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Parte I
Il piccolo Ka-sai
Commala come-lo-sai,
anche se cadi ti rialzerai.
Ma dietro di te rimarrà segnato
per sempre il buco che tu stesso hai scavato.
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Prologo – Eldred Jonas
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Con ogni pioggia Gilead si trasformava in un torrente.
L’acqua veniva giù accompagnata dal vento e dai tuoni, dalle nuvole
color ferro e carbone alle grondaie di rame verdastro del Palazzo dei Nonni,
dalle tegole crepate dei sobborghi ai tetti di paglia e merda di vacca delle
baracche dei coloni, dalle cisterne ai canali di scolo, dai fossati, alle cloache,
all’acciottolato sconnesso delle strade che aveva rotto più di un piede
affrettato nella corsa al riparo.
E dopo la pioggia la città si fermava, frastornata ed istupidita come
un’anatra bagnata; le donne della città bassa così come le matrone dei
quartieri alti (e qualcuno sosteneva lo facessero anche le mogli dei pistoleri)
spazzavano gli usci e strizzavano le tende, presenze strane nel labirinto
umido di vicoli, cornicioni gocciolanti e fossati colmi mentre arrivava
puntuale, d’estate come d’inverno, la foschia. Qualcuno bestemmiava Gan
per un paio di tegole cadute, per un carro che aveva sbandato fracassandosi
una ruota o per una fila di piante di pomodori massacrate dalla grandine,
qualcun altro lo ringraziava per non aver fatto scappare i suoi cavalli dalla
stalla, per aver tenuto lontano il fuoco guizzante dai propri tetti o
semplicemente perché quella volta era finita più presto della precedente.
Tutti avevano qualcosa da dire alla pioggia e tutti indifferentemente
uscivano fuori dalle loro case, che facesse caldo oppure freddo, e così
sembrava davvero che la pioggia li avesse chiamati a raccolta.
Nel bordello della città bassa il temporale aveva svegliato la prostituta
dopo una notte di fatica; nel dormiveglia lo sentì crescere, gonfiarsi e poi
scemare, trasformandosi in sbuffi freddi che si incuneavano tra le imposte
insieme alle prime luci del giorno portando odore di terra ed erba bagnata.
La giovane donna indugiò ancora un momento tra le coltri poi si mise a
sedere sul letto avvolgendosi le spalle nel lenzuolo, in una stanza che
conservava ancora l’odore del suo profumo dozzinale e gli afrori dell’orgia a
cui aveva preso parte nelle ore precedenti. Avvertendo il movimento la mano
di uno dei tre dormienti, tutti poco più che ragazzi, probabilmente soldati in
licenza, le scivolò sulla curva dell’anca ma lei la scostò con indifferenza
perché per quella notte il suo lavoro era finito.
Si ravviò i capelli biondi all’indietro raccogliendoli in una treccia
grossolana che fermò con uno spillone di legno e si asciugò con una
pezzuola la fessura della vagina dagli umori che vi erano rimasti; poi si piegò
per prendere da terra le mutandine e lo scricchiolio sommesso dei passi sul
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pavimento la fece bloccare con la schiena tesa in avanti. La donna intravide
per un attimo l’ombra di stivali ferrati scivolare sotto la soglia, poi la porta
venne scardinata da un calcio improvviso e fragoroso come un tuono; il
battente sfondato volò avanti in una pioggia di schegge rimbalzando una
volta soltanto contro il muro prima di rimanere desolatamente penzoloni dal
cardine.
Nel vano della porta, imponente come un colosso tra i vortici di polvere e
le sciabolate di luce, c’era Fardo Andrus, l’istitutore di tutti gli aspiranti
pistoleri della Baronia.
E quella mattina Fardo Andrus era davvero incazzato nero.
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I tre ragazzi si svegliarono di soprassalto; due di essi, i più pronti,
capirono subito che il maestro era venuto a prenderli per le orecchie:
schizzarono via dal letto e sciamarono come pulcini spaventati correndo
accanto all’istitutore e sparendo nel vano delle scale. L’omaccione li guardò
semplicemente sfilare aiutando la nuca del più lento a trovare la sua strada
con un manrovescio ben assestato: con loro avrebbe fatto i conti dopo.
Il terzo invece, ancora torpido per l’alcool che aveva bevuto, reagì con
ritardo: mentre i suoi compari se la filavano annaspò sfregandosi il volto
mentre al suo fianco la puttana era una statua di sale dagli occhi sgranati e
le mani giunte a coprirsi i seni con un lembo del lenzuolo.
“Tu!” sbottò alla fine, quando realizzò l’accaduto, ed i suoi occhi si
strinsero di collera snebbiandosi all’istante.
Fardo avanzò di un passo, ed il rumore dello stivale che calava sul
pavimento sembrò scuotere la ragazza dalla sua paralisi; senza più curarsi
di nascondere la sua nudità corse via anche lei ed il rumore dei suoi passi
svanì presto sulle assi dell’impiantito.
“Tu, dannato! Perché mi perseguiti? Perché…”.
“Silenzio” disse l’uomo, la voce calma vibrante di collera. Ed il giovane
uomo tacque.
“Stai cadendo così in basso che dovrei essere io a chiederlo: perché?”.
“Non è forse mio diritto prendermi un po’ di riposo dopo il lavoro?”.
“Lavoro!” sbottò il maestro. “Questa parola è fuori posto sulle tue labbra,
giovane idiota! Sono anni che batti la fiacca, sono anni che non segui il tuo
addestramento, sono anni che non combini un cazzo…perché
dannazione?”.
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La voce dell’uomo esplose, finalmente, in un grido di collera venata di
disperazione; così si rivolgerebbe un padre ad un figlio che si sta rovinando
con le sue mani, ma invece che contrizione sul volto del ragazzo, ancora
nudo e stravaccato sul letto, apparve un arrogante sorriso di sfida.
“Forse perché sei un istruttore del cazzo che vuole farci usare falchi e
bastoni invece di insegnarci a sparare? Forse perché insisti con tutte queste
storie sul Bianco, sull’onore, su Eld e tutta la sua degna discendenza di
cavalieri ciucciacazzi?”. Il ragazzo sputò a terra in segno di disprezzo.
“Forse perché tua sorella ci riempie la testa di storia e di geografia, di
poesie, di miti e di leggende sugli Antichi invece di darci la conoscenza dei
guerrieri?”.
L’uomo si mosse con una rapidità che non si sarebbe detta possibile in
qualcuno di quella stazza, e mentre ancora il giovane parlava gli chiuse la
bocca con un sonoro schiaffo a mano aperta.
“Stupido coglione” ringhiò afferrandolo per le spalle e scuotendolo.
“Odimi ora ed odimi bene, perché questa è l’ultima possibilità che voglio
sprecare con te. Non so se ti sia entrato un demone nel cuore, o
semplicemente ti sia marcita l’acqua che hai nella zucca, ma se non rimetti il
culo in carreggiata mi farò un dovere di ributtarti nella polvere da cui ti ho
raccolto. Se non cambi” concluse, lasciandolo andare con disgusto, “Tu non
sarai più il mio figlio putativo”.
Fardo Andrus voltò le spalle al giovane ed imbucò il vano della porta
scardinata tra le occhiate impaurite delle ragazze e degli altri clienti del
bordello.
Sul letto il ragazzo lo ascoltò allontanarsi mentre un rivolo di sangue
scuro colava dal naso sulla guancia fino al mento; poi iniziò a sussultare di
risa, prima sommesse, poi via via più vigorose fino a quando il suo capo non
si rovesciò all’indietro e dalla sua bocca uscì un violento scroscio di
sghignazzate isteriche. E mentre rideva una vampa di calore, doloroso e
piacevole insieme, gli attraversava tutto il corpo montando rapida da quella
strana ferita che si era procurato sul tallone anni prima, nel bosco, e che non
si era mai del tutto rimarginata.
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Sulla via dell’Ovest
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“Sei venuto qui per un serio intento, ragazzo?”
Il silenzio carico di attesa nel cortile dietro la Sala degli Avi venne rotto
dalla voce a malapena incerta di Eldred Jonas, diciottenne apprendista
pistolero messo quel giorno dinnanzi alla scelta tra il divenire Uomo ed il
rimanere per sempre Ragazzo dimenticando il volto di suo padre.
“Lo sono”
Fardo sospirò; sbollita la rabbia, dinnanzi a quell’assurda sceneggiata
rituale si sentiva la morte dentro: dopo la sfuriata di quella mattina al
bordello pensava di aver finalmente toccato il cuore e la mente del ragazzo,
ma ora capiva che non era stato così. Diede un colpo di polso: la picca
ferrata ruotò nella mano callosa con le movenze di un serpente che stia
studiando una vittima ignara. Gli occhi del maestro erano duri, ma la sua
espressione contrita sembrava invitarlo a ripensarci, a riconoscere di non
essere ancora pronto: a non sprecare l’occasione di una vita. Jonas,
anch’egli calmatosi dopo l’ultimo, aspro confronto con l’istitutore si sentì
all’improvviso la lingua appiccicata al palato e la gola secca come carta
vetrata.
Per un attimo si pentì della sua decisione.
Assiepati all’imboccatura del corridoio tra le siepi, alle sue spalle, era una
piccola folla di ragazzetti. Succede sempre così: al ragazzo-non-ancorauomo, quasi in ritardo per tagliare quel traguardo, quasi un ka-sai agli occhi
di molti, venne da pensare ad avvoltoi in attesa di calare sulla carcassa di
una vittima.
“Sei venuto qui dopo esser stato escluso dalla casa di tuo padre?”
Jonas deglutì, sforzandosi di non mettere il suo cuore – la sua ansia, la
sua paura in questo caso – vicino alla sua mano.
“Così sono venuto!” rispose; la voce ebbe appena un tremito, poi si
distese vibrante della stessa arroganza di quel mattino.
“Sei venuto con l’arma di tua scelta?”
Arrotolata al fianco del ragazzo riposava una frusta dall’aspetto insolito:
lunghi barbigli di fil di ferro, chiodi ritorti, denti di animale, spine di erba
diavola erano stati fissati al nerbo, e l’impugnatura era rivestita di cuoio
ruvido per garantire maggiore presa; Jonas la sciolse con un unico
movimento del polso.
Sorrise.
Non poteva permettersi di avere paura perché lui era lì per vincere, e con
i suoi pugni e la sua frusta avrebbe ricacciato nel gozzo di quel grasso
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bastardo la sua preoccupazione paterna ed i suoi rimproveri, insieme con gli
insulti e le botte di cui era sempre stato così prodigo.
Adesso sarebbe stato lui a condurre il ballo.
“Così sono venuto”.
Fardo inclinò il capo di lato come un grosso cane, le ossa del collo
taurino sottolinearono la manovra con un leggero scrocchiare. Poteva
essere sorpresa, quella che per un momento gli era balenata negli occhi?
Poteva essere disorientamento? Non si concesse il lusso di contarci troppo.
“Sei dunque pronto, ragazzo?”.
“Lo sono”.
“Nel nome di chi?”.
“Nel tuo nome, padre!”.
Fardo caricò un attimo dopo. Jonas poté quasi sentire il sussulto ritmico
del terreno sotto i suoi piedi ed il sibilo dell’aria risucchiata, come in un
mantice di forgia, nei polmoni del maestro. Cercando di non pensare alla
locomotiva che stava per piombargli addosso il ragazzo diede un moto di
polso alla frusta sollevando di scatto il nerbo. Fu rapido a sufficienza: lo
schiocco sonoro e quasi musicale dell’oscillazione fu seguito da una
imprecazione sanguinosa ed un grido bestiale, e sul volto rincagnito di Fardo
affiorò un rivolo rossastro tra il naso e l’occhio destro proteso dall’arcata
delle sopracciglia fino al mento. Il ragazzo scartò di lato, girandosi proprio
mentre l’omone rallentava poco più indietro la sua corsa.
Sarebbe rimasta la cicatrice, lo sapevano entrambi.
La frusta saettò nuovamente attorcigliandosi intorno ad un’estremità della
picca ferrata: col successivo strappo l’arma volò in un baluginio sporco oltre
il muro della siepe portandosi dietro parte dell’inquietudine del ragazzo.
Un coro di gridolini ed acclamazioni si levò a circondare i contendenti.
La frusta di Jonas guizzò una terza volta mentre Fardo si girava,
abbattendosi sul suo orecchio in uno scoppio sanguinolento. Il maestro urlò
ancora, cercò di afferrare la frusta, ma questa schizzò via per riapparire un
attimo dopo a staffilarlo alla gola; Fardo barcollò all’indietro, cadde e Jonas
si fece avanti deciso a non dargli tregua, per finirlo a calci e pugni.
Stava davvero vincendo e fu allora che commise un errore.
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Fino ad un attimo prima immobile a terra, l’istruttore si scagliò addosso al
ragazzo troppo confidente riducendo le distanze in un attimo. La frusta ormai
inutile cadde a terra quando la mano di Fardo colpì di taglio quella di Jonas;
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un secondo dopo un formidabile sinistro, da staccare la testa ad un bue,
sollevava di peso il ragazzo facendolo inarcare all’indietro in un volo
scomposto.
Jonas atterrò sulla schiena come un sacco di stracci, Fardo gli fu subito
sopra, torreggiante, gambe larghe e braccia incrociate al petto, nella postura
di un antico colosso in attesa. Sofferenza esplose e si allargò nella mente
annebbiata del ragazzo, ma quasi subito la sensazione passò in secondo
piano mentre un nuovo imperativo, dettato dal terrore dell’onta, prese forma
rapido: non poteva, non doveva finire così, per l’Uomo Gesù non doveva
finire così!
Artigliò il terreno raspando con frenesia, ed un attimo dopo il più sporco
dei trucchi venne messo in atto.
Questa volta fu Fardo ad arretrare, più sorpreso ed indignato che
realmente accecato dal pugno di terra e sassi; Jonas si rialzò con uno scatto
di reni e gli saltò addosso a corpo morto, colando sangue e saliva dalla
mascella scardinata. Qualcuno dal pubblicò fischiò, altri sputarono in segno
di disprezzo.
Il ragazzo non comprese che, con quel gesto, aveva già perso più di
quanto potesse immaginare; la sua testa incontrò la massa compatta
dell’addome di Fardo e l’uomo franò all’indietro a sua volta, col viso contratto
in un’espressione di odio e furore.
Ruzzolarono avvinghiati nel fango.
“Hai dimenticato davvero il volto di tuo padre!” tuonò mentre Jonas lo
colpiva ancora a mani giunte a lato del collo nell’inutile tentativo di
tramortirlo; aveva forza, ma quello non sembrò essere d’accordo. Un attimo
dopo in ragazzo volò indietro colpito da una ginocchiata al mento, un colpo
che facilmente può uccidere un uomo; una grandine di calci, pesanti come
colpi di mazza, lo investì insieme a pietre, palle di terra ed altri sputi da oltre
la siepe, dove c’era un pubblico di cui aveva definitivamente perso il favore.
