismo suicida trae la sua efficienza dall’organizzazione
del reclutamento e dalla propaganda. Quest’ultima ha ben poco a che fare con la religione; presenta piuttosto
stupefacenti somiglianze con le tecniche di manipolazione di massa adottate negli eserciti degli stati-nazione
europei - dalla rivoluzione francese in poi - per convincere i soldati a massacrare e a farsi massacrare soprattutto
negli “asimmetrici” conflitti irregolari di guerriglia e di controguerriglia 11. Pertanto, non esiste una psicopatologia
del terrorista suicida, così come non ne esiste una del nazista o del bolscevico. L’importante non è l’individuo, ma
l’organizzazione. La tendenza occidentale ad esorcizzare il fenomeno marchiandolo di irrazionalità e di fanatismo
religioso conferma - nel suo irrealismo - come non si sia ancora compreso che cosa sia lo stesso terrorismo.
Anche per questo motivo è prevedibile che la guerra al terrorismo avrà una lunga durata12. Il suo successo
comporterà un faticoso processo di adattamento non solo nelle strategie, ma anche nelle culture occidentali. Tale
“rivoluzione culturale” è necessaria e di lungo periodo.
Il terrorismo islamico si avvale nella sua propaganda di frustrazioni ormai ataviche e dell’attuale
emarginazione del mondo islamico dal progresso, dalla storia e dalla globalizzazione. Tale marginalizzazione non
è avvenuta per scelta deliberata dell’Occidente, ma degli attuali governi dei paesi musulmani.
Anche l’Occidente però – a parte il suo sostegno ad Israele – ha le sue responsabilità, supportando quei
regimi che - benché autoritari, inefficienti, corrotti e progressivamente delegittimati dai loro sudditi - erano
portatori dei suoi interessi. L’Occidente è divenuto così il capro espiatorio del divario esistente fra le aspirazioni
delle classi emergenti islamiche e le loro prospettive concrete di accesso al potere, bloccate dalla rigidità dei
regimi politici prevalenti nell’Islam, in gran parte teocrazie o dittature militari ereditarie. In un certo senso, ora
l’Occidente si è “legato le mani”: se smettesse di sostenere tali regimi, il “testimone” passerebbe ai radicali più
fanaticamente anti-occidentali. I tentativi di democratizzazione sono stati molto rischiosi. Lo dimostrano i
disastri, cioè le guerre civili, avvenute in Algeria o in Libano. La scommessa fatta in Iraq dai “neoconservatori”
dell’Amministrazione Bush è di democratizzare un paese islamico – dove non esistono democratici nel senso
R. Kennedy, Is One Person’s Terrorist, Another’s Freedom Fighter?, Western and Islamic Approches to “Just War” Compared, in Terrorism and Political
Violence, Spring 1999, pp. 1-21.
9 D. A. Lake, Rational Extremism, op. cit.; C. S. Gray, Thinking Asymmetrically in Times of Terror, Parameters, Spring 2002, pp. 5-14.
10 C. Jean, Clausewitz and bin Laden, in L. Annunziata – M. Dassù (eds.) The XXI Century’s Conflicts, Aspen Institute Italia, Roma, 2003; M.
Ranstorp, Interpreting the Broaden Context and Meaning of Bin Laden’s Fatwa, Oxford University Press, New York, 1999; D. A. Lake, Rational
Extremism: Understanding Terrorism in the Twenty-First Century, International Organization, Spring 2002, pp. 15-28.
11 T. R. Mockaitis, British Counterinsurgency in the Post Imperial Era, Manchester University Press, Manchester, 1995.
12 R. Page, The Strategic Logic of Suicide Terrorism, in American Political Science Review, August 2003, pp. 343-361.
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occidentale del termine – appoggiandosi agli islamici moderati, allo scopo di provocare un “effetto domino” di
riforme che rendano più accettabili e stabili quei regimi e che riconoscano maggiore spazio alle classi emergenti,
sottraendole al reclutamento del terrorismo.
E’ una scommessa forse vincente, come dimostrano i risultati delle elezioni irachene del 30 gennaio
2005, il mutato atteggiamento della Libia e talune riforme - per ora solo di cosmesi - nei paesi arabi. Un
avanzamento del processo di pace israelo-palestinese darebbe un forte impulso a tale cambiamento. Infatti, molti
regimi arabi hanno finora affermato di voler subordinare la via delle riforme alla soluzione del problema
palestinese. Se si giungesse ad un accordo fra Europa e USA per una collaborazione nell’intera regione dopo lo
“strappo” iracheno, le probabilità di successo di tale strategia aumenterebbero notevolmente. Diversamente, è
inevitabile prima o poi uno scontro.
B ) I FATTORI DI POTENZA DEL TERRORISMO ISLAMICO
La tecnologia ha aumentato sia la potenza distruttiva dei terroristi, sia la vulnerabilità delle moderne
società occidentali 13. Esse sono interdipendenti, aperte, immerse in un mondo ipercompetitivo, in cui ogni
misura di sicurezza pregiudica l’efficienza (ad esempio a causa dei maggiori controlli, dagli aeroporti al sistema
bancario), e quindi costi indiretti (ad esempio, il clima di opinioni sotteso dalla Fear Economy, che deprime la
domanda). Questa seconda categoria di costi è superiore a quelli diretti, relativi alle spese necessarie per acquisire
un certo livello di sicurezza.
La vulnerabilità delle moderne società deriva dall’interdipendenza fra le loro varie componenti ed è
massima nei nodi di interconnessione, sia interni che verso l’esterno. Ad essa si aggiunge la vulnerabilità
psicologica, in gran parte iscrivibile alla rivoluzione delle tecnologie dell’informazione 14.
Generalmente gli effetti degli attacchi terroristici vengono identificati con i massacri di civili. In futuro, le
perdite potranno moltiplicarsi se gli attacchi saranno effettuati con armi di distruzione di massa (ADM): dai
tremila morti delle Due Torri si potrebbe passare a decine o a centinaia di migliaia di vittime.
Già oggi, ma soprattutto in futuro, la democratizzazione e la diffusione delle tecnologie, la presenza di
decine di migliaia di affiliati alle reti di al-Qaeda, il loro livello di addestramento militare e la loro sofisticazione
tecnologica, la loro organizzazione in cellule immerse nelle società occidentali e “dormienti” in attesa di un
ordine, mettono il terrorismo internazionale in condizioni di effettuare anche attacchi multipli coordinati contro
le istituzioni, la società e le economie occidentali 15. Essi potranno causare danni areali - estesi ad intere regioni - e
bloccare le interconnessioni fra le reti delle infrastrutture critiche, su cui si basa il funzionamento delle società
avanzate (soprattutto dei centri urbani), provocando enormi danni economici. La tecnologia offre anche la
possibilità di effettuare attacchi nel cyber-spazio (hackers, virus, ecc.), colpendo infrastrutture vitali delle moderne
società. I danni del cyber-terrorismo possono estendersi rapidamente alle strutture ospedaliere, ai trasporti, ai
servizi sociali e a quelli pubblici essenziali, provocandone il collasso. Possono quindi causare un rilevante numero
di vittime, paralizzando nel contempo l’organizzazione dei soccorsi.
La strategia di al-Qaeda si fonda sul logoramento su scala globale – contro le società e, segnatamente,
contro le economie occidentali 16 - e sul fatto che per vincere le è sufficiente sopravvivere per una lunga durata.
Bin Laden sta incitando i suoi a colpire l’economia americana, in modo da provocarle danni e rendere impossibile
a Washington il mantenimento dei suoi impegni nel mondo e la continuazione della guerra contro il terrorismo.
Gli Stati Uniti hanno a disposizione, invece, molto meno tempo rispetto all’avversario. Nel 2030-40,
l’invecchiamento della loro popolazione accrescerà le spese sociali, con minori disponibilità di risorse quindi per
la politica estera e di sicurezza. E’ anche per questo motivo che la riforma delle pensioni assume un’importanza
chiave nella seconda Amministrazione Bush. Il suo successo aumenterà l’orizzonte temporale a disposizione degli
Stati Uniti17; se non dovesse riuscire, essi saranno indotti ad accorciare i tempi: attacchi alla Siria e all’Iran o la
destabilizzazione dell’Arabia Saudita e anche dei paesi dell’Africa settentrionale diventerebbero più probabili.
M. van Creveld, The Transformation of War, Free Press, New York, 1991; W. Laqueur, The New Terrorism – Fanaticism and the Arms of Mass
Dectruction, Oxford University Press, New York, 1999.
14 C. Jean, Manuale di geopolitica, Laterza, Roma-Bari, 2003 - specie cap. VIII, La Geoinformazione, pp. 177-91.
15 M. Fiocca e S. Cosci, La dimensione finanziaria del terrorismo e controterrorismo transnazionale, Rapporto di ricerca CeMiSS, Rubettino ed.,
Catanzaro, 2004.
16 J. Baylis and alii (eds.), Strategy in Contemporary World – An Introduction to Strategic Studies, Oxford University Press, New York, 2002, specie
J. D. Kiras, Terrorism and Irregular Warfare, pp. 208-234.
17 I. Daalder, F. Fukuyama e W. Russell Mead, Bush 2 e l’Europa: ottimisti e pessimisti, in Aspenia n. 27, La seconda era nucleare, Roma, gennaio
2005, pp. 26-41.
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C) GLI OBIETTIVI DEL TERRORISMO DI MATRICE ISLAMICA
Il terrorismo tradizionale – politico, ideologico, etnico – si proponeva (e si propone tuttora) fini politici
specifici, quindi limitati. Essendovi una correlazione fra mezzi e fini, le uccisioni erano mirate. I massacri non
erano funzionali a tale terrorismo, soprattutto a quello più ideologico o “di sinistra”, del tipo Brigate Rosse o
RAF. Potevano invece esserlo per quello “di destra”, poiché gli attentati erano finalizzati a creare un clima di
insicurezza e, quindi, una richiesta sociale di ordine e di autorità. Il primo impiegava la pistola; il secondo la
bomba. Tuttavia, la violenza era limitata anche dall’esigenza di non provocare reazioni popolari negative troppo
rilevanti e di giustificare l’adozione di misure eccezionali, che avrebbero colpito i sostenitori esterni delle frange
combattenti. Il terrorismo tradizionale – quello degli anni Settanta-Ottanta, per intenderci – disponeva inoltre di
un’organizzazione di tipo quasi militare, quindi gerarchica. Le “piramidi” potevano essere infiltrate (con maggiore
o minore facilità) molto meglio delle “reti” del terrorismo transnazionale attuale, in modo analogo a quanto
praticato dai servizi di intelligence ed investigativi nei riguardi della criminalità organizzata 18. Infine, il terrorismo
tradizionale non era caratterizzato da una “curva di letalità” comparabile a quella attuale e generalmente non
aveva molti legami con la criminalità organizzata, pur adottandone talvolta i metodi per finanziarsi.
Il nuovo terrorismo è invece uno strumento di lotta globale. In sé è solo una tattica, non una strategia né
tanto meno una politica. La “guerra contro gli ebrei e contro i crociati”, proclamata nella fatwa di bin Laden del
1998, è solo apparentemente una guerra di religione. Quest’ultima non è la causa del terrorismo, ma unicamente
uno strumento di mobilitazione sia materiale che psicologica, volto a creare consenso. L’obiettivo politico è la
conquista del potere nel mondo islamico in generale e, in particolare, negli Stati arabi – soprattutto in quelli
produttori di petrolio – anche forse per affrancarli dalle condizioni di subordinazione e di sfruttamento in cui li
tiene l’Occidente - in particolare gli Stati Uniti - per il tramite delle élites locali. Il problema dei palestinesi è solo
marginale. Tutt’al più costituisce un pretesto per mantenere regimi autoritari in nome della guerra santa contro il
sionismo. Sicuramente a bin Laden non interessa la loro sorte, anche perché essi sono troppo evoluti e
secolarizzati per sottoporsi al suo dominio e alle sue prospettive di rigenerazione dell’Umma musulmana e di
ricostituzione del Califfato.
Per conseguire i suoi scopi, al-Qaeda ha scatenato una guerra di logoramento contro l’Occidente e gli
Stati Uniti, non solo nei territori islamici, ma anche in quelli americani ed europei. Gli USA hanno alleati, di cui
molti sono parte del problema anziché della sua soluzione: si tratta in particolare dei leaders islamici, soprattutto di
quelli più autocratici, corrotti ed inefficienti, che non potrebbero sopravvivere senza il sostegno di Washington e
dell’Europa.
Il prestigio statunitense nel mondo islamico è diminuito significativamente, come dimostrano i vari
sondaggi di opinione. In un certo senso, paradossalmente, le manifestazioni nelle capitali islamiche contro la
guerra in Iraq sono state però meno violente e di minori dimensioni di quelle avvenute contro la guerra del 199091. Ciò è senz’altro dovuto al maggior controllo esercitato dai regimi islamici sulle loro popolazioni, al fatto che
questi ultimi costituiscono i primi obiettivi degli attacchi terroristici e che, verosimilmente, molti dei governi arabi
- sicuramente quello iraniano - erano sostanzialmente favorevoli all’attacco anglo-americano in Iraq (anche se
trovavano conveniente condannarlo in pubblico). La ripresa dell’anti-americanismo (e l’aumento del prezzo del
petrolio!) è avvenuta quando gli USA si sono dimostrati incerti e inefficienti nella gestione del dopoguerra in Iraq;
non quando hanno deciso di attaccarlo, aumentando per i regimi arabi la credibilità della protezione di
Washington.
Peraltro, i governi islamici contano poco come alleati nella lotta al terrorismo e, in ogni caso, anche essi
costituiscono obiettivi dei terroristi. Il sostegno della popolazione nei loro confronti è sicuramente più
importante. Da esso dipende quantità e qualità dei reclutamenti. Comunque, se anche quest’ultimi diminuissero e
se fossero veri i dati forniti da diversi servizi di intelligence - secondo cui vi sarebbero 20-50.000 terroristi addestrati
da al-Qaeda, “dormienti” in una sessantina di paesi - il rischio per l’Occidente è molto rilevante e giustifica
l’adozione di misure straordinarie. Esse sono state adottate negli Stati Uniti e, con minore visibilità, in taluni paesi
europei. La massa delle popolazioni europee non si sente però in guerra e non distingue il nuovo terrorismo da
quello tradizionale con cui è abituata a convivere. Una loro mobilitazione sarà possibile solo dopo qualche maxiattentato. Ciò limita l’efficacia di qualsiasi misura protettiva.
Come accennato, occorre invece colpire le radici del terrorismo, cioè “conquistare le menti e i cuori”
delle masse islamiche, in modo da ridurre il reclutamento delle reti. A lungo termine, è l’unico obiettivo vincente.
Esso è molto più importante della neutralizzazione prima e della distruzione poi delle reti terroristiche. E’ anche
più importante del timore, da parte dei paesi che favoriscono il terrorismo o che lo finanziano, che gli USA li
attacchino. Effettivamente è molto probabilmente che gli Stati Uniti - durante il Bush 2 - effettueranno altri
J. Arquilla and D. Ronfeldt, Networks and Netwar: The Future of Terror, Crime and Militancy, RAND Corporation 2001, Santa Monica (CA);
C. Jean, Dalle piramidi alle reti, in A. Predieri e M. Morisi (a cura di), L’Europa delle reti, Giappichelli, Torino, 2001.
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attacchi. I successi che stanno riscuotendo in Medio Oriente (elezioni in Afghanistan, Palestina, Israele;
“rivoluzione democratica” in Libano; ritiro da Gaza; elezione di Abu Mazen; rinuncia della Libia alle armi di
distruzione di massa; riconoscimento di Israele da parte della Tunisia; e così via) li indurranno ad impiegare
nuovamente la forza. L’antiamericanismo - costituendo un by-product sicuramente indesiderabile di ogni iniziativa
militare di Washington - non rappresenta un elemento di rilievo per dissuadere il Presidente americano ogni
qualvolta ritenga necessaria tale iniziativa 19.
Dato il carattere fluido, ambiguo, complesso ed imprevedibile del nuovo terrorismo, è impossibile che
l’Occidente riesca a neutralizzarlo, soprattutto se continuerà ad essere disunito, perché molti paesi tendono a
comportarsi da free-riders: pronti a fruire della sicurezza fornita soprattutto dagli Stati Uniti, ma altrettanto pronti
ad opporsi almeno formalmente ad essi per trarne vantaggi particolari, interni come ha fatto la Germani di
Schröder o la Spagna di Zapatero, o esteri come ha cercato di fare la Francia di Chirac.
La “conquista delle meni e dei cuori” delle masse islamiche dovrebbe essere conseguita risolvendo il
problema palestinese, contro la stessa volontà dei governi arabi, che lo sfruttano tuttora per consolidare la loro
legittimità. Le operazioni vere e proprie, ad alta intensità tecnologica, dovrebbero essere riservate agli Stati che
ostacolano la campagna di stabilizzazione del “Grande Medio Oriente” – da Kabul e Islamabad a Gibilterra –
mentre contro le reti occorre intensificare le operazioni di intelligence e quelle covert, creando il “terrore nel terrore”.
Infatti le “piramidi” - con cui sono organizzate le forze armate e di polizia - poco possono contro le “reti”. E’
come impiegare un martello contro uno sciame di moscerini. Lo si vede in Iraq.
