Aurora e la lumaca di ciliegio

Transcript

Aurora e la lumaca di ciliegio
Giacomo Scarpellini
Aurora
e la lumaca di ciliegio
Copyright 2014 Giacomo Scarpellini
www.giacomoscarpellini.it
Prima edizione aprile 2014
Immagine di copertina di Melanie Ayivi
Olimpiadi
Il bianco del soffitto è vuoto. Ma se sono qua stesa sul letto,
a fissare il nulla, è stata solo colpa mia. Sara me l'ha detto
subito: “Aurora! Cos'hai combinato?!”. Cos'ho combinato? Un
casino! Mi sembra evidente. Chi, in piena coscienza
racconterebbe in giro cose personali, se non fosse assolutamente
certo del suo interlocutore? Io, appunto. Non c'è verso che mi
sappia controllare, che non mandi tutto a puttane in un modo
o nell'altro. Riservatezza! Ecco il segreto. Ci vuole molta
riservatezza nella vita. A quanto pare sedici anni non sono stati
affatto sufficienti per impararlo. Accidenti, salvatemi! S.O.S.
Sono Orribilmente Sola!
Ho capito bene una cosa: tra il dire di essere ed essere
veramente, c'è una bella differenza. Ci passa un'autostrada in
mezzo. Pensavo di essere una persona riservata, rispettosa... sì,
riservata e rispettosa, ma probabilmente non lo sono affatto.
Forse è una consapevolezza che si acquisisce da grandi, oppure
io sono un caso troppo grave, incurabile. L'ipotesi più sensata è
che abbia un difetto genetico. Non c'è altra spiegazione.
Difetto che tende a incasinarmi la vita gratis e a non farmi
crescere più di un metro, sessantasette centimetri e tre quarti.
Anche quando le cose potrebbero andar bene, non so
perché, me le ritrovo sbriciolate tra le mani. Che ne so... ti alzi
la mattina pensando che sia un giorno migliore, e appena arrivi
a scuola qualcuno inizia a romperti le scatole, ancor prima di
salutarti. C'è da dire che succede con una puntualità
allarmante. Una volta persino il bidello mi ha fatto incazzare.
Prima che mio nonno si dimenticasse il mio nome, mi
diceva sempre: “Aurora, il sole la mattina sorge che lo si voglia
o no!”. Un modo elegante per dire che le cose seguono una
traiettoria di cui non abbiamo nessun controllo, e la regola
probabilmente per me vale mille volte di più. Mi piacerebbe
essere come quella ragazza che ho visto alle olimpiadi sparare
col fucile. Insomma, visto... cinque minuti... perché era di una
3
noia mortale. Comunque colpiva tutti i bersagli, una macchina.
Si metteva lì, imbracciava il fucile e BANG! Colpo secco. Zero
problemi. Traiettoria precisa e medaglia d'oro. Anche mio
nonno ha un fucile. Per la Cresima, per festeggiare, mi fece
sparare a un uccellino, non so che razza fosse, ma era
sicuramente commestibile, perché ne aveva uccisi diversi e il
giorno dopo li avevamo mangiati a pranzo. Penso fosse una
specie di rito di iniziazione, sai quando devi fare un gesto per
entrare nel mondo dei grandi. Comunque l'uccellino lo
mancai. Se ne volò via dopo il botto. Il nonno mi prese in giro
per un sacco di tempo. Voglio molto bene a mio nonno. Certe
volte mi dava delle sgridate... Soprattutto quando ero piccola.
Con quello che gli combinavo, penso non mi prendesse a
bastonate solo perché ero una femmina. Comunque aveva
ragione, ho qualcosa dentro che non mi fa star bene. Lui diceva
che era una cosa buona, a me non piace per niente.
Devono essere i geni di mio padre, bravissimo a rovinare
tutto come nessun altro. Quando alle medie studiai Mendel e i
suoi fagioli (o piselli, ora non ricordo), cercai rifugio nel
pensiero che non sarei mai diventata come mio padre, in
quanto, oggettivamente, non somigliavo per nulla a un legume.