L’ultima pedata lo rivoltò sulla schiena come un pesce appena sbuzzato
sul banco del pescivendolo. Le mani di Fardo, forti come tenaglie, gli si
serrarono dolorosamente intorno alla collottola ed all’inguine: l’istruttore lo
sollevò come un fuscello scaraventandolo con un ruggito addosso alla torma
di ragazzetti che facevano da pubblico, i quali non attesero a disperdersi
pigolando come pulcini impauriti.
“Tu andrai ad Ovest” scandì tremante di rabbia al corpo riverso,
pulendosi col dorso della mano il sangue che gli colava dalla bocca. “Tu
andrai ad Ovest ed il tuo unico compagno di viaggio sarà il disonore. Hai
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dimenticato il volto di tuo padre, e mai potrai tornare alla sua casa o sederti
alla sua mensa. Così dice la legge di Eld”.
Fardo sentenziò come un giudice che infligge la pena del patibolo, ma,
almeno per un po’, la perdita di coscienza avrebbe protetto Eldred Jonas
dalla piena realizzazione di quel che era successo.
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Il ragazzo si risvegliò qualche tempo dopo.
Si sentiva di merda, ma la consapevolezza degli ultimi accadimenti gli
arrivò con velocità impressionante interrompendo l’inventario delle costole
incrinate e dei denti scalzati: mentre si risistemava la mascella con un forte
strattone, Jonas realizzò freddamente di essersi comportato come un vero
idiota.
Tutto intorno il silenzio e la solitudine. Nessuno ad aiutarlo a tirarsi in
piedi, non che si sarebbe abbassato a chiedere aiuto in ogni caso, nessuno
a ridargli la sua arma, nessuno a sostenerlo mentre si avviava verso le vie
dei sobborghi semideserti in quell’ora del pomeriggio. Tutta una vita
cancellata in un attimo, ed ora era meno che merda sotto la suola di uno
stivale per i buoni cittadini di Gilead. Suo padre (il suo vero padre) avrebbe
perso la faccia, sua madre sarebbe morta di dolore, i suoi fratelli minori
sarebbero stati per sempre additati come il frutto dello stesso schizzo che
aveva generato uno sconfitto: la loro vita sarebbe stata distrutta, al pari della
sua, senza che ne avessero vera colpa. Il ragazzo si sentì montare dentro la
marea nera della disperazione.
Avrebbe avuto fino all’indomani per togliersi dalla circolazione: dopo,
chiunque avrebbe potuto ammazzarlo come un cane rabbioso. Tanto valeva
dunque incamminarsi subito perché lì, in ogni caso, aveva finito.
Jonas non si voltò mai indietro a guardare il cortile della prova, ma
nell’allontanarsi scolpì quel momento in lettere di bronzo nella sua mente e
nel suo cuore: avrebbe visto Gilead bruciare, non importava quanto ci
sarebbe voluto o il prezzo che ciò avrebbe comportato, ed i nemici della
Baronia sarebbero stati gli unici che mai più avrebbe chiamato compagni.
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La Via dell’Ovest digradava giù dalla rocca fortificata sinuosa come un
serpente, perdendosi nel’oscurità della sera. Jonas non aveva che i racconti
dei viaggiatori con molte ruote negli stivali, per almeno immaginare cosa
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poteva riservargli l’avvenire…nessuno dei quali in alcun modo lo confortava.
Si incamminò a capo chino e le guardie alla porta occidentale non lo
degnarono che di un’occhiata sprezzante.
La strada piegava il suo corso appena un miglio oltre la base della
cittadella fortificata, in declivio, bordeggiando le propaggini del Piccolo
Bosco, e fu lì che Jonas vide la figura incappucciata di grigio sul ciglio della
strada. Il cuore del ragazzo perse un battito quando questa si staccò dalla
pietra miliare su cui era seduta e si avvicinò con passo calmo,
riconoscendola quasi prima che questa svelasse il volto da sotto il
cappuccio.
“Douglas!”
Sorrise, ma non vi era traccia di sorriso sul volto del ragazzo con il
mantello; gravi ed inquietanti feticci erano i due revolver da novizio che
questi portava ai fianchi, in fondine di cuoio morbido color della terra. La
nichelatura del metallo mandava tenui bagliori freddi.
“Jonas” rispose semplicemente. Il ragazzo lo guardò speranzoso
desiderando di ricevere almeno una parola buona, per alleviare un po’ la
stretta della disperazione.
Non fu così.
“Sei caduto così in basso, Jonas, hai dimenticato il volto di tuo padre e
portato il disonore sulla sua casa. Perché?”
La voce era atona. Gli occhi dell’amico, l’unico vero amico che Jonas
avesse mai avuto, due pietre dure: non avrebbe trovato pietà o
comprensione in lui. Non più.
“Douglas…Doug…ti prego” lo implorò, “Noi eravamo ka-tet…”.
“Non c’è più ka-tet!” tagliò corto l’altro; e quella sferzata di rabbia fu
l’unica emozione che mise nel parlare prima che il tono si rifacesse piatto e
freddo.
“Non c’è più da quando hai rinnegato il tuo onore gettando terra in faccia
al tuo maestro, al tuo padre adottivo Jonas, a colui che ti accolse nella sua
casa e ti fece sedere alla sua mensa. Come hai potuto?”
La voce di Douglas vibrò un momento come la corda di una chitarra, la
smorfia sul volto dell’esiliato si fece più profonda e sofferente.
“Io sarei stato con te in ogni caso” proseguì, “Se tu avessi vinto, ma
anche se tu avessi perso; mi era sufficiente che tu perdessi con onore,
Jonas, ed io sarei stato pronto a seguirti nel tuo esilio lasciandomi alle spalle
tutto. I nostri destini ed i nostri ka sarebbero stati un tutt’uno, come è sempre
avvenuto. Ma non può esserci tutto questo con chi rinnega sé stesso”.
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Douglas si voltò ed in segno di disprezzo scosse la polvere dai suoi
stivali da pistolero.
Fu allora che qualcosa si ruppe nella mente di Jonas: la paralisi dell’onta
che fino a quel momento l’aveva attanagliato si dissolse per incanto in un
attimo, ed un brivido caldo e doloroso gli salì dal tallone sinistro fino al
cuore.
Non da te accetterò morale!
La frusta venne svolta lungo il fianco con uno scatto del polso,
schioccando rapida una volta sola per andare ad attorcigliarsi intorno al collo
dell’amico.
Jonas diede uno strappo secco e Douglas cadde annaspando all’indietro
con il bavero del mantello ed i capelli arrossati di sangue. Gli fu subito sopra
e lo colpì con un calcio alla gola.
Douglas ruzzolò su sé stesso, le pistole scivolarono via dalle fondine
mentre l’esiliato lo colpiva ancora in preda alla furia. E alfine, un sasso
sporgente dal manto erboso al termine del declivio mise fine alla vita
dell’apprendista pistolero quando questi gli piombò sopra con la tempia.
Jonas realizzò subito l’accaduto: vide l’amico sbarrare gli occhi e
rovesciarli fino al bianco, ed all’istante la rabbia scivolò via dal suo corpo
lasciando solo ulteriore disperazione.
“Mio Dio” mormorò incapace di fare altro: e stette per minuti finché le
ombre della sera non scesero più fitte. Nessuno passò lungo la via.
Quando infine si riscosse dal torpore qualcos’altro si era rotto in lui:
arrotolò la frusta, raccolse le pistole cadute durante la lotta, poi trascinò il
corpo di Douglas nella boscaglia e lo spogliò del manto, delle bisacce, degli
stivali e dei cinturoni ordinatamente adorni di bossoli nei loro passanti; senza
pensarci due volte, se li allacciò in vita bassi ed incrociati come un vero
pistolero. Quindi seguì le tracce dell’amico a ritroso inoltrandosi nella piccola
selva fino a raggiungere la sua cavalcatura: un baio di tre anni, un cavallo da
ricchi, perché la famiglia di Douglas era una delle più in vista nella Baronia di
Nuova Canaan.
Jonas accarezzò l’animale che sbuffò vapore caldo dalle froge,
mormorandogli parole tranquillizzanti mentre scioglieva le sue briglie legate,
dicendogli che d’ora in poi si sarebbero presi cura l’uno dell’altro. Nelle
sacche della sella rinvenne altre munizioni, coperte, un sacchetto di monete
d’argento e parecchi involti di carne secca e pane all’olio: evidentemente
Douglas aveva in programma qualche missione, forse il suo primo incarico
come apprendista…non che avesse più una qualche importanza,
comunque: adesso tutto era suo, ma doveva andarsene in fretta.
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Non era uno scherzo quello che aveva fatto.
Il ragazzo guidò il cavallo al passo lungo un sentiero di terra battuta,
procedendo al riparo della boscaglia per almeno mezzora. Poi lo lanciò al
galoppo lungo la Via dell’Ovest ben deciso a mettere il maggior numero di
miglia tra sé e la posse di cacciatori che certamente, di lì al mattino dopo, gli
sarebbe stata sguinzagliata alle calcagna.
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La pista dell’esilio
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Eldred Jonas cavalcò tutta la notte tenendo il baio di buon passo senza
concedersi che le soste necessarie a fargli riprendere un po’ di fiato; qualche
ora dopo giungeva sulle rive del piccolo emissario che dal lago Soroni,
parecchie centinaia di ruote più a Nord, porta l’acqua ai campi fertili ed ai
frutteti della Baronia. Sotto la Luna Baciante al primo quarto, la sua dolce
curva a stagliarsi in celo come il profilo di una donna gravida, l’esiliato
spinse la cavalcatura fin quasi al centro del torrente e proseguì nel letto dello
stesso: avrebbe cercato di far perdere le sue tracce senza contare troppo
sul fatto di avere un giorno di vantaggio dalla sua. I mastini di Gilead erano
tenaci.
Il giovane si tenne nel ruscello a lungo e vide alternarsi sulle rive campi,
frutteti e terreni sassosi, forse dimora di demoni nel sottosuolo, mentre la
luce pallida della notte lasciava il posto ad un’alba rosata e fresca. Scelse di
abbandonare il letto del fiumiciattolo in un punto dove l’argine era pietroso,
quando il sole era di già salito sopra l’orizzonte, indirizzandosi lungo una
pista in terra battuta che si inoltrava tra i poderi fiancheggiando il corso
d’acqua. Mentre proseguiva ed il giorno si faceva caldo incontrò persone a
piedi, carri e carrettieri, e le espressioni di vaga curiosità che apparivano sul
volto della gente quando li affiancava e superava si trasformavano veloci in
timore malcelato nello scorgere le due pistole che portava ai fianchi; il
ragazzo considerò a malincuore che sarebbero stati tutti testimoni scomodi
perché il passaggio di un pistolero, tanto più nelle campagne, non passa mai
sotto silenzio.
All’ennesima persona che incrociò, un contadino alto ed emaciato dalla
carnagione color terracotta ed i capelli di un nero ingrigito, chiese se vi
fossero villaggi nei dintorni: con lo sguardo che incessantemente correva dal
terreno alle sue fondine l’uomo lo informò che Pennilton era “a non più di
cinquanta ruote dalla parte dove sorge il sole”, aggiungendo che, comunque,
altri villaggi più piccoli erano disseminati lungo tutta la pista fino al limitare
delle grandi foreste nel Sud della Baronia: Jonas lo compensò con una
moneta d’argento e quello benedì il suo nome e quello di suo padre, la
diffidenza scomparsa come neve al sole.
Proseguì il suo viaggio fino a mezzogiorno, abbandonando ore dopo la
pista dei campi e le terre fertili che essa attraversava per inoltrarsi verso le
zone meno popolate della Baronia. Si accampò nel primo pomeriggio presso
alcune piccole alture disseminate di massi, disposte a cerchio intorno ad una
spaccatura nel terreno dove l’erba si faceva rada e da cui si alzava il rumore
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di acque sotterranee. Il cavallo venne legato ad uno sperone di roccia,
all’ombra presso una piccola sorgente, ed il ragazzo andò a fargli
compagnia poco dopo distendendosi a terra col capo appoggiato alla sella.
Uccelli volavano in un cielo azzurro pieno di luce: forse erano falchi,
rifletté. Aveva praticato la falconeria, a tutti gli aspiranti pistoleri veniva
insegnata, senza sapere come classificarla, se tra le curiosità o le idiozie.
Chissà che fine avrebbe fatto il suo rapace? Il pensiero che Fardo gli tirasse
il collo per fargli pagare il fio delle sue colpe gli fece increspare le labbra in
un sorriso, che si tramutò attimi dopo in una sonora risata. Malgrado tutto
quello che era successo, malgrado avesse ucciso il suo più caro amico,
aveva il cuore leggero: era la benedizione della gioventù e dell’incoscienza,
la capacità di lasciarsi dietro i problemi, per quanto gravi apparissero. Era
come se tutto fosse capitato a qualcun altro.
Più tardi si nutrì con alcuni pezzi di carne secca e bevve dall’otre mentre
il cavallo piluccava qualche stelo di erba tra le rocce vicino alla polla;
avrebbe aspettato lì fino al mattino dopo e, se non fosse arrivato nessun
cane da caccia, si sarebbe rimesso in moto.
Non dovette attendere così tanto.
Il cavallo iniziò a dare segni d’inquietudine qualche ora dopo, verso sera,
scalpitando con gli zoccoli e smuovendo il pietrisco a richiamare l’attenzione
del padrone. Jonas, che si era assopito nell’afa, fu in piedi quasi subito e
prima ancora di realizzarlo si ritrovò in mano le pistole già perfettamente
armate.
Il giovane si acquattò vicino al cavallo, lo carezzò sul muso, gli sussurrò
per tranquillizzarlo e quello sbuffò in risposta: poteva essere che l’animale
avesse sentito la presenza di qualche pericolo, pure se in regioni come
quella mutanti e banditi erano certamente rari.
Poteva però trattarsi di predatori a due gambe, nient’affatto mutanti ma
altrettanto pericolosi.
Allontanatosi rapidamente dalla sorgente si arrampicò sul fianco di una
delle piccole alture e si accovacciò appena sotto la linea del crinale:
un’occhiata in basso gli bastò per rendersi perfettamente conto di quello che
stava per succedere, ed un pensiero di gratitudine fu subito rivolto al cavallo.
Ad un centinaio di piedi da lui, i cavalli condotti alla briglia e le teste chine
verso terra, c’erano tre uomini che subito riconobbe come membri della
milizia di Gilead dalle loro inconfondibili casacche azzurro intenso. Il ragazzo
li vide allargarsi a ventaglio, allontanarsi di pochi passi gli uni dagli altri per
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perlustrare meglio il terreno, per poi radunarsi oramai prossimi al passaggio
per la sorgente.
In quel momento il suo cavallo mandò un brusco nitrito.
Il ragazzo si abbassò rapido nello stesso momento in cui quelli alzavano
di scatto le teste: se ancora avevano dubbi sulla presenza di qualcuno, ora
le loro menti si dovevano essere del tutto snebbiate.
Armi in pugno corse giù dalla china, andando ad acquattarsi dietro un
masso al limitare dello spiazzo. Attimi dopo, lo scricchiolare della ghiaia
sotto suole di stivali lo avvertì dell’arrivo dei suoi ospiti.