Non per nulla gli esperti militari arabi sono estremamente critici – anzi, sarcastici! – nei riguardi della
strategia americana, che privilegia anche contro le reti gli interventi ad alta intensità operativa e tecnologica,
soprattutto dopo che la brillante vittoria militare in Iraq è stata sciupata per la incomprensione delle realtà
irachene. Caratteristico al riguardo è lo stupore occidentale per il fatto che la cattura di Saddam Hussein, anziché
frenare il terrorismo in Iraq, l’abbia stimolato. Per molti dei gruppi terroristici che operano in Iraq – jihadisti,
nazionalisti, guerrieri tribali o terroristi internazionali – con la cattura di Saddam è stato infatti tolto di mezzo
dagli americani un loro pericoloso concorrente, capace di costituire un polo alternativo di attrazione e in grado di
compromettere il loro potere. Anche i nazionalisti del partito Baath non gli perdonano ancora l’avvicinamento
all’Islam dopo la sconfitta del 1991, dimostrato dall’iscrizione sulla bandiera irachena della frase “Allah è
grande”. Gli sciiti, dal canto loro, hanno sicuramente gioito per la cattura di Saddam, che ha indebolito i sunniti.
In Iraq, oltre che in Palestina, si gioca il futuro della stabilità nel Medio Oriente e nel mondo islamico. E’ anche
in tale regione che si potrà evitare che il conflitto si trasformi in uno scontro di civiltà, che danneggerebbe
soprattutto l’Europa, anche per il numero crescente di immigrati islamici presenti.
D) VULNERABILITÀ DELLE SOCIETÀ OCCIDENTALI E LOGICA DELLA LORO SICUREZZA
L’esternalizzazione della difesa, praticata dagli Stati Uniti in Afghanistan e Iraq, i maggiori controlli del
“perimetro” (terrestre, marittimo, aereo e anche del cyberspazio) dei paesi occidentali, nonché l’intensificazione
dell’azione preventiva e repressiva interna, attuata dalla magistratura e dalle forze di polizia, non costituiscono
panacee. Non possono eliminare la minaccia di attentati né, quindi, essere considerate sostitutive delle
predisposizioni di difesa civile nel senso proprio del termine, di riduzione della vulnerabilità, dell’entità dei danni,
dei costi e dei tempi di ripristino, e così via.
Come si è già accennato, l’interconnessione - connotato delle società e delle economie moderne20 comporta una loro maggiore efficienza, ma anche una loro maggiore vulnerabilità. Il danno apportato ad una
componente della struttura si espande automaticamente, spesso con grande rapidità, amplificando il danno fino a
provocare il collasso dell’insieme. Gli effetti psicologici delle emozioni e del panico di massa costituiscono dei
moltiplicatori dei danni materiali, rendendo difficili gli interventi di soccorso e di ripristino della normalità. Tali
fenomeni si manifestano con particolare gravità allorquando gli effetti degli attentati non sono percepibili con
immediatezza e quando investano aree molto estese. Ad esempio, armi biologiche contagiose ad effetto differito
(come il mix di Ebola e di Smallpox) potrebbero contaminare intere regioni prima che i loro effetti siano
percepiti. Le aree metropolitane sono particolarmente vulnerabili.
La vulnerabilità non può essere né eliminata e neppure significativamente ridotta solo per mezzo
dell’irrobustimento statico delle varie strutture. Oltre a non essere sufficiente, è un provvedimento molto
costoso, poiché non si può proteggere in modo completo. Anzi, la tutela di taluni elementi del sistema
economico e sociale rende più probabile che ne vengano attaccati altri. La strategia della difesa civile deve essere
19
20
J. La Palombara, L’antiamericanismo: imprese e opinione pubblica, in Aspenia, n. 27, pp. 311-321.
F. Napolitano, Interessi nazionali: metodologie di valutazione, in corso di pubblicazione, F. Angeli, Milano, 2005.
6
pertanto riferita al sistema nel suo complesso. In un certo senso, l’insieme dei provvedimenti da attuare deve
essere speculare al sistema che si intende proteggere, inteso come un tutto organico.
I sistemi aperti, liberalizzati e deregolati – propri della società e dell’economia della globalizzazione –
sono caratterizzati da un elevato livello di vulnerabilità, essendo i loro confini molto porosi. La sua riduzione è
allora realizzata introducendo elementi di ordine, quindi di rigidità. Ordine significa regole e controlli, che però
diminuiscono l’efficienza del sistema. Si rende perciò necessario un delicato equilibrio, per evitare che l’adozione
delle misure di protezione abbia un costo superiore a quello degli ipotetici attacchi terroristici.
Quanto più regole e controlli sono stringenti, tanto più vengono ridotte la libertà e l’apertura delle nostre
società. Ne diminuirebbe quindi la competitività globale e la crescita economica. La sicurezza deve quindi tendere
a limitare al massimo soprattutto le misure dirette di protezione. Deve invece puntare soprattutto sulla resilienza
del sistema. Quest’ultima deriva dalla sua adattabilità e dalla sua capacità di assorbire in modo omeostatico gli
effetti di shocks esterni, minimizzandone i danni e recuperando rapidamente dopo averli subiti. Nel “mondo
piatto” della globalizzazione, la creazione di reti orizzontali diviene quindi essenziale non solo per l’efficienza, ma
anche per la difesa e la sopravvivenza del sistema21.
Gli shocks locali si ripercuotono a livello sistemico, in un certo senso con un approccio locale–globale (o
bottom-up). L’organizzazione della difesa deve intervenire invece con un approccio glocal (top-down), che comprende
in un’unica struttura integrata di gestione del rischio terroristico tutte le componenti del sistema di sicurezza: dal
risk analysis and management, al crisis management (particolarmente difficile soprattutto nell’immediato post-attacco,
nelle fasi cioè dei primi interventi di soccorso) al ripristino della funzionalità del sistema (business continuity
management).
In sostanza, si tratta di adottare un sistema di risposta interconnessa di fronte alla possibilità di shock a cui
è soggetto il sistema, anch’esso interconnesso e soggetto ad amplificare il danno per ragioni sia materiali sia
psicologiche. Tale aumento di flessibilità comporta trasformazioni culturali, organizzative (logiche, meccanismi e
strutture) molto rilevanti.
Esse hanno dato luogo negli Stati Uniti ad una ristrutturazione istituzionale di ampiezza mai verificatasi
nella loro storia, con la costituzione del Department of Homeland Security, che riunisce tutte le funzioni - eccetto
quella dell’esternalizzazione della guerra al terrorismo (cioè degli interventi esterni diplomatici, militari e di
intelligence statunitense) - dalla difesa perimetrale alla lotta antiterroristica interna, alle misure di prevenzione e agli
interventi di soccorso.
In Europa, le trasformazioni da adottare sono meno traumatiche, data l’esistenza di strutture statali più
centralizzate e una maggiore abitudine a fronteggiare fenomeni terroristici, ancorché di origine ideologico o etnonazionalista. Resta aperto il problema di come realizzare un coordinamento efficace fra i “grandi corpi” e le
“corporazioni” dello Stato e le organizzazioni volontarie non governative (ONG), che intervengono nella difesa
civile. Emerge, infatti, il cosiddetto “paradosso del coordinamento”, secondo il quale tutti chiedono di essere
coordinati, ma nessuno accetta di essere coordinato da qualcun altro. Una ragionevole soluzione a tale “dilemma
del prigioniero” rappresenta un elemento critico centrale dell’efficienza del comando e controllo di ogni sistema
di difesa civile.
Le interconnessioni della società e dell’economia e la necessità di una risposta globale, soprattutto in caso
di attacchi plurimi - dove diviene ancora più difficoltosa la definizione delle priorità d’intervento - consigliano
l’accentramento di tali funzioni alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, rafforzando evidentemente i poteri del
Premier, e un coordinamento effettuato nell’ambito di un Internal Security Council o Consiglio della Difesa Civile,
parallelo al National Security Council o NSC (per la difesa esterna) e al National Economic Council o Council for
Competitiveness per l’economia globalizzata soggetta all’ipercompetizione.
Un approccio sistemico facilita le gestioni del rischio prima e della crisi poi. Esso presuppone l’esistenza
di un efficace e dinamico coordinamento centrale.
Questo approccio globale è stato suggerito da Booz, Allen e Hamilton per il Dipartimento della
Homeland Security americana. È seguito nel progetto Living with Risk. Si tratta di una ricerca congiunta fra
l’International Institute for Strategic Studies di Londra e il Lawrence Livermore National Laboratory, volta a definire le
modalità del decision-making in situazioni di emergenza, complessità e di imprevedibilità, come quelle che si
verificano in caso di attacco terroristico, soprattutto se areale e non puntuale come quelli verificatisi finora 22.
Per le caratteristiche di flessibilità delle reti, oltre ai riferimenti in nota, vds. C. Jean e G. Tremonti, Guerre stellari. Società ed economia nel
cyberspazio, Franco Angeli, Milano, 2001.
22 R. A. Falkenrath et alii, America’s Achille’s Heel: Nuclear, Biological and Chemical Terrorism and Covert Attacks, The MIT Press, Cambridge
(Mass.), 1998.
21
7
E ) CENNI SULLE METODOLOGIE PER LA PIANIFICAZIONE DELLA DIFESA CIVILE
In relazione alle finalità del presente numero della Riv. s.s.e.f., appare interessante un cenno alle
metodologie con cui viene pianificata la difesa civile. L’argomento è sviluppato nel presente paragrafo e
completato in quello seguente, riferito specificamente alle varie componenti della difesa civile: dall’attacco esterno e interno – alle reti terroristiche, alla diminuzione della vulnerabilità delle infrastrutture e risorse critiche,
alla rimessa in efficienza dei sistemi (o loro componenti), colpiti negli attacchi.
In teoria, la metodologia per definire un sistema di difesa civile dovrebbe presentare analogie con quella
seguita nella pianificazione militare. I metodi di pianificazione adottati dai Ministeri della Difesa sono due. Il
primo è quello threat-oriented; il secondo è quello capability-oriented23.
Applicando il primo metodo al caso della difesa civile, si dovrebbero: identificare le diverse minacce sia
alle varie componenti del territorio, della società e dell’economia, sia all’intero sistema; individuare, per ciascun
tipo di minaccia, i danni specifici che potrebbero subire (massacri di civili, con l’esigenza di ospedalizzazione di
un gran numero di feriti; attacchi delle infrastrutture e alle risorse critiche; attentanti ai simboli del paese, quali i
palazzi sede del Parlamento e del Governo; e così via) e i danni sistemici, cioè quelli prodotti sull’intero sistema
nazionale (o su parte di esso) dalla distruzione di obiettivi più critici, cioè di quelli che costituiscono i nodi del
sistema. Vanno presi in considerazione sia i danni diretti che quelli di processo; sia quelli materiali che quelli
derivanti dagli impatti psicologici sulla popolazione.
La metodologia threat-oriented è stata adottata soprattutto durante la Guerra Fredda, allorquando si doveva
affrontare una minaccia predeterminata e ragionevolmente definibile in termini qualitativi, quantitativi, spaziali ed
anche temporali, dato che i tempi di preavviso erano ragionevolmente prevedibili. Solo le vere intenzioni del
nemico lo erano meno. Su di esse si potevano formulare solo ipotesi generiche, anche se le valutazioni erano
semplificate dall’assunto che il nemico seguisse regole di razionalità analoghe – o almeno simmetriche – alle
nostre. Sulla base delle informazioni dell’intelligence, si adottavano poi le varie misure di un sistema di allarme.
Esso mirava ad evitare attacchi a sorpresa, effettuati prima che le forze della difesa si fossero schierate.
Tale metodologia non è applicabile alla difesa civile. È infatti impossibile effettuare una valutazione della
minaccia, se non in termini genericamente qualitativi. Tutti gli altri elementi – l’intensità, le modalità, le
dimensioni spaziali e temporali, ecc. – sono imprevedibili. Il terrorismo utilizza sempre la sorpresa e il
mantenimento del segreto come fattori critici per il successo della sua azione. Ha anche la capacità di utilizzare la
sorpresa tecnologica. Lo ha già dimostrato. I documenti rintracciati nelle “reti” ne costituiscono conferma.
Infine, l’assunto di analoga razionalità non è applicabile agli attacchi “asimmetrici”. Taluni attentati possono
essere motivati solo da ragioni interne al movimento terrorista, ad esempio dalla lotta per il potere.
Gli assunti che possono essere presi a riferimento sono talmente incerti da essere scarsamente utili per la
definizione di una pianificazione threat-oriented. In particolare, non sono sufficienti per effettuare valutazioni di
costo-efficacia, ad esempio per valutare come risorse aggiuntive o un diverso uso di quelle disponibili possano
ridurre i rischi, cioè i danni attesi. Inoltre – e questo è forse l’elemento più importante che rende impraticabile
tale approccio metodologico – non si può definire, se non in termini vagamente ordinali, quale sia il livello di
sicurezza a cui occorre tendere nei vari elementi del sistema. Gli obiettivi da proteggere sono molteplici (nella
sola Italia ne sono stati indicati 13.000). Non solo non è possibile proteggerli tutti permanentemente, ma sono
chiaramente insostenibili i costi che si dovrebbero sopportare per un adeguato livello di tutela dell’infrastruttura
critica e delle risorse-chiave, nonché per la salvaguardia dei simboli e delle istituzioni.
Considerazioni analoghe valgono anche per il secondo approccio metodologico applicato in campo
militare, prima ricordato: la pianificazione capability-oriented. L’impossibilità di definire il livello di sicurezza che
sarebbe ragionevole conseguire e l’imprevedibilità delle tattiche e tecniche utilizzate negli attentati impediscono di
valutare con qualche attendibilità quale sia l’effetto dell’impiego di risorse aggiuntive sul livello di rischio. Per
esempio, è impossibile determinare come diminuisca il rischio in un impianto nucleare raddoppiando il numero
di guardie. D’altronde, la metodologia di pianificazione deve necessariamente fondarsi su una serie di assunti
aprioristici, la cui validità non può essere verificata neppure con l’utilizzazione dei più sofisticati metodi di
simulazione.
Occorre però evitare, nonostante queste difficoltà e limitazioni, di procedere solo empiricamente,
lasciando ai livelli in sottordine la responsabilità di definire i livelli di sicurezza a cui localmente tendere, oppure
limitandosi a definire i programmi sulla base delle risorse di bilancio disponibili (nonché del “lobbysmo
corporativo” delle varie forze che intervengono nella difesa civile e delle industrie ad esse collegate). Sono invece
necessarie una visione di lungo periodo delle esigenze e una valutazione delle priorità. Il metodo più praticabile
ed utilizzato per raggiungere tale obiettivo si basa sull’analisi della vulnerabilità e dei rischi, non tanto specifici
(cioè della singola componente del sistema), quanto sistemici (relativi cioè alla società nel suo complesso). Solo
23
W. Laqueur, Post-Modern Terrorism, in Foreign Affairs, September-October 1996, pp. 24-37.
8
così le società del rischio possono essere sostituite dalle società della sicurezza, flessibili e capaci di assorbire
attacchi attraverso la reazione dinamica, a rete delle sue varie componenti 24.
In sostanza, a differenza di quanto avviene nella pianificazione militare, in cui gli obiettivi di forza sono
ben precisi – calibrati su un’ipotesi di minaccia o sul conseguimento di determinate capacità - nella difesa civile
essi sono sostituiti da processi e da orientamenti, data l’impossibilità non solo di proteggere tutto in modo
completo, ma anche di definire quale livello di sicurezza sia ragionevole raggiungere.
Le scelte sono rese più complesse dal fatto - prima ricordato – che l’aumento della protezione di un
obiettivo rende più probabile l’attacco di un altro. Inoltre, valutazioni costo-efficacia sono molto difficoltose,
quando non impossibili. Infine, va tenuto conto che, invece di effettuare nuovi mega-attentati puntuali e
finalizzati a distruggere simboli e causare grandi perdite civili, sembra che la direzione strategica di al-Qaeda –
almeno secondo le dichiarazioni fatte nell’estate del 2004 dal responsabile del Dipartimento della Homeland
Security americana – si stia orientando a massimizzare i danni inferti alle economie occidentali. E’ questa una
strategia che per i terroristi presenta un duplice vantaggio. Il primo è l’utilizzazione dell’enorme asimmetria di
costi fra l’attacco - soprattutto se suicida - e la difesa. Gli attentati alle Torri sono costati meno di mezzo milione
di dollari, ma hanno provocato danni diretti circa 100.000 volte superiori e di un milione di volte maggiori
considerando anche i danni indiretti (diminuzione dei consumi e della propensione agli investimenti). Una serie
di attacchi multipli ai gangli economici e finanziari vitali dell’Occidente o alle fonti di approvvigionamento
petrolifero (specie in Arabia Saudita), potrebbe determinare una crisi economica mondiale. Il secondo vantaggio
per i terroristi consiste nel fatto che l’assenza di massacri di civili rende difficili le mobilitazioni patriottiche e la
richiesta di vendetta, come quelle verificatesi negli Stati Uniti dopo l’11 settembre.
La massimizzazione dei danni inferti è ottenuta dal terrorismo anche quando esso mira a obiettivi che di
per sé non sono critici a livello sistemico (ad esempio, un nodo elettrico), ma che lo divengono quanto soggetti
ad attacchi multipli (in Italia, ad esempio, la distruzione di un numero ridotto di nodi del sistema elettrico
potrebbe provocare un black out di diversi giorni).
La sicurezza contro il terrorismo transnazionale non potrà, in sostanza, essere completa e richiede un
complesso coordinato di misure esterne – quali l’attacco alle reti terroristiche, come in Afghanistan, o lo
spostamento della lotta al di fuori del territorio nazionale, come in Iraq – e di misure interne, queste ultime
tuttavia sempre intrusive sulle sfere di libertà individuali ed economiche.