Cromosomi. Chissà se esistono veramente. Magari viene fuori
in televisione una trasmissione “scientifica”, come quelle che
fanno adesso, e iniziano a dire che era tutta una menzogna per
favorire il mercato dei legumi. Ma adesso che ci rifletto,
potrebbe essere che io abbia qualcosa di vegetale dentro. Una
mia compagna è convinta che in una vita precedente fosse una
papera. Magari ha ragione lei. Dice che ogni tanto sogna di
essere una papera e quando si sveglia sente come un becco
attaccato alla bocca. Li chiama i “riflessi di una vita
precedente”. L'ho sempre presa in giro, ma forse io ho un
problema più complesso, forse dentro di me porto un difetto
genetico. Ho ereditato i geni, come un legume o ancor peggio
come un'insalata. Non sa di niente l'insalata. Collassata sul
letto, con zero segni di vita, non sono molto diversa
dall'insalata dopo diversi giorni di frigorifero. Anzi, per la
precisione, sette giorni di frigorifero.
E dopo sette giorni, ho compreso tre grandi verità della vita,
che ora vado ad elencare: dare della puttana all'insegnante,
anche se è vero, non è una strategia vincente; essere sospesi per
4
sette giorni non è una bella esperienza e spero di non ripeterla;
non diventerò mai alta un metro e sessantotto, se non
contando anche le scarpe.
5
Ottavo giorno
Questa mattina mi sono alzata prestissimo anche se è
domenica. Non che ne avessi l'intenzione, ma non c'è stato
modo di fare diversamente. È da una settimana che sono
segregata in casa. Ieri sera, non potendo uscire, dopo mezz'ora
di zapping, mi sono addormentata col mal di testa. Come se
non bastasse, stamattina alle cinque, occhi spalancati. Dopo
aver tentato, senza possibilità di successo, di rimanere nel letto
ancora un po', ho deciso di alzarmi e porre fine all'agonia. Ti
alzi perché non riesci a dormire ma hai ancora addosso un
sonno micidiale. Vai a scuola tutte le mattine maledicendo la
sveglia, poi quando hai l'occasione... niente. Anche questa
rientra nelle questioni dei fucili e delle traiettorie.
Mio padre si era già svegliato. Ci siamo incontrati in salotto
mentre si preparava ad uscire indossando una giacca.
«Papà, dove vai?».
«Aurora, già sveglia?».
Fortunatamente, alle cinque e mezza di mattina, non aveva
avuto la prontezza di ricordarmi della mia situazione di
fuorilegge, cosa che aveva puntualmente fatto ogni santo
giorno, per tutta la settimana.
«Aurora, io vado a trovare il nonno, ma prima ho un paio di
giri da fare».
«Fino alle 7.30 non puoi entrare».
Conoscendo le scarse capacità mnemoniche di mio padre,
avevo preferito mostrargli questo macroscopico errore nel suo
piano. Calmo e pacifico, come solo la domenica mattina è
consentito fare, mi ha risposto sorridendo:
«Non ho nessuna fretta».
Quel sorriso è stato uno spiraglio dopo una settimana di
tensioni. Io non sono sicuramente una figlia facile da gestire,
ma anche mio padre non scherza. Tra di noi il litigio regna
sovrano. Prima di aggiungere un'altra parola, si è fermato
esattamente sull'uscio. Probabilmente, se non fossi stata in
6
punizione, mi avrebbe chiesto di uscire con lui. Vista la
particolare situazione e gli innumerevoli tentativi precedenti
falliti quando ancora ero libera, credo abbia pensato fosse
meglio lasciar stare.
Negli ultimi giorni avremmo dovuto appendere uno di quei
cartelli gialli e neri con scritto “Attenzione, zona radioattiva,
pericolo di morte” proprio sulla nostra porta di ingresso.
Troppa tensione. Anche lui era stremato dal clima che si era
respirato in casa. Quando meno me lo aspettavo si è girato
verso di me e ha pronunciato una frase bellissima:
«Oggi è domenica, se vuoi puoi uscire, le porte di Auschwitz
sono aperte».
Non mi è mai particolarmente piaciuta la domenica, troppo
vicina al lunedì; ma quella frase è stata un raggio di sole tra le
nuvole. Forse oggi sarebbe stata la giornata del riscatto. Mentre
si era già incamminato nel cortile, si deve essere accorto del mio
momento di estasi. In effetti temo di essermi bloccata come
una statua, quasi avessi avuto un'apparizione divina. Sono
tornata sulla terra solo sentendogli dire:
«La via di fuga è libera!».