Il giovane uomo che fece capolino nella piana della sorgente non gli era
del tutto sconosciuto, ma non perse tempo nel tentare di ricordarne il nome:
dal suo riparo lo vide abbassare il fucile che reggeva ed avvicinarsi a passo
più spedito verso il suo cavallo, dopo un’ultima occhiata intorno.
Un pistolero non sarebbe stato così imprudente, pensò con una punta di
autocompiacimento, ma quelli non erano pistoleri: poco più che guardiani di
capre a cui era stata data una casacca sgargiante e qualche vecchio fucile,
che probabilmente non avrebbe mai sparato al primo tentativo, erano
miliziani fiacchi ed indolenti che aveva visto spesso oziare nelle taverne e
nei bordelli dei bassifondi di Gilead. Del tutto trattabili, a patto che non si
fosse lasciato sorprendere.
Jonas raccolse da terra una pietra delle dimensioni di un pugno di
bambino, e presa un attimo la mira la scagliò con mano sicura: il soldato
cadde in avanti senza un gemito, il suo fucile con lui.
Partì un colpo. Non passarono che pochi attimi quando il rumore di passi
concitati precedette l’irrompere nello slargo, armi spianate, degli altri due.
“Will si è fatto beccare” commentò uno, un giovane che forse non aveva
nemmeno vent’anni.
“Ma il cavallo è ancora lì, quindi deve essere scappato a piedi” gli fece
eco l’altro, che avrebbe potuto benissimo essere suo padre.
Jonas sollevò il cane delle pistole col pollice e fece un passo di lato
uscendo dall’ombra del masso, le armi puntate a mezz’altezza e gli uomini
nel mirino.
“Giù le armi. Lentamente” intimò.
I due trasalirono senza girarsi. Il più giovane dei due iniziò a tremare
vistosamente; gettò a terra di scatto il fucile alzando le mani al cielo ed
abbassandosi sulle ginocchia come un papero spaventato. L’altro si
accontentò di abbassare l’arma lungo il fianco, puntandola a terra.
21
“Siete pessimi soldati” considerò, “I vostri padri non devono certo essere
orgogliosi di voi due idioti”. Il ragazzo si avvicinò di qualche passo.
“Uomo, mi sembra di averti detto di buttarlo a terra quel fucile. Non fare
che io venga lì a prendermelo”.
“Ci ucciderà, sergente, fai come dice!”.
La voce del soldato più giovane era resa acuta dall’isterismo; Jonas se
ne compiacque: la paura è la peggior nemica del soldato.
“Ascolta il tuo compare, sai” rincarò la dose, il tono volutamente calmo.
“E lascia cadere il ferro prima che mi venga voglia di ammazzarti lì dove sei”.
“Spareresti su un soldato? C’è la forca per questo!”.
La voce dell’uomo, a differenza del suo compare, era indignata ma non
tradiva perdita di controllo.
“Aye, c’è la forca anche per l’uccisione di un apprendista pistolero: e
prima ancora della forca c’è la tortura se non vado errato”.
“Ma se ci si arrende i giudici si fanno clementi!”.
“Dacci un taglio uomo, o io…”.
Jonas si concesse forse un momento di distrazione di troppo; il soldato
ancora armato si girò di scatto, spianò il fucile e sparò.
Si era di certo orientato grazie al suono della sua voce, l’aveva fatto
parlare per diminuire la sua attenzione.
E, davanti a Dio, ce l’aveva quasi fatta.
Jonas reagì con qualche attimo di ritardo: scartò di lato mentre una
staffilata di dolore bruciante gli esplodeva all’altezza della coscia destra.
Davanti a lui il soldato fece scattare l’otturatore espellendo il bossolo vuoto
per preparare un nuovo colpo, ma non era nei suoi piani concedergli un’altra
occasione: spianò le armi e sparò con entrambe, ed il miliziano venne
sbalzato indietro contro la parete di roccia in uno scoppio sanguinolento di
carne lacerata.
Era la prima volta che uccideva un uomo.
Jonas guardò trasognato il corpo riverso nel sangue e nella polvere;
deglutì soffocando un conato di vomito e chiuse per un attimo gli occhi.
Era la prima volta che uccideva un uomo e non sentiva rimorso per quello
che aveva fatto: malgrado la nausea provava una sensazione di paura
frammista ad esaltazione, alimentata dal battere del cuore nelle tempie, che
faceva passare in secondo piano persino il dolore della ferita. Se ne sentiva
quasi rapito.
L’ho ammazzato come un cane, sono stato io. Proprio io. Ne sono stato
capace, oh si.
22
Jonas trasse un respiro profondo cercando di calmarsi, poi un gemito
strozzato lo riscosse facendogli riaprire di scatto gli occhi.
Poco più in là il miliziano muoveva come un automa il capo da lui al suo
compagno morto, l’espressione sconvolta di un animale terrorizzato. Jonas
barcollò nella sua direzione, quello si bloccò e lo guardò con occhi sgranati
curvandosi come a voler scomparire sotto terra; ancora inebriato da ciò che
era successo non si fece impietosire e lo colpì alla testa col calcio della
pistola: anche se non avrebbe avuto nulla da temere da un coniglio del
genere, era sempre meglio andare sul sicuro.
Legò entrambi i sopravvissuti facendo a pezzi un lasso, senza darsi pena
di seppellire il morto, e prese loro le armi e le munizioni che avevano nelle
cartucciere: bossoli riutilizzati riempiti a mano, dello stesso calibro di quelli
delle rivoltelle, e carabine a leva costruite dagli armaioli delle Baronie
centrali semplificando schemi di armi del Vecchio Popolo; non valevano tutte
insieme uno solo dei revolver da novizio che portava…non prima che le
avesse ripulite, almeno. E poi avrebbe potuto, se non altro, venderle.
Uguale sorte toccò ai cavalli dei soldati: li legò in cordata dietro al suo
dopo aver preso tutti i viveri e gli oggetti utili dalle loro selle; li avrebbe tenuti
come bestie di scorta, ma pianificava di rivenderne uno o due non appena si
fosse imbattuto in qualche villaggio.
Per ultimo, lacerò un lembo dalla coperta ed esaminò la sua ferita. Aveva
avuto fortuna nel beccarlo, quel figlio di puttana, proprio in un posto dove le
ferite diventano molto facilmente pericolose: a metà coscia gli si apriva un
tunnel rossastro scavato nella carne viva e nel cuoio dei pantaloni; malgrado
ora pulsasse sordamente e non desse che fastidio, era sicuro si sarebbe
presto svegliato con l’umore di un bambino urlante. Lo lavò stringendo i
denti alla sferzata di nuovo bruciore che gli salì nell’inguine e nel ventre, poi
vi versò sopra erbe essiccate e lo bendò strettamente; e c’era ancora da
ringraziare che la pallottola fosse uscita!
Si lasciò alle spalle la sorgente e le alture dopo nemmeno mezzora,
rinnovata la provvista d’acqua, diretto nuovamente a Sud-Ovest.
2
Cavalcò per tutto il giorno seguente, e l’indomani, e l’indomani ancora, e
la ferita lo torturò sotto il sole come uno spiedo rovente conficcato nella
carne, iniziando ad avvertire vera spossatezza solo sul fare della terza sera:
come temeva, gli si stava infettando. Ma ad ogni pistolero viene insegnato a
23
riconoscere le erbe medicamentose da quelle che sono inutili, o di danno, e
non dubitava che avrebbe trovato di che curarsi…a patto di muoversi in
fretta, prima che le forze iniziassero a mancargli davvero.
Si era accampato in una radura ai margini di una piccola macchia, non
potevano ancora essere le propaggini delle foreste meridionali, aveva fatto
troppa poca strada da Gilead, ed aveva appena acceso il fuoco per
prepararsi qualcosa di caldo quando i cavalli si inquietarono. L’esiliato fu
rapido nell’impugnare ed armare le pistole, rimanendo in ascolto: gli arrivò
un rumore di rami spezzati, via via in avvicinamento, ed un canto intonato
con voce roca; poco dopo un uomo anziano, che si tirava dietro un mulo
carico di fascine di legna, fece la sua apparizione dalla parte opposta della
radura. Lo vide avvicinarsi al fuoco con tutta calma e, quando fu a pochi
passi, si sentì salutare.
“Vita alle tue messi”
“E alle tue” rispose, abbassando le pistole e disarmando il cane con un
sommesso *CLICK*. Il vecchio sorrise.
“Che i tuoi giorni possano essere numerosi su questa Terra” proseguì.
“E due volte tanto lo siano i tuoi”.
“Posso sedermi al tuo fuoco, giovane uomo?”.
“Puoi, anche se la notte è calda ed il mio è un fuoco da caffè e da
chiarore, più che da calore”.
“Oh, ma le mie ossa tengono fin troppo bene la memoria dell’ultimo
inverno, giovane!”. Jonas annuì e si alzò in piedi con fare incerto, cercando
nelle tasche della sella la caffettiera ed il caffè, mentre il vecchio si
accostava al fuoco sedendosi come al rallentatore, nel pugno nodoso la
cavezza del somaro. I suoi occhi scivolarono sulla bendatura alla coscia del
pistolero, mentre questi la caricava, prima con l’acqua e poi con la polvere
corroborante di quei semi già conosciuti al tempo dei Grandi Antichi, per
metterla infine sulle fiamme più basse.
“Quella ferita andrebbe curata…”.
“Lo so che andrebbe curata, e col tempo lo farò”.
“Io posso medicarti” aggiunse.
Jonas si voltò, corrugando la fronte. “Perché lo faresti?”
“Perché va fatto” tagliò corto quello.
“Posso fidarmi?”.
Il vecchio sorrise ancora, la pelle del suo volto come terra arida, scura e
spaccata dal sole degli anni, ed il gesto fece morire pianure e nascere
crepacci.
24
“Puoi fare questa scelta, giovane uomo, oppure non farla. Per parte mia
sono in buona fede”.
Jonas sospirò, distendendo la gamba e svolgendo la bendatura: i lembi
erano gonfi e rossi, di un colore febbrile, ed ai margini della ferita iniziava già
ad essudare il pus.
“Fai del tuo meglio, sai” concesse, ed il vecchio si rialzò accostandosi
all’asino; dalla sella rovinata sulla sua groppa tirò fuori un sacchettino di
cuoio che aprì davanti agli occhi del ragazzo: un odore penetrante si sparse
nell’aria intorno, e l’esiliato vi riconobbe i sentori di diverse erbe benefiche
che conosceva misti ad altri profumi che gli erano invece ignoti.
Seppe che poteva fidarsi.
Sempre in silenzio il vecchio uomo lavò la lacerazione con l’acqua di una
piccola borraccia, asciugò e sparse le erbe essiccate sulla ferita, quindi si
strappò un lembo della sua stessa, già lacera camicia e bendò con
dolcezza.
“Ho curato i dolori del mese di mia nipote, questo è più o meno la stessa
cosa. Anche qui c’è del sangue che non vuole stare dove invece dovrebbe”.
Il vecchio chiocciò una risata, Jonas sorrise a sua volta.
“Di dove vieni, uomo?”
“Am’lis; è a poche decine di ruote da qui, nella direzione da dove il sole si
alza, poco distante dalla Via dell’Ovest.
“Ho già sentito questo nome”
“Sei già stato da queste parti?”.
Jonas sorrise, fissando le braci nel fuoco che rilucevano come occhi di
gatto. La caffettiera gorgogliò e mandò sbuffi di vapore al gusto di caffè.
“No. Ma il mio istitutore, mi ha fatto conoscere la geografia della Baronia”
“Vieni da Gilead, giovane uomo?”
Il ragazzo non rispose subito: versò prima il caffè in due scodelle di
terracotta sbreccata che aveva trovato nella sella del cavallo di Douglas.
“Come mai tu pensi che io venga da Gilead, vecchio?”
“Tutti i signori, i ricchi, i nobili ed i pistoleri vengono da lì. Ed è fuori di
dubbio che, con tutti i cavalli che possiedi, tu sia ricco”
L’uomo indugiò un attimo, quindi prese la sua scodella.
“Sei un pistolero, non è vero?”
Jonas sospirò. “Le apparenze parlano per me” rispose, e l’altro parve
pago della risposta perché si accontentò di accennare un assenso.
I due uomini bevvero in silenzio, poi Jonas si distese a pancia in su, sotto
la coperta, la testa appoggiata sulla sella.
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“Se vuoi, domani, puoi venire con me al villaggio” disse ancora il vecchio
accoccolandosi a sua volta accanto al fuoco, e lui annuì soltanto: una vaga
sensazione di caldo formicolio stava iniziando a promanare dalla ferita ora
ben medicata, diffondendosi nella parte inferiore del corpo e da qui al torso
ed al capo. Il ragazzo sbadigliò: si ripromise che avrebbe dormito con un
occhio solo, perché fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio…tuttavia, pochi
minuti dopo, la lotta divenne impari ed i propositi di vigilanza vennero
bruscamente interrotti dal velo nero del sonno che calò come un sudario
sulla sua mente.
3
Il mattino giunse rapido: Jonas si riscosse dal torpore di uno strano
sogno dove non aveva fatto altro che uccidere il suo amico di una vita, più e
più volte, e la situazione non tardò a ritornargli. Con una stretta impaurita
alla bocca dello stomaco realizzò di aver dormito come un masso, e si tastò
con ansia le fondine solo per scoprire che i ferri da tiro erano ancora al loro
posto. Lo stesso valeva per i cavalli, impastoiati là dove li aveva lasciati la
sera prima; il vecchio, dal canto suo, stava sgranocchiando un pezzo di
pane con del formaggio accanto ai resti ormai freddi del fuoco di bivacco. E
lo guardava con un mezzo sorriso.
Stupito di ritrovare tutto dove l’hai lasciato? Aye, saremo anche villani,
ma viviamo e moriamo onesti!
Il ragazzo si stropicciò gli occhi e si stirò le membra. L’alba era appena
sorta.
“Buon giorno, giovane” lo salutò l’altro, ridendo in risposta al mugolio
poco convinto che ricevette. Jonas si issò in piedi: la ferita gli doleva ancora,
ma meno delle mattine passate: dopo aver bevuto dall’otre per scacciare
l’intontimento del sonno, sciolse il bendaggio dalla ferita per sostituirlo ed il
vecchio gli fu subito accanto.
“Va meglio vero?” chiese con un sorriso, l’esiliato annuì sorridendo di
rimando.
Cambiata la medicazione mangiò un po’ di carne secca e bevve caffè
freddo avanzato dalla sera prima, poi si rimise in sella senza perdere altro
tempo. Per qualche ora i due cavalcarono fianco a fianco, nel silenzio, e
Jonas si scoprì più volte a fissare la figura dell’uomo, di certo un contadino o
un pastore, che conduceva con calma il mulo, rimuginando su quanto era
accaduto.
Su quanto aveva imparato.