F) LE DIMENSIONI DELLA SICUREZZA ANTI-TERRORISTICA
La difesa civile – nella sua configurazione più completa – comprende varie componenti 25.
Le prime tre mirano ad attaccare le reti terroristiche e ad impedire che il terrorismo possa compiere
attentati, a diminuirne la magnitudo e la probabilità, a renderne più complessa e rischiosa l’organizzazione e,
infine, ad obbligare le reti terroristiche a concentrare sforzi e risorse sulla loro sopravvivenza, riducendo così il
loro potenziale di attacco. Si tratta di una forma di “difesa in profondità”. Essa estende la difesa anti-terroristica
svolta all’estero alla caccia alle reti all’interno del territorio nazionale e al “perimetro” terrestre, aereo e marittimo,
cioè dei confini. La “prevenzione primaria” comprende una vasta gamma di attività che vanno da quelle militari
all’azione della polizia e della magistratura. Le operazioni militari esterne non sono poste sotto la responsabilità
della difesa civile, anche se negli Stati Uniti vengono definite “misure di prevenzione primaria” volte a diminuire
la probabilità e l’intensità degli attacchi al territorio nazionale, esternalizzando in un certo senso le misure di
difesa civile, come hanno fatto gli americani in Afghanistan e in Iraq. Sono veri e propri atti di guerra, anche se è
ormai consuetudine denominarle con altri termini. Le altre tre misure di prevenzione - o protezione preventiva sono specifiche alla difesa civile, nel senso proprio del termine. Esse presentano profonde analogie con quelle
previste per la protezione civile in caso di eventi dannosi, naturali o antropici - non derivanti cioè da attacchi
terroristici - e vanno di conseguenza organizzate in modo coordinato con questo genere di attività per evitare
duplicazioni.
Un sistema di difesa civile deve comprendere le seguenti componenti:
a) difesa “perimetrale” delle frontiere terrestri, marittime ed aeree e degli accessi al territorio nazionale sia
dei terroristi, sia dei materiali ed equipaggiamenti necessari per gli attentati (Guardia Costiera, Guardia della
Frontiera, Controllo dello Spazio Aereo Nazionale, dei porti, aeroporti, ecc.);
J. Arquilla e D. Ronfeldt, Networks and Netwars, op. cit..
A. J. Echevarria II and B. B. Tussing, Fron Defending Forward To a Global Defence in Depth – Globalization and Homeland Security, US Army
War College, Institute for Strategic Studies, Fort Carlisle (VA), October 2003.
24
25
9
b) difesa interna del territorio, per colpire preventivamente le reti terroristiche (incluso il loro sistema
finanziario e logistico, di reclutamento, ecc.) e il loro circuito di fiancheggiatori e sostenitori. Essa ha l’obiettivo di
rendere più difficili gli attentati e diminuirne la “magnitudo” (intelligence, polizia, magistratura, ecc.);
c) prevenzione secondaria, che riguarda un complesso molto articolato di attività. Talune sono volte a
diminuire la vulnerabilità specifica (ad esempio, la rete elettrica) e sistemica (conseguenze globali di un black out
sulla società e sull’economia). Altre riguardano la costituzione delle forze di intervento, in particolare quelle per i
primi soccorsi. Altre ancora, i sistemi di allertamento e di allarme e quelli di comando e controllo.
La “prevenzione secondaria” comprende, altresì, l’elaborazione di una “dottrina” e le predisposizioni per
l’informazione di emergenza, inclusa la diffusione di una cultura della difesa civile. Il punto centrale della
“dottrina” riguarda la ripartizione dei compiti fra i vari organismi e i diversi livelli sussidiari della difesa civile, da
quello centrale a quello locale, da quello pubblico a quello privato (ad esempio, vanno coinvolte le imprese che
gestiscono i servizi pubblici: acqua, elettricità, gas, trasporti, ecc.) e tra le forze istituzionali e quelle volontarie.
Particolarmente importanti sono i sistemi di rilevamento e di perimetrazione del danno, quelli di allarme e quelli
della gestione comunicativa istituzionale delle emergenze, nonché i vari “stati” o livelli di allarme e di
allertamento (negli USA sono cinque) sia delle forze della difesa civile, sia della popolazione. In Europa, solo la
Gran Bretagna, la Svizzera e gli Stati scandinavi effettuano sistematiche esercitazioni di difesa civile, che
coinvolgono la massa della popolazione. Negli altri paesi dell’Europa continentale sono svolte solo con
l’attivazione delle forze istituzionali e volontarie, verosimilmente per non suscitare panico e per non dover
affrontare i delicati problemi che si porrebbero, ad esempio, in caso di incidenti occorsi durante lo sgombero di
una città.
L’efficienza, la credibilità e l’immagine dell’intera organizzazione sono essenziali, poiché possono evitare
– dopo l’attacco - amplificazioni del danno provocate soprattutto dall’effetto panico, ma anche dal fatto che, nei
moderni sistemi interdipendenti, il danno si propaga lungo le linee di interconnessione.
Gli attentati dell’11 settembre hanno indotto una diminuzione dei consumi, la crisi di interi settori
economici (ad esempio, del trasporto aereo), misure protezionistiche svantaggiose per l’economia globalizzata,
una diminuzione della crescita economica internazionale. Tali danni, denominati “di processo”, rendono difficile
il controllo della situazione da parte dei responsabili. La molteplicità delle tipologie sia dei danni che degli
attacchi, nonché la pluralità e disomogeneità strutturale, e anche culturale, delle istituzioni e delle organizzazioni
coinvolte e l’imprevedibilità stessa della magnitudo dell’attacco e degli effetti di quest’ultimo, rendono necessaria
la predisposizione di reti di rilevamento, con fusione delle informazioni, movimenti dai vari sensori, nonché di un
sistema di comando, controllo e comunicazioni estremamente efficiente e flessibile. Entrambi i sistemi devono
essere in condizione di adattarsi rapidamente ai vari tipi e configurazioni delle conseguenze degli attentati, e al
fatto che esse siano localizzate (come le Due Torri) o diffuse, e che siano singole o multiple.
Un modello che sembra poter costituire un riferimento idoneo al riguardo è rappresentato dal “sistema
dei sistemi” o dall’organizzazione Network Centric, messa a punto dalle forze armate statunitensi e
progressivamente adottata, almeno in parte, da vari paesi europei.
La priorità della prevenzione secondaria va pertanto attribuita alle reti di rilevamento e a quelle di
comando, controllo e organizzazione ai vari livelli di governo. Esse costituiscono i centri nervosi di qualsiasi
sistema moderno di difesa civile che sia efficace anche contro attacchi terroristici;
d) prevenzione terziaria: essa, oltre che alla diminuzione della vulnerabilità delle singole componenti e di
quella dell’insieme di sistemi sociali, economici, ecc., riguarda l’approntamento delle forze della difesa civile in
tutti i loro aspetti – inclusi il loro schieramento, la pianificazione operativa e la direzione strategica degli
interventi post-attentato. Quindi, ha un carattere diffusivo, anche se le decisioni di diramazione di segnali di
allarme e di ordini di allertamento, nonché di intervento delle forze mobili nel post-disastro, devono possedere
una natura più centralizzata; quindi, è caratterizzata da un approccio più top-down che bottom-up.
La prima esigenza è quella del soccorso, sgombero e cura dei feriti, nonché del rilevamento e
perimetrazione dei danni. Quest’ultima non consente solo di “mirare” gli interventi di soccorso, ma anche di
limitare l’effetto panico, fornendo certezze. In assenza di una rapida perimetrazione, dominerebbe l’incertezza:
essa si diffonderebbe a macchia d’olio, rendendo la situazione più difficile da gestire, data l’amplificazione
determinata dal panico fra la popolazione.
Particolare importanza deve essere attribuita agli interventi che limitano l’amplificazione dei danni,
provocando il cosiddetto effetto Tsunami 26. La rapidità d’intervento è essenziale. Infatti, le “onde di domanda”
che si verificano subito dopo un attacco (come quelle provocate da una calamità naturale) tendono a crescere
molto rapidamente. Le “onde di risposta”, soprattutto quelle fornite dalle forze istituzionali della difesa civile,
non potranno mai soddisfarle completamente. Solo i primi soccorsi, forniti dai lavoratori delle imprese e dei
servizi o direttamente dalla popolazione locale, possono essere tempestivi.
26
M. Lombardi, Tsunami - Crisis management della comunicazione, Vita e Pensiero, Milano, 1993.
10
Un moderno sistema di difesa civile deve quindi attribuire la massima priorità soprattutto all’aumento
della capacità dei primi soccorsi, a livello di Comune o di quartiere e nell’ambito delle imprese che gestiscono i
servizi di pubblica utilità (elettricità, energia, acqua, trasporti, ecc.) o che presentano i rischi più elevati (chimici,
nucleari, ecc.). Va sottolineato che le imprese sono dotate di professionalità di cui le forze istituzionali non
potranno mai disporre. Inoltre, esse hanno la possibilità di traslare i costi dell’aumento della sicurezza sulle tariffe
dei servizi che forniscono, alleggerendo gli oneri che non sarebbero altrimenti sostenibili dal bilancio statale o
degli enti locali. Soprattutto per le imprese a maggior livello di pericolosità occorre predisporre, da un lato, una
riduzione della criticità e, dall’altro, prevedere opportune forme di assicurazione per “esternalizzare” i costi del
ripristino della normalità.
Le varie componenti della difesa devono agire con la massima rapidità e flessibilità. Quindi, devono
essere dotate di ampia autonomia. Soprattutto quelle locali di intervento immediato. Esse non saranno però mai
sufficienti a fronteggiare con le loro risposte le “onde di domanda” che si generano subito dopo l’accadimento di
catastrofi naturali o tecnologiche e soprattutto in caso di una serie di attentati coordinati tra di loro o di maxiattacchi terroristici anche puntuali, come quelli alle Due Torri. Il pericolo del maxiterrorismo è difficile da
quantificare, soprattutto se gli attacchi sono multipli e coordinati fra di loro. Ad esempio, un attacco biologico
può essere accompagnato da uno di hackers contro la rete di comando, controllo e rilevamento, e da una serie di
attacchi diversivi alle infrastrutture dei trasporti, dell’energia e delle telecomunicazioni dell’area colpita. Come
avverte Tom Ridge, Capo del Dipartimento della Homeland Security americana, nell’introduzione della National
Strategy for the Homeland Security, “i terroristi sono attori strategici che scelgono i loro obiettivi sulla base delle
nostre vulnerabilità”. Inoltre, come viene affermato nel manuale di al-Qaeda ritrovato a Manchester, “per noi
vincere le battaglie dipende dal conoscere i segreti dei nostri nemici”. E i segreti più importanti riguardano
proprio i punti critici - o centri nodali - la cui distruzione può provocare l’inabilitazione dell’intero sistema
istituzionale, sociale ed economico.
Particolare rilevanza assume la gestione della comunicazione istituzionale. Essa deve fornire certezze
quanto prima, in una situazione spesso in evoluzione e sempre complessa, di cui la massa ha poche informazioni,
e in cui, all’opposto, il “mercato dell’informazione” tende alla drammatizzazione, finendo con l’amplificare il
danno e creare panico.
Mentre per le forze di intervento è logico adottare un sistema di allarme basato su “stati di allarme” che
comportano diverse predisposizioni, la ripetizione di allarmi alla popolazione induce nei cittadini scetticismo e
incredulità. Di conseguenza, l’intera organizzazione della difesa civile perde credibilità. Essa costituisce invece un
“patrimonio” nazionale che va adeguatamente tutelato, ad esempio escludendo ogni polemica politica in
occasione di attentati. In caso contrario, i terroristi conseguono di fatto un successo spesso insperato.
La gestione della comunicazione istituzionale è facilitata dalla preventiva diffusione nella popolazione di
una cultura della sicurezza e della difesa civile (necessaria anche per poter mobilitare le risorse finanziarie,
pubbliche e private, per il suo approntamento). Tale “cultura” va calibrata alle caratteristiche psicologiche dei vari
popoli.
Determinante per gli interventi è la disponibilità di un efficace sistema di rilevamento dei danni e delle
zone contaminate. Tale sistema è particolarmente importante per contenere i danni in caso di attacchi biologici,
soprattutto quelli più pericolosi effettuati con tossine e virus contaminanti e ad effetto ritardato, intervenendo
prima che essi si siano espansi in ampie aree del territorio27;
e) prevenzione di quarto livello: riguarda la definizione preventiva - quindi non sottoposta alla pressione
emotiva dell’emergenza - dei diritti–doveri dei cittadini, delle comunità locali e delle imprese per il ripristino e
l’eventuale risarcimento parziale o totale dei danni causati da atti di terrorismo. Riguarda, in primo luogo, il
ripristino dei servizi pubblici essenziali da parte dalle imprese che li gestiscono, con il supporto di organismi
esterni sia istituzionali che volontari che di assistenza internazionale.
Se gli atti di terrorismo sono molto puntuali e limitati geograficamente, il contenimento dei danni e il
ripristino del sistema rimangono localizzati e possono avvenire al limite con fondi del bilancio statale tenuti in
riserva, oltre che con prestiti agevolati, facilitazioni fiscali e altre misure simili.
La tendenza attuale è di limitare gli interventi pubblici, esternalizzando i danni a mezzo di assicurazioni.
Qualora il “terrorismo apocalittico” dovesse espandersi e divenire “cronico” sui territori occidentali, tale forma di
privatizzazione e di esternalizzazione dei danni acquisirebbe importanza determinante. Attacchi terroristici
sistematici e ripetuti potrebbero provocare una crisi economica, rendendo impossibile ai bilanci degli Stati
occidentali l’adozione di generose forme di indennizzo, del tipo di quelle adottate dagli USA per gli attentati alle
Twin Towers o in Italia in caso di calamità naturali. Tale generosità - dovuta ad un malinteso spirito di solidarietà e
a reazioni emotive - non solo comporterebbe costi economici insopportabili, ma indebolirebbe la capacità di
resistenza dell’Occidente nella guerra al terrorismo, segnerebbe il successo della strategia di logoramento adottata
27
R. Katz, Public Health Preparedness: The Best Defence Against Biological Weapons, The Washington Quarterly, Summer 2002, pp. 69-82.
11
da al-Qaeda, e, infine, determinerebbe una dipendenza delle aree colpite dal resto del paese, ritardandone la
ripresa.
Gli effetti economici della “guerra al terrorismo”28 andrebbero approfonditi maggiormente rispetto a
quanto fatto finora. In prima approssimazione essi presentano molte analogie con l’economia e la finanza di
guerra, studiate da Einaudi, Keynes, Armani, ecc. Su tali basi teoriche sarebbe necessario elaborare una strategia
economica da includere, a pieno titolo, nella strategia globale anti-terrorismo. Mentre nella National Strategy for the
Homeland Security, del luglio 2002, un capitolo è dedicato ai costi – pur circoscritti a quelli diretti –, nella National
Strategy for Combating Terrorism, del febbraio 2003, tale aspetto non è trattato affatto. Fra le ricerche effettuate dalle
Foundations americane, solo quella della Brookings - Protecting the American Homeland. A Preliminary Analysis dell’estate 2002, approfondisce adeguatamente la componente economica dei danni provocati dall’attuale
terrorismo transnazionale.
In ogni modo, la normativa della “prevenzione di quarto livello” deve comprendere il ripristino a
minime condizioni di funzionalità dei servizi ed infrastrutture colpiti, a partire da quelli più critici. E’ necessario
quanto prima approvare una legislazione al riguardo, possibilmente omogenea in campo europeo, per potersi
avvalere di contributi finanziari dell’UE e, quantomeno, per prevedere eccezioni alle rigide regole del Patto di
Stabilità.
Vi è da notare che i danni provocati da attentati terroristici – così come quelli di guerra – sono meno
facilmente traslabili sul mercato assicurativo di quanto siano i danni originati da calamità naturali o tecnologiche
(soprattutto in Italia, vista la centralità nel nostro ordinamento della solidarietà nazionale e sociale). I paesi UE
dovrebbero determinare standard di sicurezza, contributi per assicurazioni contro il rischio terroristico e
collegamenti fra l’adozione di tali standard e le agevolazioni pubbliche ammissibili in campo europeo, e la
responsabilità del settore privato.
G) LE COMPONENTI DELLA DIFESA CIVILE
La National Strategy for Homeland Security29 americana considera sei mission areas critiche per l’attuazione dei
suoi compiti nell’ambito della National Strategy for Combating Terrorism30: 1) l’intelligence e il pre-allarme; 2) la
sicurezza dei confini e dei trasporti; 3) il contro-terrorismo interno; 4) la protezione delle infrastrutture critiche;
5) la difesa contro il “terrorismo catastrofico”; 6) la preparazione degli interventi di emergenza e di ripristino
della normalità.
L’approccio è “basato sull’analisi delle vulnerabilità” della società e dell’economia statunitensi e sui
provvedimenti da adottare per diminuirla. Esso è molto più ambizioso di quelli “basati sulla minaccia”
prevalentemente seguiti in Europa (dove in buona sostanza si trascurano le minacce che potenzialmente
potrebbero produrre effetti catastrofici, ma che hanno una probabilità assai ridotta di verificarsi). In Europa, le
probabilità di attacchi catastrofici vengono ritenute molto basse. Si evitano così i costi dell’ambizioso
maxiprogramma dell’Homeland Security americana, scommettendo in pratica sul fatto che l’evento raro non si
verificherà. Questa differenza riflette quella fra le culture strategiche dominanti rispettivamente negli Stati Uniti e
nell’Europa, specie in quella continentale: più pro-attiva la prima; più fatalistica e reattiva la seconda.