Finalmente era arrivato il mio momento, l'era glaciale era
finita, i dinosauri tutti morti, ed ero sopravvissuta al gigantesco
asteroide della sospensione che mi aveva colpito in pieno.
Mentre mi lasciavo andare a stravaganti gesti di esultanza,
sotto lo sguardo attonito della mia gatta Inda, l'ho sentito
tornare indietro a passo sostenuto. Si è fermato di nuovo
sull'uscio e ha iniziato a fissarmi. Un'espressione seria, sicura. È
l'espressione che utilizza sempre quando deve dirmi qualcosa di
importante. Penso l'abbia copiata da quei film western con
Clint Eastwood che danno in seconda serata. Ci siamo fissati
per almeno due interminabili secondi. La mia gola era
diventata completamente secca. Due secondi terribili.
Gocciolina di sudore sulla tempia destra. Poi una strana musica
ha iniziato a risuonare dal nulla. Come quelle che si sentono
nei film, prima di un duello all'ultimo sangue con le pistole
fumanti. Ho avuto anche l'impressione di vedere rotolare un
groviglio di rovi tra noi due, spinto dal vento del vecchio e
selvaggio West. Ero come paralizzata, e nei duelli si sa che chi
esita è spacciato. Ed è stato così che mio padre ha sparato per
7
primo. Ormai ero convinta avesse cambiato idea. Di nuovo
segregata, contrordine! Mi avrebbe colpita al cuore e sarei
rimasta stesa sulla terra arida del mio salotto a farmi divorare
dagli avvoltoi.
«Tra un mese compi sedici anni. Oggi pomeriggio ne
parliamo».
Si è girato e se ne è andato. Wow che discorso profondo!
Guarda che gli adulti son forti eh?! Sono convinta che tenterà
di farmi una specie di sorpresa, oppure vorrà farmi un discorso
sulla maturità. Tanto verrà fuori uno schifo come sempre.
La domenica non è il migliore dei giorni per ritrovare la
libertà. Gli amici di solito non ci sono, la mattina dormono
fino a tardi, il pomeriggio escono, ma senza energie. Non so
come sia, le cose che si fanno la domenica pomeriggio di solito
non funzionano mai. Penso sia lo spettro del lunedì che
incombe e si mangia tutto. Si esce già tristi e non c'è verso di
mandar via il malessere. A mio padre invece la domenica piace
molto. Forse quando si diventa grandi succede qualcosa che fa
cambiare tutto.
Erano le sei di mattina e bisognava far sera, così ho deciso
che per iniziare fosse meglio uscire. Si sarebbe visto che fare di
mano in mano. Quanto è bella la porta di ingresso di casa
quando è aperta. Eh sì, non ci si pensa mai, ma le porte sono
fatte per essere aperte, che meraviglia. Piccola sosta sull'uscio
per verificare che mio padre se ne fosse realmente andato, e
occhiatina a Inda, che non si facesse schiacciare nella porta.
Normalmente un gatto non si farebbe schiacciare tra lo stipite e
la porta ma Inda è un'eccezione. Non so perché i gatti a volte
facciano delle cose veramente stupide. Forse contano sulle loro
sette vite. Inda credo ne abbia consumate già una dozzina. Ama
particolarmente cadere dalla cima di credenze e scaffali, fare a
zig zag dalla ringhiera del terrazzo a un'altezza di più o meno
cinque metri, addormentarsi sulla mensola del camino e in altri
posti veramente improbabili. Ci capita spesso di sentire versi di
puro terrore felino. Durano qualche decimo di secondo e sono
sempre seguiti da un tonfo sordo, inconfondibile. È il classico
rumore del gatto che precipita al suolo.
L'evento denominato “trauma definitivo” accadde un
giorno, quando decise di buttarsi deliberatamente in un bidone
pieno di gasolio, in giardino. Oltre a puzzare per una
8
settimana, perse tutto il pelo per un anno, sembrava un alieno.