26
Per qualche ora i due cavalcarono fianco a fianco: si lasciarono la
macchia alle spalle procedendo verso Est, e raggiunto un sentiero in terra
battuta lo imboccarono. Il sole era alto nel cielo quando arrivarono in
prossimità della grande costruzione di metallo.
In realtà non doveva trattarsi proprio di una “costruzione”: assomigliava
piuttosto ad un qualche tipo di cosa, abbandonata in mezzo al nulla delle
pianure meridionali della Baronia; una reliquia dell’Antico Popolo, forse,
poteva esserlo benissimo dal tanto che era strana: assomigliava ad un
cilindro di quello che doveva essere ferro, lungo una ventina di piedi ed alto
sei o sette (ma, dato che era semisepolto, doveva di certo esserlo
maggiormente), butterato di ruggine in ampie colature su una superficie in
origine liscia e di colore candido, ed appariva come se fosse stato spezzato
via da qualcosa di più grande dato che alle due estremità era frastagliato e
sventrato con lacerazioni che dovevano essere vecchie quasi di un’era.
Al suo interno, Jonas volle assolutamente spingere il cavallo da un lato e
guardare dentro, c’erano numerose file di alloggiamenti, di sedili, e
numerose aperture circolari comparivano su entrambi i lati (fiancate?) in
corrispondenza di ogni fila di sedie, come buchi di un flauto; alcune erano
sfondate, altre chiuse da un qualche tipo di vetro che, quando Jonas gli
batté le nocche sopra, non gli ricordò nemmeno lontanamente il materiale di
cui erano fatti i bicchieri o le vetrate delle chiese.
“Lascialo stare” lo ammonì il vecchio, facendo uno scongiuro nel notare il
gesto, “Questa è roba che noi non possiamo capire, ed è meglio per tutti se
la lasciamo stare così com’è!”.
Jonas aveva scrollato le spalle. “Da quanto tempo è qui?” aveva
domandato, e l’altro si era stretto nelle spalle a sua volta.
“Mio padre mi portava da queste parti a piazzare le trappole, quando ero
ragazzo, e c’era già. Prima non so” concluse, il tono che tradiva disagio.
Stavano per allontanarsi quando Jonas notò le scritte sulla parete sinistra
del cilindro, e ne fu colpito; erano lettere della Lingua Eccelsa, ecco la cosa
del tutto fuori posto: sbiadite dal sole e dal vento dei secoli apparivano di
uno spento color bluastro, ma Jonas riuscì ugualmente a discernere,
all’inizio della prima parola, una “A” ed una “M”…dopo venivano quelle che
potevano benissimo essere una “E” ed una “R”, ma la presenza di un grande
squarcio slabbrato dai bordi anneriti rendeva difficile l’identificazione. Sotto
ce n’erano altre, ma soltanto una “L” ed una “I” si potevano distinguere con
chiarezza.
Il ragazzo si sentì scuotere da un brivido:; era una cosa troppo strana per
poter essere capita, il vecchio aveva ragione: si poteva solo lasciarla
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perdere. “Andiamocene” sentenziò, dando un colpetto di speroni al baio.
L’altro ne fu davvero lieto.
Arrivarono al villaggio mezzora dopo.
Am’lis, titolavano lettere stinte su un grande cartello di lamiera all’inizio
della Main Street: a Jonas non sfuggì che facevano parte di una parola più
lunga, si potevano ancora distinguere le ombre delle altre…tutte Grandi
Lettere, dipinte su qualcosa che tutto poteva essere stato meno che un
semplice segnale indicatore.
Il villaggio era poco più che un buco polveroso: due file di baracche ai lati
della pista, una scuderia ed un saloon, costruiti principalmente in legno e
fogli di ferro ondulati che avevano tutta l’aria di essere stati a loro volta
recuperati da qualche costruzione degli Antichi. Tutto intorno, come la
punteggiatura irregolare del discorso di un matto, campi di grano e frutteti
che apparivano miseri e stentati, segno di una campagna non certo fertile
come nella Baronia interna. Ma forse erano soltanto gli influssi delle Terre
Desolate, l’aria dell’Ovest, a rendere la terra megera.
Jonas seguì il vecchio sentendosi addosso gli occhi degli sfaccendati e
dei perdigiorno, nemmeno fosse stato un mutante con tre occhi; l’uomo lo
condusse fino ad una piccola baracca di legno con un camino di lamiera sul
tetto ed un piccolo recinto sul davanti. Dal camino usciva un filo di fumo e
l’esiliato colse brevemente, nello smontare di sella, lo scorcio di un povero
ma ampio orto dietro la costruzione; poi la porta si aprì ed una figura minuta
di ragazzina, un mestolo in mano, il grembiale in vita ed un foulard a tenere
raccolti i capelli color del legno, si affacciò all’uscio.
“Zio!” salutò, rivolgendo al vecchio un sorriso candido: l’uomo sorrise di
rimando, lei gli corse incontro.
“Cindy, piccola mia!”.
Lei sembrò spiccare un breve volo fiondandosi tra le sue braccia. Si
abbracciarono.
Poteva avere non più di quindici anni, considerò Jonas, mentre legava le
cavalcature ad un piccolo traliccio di legno presso un abbeveratoio. Quindici
anni e già una casa a cui badare, già i segni della fatica sul volto. I due si
accostarono, attesero che finisse e si girasse; poi la giovane donna gli
sorrise ed il vecchio, semplicemente, attese.
“Vita alle tue messi”
“Grazie-sai. Alle tue sia vita.” rispose lui, “Tuo padre e tuo zio devono
essere fieri di avere una figlia ed una nipote così rispettosa”. La vide
arrossire e nascondere lo sguardo.
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“Suo padre lo è di sicuro, lui è ovunque ormai” sospirò il vecchio, “Ed
anch’io lo sono. La mia casa è la tua casa, il mio cibo è il tuo cibo” concluse.
Jonas si sentì improvvisamente un groppo alla gola: così, di punto in
bianco, e gli occhi gli si inumidirono.
“Vi…vi farò onore, come mio padre mi ha insegnato” replicò, ma non gli
sfuggì l’occhiata interrogativa che i due si scambiarono vedendolo
commuoversi.
Il pasto venne consumato in silenzio: loro offrirono una zuppa di verdure
cotta al fuoco di una stufa sgangherata, che certamente avrebbe potuto
essere più sostanziosa, e lui contribuì con parte del pane all’olio e della
carne secca di cui aveva piene le sacche della sella. Alla fine terminarono
con un caffè che, a detta della ragazzina, era una delle cose più buone che
avesse mai assaggiato perché “non ne gira molta, di roba da ricchi come
questa, qui in giro!”.
E tutti risero.
4
Jonas si sentiva bene, gli ultimi avvenimenti sembravano lontani secoli
nello spazio e nel tempo: quel pomeriggio dormì dividendo un umile
pagliericcio con la nipote del vecchio, sotto la coperta di Douglas, e quando
lei lo cinse nel sonno lui non la scacciò. Si svegliarono abbracciati mentre
fuori pioveva, e guardarono dalla finestra l’arcobaleno nascere nel cielo
rosato del tramonto.
Rimase con loro per una decina di giorni, facendosi vedere il meno
possibile in paese, il tempo necessario a che la sua ferita si rimarginasse
senza pericolo di riaprirsi: prestò le sue braccia ripulendo il piccolo orto
dall’erba diavola e dai sassi, e smosse la terra con la zappa per far salire
alla superficie quella più fertile; aiutò l’uomo (a cui non chiese nemmeno il
nome, dato che lui non gliel’aveva chiesto a sua volta) a portare alla piccola
capanna un tronco d’albero ed a farlo a pezzi in modo che quell’inverno la
legna non gli mancasse; riparò il tetto, il tavolo ed una delle pareti della
baracca per renderla più solida.
E naturalmente rispose alle loro domande, o almeno a quelle a cui
poteva rispondere.
La ragazzina era la più curiosa, perché la curiosità è femmina ed è giovane:
ed erano le armi a destare la curiosità maggiore, com’era prevedibile.
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“Queste sono le armi del tuono?” le aveva chiesto una volta, vedendolo
smontare con gesti rapidi e sicuri uno dei fucili a leva preso ai miliziani, e
pulirne l’interno della canna con un panno ingrassato; lui aveva annuito
sorridendo.
“E dove le hai prese?”
“Me le hanno date degli uomini presso cui sono stato, a Gilead”.
Mentì quasi senza pensarci; lei l’aveva guardato e lui aveva potuto
sentire la curiosità bruciare dentro quegli occhi giovani, l’aveva percepito
come un qualcosa di fisico.
“Per noi, Gilead è come l’altra sponda del mare Occidentale” era
intervenuto il vecchio, seduto vicino alla stufa su una sgangherata seggiola a
dondolo ed intento a fumare la pipa. “Un posto che non potremo mai
raggiungere: un posto di ricchi, di nobili, di cibo che c’è sempre, di balli e di
vita dorata. Per Gilead, invece, noi siamo come la merda dei buoi sulla
strada”.
Jonas era rimasto in silenzio, non aveva replicato, ma il suo viso si era
fatto triste. La legge di Eld, il credo dell’onore…che significato potevano
avere per chi non era nemmeno sicuro, svegliandosi la mattina, di poter
trovare di che nutrirsi durante il giorno? E poi, anche senza essere stati
educati da un tutore, da un Fardo che dispensasse botte ed insulti per
facilitare l’apprendimento, costoro avevano l’aria di non aver mai dimenticato
il volto dei loro padri.
A differenza sua.
La ragazzina l’aveva strappato alle sue riflessioni.
“Come funzionano?” aveva chiesto, e lui aveva risposto, mettendo da
parte il fucile smontato ed estraendo il revolver destro dalla fondina.
“La pistola è una tana di tenebra ove dimora una belva di ferro che può
attaccare solo quando viene percossa: così recita un indovinello che è stato
famoso in passate giornate di fiera, ed ha negato un’oca a più di un solutore.
Chiamiamo ‘cane’ questo pezzo di metallo a forma di batacchio, chiamiamo
‘tamburo’ questo cilindro coi buchi, chiamiamo ‘canna’ questo tubo stretto e
lungo, ed infine chiamiamo ‘grilletto’ questa piccola leva che sta dove c’è il
mio indice”. Aveva impugnato l’arma, tenendola puntata verso il soffitto, ed
enumerato le componenti così come Fardo gli aveva insegnato:
sorprendentemente non si era dimenticato di nulla.
“La tana di tenebra è questo foro nel tamburo” aveva continuato, “La
belva di ferro è quello che chiamiamo ‘bossolo’”.
“Bossolo” aveva ripetuto; lui le aveva dato una cartuccia, le loro dita si
erano avvicinate ed aveva visto affiorare colore sulle guance di lei.
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“Quando carichiamo infiliamo il bossolo nel tamburo” aveva ripreso, “E
non dobbiamo guardare mentre lo facciamo perché il nostro sguardo deve
stare sul nemico. Chi guarda in basso mentre carica la pistola ha
dimenticato il volto di suo padre, era solito dire il mio maestro.
Quando abbiamo caricato, chiudiamo il tamburo…”, ed aveva fatto vedere,
richiudendo la pistola con uno scatto del polso, “Poi alziamo il cane col
pollice ed in questo modo il tamburo ruota. Quando la cartuccia è davanti al
cane, noi premiamo forte il grilletto, e le nostre mani si riempiono di fuoco e
di tuono”.
La ragazzina lo guardava affascinata con gli occhi allargati di una
cerbiatta. Il vecchio sorrideva, anch’egli interessato.
“Quando noi miriamo al nemico, non lo facciamo con la mano ma con
l’occhio” aveva concluso,
“Chi mira con la mano ha dimenticato il volto di suo padre. Quando
liberiamo la bestia di ferro non lo facciamo con la mano, ma con la mente:
chi spara con la mano ha dimenticato il volto di suo padre. E quando
uccidiamo lo facciamo col cuore” sospirò, “Perché chi uccide con la pistola
ha dimenticato il volto di suo padre. Così recita il nostro credo, e noi
dobbiamo ubbidire”.
Sentiva i loro occhi puntati, sentiva la loro curiosità bruciante, ma sentiva
anche qualcos’altro: era forse ammirazione, quella che percepiva in quel
vecchio uomo ed in quella piccola donna? Ammirazione per un omicida del
suo ka-tet?
L’indomani lei gli chiese di poter usare quelle armi di cui le aveva tanto
parlato: la riluttanza del giovane non durò che un attimo, era il minimo che
potesse fare per come era stato accolto. E poi aveva più munizioni di quante
avrebbe mai potuto consumarne, a meno di scendere in guerra, dato che i
bossoli dei fucili andavano bene anche per le camere della pistola. Così
aveva chiesto il permesso a suo zio, l’aveva fatta salire dietro di sé a cavallo
ed erano partiti di buon mattino verso la macchia portando con loro bottiglie
di vetro vuote e piccole cianfrusaglie.
Trovata una radura abbastanza grande, Jonas aveva allineato una fila di
bottiglie sul tronco caduto di un grosso albero e si era poi portato con la
ragazzina a trenta passi di distanza.
“Si mira con l’occhio, si spara con la mente, e si uccide col cuore” aveva
sentenziato, mettendole l’arma in mano ed aiutandola a reggerla: lei si era
aiutata con entrambe le mani, l’aveva allineata, ed aveva premuto con
lentezza quasi estatica il grilletto.
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Il rinculo le aveva fatto schizzare i polsi verso l’alto, con tanta violenza
che Jonas per un attimo pensò se li fosse rotti. La detonazione fu il rombo di
un tuono schiantato sulla terra, e quando il fumo acre della combustione si
fu dissipato entrambi poterono vedere che un grosso morso di legno era
stato strappato via dal tronco caduto appena sotto la fila dei bersagli. Lui
l’aveva rincuorata massaggiandole le mani e confidandole (naturalmente
non era vero) che anche a lui, la prima volta che aveva sparato, era
successa la stessa cosa. Poi aveva risistemato i bersagli caduti e l’aveva
esortata a provarci ancora guidandole le mani. Questa volta era andata
meglio, e la gioia della ragazzina nel veder schizzare in mille pezzi una
bottiglia fu qualcosa al limite della comprensione per l’esiliato.
“Adesso sono degna di te” le aveva detto, abbassando l’arma: lui provò
sorpresa, ma capì subito e sentì calore nel corpo mentre incontrava il suo
sguardo.
Fecero l’amore sull’erba della radura, fu dolce come il miele e violento
come un temporale estivo, ed il muschio si arrossò del sangue di lei: era ka
venuto come un colpo di fulmine, era vita, passione e redenzione, e stretti
l’uno nelle braccia dell’altra i due furono khef. Il giovane uomo e la giovane
donna giacquero, dormirono, tornarono soltanto a sera: ed il giorno dopo
nella baracca erano rimasti di nuovo in due.
Sul tavolo della piccola stanzetta erano stati lasciati degli involti di carne
secca, del pane, un fucile con molte cartucce ed un piccolo sacchettino di
monete d’oro e d’argento; fuori, legato accanto al mulo, c’era un cavallo
corsiero con tanto di sella. Il vecchio rimase a bocca aperta nel vedere tutto
quel ben degli Dei, e benedisse più e più volte il nome del giovane
sconosciuto e quello di suo padre; ma la ragazzina scoppiò a piangere, e
pianse amaramente ed a lungo.