Evidentemente, la differenza di vulnerabilità dei territori europei rispetto a quello americano potrebbe rendere
difficoltosa la cooperazione politico-strategica fra le due sponde dell’Atlantico, qualora il terrorismo
transnazionale dovesse assumere le dimensioni che taluni prevedono.
In sostanza, aumenterà l’esposizione dell’Europa ad attacchi terroristici. Analogo inconveniente si sta
verificando fra i vari paesi UE. Taluni governi – in particolare quello britannico - hanno deciso significativi
programmi di prevenzione e di protezione anti-terroristica. Altri si sono sostanzialmente limitati a sperare di non
essere attaccati. La differente vulnerabilità dei vari paesi europei potrebbe rendere difficile l’integrazione politicostrategica dell’Europa.
Forse l’Unione potrebbe trovare proprio nei settori della difesa civile, della riduzione della vulnerabilità
dei “sistemi-paese” che ne fanno parte e delle predisposizioni degli interventi post-attacco, un’area in cui
intensificare la cooperazione europea, aumentando così anche il livello di integrazione complessiva. Le misure di
intervento nel post-disastro già previste nel quadro della solidarietà statutaria dell’Unione sono oggi limitate alla
prevenzione terziaria (interventi di soccorso) ed a quella di quarto livello (ripristino della normalità dei sistemi
socio-economici colpiti).
V., in proposito, M. Weilembaum, Economic Warriors against Terrorism, The Washington Quartely, Winter 2002, pp. 43-52.
Office of Homeland Security, The National Strategy for Homeland Security, Washington DC, 16 giugno 2002, in
www.whitehouse.gov/homeland
30
National
Strategy
for
Combating
Terrorism,
febbraio
2003,
in
www.whitehouse.gov/news/releases/2003/02/counter_terrorism/counter_terrorism_strategy.pdf .
28
29
12
Tali misure dovrebbero essere estese alla prevenzione secondaria, soprattutto per quanto riguarda lo
sviluppo di nuove tecnologie volte a ridurre la vulnerabilità e gli interventi di soccorso delle forze della difesa
civile. Esse sembrano molto promettenti per aumentare il livello di sicurezza anti-terroristica, limitando al
massimo le restrizioni alle libertà civili, di movimento e di scambi commerciali o, più genericamente, mantenendo
elevato il livello di apertura dell’Europa sia al suo interno, sia verso il resto del mondo31.
Le competenze dell’Unione nel campo della difesa civile dovrebbero quindi essere allargate. Se si
riconoscono una sua responsabilità e un suo coinvolgimento diretto nel post-disastro, è del tutto logico che essi
vadano estesi alle misure che riducano la probabilità di attentati o che ne attenuino gli effetti attraverso la
riduzione della vulnerabilità. L’insufficiente difesa civile di uno Stato potrebbe infatti causare danni almeno
economici agli altri membri dell’Unione. Esistono poi nella UE norme a favore della libertà di movimento
(Schenghen, ad esempio). Esse implicano il fatto che i controlli vadano concentrati sul perimetro esterno, cioè sul
confine comune dell’Unione, in particolare dove il rischio è maggiore, cioè nel Mediterraneo e, con l’entrata nella
UE della Bulgaria e della Romania, anche nel Mar Nero.
Sia il “modello” europeo che quello americano prendendo atto dei numerosi attori sia pubblici che
privati coinvolti nella difesa civile, prevedono organismi centrali di coordinamento delle numerose competenze
possedute dalle varie amministrazioni, dai vari livelli di governo e dai privati, dal volontariato alle imprese e alle
società che gestiscono servizi pubblici, infrastrutture, risorse critiche. Ne consegue che la difesa civile va affidata
ad un mix di istituzioni e di capacità, coordinate da un organismo di direzione politico-strategico centrale.
In primo luogo, occorre definire la ripartizione delle responsabilità fra lo Stato, gli Enti locali e i privati.
Al livello centrale - statale e possibilmente europeo - ci si dovrebbe concentrare soprattutto
sull’emanazione di regole e di standard, e sulla gestione delle forze e risorse centralizzate da far intervenire ad
integrazione delle capacità locali. Queste ultime andrebbero incentrate sulla “prima risposta”, sulla protezione del
“perimetro” e delle infrastrutture critiche a livello nazionale (organi istituzionali dello Stato, sistemi di comando,
controllo, rilevamento, ecc.), sulle misure di allarme e di allertamento e sui provvedimenti che solo a livello
nazionale possono essere attuati - quali i sistemi di rilevamento e di comando e controllo integrati o la
costituzione di stocks di vaccini e di medicine critiche - nonché sui programmi di ricerca e sviluppo volti a
conferire maggiore efficacia ai vari settori della difesa civile.
L’organizzazione istituzionale dei singoli Stati europei è molto più centralizzata di quella federale
americana. Si presta, quindi, più facilmente ad una gestione a livello centrale (ed anche intergovernativo, a livello
d’Unione) sia delle misure preventive che di quelle di emergenza. L’attivazione di un efficace sistema di difesa
civile in Europa non comporta quindi la “rivoluzione istituzionale” che è stata attuata negli Stati Uniti e che
incontra notevoli difficoltà ad essere implementata.
Per di più, il Department of Homeland Security degli USA non ha competenze solo nel settore “ristretto”
della difesa civile - cioè nella prevenzione secondaria, terziaria e di quarto livello - ma anche nella difesa periferica
e nella sicurezza e lotta al terrorismo interno. In Europa, questi ultimi due settori costituiscono compiti
istituzionali dei Ministeri dell’Interno e di tutte le organizzazioni che ad esso fanno capo. Per converso,
l’esistenza delle unità della Guardia Nazionale - oltre che di una lunga tradizione di Civil Service - conferisce agli
Stati Uniti taluni vantaggi rispetto all’Europa.
Nella seconda, le tradizioni organizzative degli stati-nazione centralizzati rendono spesso difficile la
cooperazione fra le istituzioni e le componenti volontarie, almeno fra quelle che sono portatrici di ideologie
“antagoniste”.
H) CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE SULLA DIFESA CIVILE
Il mondo interconnesso ha aumentato - con la sua efficienza - la propria vulnerabilità, nel senso che le
interconnessioni propagano danno locale all’intero sistema. Inoltre, l’attuale terrorismo presenta – per le
tecnologie di cui può disporre - una pericolosità molto superiore a quella dei terroristi ideologici o nazionalistietnici tradizionali. Costituisce una sfida globale, diretta da veri e propri attori strategici, che perseguono contro
l’Occidente obiettivi non negoziabili, nonostante la tentazione che hanno molti Stati di garantire la propria
sicurezza con atteggiamenti tolleranti se non con veri e propri patti con il terrorismo, simili a quelli stipulati negli
anni Settanta con i terroristi medio-orientali. Tali comportamenti non sono più praticabili con il nuovo
terrorismo.
Viviamo, quindi, nella “società del rischio”: di rischi globali fronteggiabili solo con l’integrazione della
gestione dei rischi e della vulnerabilità, di quella delle crisi e di quella degli interventi di soccorso e di ripristino.
CSGE (a cura di), Sicurezza: le nuove frontiere, op. cit., in particolare Introduzione di P. Savona, pp. 7-11, e F. Pierantoni, Tecnologie mature ed
innovative, pp. 156-204.
31
13
Le risposte devono essere altrettanto globali, anche perché i vasi comunicanti ora esistenti fra le economie e le
società fanno sì che shocks locali si ripercuotano globalmente, amplificandosi. Basti pensare alle ricadute
sull’economia mondiale degli attentati dell’11/09.
La logica della prevenzione deve tendere a rendere sistemi molto complessi adattivi agli shocks. Le misure
da adottare non possono essere solo statiche e difensive. Devono comportare l’adattamento omeostatico - quindi
dinamico - dei sistemi complessi. Devono comportare anche l’azione preventiva per costringere i terroristi a
disperdere nell’autoprotezione gran parte dei loro sforzi e risorse. La logica dell’attacco preventivo prevista nella
National Security Strategy è stata recepita sia dall’European Security Strategy (o “Strategia Solana”), approvata dal
Consiglio Europeo il 13 dicembre 2003, sia dall’High Level Panel on Threats, Challenges and Change, costituito dal
Segretario Generale delle Nazioni Unite 32 e presentato all’inizio del 2005. Questi ultimi due documenti
subordinano l’impiego preventivo della forza all’approvazione del Consiglio di Sicurezza, fatto che Washington
ha sempre rifiutato di accettare. Infatti, non significherebbe solo il trasferimento di parte di sovranità del popolo
americano ad un organismo – spesso squalificato e inefficiente come l’ONU – ma anche ritardi, che
toglierebbero ogni efficacia alla prevenzione di attacchi. Evidentemente, con tale scelta, gli USA rinunciano alla
legittimazione internazionale, la quale costituisce un moltiplicatore della potenza militare 33.
L’“esternalizzazione” della lotta contro il terrorismo presenta il vantaggio – sotto il profilo puramente
strategico – di realizzare un certo livello di sicurezza senza adottare misure particolarmente limitative delle libertà
individuali ed economiche, su cui si fondano lo “spirito dell’Occidente” e la globalizzazione economica.
Contribuisce, quindi, a rendere la sicurezza più compatibile con il mantenimento della competitività del sistema,
che verrebbe diminuita sia da una sua chiusura, sia da una sua iper-protezione. La resilienza del sistema-paese
nelle sue varie componenti va realizzata soprattutto con la flessibilità. Solo questa può garantire una sicurezza
sostenibile nel tempo. Si tratta, in definitiva, di ricercare la sicurezza non nella semplificazione della complessità,
ma nel mantenimento e possibilmente nell’aumento della ricchezza di quest’ultima. Le varie misure di sicurezza e
prevenzione vanno concepite come un sistema interconnesso, non tanto per evitare duplicazioni e dispersioni di
sforzi e risorse, quanto per trarre vantaggio da tutte le sinergie possibili fra le varie componenti.
Occorre, in altre parole, essere consapevoli che ogni sistema è qualcosa di diverso dalla somma delle sue
parti e che la difesa civile va impostata più sulla dinamica del sistema preso nel suo complesso che su di un
rafforzamento statico delle sue singole componenti con misure protettive. I costi di questo secondo approccio
sarebbero insostenibili, mentre inferiore sarebbe il grado di efficacia raggiungibile nella sicurezza complessiva.
Un aspetto molto delicato riguarda sia la gestione comunicativa degli attacchi terroristici, sia il rapporto
di scambio che esiste fra il livello di sicurezza e le libertà individuali ed economiche. Si rimanda a quanto scritto
in proposito dal Prof. de Vergottini34, significando che un’iper-protezione – ad esempio con banche centralizzate
di dati biometrici, con il controllo di dettaglio alle frontiere, con la limitazione delle libertà di movimento e di
traffico – potrebbe produrre conseguenze disastrose sulla natura stessa delle società liberali.
E’ infine da sottolineare ancora l’importanza della gestione comunicativa delle emergenze. Se effettuata
correttamente, essa può concorrere a contenere i danni ai soli impatti di un attentato. In caso contrario, si
amplificherebbero. Si determinerebbero “danni di processo”, diretti ed indiretti, molto pericolosi, dovuti
soprattutto all’effetto negativo delle reazioni emotive della popolazione, che si ripercuoterebbero gravemente
sull’economia. Quanto avvenuto in tale settore a seguito degli attacchi dell’11 settembre dovrebbe essere
attentamente analizzato. Una serie di attentati “mirati” all’economia globale potrebbe provocare effetti
sconvolgenti. Forse addirittura il big bang temuto da Henry Kissinger35, con una conseguente crisi simile a quella
del ‘29.
23 settembre 2003, in www.un-globalsecurity.org/panel.asp
Robert Kagan, Il diritto di fare la guerra, Mondadori, Milano, 2004.
34 G. de Vergottini, Il bilanciamento fra sicurezza e libertà civili nella stagione del terrorismo, in CSGE (a cura di) Sicurezza: le nuove frontiere, cit. pp.
106-126.
35 H. Kissinger, Does America Need a Foreign Policy?, Simon and Schuster, New York, 2001.
32
33
14
3. LA SICUREZZA ESTERNA
Ne richiamiamo i principali aspetti e l’evoluzione.
A) SICUREZZA E ORDINE INTERNAZIONALE
Da Westfalia in poi anche la sicurezza esterna – come quella interna - ha come attore principale lo
Stato 36. Nel sistema internazionale non esiste monopolio della forza. Esiste invece la cd. “anarchia”
internazionale. Gli Stati, in competizione fra di loro e in possesso di una sovranità pressoché completa,
possedevano – prima che intervenissero le istituzioni e il diritto internazionale dopo i conflitti mondiali del XX
secolo - il diritto legittimo di fare la guerra a scopi sia difensivi che offensivi.
La centralità dello Stato per la sicurezza esterna e, per converso, quella della sicurezza per lo Stato,
furono codificate dallo jus publicum europeum37 e dal diritto di non interferenza nei suoi affari interni da parte di
altri Stati. La “non interferenza” aveva come corollario il monopolio della forza legittima da parte dello Stato,
indipendentemente dagli usi di cui ne facevano i governi. Tale tesi - formulata inizialmente da Hobbes e
sviluppata successivamente da Carl Schmitt38 con la sua teoria della politica fondata sulla contrapposizione
“amico-nemico” - è sostanzialmente il paradigma di base a cui si ispirano le scuole realista e neorealista delle
relazioni internazionali. Secondo queste, lo Stato rimane sostanzialmente una “macchina da guerra”, preposta
all’ordine e alla sicurezza interna ed esterna dei propri cittadini, territorio, ordinamento e, in generale, di quelli
che vengono definiti i propri interessi nazionali (eredi della tradizione della cosiddetta “ragione di Stato”)39. Per la
scuola realista, la pace e l’ordine internazionale possono essere realizzati in due modi: con l’equilibrio delle forze
(balance of power) e con l’egemonia o impero. Per i realisti, la pace è sempre una “pace negativa”, dovuta all’assenza
di guerra, non ad una spontanea e naturale amicizia e volontà di collaborazione fra gli Stati. I realisti politici sono
sempre pessimisti, ma mai “guerrafondai”. Quasi tutti i loro esponenti si sono opposti alle guerre del Vietnam e
dell’Iraq. Secondo questi, la guerra va per quanto possibile evitata. Occorre combattere solo le guerre necessarie,
non quelle “opzionali”. Però, non combattere le guerre necessarie porta al disastro. Il week-end strategico francese
degli anni Trenta è stato, con le condizioni punitive del Trattato di Versailles, la causa principale del tentativo di
rivincita della Germania nel 1939. L’aggressività esterna è piuttosto tipica degli “idealisti internazionalisti”. Essi
sono persuasi di possedere la verità e intendono imporla anche agli altri. Si impiega la forza contro i “cattivi” per
eliminare il “male” del mondo e renderlo migliore.
Alla scuola realista delle relazioni internazionali si sono contrapposte, a partire dall’Illuminismo, varie
altre denominate idealiste, liberal-internazionaliste o wilsoniane. Mentre la realtà della guerra - e della maledizione
della guerra che le è contemporanea! - è vecchia quanto il mondo, l’idea di poter costruire una pace fondata sul
diritto, su principi morali o su interessi economici è nata con l’Illuminismo, con il dominio della ragione sulle
forze oscure, egoistiche e passionali che poi, di fatto, ispirano i comportamenti dell’uomo e delle istituzioni da
esso create. All’inizio, tali scuole si sono dedicate ad elaborare piani di pace, basati sul presupposto che era
nell’interesse di tutti gli Stati collaborare, anziché competere.
Successivamente, esse sono state all’origine delle proposte di creazione di nuovi ordini internazionali 40,
fondati su strutture e istituzioni da un lato e su norme condivise, cioè sul diritto internazionale, dall’altro lato.
Emerse così, progressivamente, un sistema di sicurezza più o meno costituzionalizzato 41. Esso limitava
l’“anarchia” internazionale (nel senso hobbesiano del termine, a cui si è fatto prima riferimento), prevedendo
limitazioni (formali o sostanziali) alla libertà d’azione e alla sovranità degli Stati. Da un lato, tale
costituzionalizzazione rispetta la sovranità, limitandosi ad esprimere una serie di norme che regolano l’uso della
forza da parte degli Stati. In tale categoria vanno inclusi: gli accordi sul controllo degli armamenti; quelli
sull’interdizione della produzione e uso di taluni tipi di armi e, più in generale, lo jus in bello, oggi un po’
retoricamente denominato diritto umanitario, sia pattizio che consuetudinario.
C. Jean, The Role of Nation State in Providing Security in a Changed World, International Spectator, January-March 1998, pp. 67-77; vds. anche
C. Jean (a cura di), Morte e riscoperta dello stato-nazione, F. Angeli, Milano, 1991.
37 J. G. Ikenberry e V. E. Parsi (a cura di), Teorie e metodi delle relazioni internazionali, Laterza, Roma-Bari, 2001.
38 C. Schmitt, Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna, 1972.
39 P. Hassner, XXème siècle: la guerre et la paix, Gallimard, Paris, 1994; A. Panebianco, Il potere, lo stato, la libertà, Il Mulino, Bologna, 2004.
40 Un ordine si distingue da quello che viene chiamato sistema internazionale perché fatto di strutture e di regole o norme, aventi valore
etico-politico generale, anche se basato sugli equilibri di potenza, dove il termine potenza viene usato nell’accezione più ampia del termine.