Perché lo fece? Secondo me perché ama le emozioni forti. Mio
padre invece pensa che sia semplicemente rincoglionita. E il
nome che le abbiamo dato significa proprio questo.
Letteralmente “Inda” sta per “Indarlì”, che è una parola in
dialetto romagnolo che significa persona estremamente stupida
o, nel nostro caso, gatto che non ha il minimo senso del
pericolo e dotato di una totale mancanza di coordinazione.
Dopo quei tragici eventi non è stata più la stessa. Adesso
continua ad attuare i suoi folli comportamenti ma ha smesso di
miagolare come gli altri gatti, quando la accarezzi emette uno
strano ringhio, abbastanza inquietante.
A volte miagola da sola o si arrabbia con dei gatti
immaginari che vede solo lei. Ma questo comportamento è
dovuto ad un mio errore di infanzia e non al “trauma
definitivo”. Quando avevo sette anni mio padre e mia madre
mi lasciarono per qualche minuto a casa, mi ricordo che stavo
poco bene ed avevo appena preso una medicina per la febbre,
forse un'aspirina, non so. Non volendo far ammalare Inda della
mia stessa malattia, pensai che una cura preventiva l'avrebbe di
certo aiutata a evitare il contagio. Così le diedi una dose della
mia medicina. Quando i miei genitori tornarono, la trovarono
che correva come una pazza su e giù per il soggiorno. Andò
avanti così per un quarto d'ora buono. Poi si fermò ed iniziò a
litigare con un gatto fantasma. Ogni tanto si girava di scatto ed
iniziava a soffiare contro il vuoto o a saltare, all'improvviso,
senza nessuna ragione. Ripensandoci adesso, direi che l'avevo
mandata completamente in trip. Dopo qualche giorno le passò,
ma ancora oggi, ogni tanto, si fissa con sguardo catatonico
verso il nulla ed emette strani miagolii senza senso, nella totale
solitudine. Ah, la mia Inda! Stava dormendo come al solito sui
cinque centimetri di mensola del camino, e così sono uscita.
Non mi ricordavo neanche più come si facesse. Avanti
Aurora, non indugiare, piede destro e piede sinistro e via così.
Ho varcato la soglia. Ho provato sensazioni bellissime per
almeno una decina di secondi, prima di accorgermi di essermi
chiusa fuori con le chiavi ed il cellulare dentro. Era già la
seconda volta che mi capitava in un mese. A volte anche mio
padre mi chiama Inda per prendermi in giro. Niente panico,
ho pensato. Siamo all'inizio di maggio, secondo le previsioni ci
9
sarebbero stati circa 22 gradi e la felpa ce l'avevo. Bastava solo
aspettare che mio padre tornasse, il che sarebbe accaduto non
prima di 4 ore. Così mi sono incamminata.
Abito in mezzo alla campagna romagnola, a circa 8 km dal
mare. Più che campagna ormai si può chiamare periferia. Il
mio paese, infatti, è passato da poche centinaia di persone a
quasi 1500 negli ultimi anni, e la città è sempre più vicina.
Comunque, usciti dalla strada principale, le vie esterne al paese
sono ancora quelle di una volta. L'asfalto è poco curato e in
certe strade sperdute si può trovare ancora la ghiaia.
In maggio i colori non sono belli come in marzo o aprile, ma
hanno comunque il loro fascino. Se fa un po' di sole, il verde e
il giallo dei campi sono sempre un bel vedere, soprattutto la
sera, circa un'ora prima che il sole tramonti. Tutto diventa
dorato, per un paio di minuti. Bisogna stare molto attenti a
non mancarli. I “due minuti d'oro” sono la cosa più bella che
c'è. Se uno non li ha mai visti non si deve preoccupare, basta
essere lì al momento giusto. Si riconoscono subito, anche la
prima volta, perché tutto il mondo diventa bello e sembra fatto
per te.
Ho preso una via traversa. Ho deciso di fare un bel giro
lungo, secondo i miei calcoli ci sarebbero volute un paio d'ore.
Avevo pensato che intorno alle sette sarei potuta andare a
svegliare qualcuno. Avrei potuto farmi aprire dai genitori di
Sara, andare nella sua stanza, e svegliarla urlando: «Sorpresa!!!