5
Il ragazzo riprese la Via perché non poteva fare altrimenti. In un
cantuccio del suo cuore avrebbe serbato gelosamente i ricordi di quel
vecchio buono e di quella piccola donna che l’aveva amato (senza sapere
che, oh si, l’avrebbe rivista prima di quanto entrambi pensassero), ma non
poteva fermarsi e non perché non fosse nei suoi desideri: era ancora troppo
vicino al centro della Baronia, e l’eco del delitto che aveva commesso non si
sarebbe spento forse per anni a venire.
Rimanendo con loro li avrebbe solamente messi in pericolo.
32
Non c’era scelta, dunque, ma in seguito sarebbe potuto tornare. Quando
le acque si fossero calmate avrebbe potuto ripercorrere a ritroso la via che
ora lo stava portando lontano: e si ripromise quella mattina, guardando
indietro un’ultima volta la piccola capanna immersa nella nebbia del mattino,
che per l’Uomo Gesù l’avrebbe fatto…sarebbe tornato e, se il ka avesse
voluto, sarebbe tornato per restare.
Il ragazzo riprese la strada lasciandosi il paese alle spalle prima che il
sole fosse sorto del tutto, con sé l’ultimo dei tre cavalli presi ai miliziani. Per
tutto il giorno puntò a Ovest orientandosi col sole, incontrando sul suo
cammino campi, frutteti ed altri villaggi del tutto simili a quello che aveva
lasciato. Ritrovò la Via poco prima di mezzogiorno, un serpente di
acciottolato bruno che tagliava il suolo erboso come una cicatrice, ma decise
di non seguirla perché la notizia della sua fuga era stata certamente inviata
ai quattro angoli della Baronia, e il rischio di venire preso non era bilanciato
dalla prospettiva di uno spostamento veloce.
Meno di una settimana dopo si era inoltrato in profondità nelle grandi
foreste meridionali della Baronia, tenendosi alla larga dalle piste battute sulla
rete di sentieri tracciati da coloni ed animali, e dopo una giornata di caccia e
di marcia si era accampato in una piccola radura punteggiata di rocce.
Lungo il cammino, da un po’ di giorni a quella parte, era andato
imbattendosi nei resti di edifici diroccati: caseggiati bassi e lunghi dalle
ampie finestre di vetro pieni di strane ombre ed ancor più strane forme di
ferro, o strutture più tozze provviste di grandi…camini cilindrici di mattoni,
ora spaccati e smozzicati, la cui altezza doveva tuttavia ancora essere di
svariate decine, se non centinaia, di piedi; anche se in abbandono
mantenevano un senso di innaturale maestosità, come tutte le reliquie dei
Grandi Antichi: se ne era sempre tenuto ben lontano, dato che erano posti
che potevano portare sfortuna, pure se attiravano il suo interesse in modo
quasi morboso.
Anche adesso dal bivacco poteva scorgere la sagoma torreggiante di una
di quelle costruzioni svettare sulla foresta, una forma buia e densa, resa
spettrale dalla luce diafana della Luna Baciante all’ultimo quarto; doveva
essere a nemmeno un paio di ruote di distanza e più di una volta il giovane
si scoprì a fissarla con gli occhi invadenti di chi prova timore, rispetto e
curiosità nello stesso tempo.
Si era da poco avvolto nelle coperte accanto ai tizzoni del fuoco quando
aveva avvertito i primi rumori provenire dalla boscaglia; realizzato che non si
trattava di scherzi giocati da una mente troppo stanca si era girato su un
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fianco, aveva preso il cinturone e controllato che le armi fossero cariche, e
nel rialzare la testa aveva colto luci in movimento nella massa scura della
boscaglia a pochi metri dal bivacco. Era strisciato a terra come un serpente,
affacciandosi oltre un cespuglio di felci, e quello che aveva visto gli aveva
fatto morire il respiro in gola.
C’era una figura, un uomo gli sembrò, alto all’incirca sette piedi, magro,
che si aggirava tra i pilastri scuri dei tronchi col fare di chi stia seguendo con
attenzione un sentiero; i suoi occhi erano larghi e accesi come lanterne, due
fornaci di luce candida che proiettavano ampi coni luminosi a rischiarare il
terreno. Il ragazzo sentì la mascella allentarsi verso il basso in una
espressione di grottesca e comica incredulità mentre fissava l’essere che gli
sfilava praticamente davanti: quando lo vide sparire oltre un gruppo di
betulle, fu quasi automatica la sua decisione di seguirlo da presso.
Non era difficile tener dietro all’essere, che nemmeno si curava di
nascondere il suo movimento: e le luci dei suoi occhi erano un segnale così
vivido che non avrebbe potuto perderlo di vista nemmeno se avesse voluto.
Proseguì per una manciata di minuti, tenendosi sempre a rispettosa
distanza, quando si accorse che sotto i suoi stivali il terreno della foresta
stava cambiando di consistenza facendosi più duro e compatto.
Più artificiale.
Poi la macchia si diradò in una seconda e più ampia radura: il giovane si
accorse che al posto della terra nuda e soffice stava calpestando qualcosa
di solido, forse quella misteriosa sostanza che alcuni chiamano “asfalto” e
con cui, secondo i saggi, l’Antico Popolo usava lastricare le sue strade. Qua
e là nel grande spiazzo scorse ombre di forme strane, frammiste ai tronchi
d’albero caduti e ad altri monticelli di macerie, di cui non riusciva a
distinguere bene i particolari…ma forse era meglio così. L’essere si accostò,
con la sua andatura claudicante, ad una di queste fermandosi poi come in
cerca di qualcosa: i fasci di luce candida si mossero a destra ed a sinistra
facendo scintillare metallo corroso, quindi cambiarono colore passando dal
niveo al rosso sangue. L’essere si voltò nuovamente, iniziando il tragitto del
ritorno come qualcuno che non abbia trovato quello che stava cercando.
Jonas lo precedette incamminandosi a passo veloce nella boscaglia, le
gambe molli e formicolanti: non aveva intenzione di rimanere lì, quella notte,
ed una volta ritornato al bivacco raccolse rapidamente le sue cose e sciolse
il baio proprio mentre i rumori di calpestio ed i lucori stavano tornando.
Ma erano più nitidi e più affrettati questa volta.
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Le mani del ragazzo tremarono, la briglia gli scappò: attimi dopo due coni
di luce vermiglia investirono la piccola radura disegnando l’ombra dell’uomo
e dell’animale in un groviglio confuso.
Jonas si voltò proprio mentre il cavallo si impennava con un brusco
nitrito, e come per incanto la pistola destra era comparsa nella mano per cui
era stata costruita. La detonazione fu, se possibile, ancora più violenta nel
silenzio irreale del luogo e la vampa illuminò per un attimo un volto di
macchina proteso a guardare in atteggiamento di curiosità grottesca oltre la
cortina verde delle felci. Poi le luci si spensero di scatto in un rumore di
terracotta spaccata, qualcosa mandò uno sfrigolio sommesso ed una
ventata di odore di bruciato lo investì.
Era troppo.
Il ragazzo rinfoderò e balzò con un unico gesto in sella, spronando il
cavallo al galoppo lungo il sentiero della radura. Corse fino all’alba, non
fermandosi che quando la luce livida del nuovo giorno giunse a scacciare le
ombre e gli accadimenti, troppo strani per essere capiti, di quella notte
bizzarra.
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Louis Depape
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1
Non ebbe bisogno di fare il punto della situazione, né di consultare la
posizione del sole o delle stelle per capire che stava andando ad Ovest.
Poteva sentirlo sulla pelle e tanto gli bastava: come un senso di disagio
tangibile e disperazione latente, una specie di ka negativo che ti informa che
tutti i tuoi guai sono ancora lì dietro l’angolo in attesa di prenderti a calci nel
culo, oh si, perché non si scappa, perché alla fine si paga tutto. Dovendo per
forza paragonarlo ad una manifestazione fisica, Jonas lo associò al rintocco
lugubre di una campana a morto.
Anche le foreste stavano scemando, come se non andasse loro di
crescere sulla Via dell’Ovest: gli abeti si facevano più bassi e radi, mentre la
terra assumeva gradatamente un colorito giallastro e malsano ed il vento
portava inequivocabile l’odore delle paludi. Sapeva che avrebbe dovuto
attraversarle, sapeva che non sarebbe stata una passeggiata, non sapeva
quanto ci sarebbe voluto. Non era una via trafficata, quella che portava ad
Ovest, non una di quelle su cui puoi incontrare amichevoli viandanti con cui
tenere un breve conciliabolo sulle condizioni del tempo e sulle difficoltà del
viaggio: solo chi aveva una serie di buoni, anzi, di ottimi motivi ci si
incamminava.
E quello era precisamente il suo caso.
Erano passati pochi giorni da quell’assurda notte di uomini meccanici ed
occhi nucleari: la Luna Baciante aveva ceduto il passo all’Ambulante, salita
ormai oltre il suo primo quarto, e l’estate fuggiva rapida nel sacco dell’uomo
sull’astro e nel vento che quell’anno si era fatto prematuramente freddo. Due
mesi ancora e sarebbe venuto il Tempo delle Messi, con le sue feste, con
Charyou Tree ed i suoi roghi di fantocci sulle piazze della Città Alta di
Gilead. Ma lui questa volta non ci sarebbe stato.
Un calderone ribollente di fanghiglia, fumi, nebbia e marciume, così gli
apparivano dalla sommità delle Gallows Hills: piccole alture brulle ai confini
della Baronia che si era lasciato alle spalle dopo una giornata di viaggio e
che ora, generosamente, gli stavano offrendo con le loro ultime propaggini
un pulpito da cui ammirare il suo piccolo inferno privato. Esistevano poche
piste tracciate attraverso le paludi e tutte quante avevano posti di controllo
della milizia per scoraggiare il passaggio dei contrabbandieri; invece di
attraversarle avrebbe potuto costeggiarle verso Nord, per puntare ai valichi
dei Monti Calvi prima che la neve li bloccasse, o verso Sud-Est, con la
prospettiva di poter contare sui vicini borghi di Taunton e Debaria ed un
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cammino assai più agevole attraverso foreste ricche di selvaggina. Ma le
regioni più popolate erano ugualmente controllate da miliziani e sceriffi e
forse, tutto sommato, il modo più sicuro per sgusciare attraverso le maglie
della rete era proprio di passare dove nessun viaggiatore con un po’ di sale
in zucca avrebbe tentato la sorte.
Quella sera si accampò presso le rive degli acquitrini sgranocchiando
quel che restava di uno scarno coniglio abbattuto il giorno prima. Dormì un
sonno leggero e senza sogni, la pistola tenuta prudentemente in pugno, ed il
mattino dopo fu pronto per iniziare il passaggio.
2
Il disagio che l’attraversamento avrebbe comportato gli fu
immediatamente chiaro: gli zoccoli del baio affondavano nel fango nero
come pezzi di pane nella zuppa, sui tratti di terreno più o meno solido dove
si avventurava, e persino stando in sella poteva sentire la forza con cui la
melma li avvinghiava e risucchiava come a non volerli più mollare. Per tutto
il giorno Jonas spinse il cavallo e la bestia di scorta sui tratti cedevoli ed
infidi dei banchi di sabbia affioranti, la loro esistenza a mala pena
testimoniata dal comparire disordinato di chiazze erbose più o meno ampie:
a sera giudicò di non aver percorso nemmeno una ventina di ruote, ma la
stanchezza che si sentiva addosso, la spossatezza che gli veniva dal
respirare i fiati cattivi della terra, gli dava l’impressione di essersela fatta a
piedi fino a Mejis e ritorno.
Aveva piantato il campo su un largo isolotto roccioso nel bel mezzo di
uno stagno di limo, legando i cavalli ad un mozzicone d’albero contorto che
per qualche miracolo era sopravvissuto sopra il piccolo lembo di terra, e
stava biascicando un pezzo di carne secca alla luce di un fuoco di rami
bagnati quando il branco di lupi mutanti gli fu addosso. Furono proprio gli
animali ad accorgersene; dapprima raspando con gli zoccoli, poi agitandosi
tendendo le pastoie e mandando nitriti di spavento; quando il giovane si era
avvicinato per tranquillizzarli i mutanti erano usciti allo scoperto.
Jonas ne contò almeno sette ad un primo colpo d’occhio, dapprima
solamente rivelati dal bagliore malsano di occhi rossi nell’oscurità
catramosa, poi dal rivoltante puzzo di carogna che salì come una cortina ad
avvolgere il piccolo isolotto. Il giovane indietreggiò nel vederseli sbucare
davanti dal nulla, come demoni usciti da chissà quale inferno di religioni
dimenticate. Incubi insensati e sbavanti di pelame lurido, zampe e denti,
sottoprodotti di generazioni di abomini lo attorniarono guardinghi
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squadrandolo dal basso con occhi in sovrannumero mentre la luna veniva
velata da banchi di nubi nere.
L’immobilità venne spezzata quando un mutante più coraggioso o
famelico degli altri saltò addosso al giovane con fauci assurdamente dilatate
e tre occhi infuocati di rabbia ed ingordigia. Aveva fatto la sua mossa, ma
Jonas non si fece cogliere impreparato.
Le detonazioni simultanee delle due pistole (che cazzo di spreco, larva,
due proiettili per lo stesso bersaglio! Parola di Fardo, e noi rendiamo grazie)
illuminarono con le loro vampate alla polvere nera la carcassa del mutante
che gli passava di fianco atterrando alle sue spalle in un tonfo liquido; il
giovane, che si era appena chinato sulle ginocchia per evitarlo, fu subito
nuovamente in piedi. Qualcosa di liquido dall’odore rancido gli aveva
spruzzato i capelli, ma non perse tempo a ripulirsi. I suoi pollici avevano di
già riarmato i cani.
Fece fuoco una seconda volta prendendo come riferimento occhi
luccicanti, due dei mutanti più vicini stramazzarono al suolo senza nemmeno
un guaito, quindi il nitrito convulso dei cavalli lo fece scattare con una stretta
di paura al cuore. Il pistolero ruotò su sé stesso inclinando la pistola sinistra
di taglio e scaricandola addosso ad un mutante che era balzato in groppa al
baio e si stava preparando a dilaniarlo: lo ribaltò come un birillo e le acque
nere lo inghiottirono mentre ancora si dibatteva.
Quasi nello stesso istante la bestia di scorta spezzò le pastoie gettandosi
ad una pazza fuga lungo lo stretto sentierino di sabbia che collegava
l’isolotto alla terra più ferma. Gli altri mutanti esitarono, indietreggiarono
mentre il giovane li teneva sotto la mira dell’unica arma ancora carica, quindi
fuggirono ululando a loro volta sulle tracce dell’animale. Jonas ne abbatté tre
fra i più ritardatari per pura frustrazione al pensiero che gli altri stavano
andando a far festa con le carni della sua cavalcatura. Poi, ricaricate e
rinfoderate le armi, si avvicinò al cavallo superstite. Una maledetta fortuna
che non avesse rotto le corde anche quello; scrutando con occhio
preoccupato i profondi graffi sui fianchi dell’animale il giovane poté soltanto
sperare che le ferite non si infettassero, perché non poteva far altro che
lavarle e medicarle alla meglio.