41 W. Walker, Weapons of Mass Destruction and International Order, Adelphi Papers n. 370, IISS, London, 2005, specie pp. 9-19: Concept of
International Order: the Antidote of Enmity.
36
15
Da un altro lato, la costituzionalizzazione della sicurezza ha dato luogo ad istituzioni internazionali (quali
le Nazioni Unite e l’Unione Europea) che avocano a sé le parti della sovranità degli Stati concernente il diritto di
uso della forza. La circoscrivono a casi ben delimitati, in pratica all’autodifesa individuale e collettiva in caso di
aggressione in atto o, fatto molto più controverso nella giurisprudenza internazionale attuale, di aggressione
“immanente”.
Se l’uso della forza militare da parte degli Stati è limitato, esso invece si allarga quando viene autorizzato
dalle istituzioni internazionali; oggi, in pratica, dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Si è poi esteso
anche per effetto della ricomparsa del concetto di “guerra giusta”, negato dallo jus publicum europeum, per il quale
prevaleva quello di “guerra legittima”42. Soggetti del diritto internazionale alla sicurezza non sono più solo gli
Stati, ma anche le popolazioni, le minoranze, e così via. L’uso della forza è anche nella sfera interna degli Stati –
ad esempio a scopo umanitario o di costruzione della pace – deciso con mandato del Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite, cioè dal “concerto delle potenze” uscite vincitrici dalla seconda guerra mondiale. Tutti i
“concerti” sinora conosciuti nella storia hanno un’efficienza dipendente dal grado di cooperazione o di
competizione esistente fra le “grandi potenze”. Ciascuna di esse tende sempre a promuovere i propri interessi
nazionali e ad imporli sui membri che non fanno parte del club. Checché ne dicano gli idealisti, nessun accordo
intergovernativo può essere basato sul principio dell’eguaglianza e della parità sostanziale degli Stati, divenendo
una specie di “governo mondiale”43. I rapporti di potenza giocano sempre un ruolo determinante.
Tali paradigmi, che configurano i tipi di ordine mondiale a cui fanno riferimento i vari sistemi e strategie
globali di sicurezza degli Stati, prevalgono l’uno sull’altro oppure si combinano variamente fra di loro a seconda
delle circostanze, in particolare dei rapporti di forza e delle tendenze ideologiche sempre esistenti.
Dopo tutti i cicli delle grandi guerre moderne, si sono verificati tentativi da parte dei vincitori di creare
istituzioni internazionali e norme che consolidassero l’ordine esistente a loro favorevole perché imposto al vinto.
Ciò è avvenuto: con il “concerto europeo delle potenze” del Congresso di Vienna dopo il ciclo delle guerre
napoleoniche; con la Società delle Nazioni, di ispirazione idealistico-wilsoniana; dopo la Grande Guerra; con le
Nazioni Unite, dopo il secondo conflitto mondiale, la cui efficacia, per il mantenimento della pace e della
sicurezza internazionale, era basata sull’accordo fra le grandi potenze e sull’assunto che esse perseguono interessi
globali, anziché interessi egoistici nazionali.
La fine della Guerra Fredda ha mutato profondamente gli assetti internazionali. Il mondo da bipolare è
divenuto unipolare. Gli equilibri internazionali fanno quasi completamente riferimento o sono comunque
incentrati sugli Stati Uniti. Dopo il decennio di transizione degli anni Novanta, e soprattutto dopo gli attentati
dell’11 settembre, la politica e la strategia globale di sicurezza americane hanno abbandonato i paradigmi di
internazionalismo liberale e di cauto multilateralismo che le avevano caratterizzate durante la Guerra Fredda.
Contenimento e dissuasione sono stati sostituiti dall’affermazione che gli USA rivendicano il diritto di ricorrere
all’uso della forza per una “difesa anticipatoria” contro minacce e rischi non immanenti, ma che potrebbero
comprometterne la sicurezza anche in un futuro, come è il caso del terrorismo transnazionale e della
proliferazione delle armi di distruzione di massa. Anche se non si tratta di un concetto nuovo, e a parte il fatto
che tutti gli Stati vi hanno sempre fatto ricorso, lo “scandalo” sollevato dalla “guerra pre-emptiva” è
sostanzialmente dovuto al suo riconoscimento in un documento ufficiale, benché fosse “politicamente corretto
non parlarne”.
Il tema del ricorso preventivo all’uso della forza è centrale nell’attuale dibattito strategico. Di fatto, le
minacce oggi prevalenti (terrorismo, proliferazione, ecc.) possono essere neutralizzate solo in via preventiva.
Qualora dovessero verificarsi, non esiste difesa su cui si possa pienamente contare. L’attacco preventivo presenta
comunque gli inconvenienti messi in rilievo allorquando si sono esaminati i problemi posti dalla sicurezza
interna. In particolare, il farvi ricorso suscita sempre la resistenza di altri paesi.
Inoltre, Washington ha mutato il suo comportamento verso l’istituzione globale, deputata al
mantenimento della pace e della sicurezza internazionali, cioè nei riguardi del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite. Durante la Guerra Fredda si dava per scontato che esso fosse paralizzato. Inoltre, l’Europa non sollevava
obiezioni alle iniziative USA, anche perché dipendeva da essa per la sua sicurezza. Con la fine del confronto
bipolare, le cose sono cambiate. Taluni paesi europei, specialmente la Francia, hanno ritenuto di poter utilizzare il
Consiglio di Sicurezza per perseguire propri interessi nazionali, cavalcando in particolare nella crisi irachena la
crescente ondata dell’anti-americanismo. Ne è seguita non solo la rottura dell’unità dell’Occidente, ma anche di
quella dell’Europa. Oggi, Parigi ha perso gran parte della sua influenza nella UE. Comunque si sente isolata
rispetto al crescente peso di Berlino nell’Europa centro-orientale, soprattutto dopo l’uso politico che la Germania
ha fatto della sua potenza economica nella crisi ucraina. In un certo senso, paradossalmente, cerca di riavvicinarsi
agli USA per riacquisire la sua influenza in Europa. Ciò in parallelo alla ricerca del Presidente Bush di “ricucire” i
42
43
M. Walzer, Just and Unjust Wars, Basic Books, January, 1977.
M. Wight, Power Politics, Holmes and Meier, New York, 1978.
16
rapporti con l’Europa, anche per aumentare il consenso dell’opinione pubblica americana nei riguardi della sua
politica estera, oltre che l’appoggio - o almeno la neutralità – dell’Europa nel tentativo americano di
stabilizzazione del “Grande Medio Oriente”.
Gli equilibri geopolitici mondiali sperimentano una fase estremamente dinamica. Centrali sono i rapporti
transatlantici. Essi potranno divenire più equilibrati solo se l’Europa saprà esprimere una voce più forte e
unitaria, rappresentando una realtà che gli USA nel loro pragmatismo non potrebbero ignorare. In caso contrario
- in nome del loro eccezionalismo - gli Stati Uniti non accetterebbero limiti al loro unilateralismo, né ritardi alla
loro libertà d’azione.
Dopo l’11 settembre, gli Stati Uniti si sentono in guerra e sono ben decisi a vincerla. Altri paesi – anche
fra i loro più stretti alleati e collaboratori europei – si sentono invece in pace o, comunque, pensano di poter
contrastare il terrorismo con mezzi ordinari, anziché con quelli straordinari come l’uso della forza militare. Parte
delle loro classi dirigenti ha cercato di sfruttare a proprio vantaggio l’avversione alla guerra e l’anti-americanismo
crescente nelle loro opinioni pubbliche. Tali contrasti hanno causato la divisione dell’Occidente, mutato gli assetti
internazionali esistenti, indebolito gli USA, frammentato la UE.
Non può essere ipotizzato alcun tipo di ordine senza una nuova intesa o patto transatlantico. La
rielezione di Bush, i mutamenti nel Vicino Oriente, i risultati delle elezioni irachene, i cambiamenti in atto nei vari
paesi europei, il successo occidentale in Ucraina hanno riaperto la possibilità di un nuovo contratto
transatlantico. Senza di esso si verificherà un aumento del disordine mondiale. Purtroppo, la visita di Bush in
Europa nel febbraio scorso non ha sortito alcun effetto di rilievo, soprattutto perché la UE in quanto tale non
viene considerata un partner affidabile visto che la PESC è solo minimamente comune, mentre la PESD è solo ai
suoi inizi e il contributo che potrebbe dare a un’azione militare americana è solo marginale (tale da non
compensare le complicazioni e i ritardi conseguenti ad una “guerra per comitato”, come quella fatta nella crisi del
Kosovo del 1999).
B) SICUREZZA E DIFESA
I due termini – “sicurezza” e “difesa” – vengono spesso impropriamente usati come sinonimi. La
sicurezza ha un contenuto globale; la difesa è prevalentemente militare. Nel corso della storia, le dimensioni
militari della sicurezza - cioè la difesa - hanno svolto un ruolo centrale. Lo è stato nella società agricolo-pastorali per la conquista della terra o dell’acqua - e nelle società industriali, per le quali era determinante la libera
disponibilità di materie prime, nonché di mercati esterni captive, integrati con quelli della potenza coloniale.
Nell’era post-moderna, quella dell’informazione, della globalizzazione, dell’interdipendenza e della
prevalenza dei “beni pensanti sui beni pesanti” 44, la forza militare rende sempre di meno e costa sempre di più. Il
controllo dei territori ha un costo superiore ai vantaggi che se ne possono trarre. Le colonie non si cercano più.
Anzi si rifiutano. Molti popoli vorrebbero essere ricolonizzati per godere dei vantaggi dell’ordine e sicurezza
pubblica e del “buon governo” garantito dai funzionari coloniali meglio che dalle loro élites dirigenti 45.
La competizione economica, tecnologica e soprattutto comunicativa 46 è, nel mondo avanzato, più
importante della forza militare per determinare influenza. La guerra non scoppia più fra i grandi Stati, anche per il
potere di interdizione che possiedono le armi nucleari. Avviene invece all’interno degli Stati, o fra gli Stati deboli,
pur con eccezioni nel Medio Oriente e nel Sud-Est asiatico, dove assumono maggiore importanza le rivalità
regionali. La guerra poi coinvolge sempre più soggetti non statali, in particolare il terrorismo internazionale e la
grande criminalità da un lato, e le compagnie militari private dall’altro lato.
Nella specie, il terrorismo transnazionale rappresenta una minaccia non solo al sistema degli Stati creato
a Westfalia, ma alla stessa globalizzazione economica e culturale, basata sulla liberalizzazione e la deregulation. Per
questo, dopo l’11 settembre, è nata la “grande coalizione” anti-terroristica fra Washington, Mosca e Pechino.
Occorre non solo distruggere le reti terroristiche, immerse nelle stesse società occidentali, ma anche eliminare le
cause profonde del terrorismo di matrice islamica, provocando un mutamento dei regimi politici dominanti nel
mondo islamico. La possibilità della sua democratizzazione – imposta o indotta dall’esterno – è estremamente
discussa, ma rappresenta l’unico obiettivo politico realistico finora proposto.
In tale contesto, evidentemente, la sicurezza è qualcosa di molto più complesso, articolato e
multidimensionale della difesa militare. Non si riferisce solo al presente e all’immediato futuro, a rischi e minacce
agli interessi dei vari Stati e delle istituzioni internazionali che sono i fori in cui essi interagiscono.
C. Jean e G. Tremonti, Guerre stellari. Società ed economia nel cyberspazio, F. Angeli, Milano 2000; vds. anche P. Savona, Geopolitica economica,
Sperling & Kupfer, Milano, 2004.
45 G. Salamé, Désire d’Empire: Ingerénces et Résistances à L’âge de la Mondialisation, Paris, Fayard, 1996.
46 C. Jean, Manuale di geopolitica, Laterza, Roma-Bari 2003, specie cap. VII, Geoeconomia e geopolitica economica, pp. 143-176; e cap. VIII,
Geoinformazione, pp. 177-191.
44
17
Democratizzazione, lotta alla povertà, stabilizzazione delle istituzioni, lotta alla criminalità e alle malattie
contagiose – in particolare all’AIDS in Africa – costituiscono aspetti altrettanto importanti della forza militare e
delle strategie con cui impiegarla. Questa situazione ha provocato una divaricazione fra il concetto tradizionale di
vittoria militare e quello di vittoria politica. 47 La “guerra dopo la guerra”48 – ovvero le operazioni civili-militari
che seguono la vittoria sul campo e che vengono denominate nation- o state-building, post-conflict reconstruction o
stabilization, ecc. – hanno la stessa importanza, ma molta maggiore difficoltà e durata di quelle belliche
tradizionali. Rappresentano la “continuazione del conflitto con altri mezzi e strategie”.
Oggi, la sicurezza – non solo per gli USA - si riferisce anche ad un progetto futuro, di riordinamento del
mondo, secondo i propri principi e valori, più corrispondente ai propri interessi, più stabile e possibilmente più
giusto. Ciò si verifica in modo palese negli Stati Uniti. I “neoconservatori”, la cui influenza è aumentata dopo l’11
settembre49, fanno riferimento al manifest destiny degli Stati Uniti e alla loro mission nel mondo, nonché al loro
obbligo morale di sfruttare la loro superiorità globale per creare l’“ordine mondiale” del XXI secolo50.
Esso dovrebbe essere coerente con i principi costituzionali e gli interessi nazionali degli Stati Uniti,
primo fra tutti quello di estirpare alle sue radici il terrorismo di matrice islamica, ma anche di espandere e
difendere la globalizzazione, la democrazia e la liberalizzazione.
La reazione e la mobilitazione patriottica dell’opinione pubblica americana dopo gli attentati dell’11
settembre hanno reso possibile tutto ciò, con l’alleanza fra i “neoconservatori” (come Wolfowitz, Feith, Kristol,
Perle, ecc.) e i “realisti” conservatori (come la Rice, Cheyney e Rumsfeld). Questi ultimi – eredi della tradizione
kissingeriana - erano stati sempre restii ad assumere impegni all’estero (ad esempio, erano contrari ad impegnarsi
nel Vietnam) e soprattutto ad intraprendere complesse e lunghe operazioni di peace-building, cioè di stabilizzazione
delle aree occupate militarmente. Dopo l’11 settembre, gli USA si sono sentiti in guerra e, secondo le loro
tradizioni, hanno deciso di approfittare della loro attuale superiorità – che presumibilmente avrà una durata di
almeno due-tre decenni – per mutare il mondo, in particolare per democratizzare il mondo islamico, consolidare
la globalizzazione e attivare in essa i paesi che si sono esclusi o per volontà delle loro classi dirigenti (come
avviene per l’Islam), o per non aver saputo adottare al loro interno gli istituti della globalizzazione, come hanno
invece fatto il Sud-Est asiatico e, parzialmente almeno, la Cina, l’ex-Unione Sovietica e l’America Latina.
Il nuovo ordine mondiale vedrebbe al suo centro gli Stati Uniti – come off-shore balancer e come
“sceriffo”51 – con alla periferia sistemi di sicurezza collettivi a livello regionale, collegati con il “centro” e fra di
loro da una densa rete di relazioni di collaborazione. Tali sistemi farebbero capo di massima a una potenza leader
o egemone, oppure ad un concerto ristretto degli Stati più importanti della regione.
Si tratta quindi di un ordine mondiale egemonico, di natura diversa da quella degli imperi tradizionali –
sia continentali che marittimi – basato sull’influenza più che sul controllo territoriale e, in primo luogo, sul
mantenimento per il periodo più lungo possibile della superiorità americana. Quest’ultimo obiettivo era già stato
affermato negli anni immediatamente successivi alla fine della Guerra Fredda52.
La realizzazione di tale nuovo ordine mondiale deve superare notevoli difficoltà. Essi derivano dalla
natura stessa del sistema internazionale, sempre più complesso, in rapida evoluzione e caratterizzato da una
notevole imprevedibilità. Derivano anche dal fatto che la forza militare – determinante nelle guerre del XIX
secolo e delle due guerre mondiali – presenta oggi notevoli limitazioni e, soprattutto, che la struttura del sistema
istituzionale e i valori etico-politici americani non sono coerenti con quelli necessari per esercitare un potere
imperiale. Beninteso, gli USA sono gli unici a poter garantire un ordine mondiale53. Senza un garante o un
gendarme, nessun ordine mondiale ha potuto affermarsi nella storia. Nel contempo, nessun ordine può imporsi
se gli interessi nazionali della potenza egemone, garante di quell’ordine, non corrispondono anche a quelli degli
altri popoli. Nel caso degli Stati Uniti, le tendenze unilateraliste hanno prevalso sin dagli anni Novanta. Esse
portano ad una sottovalutazione delle norme internazionali che, tuttavia, sono state sempre necessarie anche per
diminuire i costi del mantenimento di quell’ordine 54.
C. S. Gray, The Sheriff-America’s Defence of the New World Order, The University Press of Kentucky, Lexington (KE), 2004.
F. Mini, La guerra dopo la guerra, Einaudi, Torino, 2003.
49 E’ l’obiettivo che si pongono i cosiddetti “neoconservatori” americani, cioè quel gruppo di esperti di relazioni internazionali denominati
anche “internazionalisti jacksoniani” o “con gli stivali”. Vds. in proposito P. Hassner e C. Vaïsse, Washington et le monde, Plan, Paris, 2003.
50 A. J. Bacevich, American Empire: The Realities and Consequences of US Diplomacy, Harvard University Press, Cambridge (MA), 2002.