Buon non compleanno!!!». Mi ero immaginata la scena.
Sarebbe stata così meravigliosa da valer la pena di mettere a
rischio un'amicizia. Magari nel mondo poteva essere la prima
volta che succedeva, sarei entrata nei Guinness.
Faceva freddo, la temperatura era più bassa del previsto.
Ecco cosa significa nel telegiornale quando dicono
“temperatura circa ventidue gradi”. Significa “al massimo ci
saranno ventidue gradi ma non ci sperare proprio”. Fortuna
che avevo preso la felpa.
Alle sei di mattina in giro c'è molta più vita di quella che
immaginassi. Gente che sistema il giardino, altri sistemano
casa, qualcuno che lavora nel campo. È anche pieno di matti
che vanno in giro a correre. Sono tutti sudati e ansimano.
Prima o poi a qualcuno viene un infarto. Ma perché vanno a
correre? Che senso ha? Poi ci sono decine di ciclisti. Se ci fosse
10
stata Sara avremmo parlato dei bei tempi passati. Alle medie
Sara era matta come un cavallo. Si sporgeva dal finestrino della
macchina per dare i pizzicotti nel sedere ai ciclisti e gridargli
frasi tipo: «Ehi, bel figone! Pedala che ti viene il culo sodo!». Il
bello è che lo faceva continuamente. Quando penso alle facce
di quei poveretti e agli accidenti che ci mandavano mi viene
sempre da ridere. Adesso Sara è ancora forte, ma è diventata
normale. Siamo ragazze serie. Più o meno.
La passeggiata era molto piacevole. Mani in tasca
camminavo lungo la stradina asfaltata, accostandomi di lato ad
ogni passaggio di auto, pochissime per la verità, per paura che
con lo specchietto mi portassero via il braccio. In tasca avevo
alcuni oggetti dimenticati dalla notte dei tempi. C'era un
pacchetto di fazzoletti, rigorosamente vuoto, il burro-cacao che
non avevo più usato perché Gabriele se l'era infilato nel naso,
una utilissima graffetta di metallo e una medaglietta con sopra
incisa una stella che, fino a dieci giorni fa, era attaccata ad un
braccialetto che portavo. L'avevo tolto perché... a dir la verità
non so bene perché l'avessi tolto. A scuola era successa una cosa
un po' strana a proposito di quella medaglietta. Lì per lì non
avevo dato molto peso, ma siccome sono molto suscettibile e
influenzabile, avevo finito per dare ascolto ad Alessia. Di certo,
su queste cose, deve saperne più di me, basta guardarla per
esserne certi.
Alessia, detta Alessia Piercing, è una ragazza di diciotto anni
compiuti, bocciata due volte. È in classe con noi da quest'anno,
ma nessuno ha spinto il rapporto oltre al formale saluto.
Perché? Perché incute paura. Non tanto paura fisica, il fatto è
che è veramente strana. È sempre vestita di nero: calze nere
strappate, anfibi neri, maglia nera piena di simboli che non
conosco. Croci rovesciate, strane stelle, zombie. I capelli lisci
sono lunghi fin sotto le spalle, tinti tutti di nero scuro tranne la
frangia che è viola. Porta una catenina d'acciaio al collo con in
fondo una pesante croce in metallo nero. Ha sparsi per il
corpo, per quel che si può vedere, diversi tatuaggi non ben
identificabili o per lo meno io non ne conosco il significato. In
faccia si contano un'esagerazione di piercing; secondo me,
escludendo quello che ha sulla lingua, ce ne sono almeno
cinque. Più quelli che sicuramente avrà da altre parti, ma che
non si vedono.
11
Quello che non fa l'aspetto lo fa il carattere. Non parla mai
con nessuno, se non per offendere o litigare. Oppure racconta
cose strane e spesso non capiamo neanche noi di cosa parli.
Una mattina ha sclerato completamente perché non trovava
non so cosa e ha preso a pugni Silvia, che gli stava di fianco.