Ritrovò la carcassa del cavallo di riserva il mattino dopo, a nemmeno
dieci minuti di distanza dal bivacco: nella sua corsa cieca la bestia si era
spezzata una zampa in una buca del terreno ed era stata sbranata,
probabilmente, così in fretta da non avere nemmeno il tempo di
accorgersene. Adesso tutto quel che rimaneva era un ammasso di ossa e
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brandelli di pelle in una pozza di fango, sangue e visceri attorniati dalle
mosche. Avrebbe dovuto fare più attenzione in futuro, rimuginò nel
lasciarsela alle spalle, perché la sua scorta di occasioni si stava
tragicamente assottigliando.
Più tardi sostò nuovamente, anche se non era ancora sera. Da qualche
ora si era messo a seguire quella che sembrava un’antica strada, o per
meglio dire una strada degli Antichi, in cui si era imbattuto per caso nel suo
peregrinare: una linea più o meno continua di lastroni crepati di asfalto nero,
a tratti ancora decorati con segni bianchi e gialli, che punteggiavano le
gobbe del terreno sparendo e riapparendo tra polle e canneti. Era sempre
meglio che vagabondare in mezzo al nulla, ed anzi quella via rendeva
indubbiamente più agevole il suo avanzare.
Ma si sentiva comunque di dover controllare la marcia.
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Jonas smontò di sella con la massima delicatezza possibile per l’animale
ferito e bevve dall’otre, preparandosi ad invocare gli Spiriti della Via come
gli aveva insegnato Nebi, la sorella di Fardo, l’istitutrice della gioventù di
Gilead.
Aprì le sacche della sella e ripescò una scodella che riempì d’acqua,
prese poi un ago appuntato nel cuoio e iniziò a strofinarlo contro la coperta
di lana: quando giudicò fosse abbastanza si avvicinò ad un canneto e
strappò una manciata di foglie da una pianta palustre, tra cui andò a
sceglierne una di dimensioni molto piccole e bordo regolare. Tornato presso
il cavallo si passò la foglia sul naso e sulla fronte mormorando uno
scongiuro quindi la adagiò, luccicante del suo grasso, sul pelo dell’acqua
nella scodella. Strofinò ancora l’ago contro la coperta per qualche minuto
recitando mentalmente una litania di buon augurio (Spiriti della Via, siate di
buon auspicio, e indicate a questo pellegrino la direzione del suo cammino)
ed infine lo lasciò cadere delicatamente sulla foglia galleggiante.
L’ago ruotò e Jonas sorrise. Il suo appello era stato ascoltato e gli spiriti
del viaggio gli avevano inviato la direzione del Nord. Soddisfatto il ragazzo
costruì mentalmente la sua rosa dei venti mentre svuotava la scodella e
rimetteva a posto l’ago, concludendo che la pista degli Antichi andava
proprio ad Ovest.
Aveva avuto buon naso.
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Verso sera Jonas si imbatté in altre rovine proprio a lato della strada che
stava seguendo. Su uno slargo di cemento ampio come la piazza di un
piccolo borgo, venato di crepe e semi-sprofondato nell’acquitrino, c’erano i
resti di quelle che a prima vista si sarebbero dette scuderie: blocchi
rettangolari di mura che secoli di intemperie, e forse anche qualche
terremoto, avevano contribuito a far afflosciare su sé stesse come sformati
venuti male. Ne contò due gruppi ai lati opposti del piazzale, tutte quante
circondate da resti di graticci metallici che correvano su tre lati dello spiazzo
tirati tra sostegni di metallo arrugginito. Certamente dovevano essere state
qualcosa di molto diverso che scuderie, nell’era in cui erano state costruite,
come pure quella non poteva essere una semplice stazione di cambio per
carri e cavalli più di quanto lui non fosse un Manni.
Quasi al centro del grande spiazzo fangoso c’era un palo alto e largo che
fuoriusciva dal suolo artificiale e sosteneva una specie di tettoia rettangolare
ad almeno sedici piedi dal suolo. Sotto trovava posto una fila di forme
rettangolari di metallo e plastica, quello strano materiale che era così
comune nel mondo di prima. Numeri e cifre bianche, scritte su piccoli
riquadri neri dentro pannelli colorati, si potevano ancora distinguere dietro
finestrini di vetro sporco e su ogni catafalco si ripeteva una formula in Lingua
Eccelsa che ritenne essere un qualche tipo di scaramanzia, pur non
riuscendo a dargli nessun significato. “EXXON, un carburante pulito per un
futuro migliore”.
Era un’idiozia, considerò: il futuro è oggi e non è migliore, è una vera
merda. Se gli Antichi affidavano la loro sorte a scongiuri così insensati e
divinità dai nomi così buffi, non c’era da stupirsi che il mondo fosse andato
avanti!
Jonas condusse il cavallo fin dentro le costruzioni crollate, addentrandosi
per quanto era possibile (ed augurandosi che ciò non avesse a portargli
sfortuna!) per nasconderlo alla vista di eventuali predatori: lo impastoiò e
medicò ancora le sue ferite con tutta la cura di cui era capace. Quindi
accese un fuoco con rami marci e canne dietro una larga falda di muro
rimasto ancora in piedi; la stanchezza lo vinse prima del solito, e con la sua
resistenza essa piegò anche i suoi propositi di stare per quanto possibile
all’erta.
Il sogno che fece fu invece, senza dubbio, strano ed inquietante.
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Avrebbero potuto a buon diritto essere le Terre Desolate, quelle dove si
trovava nel sogno: una distesa spoglia di terreno sassoso, tronchi d’albero
smozzicati e massi. Bruma in larghe falde ondeggiava sul terreno giallastro
ed una strana luce cremisi sembrava promanare dall’aria stessa,
dall’orizzonte, dal circostante. Non c’era più il suo cavallo con lui, non
c’erano cinturoni o pistole ai suoi fianchi, non c’era la stazione di servizio
abbandonata con le pompe di benzina della Exxon. Non c’era niente e nel
sogno Jonas camminò in mezzo al niente perché non sapeva che altro fare.
E poiché nei sogni il tempo non ha significato, il giovane non seppe dire
quando (o come) arrivò in vista del castello.
Simile alle fortificazioni di Gilead, della città-rocca come la ricordava,
dava tuttavia l’impressione di essere molto più massiccio ed immensamente
più grande della capitale stessa: quando la nebbia si levò, presentandoglielo
alla vista come un miraggio lontano ed allucinante, per attimi Jonas non
seppe pensare.
Poi una voce proveniente dalle sue spalle lo riportò, per così dire, alla
realtà. Era una voce tremula, come di qualcuno sul punto di piangere. La
voce di un uomo dai molti anni.
“Girati, giovane”.
Un gesto inutile quello di far scattare le mani ai fianchi: le sue dita
strinsero soltanto aria rosata e la voce chiocciò risate stridule. Si girò.
Davanti a lui stava la figura di un vecchio alto ed allampanato vestito
interamente di nero, con stivali da cowboy ai piedi ed un papillon malamente
legato al collo. Capelli lunghi fino alle spalle, candidi come la neve, gli
ricadevano ai lati del cranio fluendo da sotto un cappello a tesa stretta, e
mustacchi arcuati del medesimo colore sottolineavano un viso dai tratti
affilati, il naso aquilino e le labbra sottili come linee disegnate. Il colore della
sua pelle era quello del cuoio bollito e rughe ramificate come radici d’albero
gli segnavano i lineamenti.
“Chi sei?” domandò d’un fiato il giovane, il vecchio sorrise crudele.
“Non ha importanza, non è necessario tu lo sappia” riprese, la stessa
voce fremente. Dalla vita dell’apparizione, il ragazzo lo notò solo ora,
pendevano i cinturoni con le sue armi ed il vecchio, quasi distrattamente, vi
accavallò i pollici di mani grandi e nodose.
“Io so chi sei, questo è l’importante. So che sei stato scacciato, so che
sei stato disonorato, so che hai perso la faccia per la tua presunzione ed
incapacità. Ma ciò che viene fatto può venire disfatto, aye, così si dice nel
Medio-Mondo”.
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Jonas si accigliò, a quello non sfuggì l’espressione ed il suo tono si fece
vibrante.
“Ci sono forze potenti in movimento, che preparano già ora eventi che
verranno soltanto tra molti decenni; sappi che questo mondo verrà ricreato
nella forgia della guerra e che tu, giovane, avrai una parte importante in tutto
questo. Credimi se ti dico che io lo so bene”.
L’apparizione sorrise nuovamente, questa volta con bonaria affabilità, e
Jonas seppe che non aveva da aspettarsi alcun pericolo; un lieve calore,
come un brivido dopo un sorso di whisky corretto con l’alcool della lampada
a muro, gli salì gradevole nel corpo dal tallone sinistro.
“Cosa devo fare?” chiese, e come se non stesse aspettando altro
l’apparizione parlò con tono solenne.
“Tutto avrà inizio con la Prima Rossa e tutto finirà nel fuoco e nella
cenere, perché il ciclo del Medio-Mondo e dei suoi oppressori è alla fine.
È scritto che nascerà un uomo, un guerriero del disordine per il nuovo
ordine, e le sue azioni serviranno un solo ed unico Re: egli userà le armi
dell’Antico Popolo per purificare questo mondo, la loro potenza per vincere i
suoi nemici ed imporre un governo dei giusti per i giusti. Tu sei chiamato al
suo servizio e devi agire sin d’ora per preparargli la strada, e la tua
ricompensa sarà di poter combattere con lui quando i tempi verranno”.
L’apparizione sembrò farsi più imponente mentre la voce aumentava di
forza fino a diventare simile al rombo di un tuono.
“Tu cavalcherai attraverso le generazioni, Eldred Jonas di Gilead, poiché
la tua vita sarà lunga e la tua mano rimarrà salda contro i tuoi nemici!
Tu chiamerai compagno un soldato riluttante e codardo, che porterai via
e plasmerai con il potere della menzogna; sarai khef con una giovane donna
che prenderai ed abbandonerai, prima di capire che lei è importante per te
almeno quanto tu sei importante per lei; cavalcherai con una vendicatrice
che porta l’alba nei suoi occhi e la morte nel suo nome, e la dispensa con
armi non troppo dissimili dalle tue.
Con loro e con i loro figli tu sarai come un patriarca: farai tue le loro
anime, li porterai con te e li userai come si usano strumenti di valore. Sarai il
loro dinh, e loro saranno il tuo ka-tet”.
Jonas deglutì.
“Perché io?” chiese, l’apparizione sorrise ed in quell’attimo Jonas seppe
chi era in realtà quel vecchio, e la sua mente fu vicina a cedere.
Ma prima che potesse parlare l’altro distese le labbra e disse una parola
soltanto.
“Ka”.
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Jonas si svegliò con un grido, a cui fece eco lo stormire d’ali di un
uccellaccio che si era appollaiato sulla cornice del muro sopra la sua testa. Il
baio sbruffò inquieto.
Era quasi l’alba, la luminosità livida tradiva il sorgere del nuovo sole: il
freddo condensava il fiato in piccole nuvolette davanti alla bocca, ma il
ragazzo si sentiva lo stesso la fronte madida.
Aveva fatto un sogno indubbiamente strano di cui non ricordava che
pochi, confusi particolari. Ed il tallone gli pulsava di un dolore lieve e
piacevole.
5
La strana visione venne messa da parte quasi inconsciamente e Jonas si
rimise in cammino dopo un frettoloso caffè conducendo la bestia ferita alla
briglia per non affaticarla. La nebbia inghiottì rapidamente alle sue spalle la
piazza di cemento con le sue assurde costruzioni e ben presto il ragazzo si
trovò nuovamente a procedere nel nulla: l’unico suo compagno era il ritmico
e quasi solenne battere degli stivali ferrati sull’asfalto della pista,
occasionalmente sostituito da un più prosaico sciaguattare quando
quest’ultima sprofondava nel pantano. Di frequente, adesso, vedeva forme
strane (più strane di qualsiasi roccia o albero sagomate dal vento e dal
marciume) apparire ai lati della via o far capolino dalla mota degli stagni che
la costeggiavano. Mezzi di trasporto degli Antichi, vagamente simili a carri
squadrati di metallo montati su ruote di gomma invece che di legno
rinforzato, e non c’era luogo nell’Entro-Mondo o nel Medio-Mondo in cui non
apparissero reliquie di questo tipo. Prima che il mondo andasse avanti,
parole di Nebi, erano state cose comuni.
Poi una folata di vento fetido gli portò i primi echi del suono e le sue
orecchie fecero per un attimo come quelle dei gatti, contraendosi e quasi
appiattendosi al cranio, mentre un lungo brivido istigava i peli delle sue
braccia a rizzarsi come aculei di un istrice spaventato.
La prima sensazione che il ragazzo provò fu di terribile, assoluto, pieno e
totale smarrimento: sentì le labbra arricciarsi, strizzò e strabuzzò gli occhi
improvvisamente invasi da fitte di bruciore. Lo sentì salirgli nel cranio,
insinuarsi nel naso, riverberare nell’occipite e fargli ballonzolare gli occhi
nelle orbite. Il baio si impennò e diede strappi alle redini, a cui lui rispose
stizzoso con un più forte strattone che lo fece nitrire di dolore.
Quel suono non poteva venire da niente che conoscesse (la sua parola in
pegno), da niente che appartenesse a questa terra ed al suo ordine naturale
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delle cose, ne era sicuro. I denti nella bocca presero a sbatacchiare
dolorosamente come dotati di vita propria, costringendolo a serrare la
mascella con uno scatto. Poi il vento smise di soffiare ed il suono sparì
rapido come era arrivato. Non l’aveva avvertito che per qualche secondo,
ma l’eco ci impiegò un po’ ad abbandonare, con le sue armoniche distorte,
le ossa del suo cranio. Si accorse che era caduto in ginocchio soltanto
quando riuscì a percepire nuovamente la sensazione del limo gelido tra le
dita. Il cavallo lo smosse sbruffando, toccandogli delicatamente il collo con il
muso, evidentemente senza serbargli rancore. Il giovane lo guardò.
“L’hai sentito anche tu?” gli chiese, e l’altro sembrò annuire
semplicemente allargando di più gli occhioni. Jonas si rialzò.
Una seconda folata di vento, più debole questa volta, gli portò
nuovamente alle orecchie quel canto perverso e di nuovo il ragazzo fece
una smorfia quando gli occhi accennarono nuovamente a buttare acqua. Il
baio nitrì.