51 C. S. Gray, The Sheriff, op. cit.
52 The New York Times, Excerpts From Pentagon's Plan: Prevent the Re-Emergence of a New Rival, New York (NY), Mar 8, 1992; J. G. Ikenberry,
America’s Imperial Ambition, in Foreign Affairs, March-April 2002, pp. 44-60.
53 J. S. Nye, Bound to Lead: The Changing Nature of American Power, Basic Books, New York, 1990.
54 C. Rice, Promoting the National Interest, in Foreign Affairs, January-February, 2000, pp. 45-62.
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C) ALTRE DIMENSIONI DELLA SICUREZZA
Alle nuove minacce e rischi – prima ricordati – si aggiungono altri che possono destabilizzare l’ordine
mondiale: il declino demografico ed economico dell’Europa; il collasso dell’Africa; l’aumento della potenza della
Cina e dell’India; la proliferazione nucleare, che con l’Iran può mutare gli equilibri strategici in Medio Oriente, e
che con la Corea del Nord e il verosimile riarmo nucleare del Giappone e della Corea del Sud, sconvolgerebbe
l’intero sistema Asia-Pacifico; l’incognita di nuovi maxi-attentati terroristici. Ad essi vanno aggiunti il problema
del doppio deficit americano e la possibilità da parte del resto del mondo di continuare a finanziarlo; la
prolungata debolezza del dollaro, che minaccia di sconvolgere la finanza internazionale; gli alti prezzi del petrolio
e il fantasma della fine di tale fonte energetica o di uno squilibrio fra domanda e offerta, dovuto non solo ai
ridotti investimenti realizzati nel settore negli ultimi venti anni, ma anche alle conseguenze di un mega-attacco
terroristico soprattutto in Arabia Saudita e all’enorme aumento delle importazioni americane e dei consumi della
Cina e dell’India55.
Dal punto di vista comunicativo, la situazione attuale è caratterizzata da una politica di consenso e di
prestigio delle istituzioni internazionali56. In realtà, esse sono sempre più incapaci di fronteggiare e risolvere i
problemi per i quali sono state create. D’altro canto, l’antiamericanismo57 e la perdita di prestigio e di consenso
degli Stati Uniti nel mondo contrastano con la realtà dell’unipolarismo egemonico americano, aumentando i costi
della creazione del “bene pubblico” della sicurezza del “nuovo ordine mondiale” e diminuendone la stessa
legittimità. 58
D) DALL’ ORDINE BIPOLARE ALLA RICERCA DI UN “NUOVO ORDINE MONDIALE ”
Nel passato, la sicurezza utilizzava i nomi militari e politici dell’high politics, funzione principale degli Stati,
nati come “macchine di guerra” per garantirla ai propri cittadini, e della low politics, cioè le componenti
economiche, ecologiche o demografiche della sicurezza ritenute spesso irrilevanti o comunque subordinate alla
creazione della potenza militare dello Stato.
In tale periodo, gli studi sulla sicurezza si identificavano con gli studi strategici. Questi ultimi
riguardavano non solo l’uso effettivo, ma anche quello potenziale, della forza militare da parte della politica, per
finalità dissuasive (difensive) o coercitive (offensive) 59. Inoltre, con la democratizzazione della guerra – iniziata
con le rivoluzioni americana e francese - e con l’avvento della rivoluzione industriale e delle guerre totali, la
sicurezza riguardava anche la “preparazione della nazione per la guerra”. Essa pianificava la mobilitazione di tutte
le risorse di uno Stato – psicologiche, umane ed economiche – ponendole al servizio della sua capacità militare.
Le guerre totali furono un fenomeno tipico del XX secolo, anche se precedute dalla guerra civile americana. Due
“rivoluzioni” modificarono profondamente la situazione esistente fino alla seconda guerra mondiale inclusa:
quella tecnologica delle armi nucleari e quella geopolitica del collasso del mondo bipolare.
La comparsa delle armi nucleari segnò una soluzione di continuità nell’utilizzazione della forza militare
come strumento per il raggiungimento di obiettivi politici. Il loro potere distruttivo, e soprattutto il fatto che la
distruzione sarebbe stata reciproca fra i due blocchi, tolsero ogni razionalità politica ad una guerra nucleare
deliberata da parte di Washington e di Mosca. Le armi nucleari divennero arma di “non-guerra” e contribuirono a
mantenere stabili gli equilibri fra i due blocchi. Secondo taluni, il fatto che la Guerra Fredda rimase fredda non fu
dovuto solo alla dissuasione reciproca. Giocò, in misura considerevole, l’interesse condiviso di Washington e
Mosca di mantenere gli equilibri di Yalta.
Beninteso, il confronto fra le due superpotenze continuò, con fasi alterne di tensione e distensione.
La dissuasione nucleare era un fatto statico, che congelava gli equilibri militari e realizzava il
contenimento della superiorità sovietica soprattutto in Europa centrale. Ma il vero “gioco” della Guerra Fredda
fu dinamico e offensivo. L’arma principale dell’URSS fu l’ideologia. L’Occidente utilizzò, invece, la propaganda,
l’economia e l’attrazione esercitata dal suo modello di democrazia e di capitalismo di mercato. La vittoria
occidentale nella Guerra Fredda fu determinata dall’incapacità dei regimi comunisti di adeguarsi alla rapida
evoluzione tecnologica e alla globalizzazione dell’economia e della comunicazione. L’Occidente erose quindi a
poco a poco non solo l’impero esterno sovietico, ma la stessa URSS, provocandone un crollo tanto disastroso ed
improvviso, da lasciare tutti impreparati ad affrontare le conseguenze. Non emerse un nuovo ordine.
L’Occidente in generale e gli Stati Uniti in particolare non erano preparati a gestire la vittoria ottenuta nella
C. J. Campbell, La fine del petrolio, Aspenia n. 27, gennaio 2005, pp. 188-194.
P. Hassner, Etats Unis: l’empire de la force ou la force de l’empire, ISS dell’Unione Europea, Cahier de Chaillot 54, settembre 2002.
57 P. Isernia, The Nature of the Beast. Anti-Americanism in Western Europe, mineo January, 2005.
58 R. Kagan, Il diritto di fare la guerra, Mondadori, Milano 2005. Vds. anche M. Walzer, Sulla guerra, Laterza, Roma-Bari, 2004.
59 T. Schelling, Arms and Influence, Yale University Press, New Haven, 1966.
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Guerra Fredda per costruire un “nuovo ordine mondiale” e, quindi, per elaborare un concetto strategico per
difenderlo e renderlo sicuro, simile al ruolo giocato dal contenimento della Guerra Fredda.
Con la scomparsa dell’URSS, rimaneva al mondo un’unica superpotenza – gli Stati Uniti – superiore alle
altre non solo militarmente, ma anche economicamente, tecnologicamente e culturalmente. Ciò modificava
profondamente le modalità con cui realizzare la sicurezza, sebbene nessuno sapesse a quali criteri ispirarla. Ne
seguì un decennio di transizione – quello degli anni Novanta - in cui la politica di sicurezza americana oscillò fra
un’egemonia “benevola” - temperata dal rispetto del diritto e delle istituzioni internazionali, in cui lo “sceriffo fu
riluttante” 60 - e azioni più unilaterali, insofferenti dei vincoli posti alla libertà d’azione e sovranità americana e in
cui prevalse una visione più unilateralista ed egemonica del ruolo americano nel mondo. Questa seconda
prospettiva prevalse dopo gli attentati dell’11 settembre61.
Occorre ancora ricordare che la forza militare non ha mai costituito il solo elemento di potenza con cui
gli Stati hanno ricercato la propria sicurezza esterna. Inoltre, la forza militare è “cieca” quando non è al servizio
di una visione politica. Senza una ben precisa impostazione politico-strategica – analoga a quella del containment
nell’ordine bipolare – la forza viene impiegata estemporaneamente, in reazione ad eventi contingenti, anziché
essere finalizzata, come dovrebbe, ad obiettivi di lungo periodo e globali.
Gli Stati Uniti hanno “scoperto” a poco a poco non solo il potere, ma anche le responsabilità che
derivavano dalla loro superiorità, e infine i limiti della forza per perseguire i propri interessi di una
globalizzazione liberale o di un’americanizzazione del mondo.
Unitamente alla forza militare, hanno impiegato sempre altri tipi di forze, da quella economica e quella
comunicativa. Hanno preso atto anche che, nel lungo periodo, la potenza di uno Stato è condizionata dalla sua
demografia. Essa agisce soprattutto sull’economia, mentre solo indirettamente sulla potenza militare, poiché
quest’ultima dipende sempre più dalla tecnologia. Però il declino demografico influisce indirettamente sulla
potenza militare, poiché comporta l’aumento delle spese sociali e, quindi, la diminuzione delle risorse destinabili
alla politica estera generale e a quella di sicurezza in particolare. Gli Stati Uniti sono consapevoli di ciò.
Prevedono per 2025-30 una crisi demografica e soprattutto un deterioramento del cd. “rapporto di sostegno” –
cioè del rapporto fra pensionati e lavoratori – che, con gli attuali sistemi di sicurezza sociale, renderebbero
impossibile la proiezione di potenza e quindi l’egemonia americana nel mondo. Il programma di ownership
pensionistica della seconda Amministrazione Bush tende proprio a rendere possibile una maggiore durata della
sostenibilità economica della potenza americana.
Influisce anche sul costo – e forse sulla stessa possibilità - di difendere il nuovo ordine mondiale, la
percezione della legittimità o illegittimità degli Stati Uniti da parte degli altri Stati. Nel corso della Guerra Fredda
essa, insieme all’attrazione esercitata dagli Stati Uniti, aveva raggiunto il suo apogeo. Negli alleati europei, e in
gran parte del Terzo Mondo, prevaleva la convinzione che la politica di Washington non fosse finalizzata a
interessi nazionali definiti in termini ristretti o egoistici, ma a realizzare un ordine internazionale favorevole agli
interessi di tutti. Il “potere dei principi” è definito da Gary Hart e da altri politici liberal, come il “quarto potere”62,
su cui dovrebbe essere costruita la pax americana del XXI secolo. Tale legittimità si è notevolmente erosa con la
Presidenza Bush e la crisi irachena. Tuttavia, potrebbe riconsolidarsi molto rapidamente, ad esempio nel caso di
minaccia all’Europa da parte di Stati medio -orientali che avessero acquisito armi di distruzione di massa e,
soprattutto, qualora dovessero essere effettuati in Europa maga-attentati terroristici. In tal caso, l’incapacità
dell’Europa di difendersi da sola indurrebbe gli Stati europei ad implorare nuovamente l’ombrello protettivo degli
Stati Uniti e, quindi, a considerare del tutto legittima – con mandato o senza mandato delle Nazioni Unite – ogni
iniziativa di Washington.
In ogni caso, il nuovo sistema di sicurezza va basato sulla combinazione del soft power – politico,
economico, comunicativo – e dell’hard power – soprattutto militare, ma anche economico, allorquando l’economia
viene impiegata come un’arma (sanzioni, embarghi, ecc.) per realizzare un’influenza su un altro Stato. Una
diminuzione dei costi della sicurezza deriverà anche dalla capacità degli USA di proporre norme di
comportamento, obiettivi e modelli accettati dagli altri paesi, perché ritenuti corrispondenti ai loro interessi 63.
Tale diminuzione di costi deriverà, infine, dalle limitazioni con cui gli Stati Uniti useranno la loro
potenza. Essi devono evitare l’imposizione di obiettivi che gli altri paesi – sia amici che avversari - non possono
accettare, inducendoli a dissociarsi dalle iniziative statunitensi, a sabotarle o a resistere ad esse. In proposito,
l’utilità della limitazione sia dei propri obiettivi sia della forza impiegata si verifica anche in caso di conflitto reale,
cioè di guerra. Se gli obiettivi che un belligerante si pone sono limitati, l’attaccato sarà più disponibile ad
R. Haass, The Reluctant Sheriff, op. cit..
I. H. Daalder e J. M. Lindsay, America Unbound – The Bush Revolution in Foreign Policy, Brooking Institution Press, Washington D.C., 2003.
62 G. Hart, The Fourth Power – A Grand Strategy for the United States in the Twenty-First Century, Oxford University Press, New York, 2004.
63 Cfr. J. Nye, The Paradox of the American Power – Who the World’s Only Superpower Can’t Go It Alone, Oxford University Press, New York,
2002, in cui viene teorizzata l’interazione fra l’hard e il soft power nella politica di sicurezza americana del XXI secolo.
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arrendersi, ad accettare la sconfitta e anche a trasformarsi in alleato del vincitore. Se le condizioni che gli si
impongono sono valutate troppo pesanti, lo sconfitto sarà portato a continuare a combattere, anche fino al suo
totale annientamento e comunque con le tecniche e le strategie cosiddette asimmetriche 64, le quali consentono al
debole di resistere al più forte, ad esempio con le tattiche della guerriglia o del terrorismo.
Anche le reazioni di taluni paesi europei e, soprattutto delle loro opinioni pubbliche, all’unilateralismo
dell’Amministrazione Bush nella crisi irachena corrispondono ad un modello ricorrente nella storia. E’ inevitabile
che un alleato troppo forte venga considerato prima con invidia, poi con sospetto ed infine come un pericolo alla
propria sicurezza.
I concetti di sicurezza e di ordine internazionale sono stati sempre strettamente collegati. La capacità di
agire nel campo internazionale e di realizzare una situazione corrispondente agli interessi e agli obiettivi di uno
Stato – cioè una condizione di pace basata sulla sicurezza - deve tendere ad un modello di ordine globale e ad una
chiara strategia idonea a mantenerlo 65.
E ) DALL’“EGEMONIA” ALL’“IMPERO AMERICANO”
Dopo il collasso dell’URSS, negli anni Novanta Washington cercò di fondare il “nuovo ordine
mondiale” su di un’egemonia “costituzionalizzata”, limitata cioè dal rispetto almeno formale del diritto e delle
istituzioni internazionali, considerati importanti, se non indispensabili, per il “nuovo ordine mondiale”
democratico e liberale.
Ma già nella seconda parte degli anni Novanta, la sicurezza americana iniziò ad essere fondata su
approcci sempre più unilateralisti, mentre divenivano più pressanti le richieste dei “neoconservatori” – ma non
solo di essi – di non accettare che la libertà d’azione degli Stati Uniti fosse limitata dalle istituzioni internazionali,
concordando le decisioni americane con gli altri Stati. Gli USA avrebbero dovuto invece approfittare della loro
superiorità militare, tecnologica e finanziaria per modificare gli assetti internazionali in modo da consolidare la
loro sicurezza anche a lungo termine, allorché la loro superiorità si sarebbe attenuata, per poi scomparire.
Il punto di svolta avvenne con gli attentati dell’11 settembre 2001.
L’atteggiamento attendista, prudente, alieno ad impegni all’estero, proprio dei conservatori americani, fu
abbandonato. L’Amministrazione Bush decise di “punire” gli aggressori e di impedire che nuovi attacchi di tali
dimensioni si ripetessero. Il “nuovo ordine mondiale” fu concepito in termini più egemonici. Secondo i critici
della politica americana, essi sarebbero addirittura imperiali. Ciò aveva conseguenze interne ben precise. Si
poneva – almeno nella retorica politica americana – il dilemma fra “repubblica” ed “impero”66, fra uno “Stato
federale leggero” ad uno “pesante”. Quest’ultimo avrebbe dovuto impiegare una parte elevata della ricchezza
nazionale per la sicurezza e per il rafforzamento delle istituzioni federali a danno di quelle dei singoli Stati e delle
autonomie locali e individuali.
La reazione patriottica conseguente agli attentati indusse l’Amministrazione Bush a considerare la forza
come lo strumento principale per conseguire la sicurezza nazionale americana e a considerare la “guerra al
terrorismo” e contro le minacce ad esso collegate (quali la proliferazione e il collasso del controllo degli Stati nei
loro territori) come l’elemento regolatore della politica estera americana.
Conseguentemente, soprattutto nella National Security Strategy del settembre 200267, è divenuto centrale il
concetto di guerra preventiva. Ragionevole dal punto di vista prettamente tecnico contro minacce da cui non
esiste possibile difesa - se non distruggendole prima che possano manifestarsi effettivamente - tale concetto
contraddice i fondamenti del diritto internazionale e quindi dell’ordine internazionale esistente. Ha dato luogo ad
un intenso dibattito, che appare però sempre più astratto, soprattutto da quando il Consiglio di Sicurezza
dell’ONU si è rivelato incapace di affrontare la proliferazione in Iran e in Corea del Nord.
Tra guerra “anticipatoria” o “pre-emptiva” o “preventiva” non vi è differenza sostanziale. Infatti, la
valutazione che esista una minaccia che giustifichi il ricorso alle armi è riservata alla Casa Bianca. Non è devoluta
all’istituzione internazionale considerata legittimata a farla, cioè al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Tale
concetto ha avuto attuazione nella successiva guerra all’Iraq. Gran parte degli altri Stati, anche di quelli più
tradizionalmente alleati con gli Stati Uniti, come la Gran Bretagna, hanno avuto notevoli difficoltà ad accettare
tale concetto. L’hanno avuto soprattutto gli altri membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, preoccupati del
fatto di vedere erosa – se non annullata – la loro capacità di influire sulle decisioni della Casa Bianca, unica a
C. S. Gray, Thinking Asymmetrically in Times of Terror, Parameters 32, 2002, pp. 5-14.
J. Ikenberry, After Victory: Institutions, Strategic Restraint and the Rebuilding of Order After Major Wars, Princeton University Press, Princeton,
2002.