Diceva che gliela aveva rubata. Ha iniziato ad urlare e
l'insegnante è dovuto intervenire staccandola a forza. La scena è
stata mitica. L'insegnante la trascinava via mentre lei si teneva
attaccata ai capelli di Silvia, che veniva trascinata di
conseguenza. Alessia non è certo un peso massimo, sarà alta un
metro e settanta, ed è molto magra. Silvia anche, è bassa e
peserà quarantacinque chili in tutto. Erano le urla, più che le
mani addosso, a fare scena. Dopo quell'episodio non l'abbiamo
più vista per un mese intero. Poi è tornata a scuola, ma non è
cambiato nulla. Sicuramente si droga e non si limita alle canne,
va giù pesante anche di pasticche. Sicuro! È troppo sballata. Ci
sono alcune mattine che non dà segno di vita, si stende sul
banco e dorme.
Una volta l'insegnante di storia le ha fatto una domanda, e
lei non ha risposto, cioè, non è che non sapesse la risposta, non
ha proprio aperto la bocca. Si è limitata a fissarlo senza dire
nulla. L'insegnante le ha chiesto se fosse tutto a posto e lei non
si è mossa di una virgola; è rimasta così per dieci secondi, dieci
secondi di silenzio totale. Poi si è alzata ed è uscita dalla classe
come se nulla fosse.
Che bel tipino! Chissà che razza di cannoni si fuma la
mattina prima di venire a scuola. Intorno a lei c'è sempre una
cappa di odore di fumo, è indiscutibile. Alessia non ha molti
amici, nessun amico per dirla tutta. Tra i miei compagni non
c'è nessuno che le parli.
In classe c'è quell'odiosa consuetudine di cambiare posto a
rotazione, in modo che “...possiate conoscere tutti i vostri
compagni e non facciate i gruppetti...”; come se l'amicizia non
funzionasse per preferenza. In una rotazione sono finita per
qualche tempo in banco con Alessia, proprio prima di essere
sospesa. Non abbiamo scambiato neanche una parola per
almeno due settimane, o meglio, io qualche parola l'ho detta,
tipo: “ciao”, “come va?”, “che compiti c'erano?”. Dopo un po'
mi sono resa conto che era più che altro un monologo, lei si
limitava a darmi qualche occhiata riuscendo comunque a farmi
12
sentire del tutto inesistente.
Una mattina, però, è successa una cosa inaspettata. Nel
mezzo di un'inutile ora di assemblea ha iniziato a guardarmi la
mano e ha detto:
«Mi sembri una brava ragazza, fossi in te non metterei quella
medaglietta. A meno che non ti piaccia il diavolo».
Detto da lei suonava molto inquietante. Devo essere rimasta
bloccata per diversi secondi perché, tornando a farsi i cavoli
suoi, visto che non ho avuto la prontezza di rispondere, ha
aggiunto sottovoce:
«Stupida idiota!».
Forse ho mugugnato qualcosa, ma non sono stata in grado
di replicare. Ricordo di aver guardato i suoi tatuaggi, i simboli
che portava addosso e una cosa era sicura: ne sapeva più di me.
«Non sai proprio cosa significhi quel simbolo vero? E smetti
di fissarmi! Ti sei imbambolata?».
Sentendomi a mio agio come un'antilope invitata alla festa
di compleanno del leone, ho distolto immediatamente lo
sguardo e mi sono messa ad osservare la medaglietta:
«È solo una stella».
Non mi ha più risposto. Forse mi considerava troppo
stupida, non so. Mamma mia che angoscia di ragazza! È
veramente inquietante! Chissà che razza di vita faceva. Mi aveva
fatto paura, ma al contempo mi aveva messo anche una gran
curiosità. Curiosità e paura. Sembrano parole incompatibili ma
da quando sono al mondo, nella mia vita, hanno sempre
camminato insieme, due amiche per la pelle. La medaglietta
l'avevo trovata per caso, mi piaceva; una stella, io mi chiamo
Aurora, il sole è una stella... sì forse non ha molto senso,
comunque mi piaceva molto.
Il pensiero di Alessia mi ha messo addosso una buona dose
di inquietudine. Probabilmente ho accelerato il passo senza
neanche accorgermene. Dopo aver osservato per un po' la
medaglietta, persa tra i ricordi per nulla sbiaditi, l'ho rimessa in
tasca; ero ormai arrivata nel piccolo centro del paese.
13