Si sentiva disorientato, ma la prima cosa che fece quando il rumore
passò fu di prendere due bei pezzi di cera da una candela e turarsi a dovere
le orecchie, bendando strettamente i lati del cranio con uno straccio. Al
cavallo avvolse intorno al muso la coperta del bivacco sperando potesse
attutirgli almeno un po’ l’udito. Ma ci contava poco. Meditò poi di tornare
indietro, ma fu solo per un attimo: stava procedendo speditamente, da
quando si era imbattuto nella via asfaltata, e tra la prospettiva di addentrarsi
senza guida tra i banchi di sabbia – con il pericolo di finire nelle sabbie
mobili o sotto i denti dei lupi mutanti – e quella di affrontare quell’inspiegabile
risonanza, scelse la seconda.
Avrebbe sempre potuto far marcia indietro più tardi.
Per tutto il giorno il vento gli portò a tratti gli echi del gorgheggio
metallico, reso a malapena più sopportabile dai tappi improvvisati che si era
ficcato nelle orecchie: sembrava si stesse avvicinando. Quella notte lo poté
distinguere anche se il vento era calato, alle soglie della percezione come
un movimento colto con la coda dell’occhio, inequivocabilmente presente. A
metà fra uno stridio ed un tintinnio, inequivocabilmente liquido e fluido, ma al
tempo stesso metallico e vibrante come un cuneo di ferro percosso dal
mazzuolo. E quell’onnipresente sensazione di “fuori posto” che andava
trasmettendo la vibrazione alle ossa del suo cranio, alla pelle, alla carne
degli arti.
Non dormì che qualche ora, ma il suo sonno fu agitato e pieno di incubi.
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Il mattino dopo, qualche ora di marcia più tardi, il suono si era fatto così
nitido e preciso da non dar più adito a dubbi: qualsiasi cosa fosse, gli stava
andando dritto incontro.
Un giorno più tardi se la ritrovò di fronte.
6
La pista degli Antichi lo stava conducendo a Sud-Est lontano dalla zona
delle maleterre, inerpicandosi in larghi tornanti su falde di terreno collinoso
asciutto e compatto, ruota dopo ruota più delineata ed integra quasi come
una strada Baronale. La nebbia e le esalazioni andavano riducendosi e, per
colmo di ventura, aveva trovato a nemmeno dieci minuti dal bivacco la prima
sorgente d’acqua bevibile da quando aveva lasciato le Gallows Hills.
Sembrava che tutto stesse andando per il meglio, suono fotti-cervello a
parte, naturalmente.
Poi, qualche ora dopo, era arrivato al tunnel, che traforava come un
ciclopico anello il fianco di una montagna che si frapponeva alla pista:
l’imboccatura circolare per metà ostruita da una frana, in origine doveva
essere stata alta non meno di quindici piedi e larga più del doppio, era un
pozzo di oscurità e cemento da cui spirava a folate vento gelido e tracimava,
amplificato al limite del sopportabile, il disorientante canto metallico a cui
uomo ed animale avevano quasi iniziato ad assuefarsi. Jonas si premette gli
stracci e la cera a fondo nelle orecchie, anche al costo di non riuscir più a
cavarla fuori, ed esitò dinnanzi all’apertura pervaso da un senso di crescente
inquietudine. Il nastro d’asfalto, pressoché integro e decorato al centro ed ai
lati da quelle curiose linee bianche e gialle, veniva inghiottito dal buio quasi
subito. Non avrebbe avuto modo di orizzontarsi lì dentro, sospettava, ma
scartò subito l’idea di accendere una torcia: solo la luce elettrica sarebbe
servita, in quell’antro ventoso, ma erano pochi i viaggiatori che portavano
con sé quegli antichi strumenti di illuminazione. E poi, in ogni caso, voleva
avere le mani libere.
Qualcosa smosse pietrisco dalla sommità della frana strappandolo a
quelle riflessioni. Le sue mani furono in un batter d’occhio alle fondine.
Il vento gli portò alle narici odore di carogna.
“Che l’Uomo-Gesù vi maledica” mormorò. Il cavallo diede uno strattone
alle briglie.
Qualcosa di inequivocabile ululò da sopra l’altura, ed il suono acuto e
prolungato cancellò per un momento il riverbero atonale che si spandeva
dalla bocca del tunnel. Il branco li aveva seguiti.
47
Jonas sospirò, ed armi in pugno si inoltrò nel buio.
7
Dentro al tunnel l’aria era secca e stantia, impregnata dall’odore di
ruggine ed olio combustibile. Nello spazio chiuso il tintinnio metallico si era
fatto ancora più intollerabile malgrado i tappi ficcati a fondo nelle orecchie:
dopo solo pochi passi gli venne voglia di urlare per tentare di cancellarlo con
un suono meno alieno e più sopportabile. Ma non sarebbe servito che a
consumargli il fiato.
Il tunnel piegava in un’ampia curva appena dopo l’imboccatura. Una
debole luminosità, che da fuori non era riuscito a discernere, filtrava da
aperture del soffitto protette da griglie (forse caditoie, forse passaggi, forse
prese d’aria) conferendo un’immobilità pallida ed estatica alle file di
numerose carcasse metalliche che ingombravano la grande galleria.
Rimase un momento a contemplarle, poi si inoltrò.
Veicoli degli Antichi, a file e file, sparsi intorno come formiche incenerite
da una lente gigantesca appena fuori dal formicaio. E molto meglio
conservati di quelli che aveva visto nella palude, al punto che si sarebbe
aspettato – gli Dei non volessero! – di vederne qualcuno rimettersi
improvvisamente in movimento; ed era certo merito della bassa temperatura
se anche gli occupanti erano ancora al loro posto, ligi al dovere da chissà
quanti secoli. Scheletri, molte decine, alcuni ancora vestiti dei loro abiti come
vestigia di una passata umanità. Silenti ed ossuti, polverosi ed immobili,
riversi sui sedili, contorti dentro l’abitacolo, abbracciati fra loro davano l’idea
di essere morti rapidamente e senza scampo…ma non senza sofferenza,
sospettava. Man mano che avanzava ne distinse anche altri, rannicchiati
come pupazzi contro le pareti della galleria o allungati sull’asfalto nella posa
di chi si sta trascinando negli ultimi spasmi di chissà quale misteriosa e
terrificante agonia. Mentre camminava tra loro Jonas si sentì pervadere da
un senso d’orrore e smarrimento crescenti, accorgendosi con una punta di
vergogna che le mani gli tremavano nello stringere le pistole.
Lei era là, dopo la seconda svolta del tunnel, affascinante e rilucente ad
attenderlo come una prostituta ingioiellata.
Era come se una parete d’acqua verdastra increspata e fumigante si
fosse levata a sbarrare il tunnel per tutta la sua larghezza ed altezza: un
muro traslucido la cui superficie iridescente ed oleosa si rimescolava
lentamente con ondulazioni ipnotiche al ritmo della sua stessa vibrazione.
48
Rimase a fissarlo per attimi interi completamente incapace di fare altro
fuorché guardare, e provare la più intensa meraviglia ed il più forte
disorientamento che mai avesse avvertito in vita sua. E, compiaciuto
dall’adorazione, il canto metallico gli riverberò un’ultima volta nelle orecchie
e nel cranio per poi abbassarsi all’improvviso di tono riducendosi ad un
calmo scroscio argentino. Il cavallo diede un ultimo strattone alla briglia poi
anche lui si quietò.
Jonas mosse qualche passo in avanti mentre le sue mani, rinfoderate le
pistole, stavano liberando le orecchie dai tappi di cera ormai inutili; il muro
d’acqua si schiarì come in risposta al suo approssimarsi.
C’era qualcosa dall’altra parte…ma era difficile distinguere contorni e
forme, poiché era come osservare attraverso una caraffa piena d’acqua o
una lente distorcente: sembrava una radura immersa nella luce lunare,
aperta in un bosco che, la limpidezza dell’intuizione quasi lo stordì,
certamente non apparteneva a quel mondo. E c’erano delle cose a terra:
corpi di uomini, forse, e cavalli abbattuti.
Prima di rendersene conto Jonas mollò le briglie ed avanzò ancora,
adesso pericolosamente vicino alla superficie increspata di quell’orrore
liquido. Nella sua mente rimbombò un invitante imperativo: vieni a me.
La superficie si espanse come in un respiro e lo inghiottì.
49
8
Louis Depape non era un soldato. La sua famiglia aveva una piantagione
di cotone, ma i loro lavoranti erano tutti bianchi regolarmente salariati. Non
c’erano schiavi nella tenuta dei Depape in Alabama.
Cosa c’entrava lui, allora, con quella guerra?
Suo padre, ricco proprietario di terre e patriota timorato di Dio, l’aveva
avviato alla carriera militare ancora prima che compisse i diciotto anni ed a
nulla erano valse le sue obiezioni: o l’esercito o via da questa casa, gli
aveva fatto presente il vecchio.
Non c’era stato molto margine di scelta: ma si era sempre aspettato,
dopo la ferma, di dover svolgere un tranquillo lavoro d’ufficio dietro una
scrivania a Montgomery, o a Birmingham, o a Decaturville, magari con un
grado fittizio di tenente o comandante che gli permettesse di strapazzare
quanto bastava i soldatini semplici. Non certo di prendere le armi per andare
a sparare ai nordisti!
Era tutta colpa di Lincoln, quel vecchio dalla faccia di capra ed il tubo di
stufa in testa: colpa sua e delle sue idee a proposito della schiavitù.
Certo, in tutta sincerità non gli andava nemmeno molto l’idea che i negri
venissero presi a frustate e fatti lavorare finché crepavano: ma la sua
famiglia non aveva schiavi, dunque lui cosa ci stava a fare lì?
Era già da un anno che si andava parlando di “guerra”, un anno in cui le
linee del telegrafo avevano crepitato messaggi e telegrammi dall’accademia
militare di Montgomery, un anno in cui aveva visto partire molti amici e
tornarne nessuno.
Un anno in cui le dicerie si erano fatte certezze.
Poi era toccato a lui. Avevano preso il distaccamento in cui era stato
inserito, lo avevano riunito con altri per formare prima uno squadrone e poi
un reparto; avevano caricato gli uomini su treni e navi come vacche da
portare al mercato e adesso li stavano facendo marciare allo sfinimento per
condurli chissà dove a farsi ammazzare.
Perché di questo era certo, lui sarebbe morto. E per Dio sarebbe stato
doloroso: aveva visto cosa può provocare una palla di pistola o una freccia
al corpo di un uomo, aveva sentito le urla strazianti dei feriti a cui venivano
aperte le carni e segate le ossa senza altra narcosi che quella indotta da
una pinta di whisky o laudano; lo aveva visto e lo rimpiangeva. L’ignoranza
in proposito, tutto sommato, sarebbe stata un bene.
50
La cannoniera confederata li aveva sbarcati a Corinth una settimana
prima, in un porto che brulicava come un formicaio; dopo una marcia di
pochi giorni si erano lasciati alle spalle le paludi della zona fluviale per
addentrarsi verso l’entroterra del Tennessee. Ed in quel preciso frangente,
concluse la sua breve cronologia mentale, stavano trottando su per il crinale
boscoso di una collina e lui si sentiva stanco come un mulo: erano in marcia
dall’alba, le cinghie dello zaino gli segavano le spalle, l’Henry a tracolla gli
pesava come un giogo ed i piedi negli stivali sembravano a loro volta essersi
trasformati in lingotti di piombo. La fondina al fianco, appesantita da una colt
di recentissima produzione, gli ballonzolava al ritmo della marcia sulla coscia
accanto alla giberna ed alla fiasca.
Dove li stavano portando?
Il soldato che gli marciava al fianco lo toccò con una lieve spallata, che
tuttavia lo fece trasalire; giratosi di scatto, Louis venne accolto da un paio
d’occhi spiritati e da un fiato al gusto di torcibudella.
“Che c’è, Ronald?” sospirò, quello si portò il pollice verso la bocca nel
gesto di chi richiede da bere.
“Non ne ho più, ho la fiasca vuota. Dovresti smettere di bere così tanto,
sai?”.
Quello lo guardò con l’aria contrariata e non troppo sveglia di un grosso
cane a cui era stata negata la palla. Louis deglutì, sentendosi sollevato
soltanto dopo che il camerata, imbronciato, non riprese a guardare avanti
ciondolando il testone tra le spalle al ritmo cadenzato della marcia. Perché
io? pensò…poi il chiaro scoppio di una detonazione gli spazzò via la mente
di ogni altro pensiero.
Louis Depape si gettò a terra sentendo qualcosa di rapido fischiargli
all’altezza dell’orecchio; il camerata che un attimo prima gli aveva chiesto da
bere mandò un gorgoglio liquido accasciandosi a sua volta, il collo trafitto da
parte a parte da una freccia con l’asta piumata.
Grida acute. Indiani? I Nordisti reclutavano anche i nativi adesso?
Il soldato si rialzò ed armeggiò con la carabina impastoiandosi nella
tracolla, per riuscire all’ultimo a spianarla contro un’ombra che gli si era
scagliata addosso dalla boscaglia urlando come indemoniata. Premette il
grilletto nello stesso momento in cui chiudeva gli occhi: ci fu il tonfo di
qualcosa di pesante che stramazzava proprio davanti a lui e quando li riaprì
poté distinguere, dietro la cortina del fumo di combustione, la schiena nuda
di un uomo riverso tra l’erba.
“Diable!” imprecò, facendo scattare la leva per espellere il bossolo. Un
colpo di maglio a metà gamba lo fece barcollare. Guardò giù: una freccia gli
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trapassava la coscia da parte a parte. Panico esplose incontrollato nella sua
mente.
Altre urla, tutto intorno. Il soldato ruotò malfermo sui piedi, facendo fuoco
nuovamente su sagome che vedeva uscire dalle fronde come in un
grottesco balletto. Qualcos’altro lo prese, questa volta alla spalla, e dallo
schiocco secco che fece preludio alla perdita di sensibilità dell’arto dedusse
quasi trasognato che doveva trattarsi di una pallottola. Il giovane lasciò la
presa sul fucile, accasciandosi sulle ginocchia. Urla, tutto intorno, era come
essere assaliti da un branco di lupi.
Ed il dolore esplose, questa volta chiaro e netto, quando qualcosa di
incredibilmente duro gli impattò su una tempia venendo dalla parte opposta
del suo campo visivo.
Siamo alla fine pensò, mentre la sofferenza da acuta si faceva sorda e
pulsante e l’ultimo bagliore di coscienza gli permetteva di assaporare il gusto
del proprio sangue in bocca.
Una forma scura torreggiava su di lui: un piede dotato di mocassino lo
rivoltò con un calcio sulla schiena, mani svelte lo afferrarono per i capelli ed
un coltellaccio saettò verso la parte superiore del suo cranio.
Un altro sparo a distanza ravvicinata.
Poi, davvero, il nulla.
Louis Depape ritornò in sé, ma non seppe mai dopo quanto tempo.