66 G. Hart, The Fourth Power, op. cit..
67 http://www.whitehouse.gov/nsc/nss.html.
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conservare una piena sovranità nazionale, nel senso westfaliano del termine. Hanno influito al riguardo vari
fattori, che avranno rilevante importanza soprattutto in Europa nel definire il futuro della sicurezza mondiale.
Il primo di essi è di politica interna. Mentre precedentemente il sostegno degli Stati Uniti attirava il
sostegno degli elettori, dalla crisi irachena in poi la questione si è rovesciata. L’“americanofobia” paga in termini
elettorali, che poi sono quelli che più interessano i politici.
Il secondo è che tutti gli Stati hanno sempre privilegiato in politica estera e di sicurezza gli strumenti per i
quali possedevano una superiorità sugli altri paesi. Gli USA dispongono di una grande superiorità militare e sono
portati ad impiegarla. L’Europa è molto meno forte, soprattutto perché l’Unione Europea non è un’entità
sovrana, capace di gestire gli stati di eccezione e di impiegare la forza. La sua politica estera, di sicurezza e di
difesa è tutt’altro che comune, essendo basata su accordi intergovernativi.
Il terzo è che tutti gli Stati sono ben consapevoli che il diritto internazionale non può determinare la
politica. Tutt’al più può prevedere percorsi procedurali nella formazione delle decisioni, percorsi che sono
estremamente fragili poiché le grandi potenze li possono violare impunemente. Taluni paesi europei, come la
Francia, cercando di imporre il loro rispetto, tendono ad aumentare la loro forza. Altri paesi cercano
semplicemente di trarne vantaggi nazionali. Dal canto loro, gli Stati Uniti, pur essendo stati i promotori delle
grandi istituzioni internazionali dei due dopoguerra – cioè della Società delle Nazioni e dell’ONU –, negano – a
parer mio a ragione – che le istituzioni internazionali siano efficaci nel garantire la loro sicurezza e rivendicano il
diritto di provvedervi da soli. Beninteso, si tratta di una posizione estrema. I conservatori più moderati negli Stati
Uniti sono consapevoli dell’importanza di una legittimazione internazionale ai fini del consenso interno ed
esterno, pur riconoscendone tutti i limiti.
Secondo John Ikenberry, i componenti più radicali – nazionalisti e “neoconservatori” dell’Amministrazione Bush hanno invece commesso l’errore di confondere la forza con il potere – il quale
consiste nella capacità di agire efficacemente e con costi e rischi contenuti sulle strutture del sistema
internazionale. Hanno anche confuso il potere con l’autorità, essenziale per garantire un certo ordine a costi
contenuti, quindi con la collaborazione degli altri attori geopolitici. L’autorità si basa sulla legittimità, derivante a
sua volta – come si è detto - dalla limitazione degli obiettivi perseguiti e dal rispetto degli altri e, almeno
formalmente, delle norme e delle istituzioni internazionali (queste ultime, beninteso, adeguate alle nuove
minacce). Questo implica, cioè, da parte della potenza egemone, l’accettazione di determinate limitazioni e vincoli
all’esercizio della propria potenza, ad esempio sull’uso della forza per creare un ordine internazionale
corrispondente ai propri interessi e valori. In caso contrario, gli Stati Uniti dovrebbero trasformare la loro
influenza egemonica in un impero, a cui non sono attrezzati né culturalmente, né militarmente. Dovrebbero
sostenerne i costi relativi. Non potrebbero avere il consenso dell’opinione pubblica, soprattutto nell’attuale
società dell’informazione. Nessuna strategia può essere costruita nel vuoto politico. E’ il ponte fra l’uso della
forza e la politica. Ma politica significa anche cultura, percezioni, emozioni. L’elemento umano è fondamentale,
quale che sia l’efficienza militare fornita dalla tecnologia.
F) IL BUSH II E LE PROSPETTIVE DI UN NUOVO ACCORDO TRANSATLANTICO
Le impreviste difficoltà incontrate nella stabilizzazione dell’Iraq e nella costruzione di una “democrazia”
compatibile con le condizioni del mondo islamico stanno inducendo la seconda Amministrazione Bush ad una
riconsiderazione, almeno di fatto, della propria strategia, in particolare della differenza fra la vittoria militare e
quella politica. Forse, Bush II ricercherà una collaborazione internazionale più solida di quella realizzata nella
prima fase della guerra al terrorismo. Allora fu incentrata sul riavvicinamento di Washington a Mosca e a
Pechino. Oggi, può essere centrata solo sull’Europa.
Purtroppo, in Europa le cose sono rese complesse dalle aspre divisioni ancora esistenti nei confronti
della decisione anglo-americana di attaccare l’Iraq e per la sempre più evidente necessità di un nuovo contratto
transatlantico e di una riforma della NATO. Un nuovo accordo transatlantico sarà però possibile solo
allorquando l’Unione riuscirà ad elaborare una PESC (Politica Estera e di Sicurezza Comune) veramente
affidabile, con trasferimento di un’effettiva sovranità all’UE, con l’esistenza di un unico seggio permanente
europeo al Consiglio di Sicurezza e con la definizione non solo di una strategia di sicurezza e di difesa comune,
ma anche con l’adeguamento delle capacità militari europee. Le vere difficoltà da superare non sono né tecniche,
né finanziarie. In fin dei conti, i 25 paesi dell’Unione hanno bilanci militari complessivamente pari a metà-due
terzi di quelli USA. Una valutazione esatta è impossibile. Infatti dovrebbe essere effettuata non in termini di input
finanziari, ma di output di capacità operative; esse sono - a parità di finanziamento - estremamente diverse da
paese a paese. La mancata armonizzazione dei bilanci della difesa europei comporta poi dispersione di risorse e
duplicazioni di capacità.
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La soluzione del contenzioso euro-americano è resa quindi difficile dalla disunione e dalla ridotta
capacità dell’Europa di proiezione di potenza, sproporzionate rispetto alla sua ambizione di giocare il ruolo di
attore globale, anche autonomo dagli Stati Uniti. L’incapacità di farlo, neppure nelle immediate periferie
dell’Europa, è dimostrata dal disastroso intervento europeo in Bosnia nel 1992-95 e dalla marginalizzazione
dell’Unione dal processo di pace in Medio Oriente. Solo divenendo forte e unita, l’Unione potrà diventare un
partner rispettabile - e quindi rispettato – degli Stati Uniti e potrà ricostituire l’unità dell’Occidente, che è
indispensabile non solo per il sistema euro-atlantico, ma anche per qualsiasi ordine mondiale.
G) LA NUOVA SICUREZZA ESTERNA
La scomparsa dell’URSS ha lasciato gli Stati Uniti – unica superpotenza rimasta – con la responsabilità e
l’onere di garantire l’ordine mondiale. Ma la politica e la strategia di sicurezza degli USA sono rimaste nel
contempo prive di nemico. Il collasso della minaccia sovietica – che per oltre quarant’anni Washington aveva
contenuto e dissuaso 68 - faceva perdere significato all’obiettivo fino ad allora perseguito di garantire la sicurezza
con l’equilibrio delle forze, contro un avversario ben preciso e la cui potenza militare era valutabile con
ragionevole approssimazione. L’altro tipo di sicurezza – quella basata sull’egemonia o sull’impero – era troppo
aliena dai principi etico-politici americani, anche solo per poter essere proposta all’opinione pubblica e al
Congresso americani. Ne seguì un periodo di “pausa strategica”69, in cui gli Stati Uniti sembrarono incerti su
come impiegare il loro potere unico al mondo. Basti pensare al sollievo provocato da Washington quando, allo
scoppio della guerra di secessione della ex-Jugoslavia, sembrò che l’Europa se ne sarebbe occupata. Ne conseguì
il disastro a tutti ben noto, terminato solo allorquando gli Stati Uniti decisero di intervenire militarmente in
Bosnia-Erzegovina. Da allora – come prima ricordato – negli USA si accese un dibattito su quello che avrebbe
dovuto essere il loro ruolo nel mondo e una lenta trasformazione dello “sceriffo riluttante” in uno “sceriffo” a
titolo pieno e, anche per l’inefficienza delle istituzioni internazionali e il “tradimento” della “vecchia Europa”
nella crisi irachena, in un costruttore di un nuovo ordine mondiale70.
Ciò ha stimolato un vivace dibattito sui sistemi di sicurezza da realizzare in un mondo sempre più
globalizzato ed interdipendente. A differenza del passato, l’ordine – o il disordine – internazionale non è oggi più
caratterizzato – e non lo sarà neppure per almeno due o tre decenni – dall’interazione delle grandi potenze, ma
dal confronto di stati appartenenti al “club nucleare” con attori internazionali non statali. Se in economia si è
passati dall’era dell’indipendenza a quella dell’interdipendenza, altrettanto non si è verificato in campo politicostrategico. Anzi, si è sperimentato un processo opposto. La violenza si è privatizzata. Nonostante i richiami
all’indivisibilità della sicurezza, gli Stati hanno teso a riacquisire la loro autonomia.
Dopo la fine della Guerra Fredda non vi è stata una conferenza di pace, convocata dai vincitori, che
tracciasse le linee del nuovo ordine mondiale, come era avvenuto dopo il ciclo delle guerre napoleoniche o i due
conflitti mondiali. All’inizio si pensò che fosse scoppiata un’era di pace, che fossero finiti storia, stato e valore del
territorio, che la geoeconomia avesse sostituito la geopolitica e che il nuovo paradigma della conflittualità
mondiale fosse costituito dallo “scontro di civiltà”. Poi si affermarono le teorie del “disordine mondiale”, del
“nuovo medioevo”, del “caos incontrollabile” 71. Le guerre non scoppiano più fra gli Stati, ma all’interno di essi.
Non avvengono più fra le grandi potenze. Derivano dalle iniziative di Stati deboli che non accettano l’egemonia
degli Stati forti che adottano strategie asimmetriche. I sistemi di sicurezza che avevano impedito alla Guerra
Fredda di trasformarsi in “calda”, e che erano fondati sulla dissuasione nucleare reciproca fra le due superpotenze
(“equilibrio del terrore”), mantenuta stabile dall’interesse sia di Washington che di Mosca di evitare il rischio di
un confronto nucleare, hanno perduto gran parte della loro validità. Contenimento e dissuasione “dal forte al
forte” non hanno più il valore di un tempo. Quella “dal forte al debole” non funziona non solo per la possibilità
che ha quest’ultimo di ricorrere a strategie asimmetriche, ma anche per il rischio che giunga ad acquisire armi di
distruzione di massa. Queste ultime sottoporrebbero gli interventi degli Stati Uniti a rischi tali da renderli meno
probabili, anche quando, come nel caso iraniano, sono in gioco equilibri regionali critici per la geopolitica
mondiale. D’altro canto, l’assunto di razionalità dell’avversario, che aveva costituito la base della dissuasione
I due documenti di base all’origine della politica del contenimento e della dissuasione, cioè il “telegramma 511” o The Long Telegram, del
22 febbraio 1946, dell’Ambasciatore USA di Mosca, e The Sources of Soviet Conduct, pubblicato sul numero di luglio 1947 di Foreign Affairs,
entrambi scritti da G. F. Kennan – sono consultabili in T. H. Etzold e J. Lewis Gaddis (eds.), Containment: Documents on American Policy and
Strategy, Columbia University Press, New York, 1978.
69 J. Ikenberry, After Victory: Institutions, Strategic Restraints and the Rebuilding of Order After Major Wars, cit.; vds. anche Henry A. Kissinger,
Does America Need a Foreign Policy? Toward a Diplomacy for the 21th Century, Simon and Schuster, New York, 2001.
70 Cfr. J. J. Mearsheimer, The Tragedy of Great Power Politics, Norton, New York, 2001, in cui si afferma che all’origine di ogni politica si pone
la distribuzione del potere. Il ruolo giocato da una grande potenza dipende da essa, in modo quasi inevitabile.
71 Per una sintetica rassegna delle teorie geopolitiche dominanti negli anni Novanta, vds. C. Jean, Manuale di geopolitica, Laterza, Roma-Bari,
2003, specie cap. X, Teorie geopolitiche all’inizio del XXI secolo, pp. 209-43.
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nucleare reciproca fra i due blocchi, non poteva essere dato per scontato 72 in un’epoca in cui le minacce alla
sicurezza erano divenute più ambigue e in cui il sistema internazionale era divenuto molto più complesso e molto
meno prevedibile.
Le regole fissate dal Trattato di Non Proliferazione e che – bene o male, implicitamente o esplicitamente
– avevano funzionato nel corso della Guerra Fredda, hanno perso validità, così come l’ha perduta pressoché
completamente l’istituzione deputata – dopo il 1945 – al mantenimento della pace e della sicurezza internazionali:
il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Quest’ultimo, infatti, è rimasto un semplice simulacro di quanto
avrebbe dovuto essere e che, dopo il blocco subito durante il confronto bipolare, si era sperato che potesse
essere nel 1990-91, fino allo scoppio dei conflitti etnico-identitari.
Gli Stati Uniti hanno perciò deciso di provvedere in proprio alla loro sicurezza, anche con attacchi
preventivi, per evitare che le crisi si trasformino in minacce e le minacce in attacchi disastrosi sulla loro
popolazione civile. Tale atteggiamento, decisamente aggressivo, erode però la legittimità degli Stati Uniti e rende i
loro interventi ancora più difficili e costosi, anche in termini politici interni. La “guerra al terrorismo”, dichiarata
dal Presidente Bush il 20 settembre 2001, non può costituire il paradigma del “nuovo ordine mondiale”,
ispiratore della strategia di sicurezza di Washington, come era stato il containment dalla fine degli anni ‘40 in poi.
La revisione dei criteri con cui il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dovrebbe autorizzare
l’impiego della forza – recentemente proposti dall’High Level Panel73 sulla riforma dell’ONU - recependo l’analisi
delle minacce e dei rischi contenuta nella National Security Strategy. Tuttavia, pur accettando il principio
dell’intervento armato preventivo o anticipatorio, ne subordinano la legittimità ad una specifica risoluzione del
Consiglio di Sicurezza, che autorizzi l’uso della forza. La soluzione proposta non è sufficiente a dare risposta alle
preoccupazioni degli Stati Uniti, soprattutto in termini di efficacia e di rapidità di intervento contro le nuove
minacce. Solo uno Stato può decidere per tempo con intervento preventivo. Anche se le raccomandazioni
dell’HLP fossero accolte, non si modificherà la politica degli Stati Uniti di “essere multilateralisti finché possibile
e unilateralisti quando necessario”.
La residua credibilità delle Nazioni Unite si giocherà sulla loro capacità di risolvere le crisi dovute alla
proliferazione iraniana e nord-coreana. Se il Consiglio di Sicurezza non saprà affrontarle con efficacia, l’ONU
farà verosimilmente la fine della Società delle Nazioni, quali che siano gli esiti della Conferenza di revisione del
Trattato di Non Proliferazione che sarà tenuta nel 2005.
In sostanza, gli attuali assetti mondiali non consentono di dar vita a efficaci sistemi di sicurezza collettiva.
Essi potrebbero essere creati a livello globale, nel particolare settore, solo dalla rinuncia degli Stati nucleari ai loro
attuali privilegi, cioè a mantenere i propri arsenali, obbligando gli altri a rinunciare a dotarsi di armi nucleari. Ciò
diventa sempre più difficile, anche perché le tecnologie di arricchimento del combustibile a scopi pacifici e quelle
del riprocessamento del combustibile irraggiato sono tecnologie “duali”, impiegabili cioè sia in campo civile per
la produzione di energia sia in campo militare per la costruzione di bombe nucleari.
L’equilibrio delle forze, che dominava le relazioni internazionali nel corso della Guerra Fredda e che era
consolidato e reso stabile da una complessa rete di accordi e di istituzioni internazionali, è scomparso
irrimediabilmente. Ad esso è subentrato un ordine egemonico, centrato sugli Stati Uniti, che non hanno però
ancora deciso che tipo di ordine debba essere e, conseguentemente, con quale politica di sicurezza e con quale
strategia vada difeso.
Si delinea una situazione del tutto nuova nella storia, in cui la potenza egemone (e nessuna, neppure
Roma, è stata tanto egemone quanto lo sono oggi gli Stati Uniti) non ha deciso che fare della propria superiorità,
anche per la riluttanza dell’opinione pubblica e della classe politica americana ad accettare di diventare impero.
Ciò avrebbe infatti implicazioni sulla costituzione stessa degli Stati Uniti, sulla loro tendenza ad avere uno “Stato
leggero” e sulla “devoluzione” che ispira il sistema di sussidiarietà fra Stati e Federazione, a favore dei primi.
Il nuovo ordine che – lo si voglia o no – sarà unipolare, e quindi egemonico, dovrebbe essere reinventato
con norme accettabili per gli altri Stati, ad esempio con un sistema di equilibri regionali, basati ciascuno
sull’esistenza di uno Stato egemone regionale o da un sistema costituzionalizzato di equilibri regionali, la cui
stabilità sarebbe rafforzata dall’intervento degli Stati Uniti, non solo “sceriffo”, ma anche “arbitro” del nuovo
ordine mondiale.
L’inconsistenza di tale assunto, che fondava la dissuasione sulla scommessa della razionalità del Cremlino (che si sarebbe lasciato
dissuadere) e dell’irrazionalità della Casa Bianca (di impiegare se necessario le armi nucleari, anche se ciò avrebbe provocato la distruzione
degli Stati Uniti) è stata messa in evidenza dal riesame di ciò che veramente accadde nel corso della Guerra Fredda (vds. in proposito K. B.
Payne, The Fallacies of Cold War Deterrence and the New Direction, University Press of Kentucky, Lexington (KY), 2001; R. Peters, Beyond Terror:
Strategy in a Changing World, Stackpole Books, Mechanicburg (PA), 2002.
73 V. rapporto consegnato al Segretario Generale delle Nazioni Unite dall’High Level Panel (HLP) on Threats, Challenges and Change, New
York, 3 gennaio 2005.
72
24
L’unipolarismo americano non sarà beninteso eterno. Non lo sarà neppure il “nuovo ordine” sopra
delineato nelle sue linee essenziali. La potenza americana sarà destinata ad attenuarsi 74 e ad essere bilanciata dal
sorgere di nuove superpotenze, che ristabiliranno con gli Stati Uniti un nuovo bipolarismo. L’unica candidata al
riguardo sembra essere la Cina, nonostante che taluni, come Charles Kupchan75, pensino che possa essere anche
l’Europa o un’alleanza dell‘“asse franco-tedesco” con la Russia. Non penso sia possibile, non solo per la difficoltà
che incontra l’Unione Europea a stabilire una politica estera veramente unitaria – il che implicherebbe il
trasferimento all’Unione del cuore della sovranità dei singoli Stati nazionali – ma anche per ragioni demografiche
ed economiche. 76 Dal punto di vista demografico, l’Europa è in declino. Dal 27% della popolazione e dal 41%
del PIL mondiali nel 1913, è passata rispettivamente al 9 e al 18% nel 2000 e, nel 2050, passerà al 4-5% e al 10%.
Inoltre, l’invecchiamento della sua popolazione accrescerà la percentuale del PIL destinata alle spese sociali,
diminuendo quella impiegabile per la politica estera e la proiezione esterna di potenza. Infine, il processo
d’integrazione europea può pragmaticamente continuare solo con gli Stati Uniti. La crisi irachena ha dimostrato
che l’Europa non si può fare non solo contro, ma neppure senza gli Stati Uniti. L’Europa, in definitiva, ha
bisogno degli Stati Uniti, anche per motivi economici e demografici. Il declino, peraltro inevitabile degli USA nel
lungo periodo, forse anche nella seconda metà del XXI secolo, seguirà quello accelerato che avrà l’Europa a
partire dal 2015-20, allorquando andrà in pensione il baby boom seguito alla fine della seconda guerra mondiale.
Per inciso, verso il 2030-40, la popolazione degli Stati Uniti supererà quella dell’Unione Europea, mentre oggi
ammonta a 295 milioni di abitanti contro i 500 milioni che avrà l’Unione dopo gli allargamenti ai Balcani
Occidentali e Orientali. Sarà molto più giovane. Comunque, gli USA non saranno gravati dai costi dello stato
sociale europeo, soprattutto qualora avesse successo la riforma pensionistica annunciata dal Presidente Bush. In
sostanza, l’Europa avrà bisogno degli Stati Uniti più di quanto questi ultimi abbiano bisogno dell’Europa.
Beninteso, il doppio deficit americano e la conseguente debolezza del dollaro, nonché le interdipendenze
esistenti, comportano il pericolo del big-bang dell’economia globalizzata, paventato da Kissinger77. Dal canto suo,
la forza dell’euro, unita all’incapacità di un’adeguata crescita economica dell’Europa, potrebbe indurre ad
utilizzare la prima per una competizione monetaria fra UE e USA, in modo da far crescere il ruolo dell’euro
come moneta di riserva e di scambio mondiali, con l’obiettivo ultimo di esternalizzare in parte l’onere della spesa
sociale europea e di diminuire il finanziamento europeo del doppio deficit americano. Ciò comporterebbe però –
come ha dimostrato Paolo Savona 78 – una svalutazione selvaggia del dollaro e una crisi economico-finanziaria
molto grave. Essa colpirebbe in primo luogo l’Europa. Anche in questo settore, quindi, la cooperazione è
indispensabile. L’Atlantico non è tanto largo quanto vorrebbero i “gollisti” e i no-global europei.
4. CONCLUSIONI SULLA SICUREZZA INTERNA ED ESTERNA
La sicurezza da nazionale o regionale si è trasformata in globale, in parallelo con l’interdipendenza e le
interconnessioni dell’economia e delle società, derivate dalla globalizzazione. Da prevalentemente militare essa è
divenuta multidimensionale. La dimensione “difesa civile” ha assunto un’importanza analoga a quella della
sicurezza esterna degli Stati.
I costi anche economici della “non-sicurezza” sono aumentati notevolmente, anche per l’amplificazione
dei danni – derivanti dalle interconnessioni e interdipendenze – e per le incidenze negative dell’insicurezza nelle
società e nelle economie79.
Rispetto al passato, il terrorismo transnazionale ha reso ancora più porosi i confini fra la sicurezza
interna e quella esterna. Va anche considerato per entrambe il costo conseguente alla riduzione delle libertà
individuali – personali ed economiche – sacrificate alla sicurezza. Essa potrebbe modificare la natura stessa delle
società liberali, soprattutto qualora si dovessero verificare attacchi con armi di distruzione di massa. Già gli
attentati dell’11 settembre hanno provocato reazioni in tal senso, a partire dal Patriot Act statunitense80. La
necessità di contenere le restrizioni alle libertà individuali ed economiche ha certamente costituito uno dei motivi
che hanno indotto gli Stati Uniti a “esternalizzare” la guerra al terrorismo. Qualsiasi valutazione possa essere data
Il più conosciuto sostenitore della tesi “declinista” è P. M. Kennedy, The Rise and Fall of Great Powers: Economic Change and Military Conflict
from 1500 to 2000, Random House, New York, 1987.
75 C. Kupchan, The End of American Era, Knopf, New York, 2002.
76 C. Jean, L’Europa come attore geopolitico, in Centro Studi della Confindustria, Rapporto semestrale, 16 dicembre 2003, pp. 129-149.
77 H. A. Kissinger, Does United States Need a Foreign Policy?, op. cit..
78 P. Savona, Il dollaro e lo sviluppo globale: per una riconciliazione, Aspenia n. 27, gennaio 2005, pp. 302-10.
79 P. Garonna e C. Viviani, Economia e sicurezza: i costi della non-sicurezza, in CSGE (a cura di), Sicurezza: le nuove frontiere – Cultura, economia,
politiche, tecnologie, pp. 205-222, F. Angeli, Milano, 2005.
80 G. de Vergottini, Il bilanciamento fra sicurezza e libertà civili nella stagione del terrorismo, in CSGE (a cura di), op. cit., pp. 106-126.
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25
sull’attacco anglo-americano all’Iraq, è certo che per più di tre anni gli Stati Uniti non sono stati oggetto di nuovi
maxi-attentati.
I concetti di sicurezza interna ed esterna tendono a divenire sempre più interdipendenti. Anche la
seconda è quindi strettamente connessa con la configurazione che avrà il “nuovo ordine mondiale”. Lo è anche
per il fatto che il bipolarismo, il quale nella Guerra Fredda era fra gli Stati, attualmente si è spostato al loro
interno, a partire dagli stessi Stati Uniti. Il nuovo bipolarismo è tra i favorevoli e i contrari all’uso della forza, tra
coloro che considerano minacciosi rischi anche a medio-lungo termine e quelli che sono portati a sottovalutarli,
salvo poi a reagire anche in misura sproporzionata una volta che si siano verificati gli attacchi. La molteplicità e
diversità strutturale degli attori in gioco, la natura multidimensionale della sicurezza (e dell’ordine), nonché
l’intervento di condizionamenti emotivi, psicologici e storici a fianco di quelli legati ad interessi più materiali,
razionali e anche quantificabili, rendono la situazione attuale molto più complessa di quella delle eleganti
semplicità del mondo bipolare. E’ questa la “società del rischio” in cui vivremo, almeno nei primi decenni del
XXI secolo.
Carlo Jean
Docente degli Studi strategici presso la LUISS-Guido Carli
Presidente del Centro Studi di Geopolitica Economica – CSGE
ALLEGATO A
RISCHIO – VULNERABILITÀ – DANNO - SICUREZZA81
1. RISCHIO
In italiano il termine rischio ha due significati diversi. Da un lato, indica il danno atteso; dall’altro,
l’evento calamitoso che lo provoca (in inglese hazard).
Nella letteratura della sicurezza, il termine “rischio” viene normalmente utilizzato nel primo significato.
Nel secondo caso si impiega il termine minaccia.
Il rischio è pertanto la probabilità di un dato sistema o di un socio-sistema di subire un determinato
livello e tipo di danno, qualora dovesse materializzasi una minaccia di una determinata intensità e con
determinate modalità. L’entità del danno non è misurabile in termini assoluti, ma varia a seconda del valore
attribuito alla risorsa, infrastruttura critica, ecc. suscettibili di correre quel rischio.
La valutazione è generalmente soggettiva e varia nel tempo a seconda del contesto interno ed esterno.
Il rischio è funzione (f) del prodotto fra la probabilità temporale dell’evento calamitoso (P/t) e l’entità
del danno (D) verificatosi sul sistema:
R = f (P/t × D)
Poiché il danno (D) è funzione dell’intensità dell’attacco (e delle sue modalità spazio-temporali) (i) e della
vulnerabilità (V), allora:
R = f (P/t × i × V)
Il rischio (R) mette in correlazione l’attacco e il danno. Va perciò distinto dalla pura probabilità del
verificarsi di un evento con data intensità (Pi). Se quest’ultimo investe un sistema reso invulnerabile dalla
prevenzione, il rischio tende ad annullarsi.
Il rischio può essere espresso da una matrice pluridimensionale in cui ad ogni intensità (e modalità
spazio-temporale) dell’attacco, ad ogni probabilità temporale del suo verificarsi e ad ogni livello di vulnerabilità
del socio-sistema corrisponde un determinato livello di danno. Intensità e probabilità dell’attacco possono essere
diminuite con la prevenzione nelle sue varie forme, cioè con l’adozione di misure di sicurezza passive (difesa) o
attive (attacco preventivo, esternalizzazione del rischio).
Le considerazioni che seguono si riferiscono specificamente alla sicurezza interna. Sono però estendibili per analogia alla sicurezza
esterna.
81
26
2. VULNERABILITÀ
La vulnerabilità è il potenziale di danno che un sistema possiede rispetto ad un attacco di determinata
intensità, localizzazione (aspetti spaziali) e concentrazione nel tempo (tempo di esposizione del sistema, ma
anche capacità dell’attacco di realizzare la sorpresa).
La localizzazione dell’attacco su alcuni sottosistemi o su tutto il sistema opera un diverso
danneggiamento, dipendente dalla vulnerabilità delle parti colpite e dalla loro rilevanza strutturale nei riguardi del
sistema complessivo. La concentrazione nel tempo (durata) incide sulla vulnerabilità elementare del sistema
(logoramento) o sulla sua vulnerabilità complessiva (breve durata e forte intensità).
Al verificarsi di uno specifico attacco, la vulnerabilità determina entità e tipo di danno:
D = i/t × V
Dove D è il danno, i è l’intensità, t è il tempo di esposizione e V è la vulnerabilità. La prevenzione (P) –
elemento preventivo della sicurezza - è un riduttore di vulnerabilità secondo la seguente relazione:
D = i/ × V/P
La vulnerabilità può derivare da due cause opposte:
– da eccesso di determinazione (rigidità);
– da eccesso di indeterminazione (labilità).
La prevenzione consiste nell’introduzione, in un sistema rigido, di elementi di indeterminazione e, in un
sistema labile, di elementi di determinazione e di ordine: in ogni caso, la prevenzione porta il sistema verso una
condizione di elasticità strutturale. Nei sistemi auto-regolantisi l’elasticità corrisponde alla condizione della
struttura che incorpora procedure di trasformazione compatibili con la funzionalità sistemica.
La vulnerabilità primaria genera il danno che, a sua volta, ha la proprietà di accrescere la vulnerabilità
iniziale del sistema colpito con andamento a tendenza esponenziale autoamplificantesi.
3. DANNO
a) Il danno è l’effetto degenerativo prodotto su un sistema da un attacco che sottoponga ad una specifica
intensità di “stress” il sistema stesso. Il danno coinvolge primariamente le strutture fisiche del socio-sistema
(danno materiale), innescando effetti indotti nei parametri funzionali (sociali, economici, politico-decisionali,
ecc.), con conseguenti ricadute sulla funzionalità dell’organizzazione socio-politico-economica colpita.
Ogni danneggiamento determina un’amplificazione della vulnerabilità pre-esistente, secondo specifiche
linee evolutive del processo degenerativo, aprendo così un processo di moltiplicazione del danno stesso (danno
di processo).
b) Il danno si manifesta con elementi differenziati nei diversi sottosistemi componenti. Quando investe a
livello critico sottosistemi “portanti”, può determinare il collasso dell’intera struttura socio-sistemica.
Gli effetti del danno su un sistema dipendono non solo dall’intensità del danno stesso, ma anche dalle
sue modalità (concentrazione nel tempo ed estensione nello spazio). Tali parametri, infatti, determinano le
capacità di risposta autonoma del sistema che, a parità di intensità di danno, è tanto più elevata quanto maggiore
è la diluizione di quest’ultimo nel tempo e la sua concentrazione nello spazio. Ogni sistema possiede intrinseche
capacità di assorbimento omeostatico di un attacco interno o esterno, senza effetti di danno, fino a determinati
valori di soglia (risposta elastica del sistema e riabilitazione autonoma). Superati questi ultimi, il sistema subisce il
danneggiamento, diminuendo prima la sua efficienza, necessitando poi per la sua riabilitazione di apporti esterni.
Esiste un livello critico di collasso, in cui il sistema viene annientato e non può essere più rigenerato. La sua
riproduzione comporta una completa rifondazione.
c) La prevenzione, operando sulla vulnerabilità e, ove possibile, anche sull’intensità dell’evento dannoso,
riduce i livelli di danno potenziale, aumentando la capacità di risposta elastica del sistema (immunizzazione;
elevazione delle soglie critiche; difesa dei confini; attacco preventivo; ecc.). Sul danno influiscono anche le
modalità con cui vengono condotte le operazioni di soccorso e di ricostruzione. Al limite, queste ultime possono
innescare dei processi degenerativi che amplificano il danno e ostacolano la riabilitazione successiva del sistema,
ad esempio determinando dipendenze dall’esterno.
d) Il danno si riferisce anche alla diminuzione di efficacia/efficienza di una decisione o azione e può
essere sia materiale che immateriale, riferendosi, in questo secondo caso, alla perdita di credibilità delle istituzioni.
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e) Il danno è differente dal costo della riabilitazione del sistema colpito o distrutto. Quest’ultimo dipende
non solo dall’entità del danno, ma anche da spetti spaziali e temporali, nonché dalle caratteristiche sociali e
psicologiche del sistema colpito. Il tempo costituisce un parametro fondamentale dell’amplificazione del danno.
Ogni ritardo comporta l’aumento dei “danni di processo”. Influisce anche sui costi sia la carenza degli interventi
d’emergenza, sia l’inesistenza di una normativa che dia certezze circa gli interventi che saranno effettuati, con
conseguente aumento delle aspettative e delle richieste sociali di assistenza per fronteggiare il danno subito.
L’incertezza è un fattore di amplificazione dei danni.
f) Esistono soglie critiche di danno che comportano cambiamenti di stato del sistema.
Un danneggiamento ridotto può essere assorbito in modo elastico, senza che il sistema che ha subito il
danno debba riorganizzarsi. Entro tale limite, il sistema ha una capacità di riabilitazione autonoma.
Oltre tale soglia, il sistema perde parte della sua organizzazione e quindi della sua efficienza. Necessita
quindi di una riabilitazione assistita, cioè di interventi esterni di sostegno e di soccorso.
Quando l’intensità del danno è ancora superiore, si raggiunge una seconda soglia critica, che comporta il
collasso del sistema. I costi della sua riabilitazione superano quelli della costruzione di un sistema completamente
nuovo. In corrispondenza di tali soglie, si creano delle discontinuità che provocano cambiamenti di stato del
sistema. Tra le soglie, le variazioni di stato del sistema si modificano in modo sostanzialmente continuo.
4. SICUREZZA
È il grado con cui un sistema – nelle sue varie componenti informative, decisionali e operative – riesce a
svolgere le funzioni che gli sono deputate in condizioni di rischio accettabili; in pratica, ad agire come se il rischio
non esistesse.
In linea teorica, occorrerebbe considerare la sicurezza, così come il rischio, una funzione dell’utilità e
dell’efficacia complessiva, in cui:
U = Pg × G - Pd × D
Dove U è l’utilità o l’efficienza; G sono i guadagni o benefici e Pg le probabilità ad esse associate; D sono
i danni e Pd le relative probabilità.
Nella realtà, le cose sono molto più complesse per l’intervento di fattori soggettivi, valoriali ed emotivi, e
perché sia danni che guadagni assumono una rilevanza differente per i vari operatori e anche per il sistema nel
suo complesso.
Molto semplicisticamente, si può affermare che un sistema è sicuro ad un determinato suo livello quando
i responsabili delle decisioni operano come se il rischio non esistesse o, meglio, come se esso potesse essere
considerato trascurabile o accettabile, e il sistema è capace di rispondere con variazioni di dinamiche interne alle
perturbazioni interne o esterne che lo colpiscano.
Anche il concetto di sicurezza ha una natura soggettiva e non può essere espresso con sistemi
algoritmici, ma solo in modo euristico e soggettivo. Il costa sia della sicurezza che della non-sicurezza andrebbe
sempre considerato in qualsiasi sistema socio-politico.
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