Sembrava che ogni singolo osso del suo corpo fosse stato fratturato ed un
peso considerevole gli gravava sull’addome; spostandosi come poteva,
strizzando gli occhi dietro la cortina delle lacrime, poté distinguere il cranio
rasato di un muso rosso, lo stesso che
(quando? Prima? Ieri?)
aveva cercato di scalparlo. Qualcuno gli aveva dato una mano, invece,
ed era stato l’indiano a correre sui beati territori di caccia al suo posto. Il
soldato tentò di scrollarselo di dosso ed una sferzata di sofferenza gli
esplose dalla spalla destra. Gridò ed imprecò facendo inutilmente forza col
braccio sano, poi gli venne un’idea: vincendo il ribrezzo abbrancò il fucile
con la sinistra e piantò la baionetta nella carne dell’indiano come se stesse
maneggiando un forcone per scaricare una balla di fieno. Sprizzò sangue, lui
gridò ancora spingendo disperatamente, e dopo qualche sforzo il cadavere
che lo schiacciava si rovesciò finalmente di lato. Fu libero di guardarsi
attorno.
Ma non c’era più nessuno.
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Il pensiero che fossero tutti morti lo fece rabbrividire. No, certamente non
poteva essere…erano quasi in cento nella colonna e si erano sempre tenuti
a distanza quasi di voce dagli altri squadroni. Ma se era così…dov’erano
andati tutti?
Louis si trattenne dall’urlare, ma era solo una irrazionale misura di
prudenza: di casino ne aveva già fatto fin troppo, e se ci fossero stati altri
indiani in giro a quell’ora si sarebbero di già accorti della sua presenza.
Non c’era più nessuno.
Cristo, voglio mia madre! pensò, altre lacrime gli stillarono dall’angolo
degli occhi.
Poi si accorse che non era vero. Non era solo.
Un ramo si spezzò alle sue spalle.
Louis tentò di girarsi, di puntare il fucile senza riuscirvi. Altri aghi di dolore
lo trafissero alla spalla ed alla gamba. Nel constatare la sua impotenza urlò
nuovamente, aspettandosi che a quel grido facessero eco quelli più acuti e
feroci dei selvaggi rossi.
9
Jonas riemerse oltre il muro di luce ed acqua, avvertendo
immediatamente l’odore di morte: si elevava prepotente ed inconfondibile ai
suoi sensi, sovrastando i sentori di una primavera appena agli inizi in un
quando ed in un dove del tutto sconosciuti.
Una rapida occhiata alle sue spalle gli permise di scorgere un riquadro
argenteo delle dimensioni di una porta, che ondeggiava quieto sospeso a
mezz’aria: la via di ritorno per il suo mondo. Si acquattò appena in punta di
piedi e come per magia gli stivali ferrati si fecero discreti; poi, armi in pugno,
si spinse oltre guardandosi intorno.
Si trovava sul limitare di una piccola macchia, anche al buio distinse le
forme caratteristiche di tronchi e foglie di quercia e betulla; terra morbida,
erbosa e tenera, senza dubbio molto fertile, gli cedeva appena sotto gli
stivali elastica come un giovane seno. Avrebbe potuto benissimo trovarsi in
una tenuta nobiliare di Gilead, magari una di quelle più grandi e ricche vicino
al lago Soroni, dove c’erano campi di frumento e vasti aranceti. Ma sapeva
che non era così, sapeva che l’ordine era solo apparente e la situazione che
stava vivendo tutto fuorché normale.
E poi c’era il silenzio: non è mai un buon segno quando gli animali della
notte tacciono.
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Scorse il primo cadavere dopo appena pochi passi: un uomo come non
ne aveva mai visti prima, riverso sulla schiena con accanto un grande arco
dalla fattura ugualmente inconsueta. Pensò si trattasse di un guerriero di
qualche tipo, simile a quelli menzionati nelle storie dei viaggiatori provenienti
dalle del Fine-Mondo: vestito soltanto di un perizoma di pelle, curiosi
ornamenti e bracciali lo coprivano in grande numero sul torso e sulle braccia
e striature di colore gli segnavano il volto appena sotto gli occhi sbarrati
nell’immobilità della morte. Aveva il cranio completamente rasato ed un
grande foro sanguinolento gli si apriva sul petto in corrispondenza del cuore:
era stato ucciso da un solo colpo preciso. Un tiro da maestro, avrebbe
commentato Fardo.
Si mise a tracolla prima la faretra, che sentì al tocco pesante di frecce,
poi l’arco.
Pochi metri più in là c’erano altri morti, il terreno si faceva smosso e
calpestato a testimoniare una lotta accesa: molti cadaveri, di uomini e di
cavalli insieme, riversi dietro ad alberi e cespugli o accasciati nel mezzo di
una pista in terra battuta; ed insieme ai corpi di quegli strani guerrieri vestiti
di pelli e monili, ne notò altri il cui aspetto gli era molto più consueto: uomini
in casacche, pantaloni, stivali e cappello che gli ricordarono i membri della
milizia di Gilead. La convinzione fu rafforzata dal notare, subito dopo, che
quasi tutti stringevano fucili tra le mani.
Potevano essere pistoleri?
Il cuore accelerò i suoi battiti rimbombandogli come un tamburo nelle
tempie.
Tutto questo è un segno pensò, sono stato portato qui per qualcosa di
ben preciso.
L’echeggiare di un grido lo fece trasalire, l’indice gli si contrasse
pericolosamente sul grilletto: fu solo per un caso fortuito che riuscì a
bloccarlo in tempo. A quanto pare c’era ancora qualcuno dotato di fiato e
vigore, da quelle parti: qualcuno che non era ancora arrivato alla radura in
fondo al suo sentiero.
Jonas rilasciò l’indice e si abbassò sulle ginocchia superando una
barriera di sterpi con non più di un sommesso fruscio. Ma, per quanto cauto,
non riuscì qualche passo dopo ad evitare il secco schianto di un ramoscello
sotto la suola ferrata.
10
54
Il respiro di Louis si fece rapido e convulso: sentiva il dolore allargarsi ad
ondate nel corpo, sapeva che era arrivato alla fine della pista. Conto quasi
chiuso. Proprio come se l’era immaginato.
Ma forse poteva andarsene con i fuochi d’artificio.
Aprì lentamente la fondina ed estrasse la colt, reggendola a due mani ed
armando il cane con quello che gli sembrò uno sforzo disperato. Da un lato
sperava che l’incoscienza arrivasse subito, non appena avessero iniziato a
scotennarlo. Dall’altro si augurava di avere almeno il tempo di sistemare il
primo muso rosso che si fosse affacciato su di lui.
Louis Depape scandì mentalmente il Padre Nostro mentre un tremito più
forte gli scuoteva il corpo.
Poi sentì qualcuno parlare come in un sogno irreale: la voce era giovane,
il suo parlare in un inglese strano ed antico.
“Non fare niente di cui potresti pentirti, chiunque tu sia. Non ho intenzione
di farti del male”.
11
Jonas avanzò ancora di qualche passo sul campo di battaglia. I suoi
occhi allenati da pistolero colsero quasi subito il movimento di una sagoma
scura, che metri più in là stava armeggiando per rimettersi in piedi. Un altro
urlo, da una voce resa acuta dal dolore e dalla paura.
Si immobilizzò all’istante.
Avvertiva chiaramente grugniti di spasimo e un respirare affrettato. Poi,
irrealmente distinto alle sue orecchie come una nota di triangolo, il *CLICK*
sommesso di un cane che veniva armato.
C’era ancora voglia di combattere, in quel luogo. Ma lui non era lì per
offrire battaglia.
“Non fare niente di cui potresti pentirti, chiunque tu sia” dichiarò,
abbassando all’istante le armi e rinfoderando. “Non ho intenzione di farti del
male”.
Si avvicinò più speditamente.
12
Louis sentì passi che arrivavano, pesanti, cadenzati e calmi. Non era un
indiano, dopo averlo sentito parlare poteva esserne certo.
Attimi dopo vide emergere dalla sommità del suo campo visivo la sagoma
di quello che giudicò essere un ragazzo o un giovane uomo
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straordinariamente sviluppato. La luce lunare gli illuminava una mascella
affilata su un viso glabro incorniciato di capelli lunghi e sottili, probabilmente
biondi, che la luminosità diafana rendeva simili a fili d’argento. Gli occhi
erano in ombra, poteva distinguere soltanto orbite e zigomi ed il lieve
corrugamento della fronte di chi stia osservando qualcosa di estremamente
curioso.
Ai fianchi, lo notò subito dopo, aveva due fondine.
Il soldato alzò la colt, retta da mani tremanti di vecchio: dall’alto una
coppia di dita guantate ne spinse delicatamente, ma fermamente, la canna
di lato. Le mani gli ricaddero inerti in grembo.
“No, uomo. Davanti a Dio, non sono un nemico”.
Come parlava, quanto era strano…avrebbe potuto essere uno scout, ma
sembrava troppo dannatamente giovane. Louis si sentì sollevare sulla
schiena, lo zaino gli venne sfilato dalle spalle con una fitta di dolore dal
braccio ferito. Gemette. Poi fu il suo corpo a sollevarsi. La sensazione del
calcio della colt fra le mani abbandonate sul ventre fu l’ultima che avvertì
prima di cadere nuovamente nelle nebbie dell’inconsapevolezza.
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Lo avevano conciato bene, considerò, osservando preoccupato la freccia
che sporgeva a mezz’altezza dalla coscia e la macchia di sangue che
andava allargandosi sui vestiti in corrispondenza della spalla sinistra.
Un soldato, o forse addirittura un pistolero. Giovane per giunta, anche se
certamente più vecchio di lui: la luna gli faceva risaltare una rigatura di barba
a metà delle guance e sotto il naso, che si congiungeva ai capelli delle
basette in uno stile che aveva già visto in uomini di una certa levatura
sociale.
Quando lo vide alzare la canna della sua pistola
(così simile ai revolver dei pistoleri, non era roba da apprendisti quella!)
fu rapido, ma fermo, nello scostarla dalla traiettoria del suo cranio. Le
mani del soldato gli ricaddero in grembo senza tuttavia mollarla. Era debole.
“No, uomo. Davanti a Dio, non sono un nemico”.
A spalle portava un grosso zaino, ed a tracolla, lo notò solo ora, un fucile
con una punta di ferro fissata sotto la canna.
Con la massima cura possibile lo mise a sedere e gli slacciò l’impaccio
facendo scivolare le cinghie oltre le scapole. Quando ritrasse le mani, notò
che erano sporche di sangue. Quello mugolò.
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“Ora ti porterò via di qui” gli disse cercando un tono tranquillizzante (ma
in realtà non era nemmeno sicuro che fosse ancora cosciente). Jonas si
mise a tracolla il suo fucile, ai bagagli avrebbe potuto rinunciare ma le armi
non erano cosa da lasciarsi sfuggire alla leggera, poi lo prese in braccio
sollevandolo di peso.
Un rivolo di sangue gli colava di bocca. Seppe che doveva far presto.
Barcollando sotto il peso del soldato Jonas oltrepassò nuovamente la
barriera della macchia e dei cespugli: il riquadro argenteo era ancora là,
scintillando pigramente, e lui non perse tempo nell’avvicinarsi.
Si gettò soltanto un’ultima occhiata alle spalle prima di attraversare
nuovamente il portale, e quello si richiuse dietro di lui nell’attimo stesso in
cui lo varcava.
L’aria polverosa della galleria gli entrò nei polmoni al respiro successivo,
gradita come l’odore di un luogo familiare. Jonas riaprì gli occhi. La parete
verticale di acqua traslucida era scomparsa ma rimaneva tutto il resto: le file
di veicoli, gli scheletri ed anche il cavallo era rimasto dove l’aveva lasciato,
malgrado nemmeno l’avesse legato. E poco più in là il tunnel sbucava
all’aperto, attraverso un’imboccatura circolare barricata dietro i grovigli di
lamiera dei mezzi di trasporto rovesciati.
Aveva fatto ritorno.
I muscoli della braccia e della schiena gli si tesero dolorosamente un
attimo dopo, come a ricordargli che in braccio ed in spalla recava pesi che
sarebbe forse stato meglio posare.
Adagiò delicatamente il corpo del soldato a terra, posando il suo fucile a
prudente distanza di sicurezza.
Ora sarebbe venuta la parte divertente.
Mentre fuori dal tunnel scendeva rapida la sera Jonas dissellò il cavallo e
mise la sua sella a fare da cuscino sotto la testa del soldato, poi accese un
piccolo fuoco con sterpi, ramaglia ed alcuni pezzi di gomma strappati dai
dischi afflosciati sotto i carri di lamiera.
Quando rinvenne Jonas gli dava le spalle: seduto sui talloni, stava
mentalmente considerando il da farsi. Avrebbe dovuto togliergli il dardo, lo
sapeva, e controllare se avesse delle pallottole in corpo: Fardo aveva
insegnato come estrarre una freccia dal corpo di un uomo, ma era
un’operazione di cui aveva sentito parlare solo in via teorica. Ed aveva la
netta sensazione che non sarebbe stato piacevole né per lui né per il suo
sfortunato ospite.
“Ehi…” mugolò giustappunto quello, Jonas fu rapido a girarsi.
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Ora che aveva potuto osservarlo meglio, in tranquillità alla luce del
focolare, il suo aspetto gli appariva consueto: indossava una giacca, dei
pantaloni ed un cappello a tesa larga di uno spento colore grigio che
certamente facevano parte di un’uniforme militare. Sotto la casacca portava
una camicia che doveva essere stata in origine bianca, ma che ora si
rivelava desolatamente chiazzata di sangue e terra; intorno alla vita portava
una fondina di cuoio lucido che aveva l’aria di essere appena uscita dalla
bottega di un conciapelli: mentre era ancora svenuto gliel’aveva sfilata e
l’aveva appoggiata sopra la carcassa di un veicolo, insieme al cinturone ed
alle bisacce perché non gli stringessero la vita.
Era sicuramente un soldato: forse anche un pistolero, si ripeté, posto che
ne esistessero nel mondo da cui proveniva. Ma a parte quello, in quel
momento non era altro che un animale ferito e spaventato.
Cercando di mostrarsi tranquillizzante Jonas sorrise al suo tentativo di
attirare l’attenzione
“Non affaticarti, sai. Sei stato ferito, e piuttosto gravemente anche: hai
perso del sangue ed ora devo prendermi cura di te”.
“In…diani..:” farfugliò, e l’esiliato corrugò la fronte. Cos’era un indiano?
“Shhh” ripeté, chinandosi su di lui. Doveva essere di già febbricitante
perché i suoi occhi erano lucidi. Gli sollevò il capo con una mano,
accostandogli la sua fiasca alle labbra e versandovi generosamente il graf in
essa contenuto.
“Bevi e fai il pieno, oh si, perché proverai dolore di qui a poco” dichiarò:
quello contrasse le labbra, ma poi mise in azione il pomo d’adamo quasi per
un riflesso condizionato. Jonas sorrise compiaciuto, quindi estrasse il coltello
e lo pose sulle braci del fuoco.
“Dovrò toglierti questa freccia” riprese: con sua sorpresa il soldato annuì.
“Non f…farmi troppo…male…ti prego…” mormorò, lui annuì.
“Farò quello che è necessario” dichiarò soltanto, per poi spezzare con un
colpo secco la piumatura dell’asta sopra la ferita.
Il soldato urlò e le grida echeggiarono sotto la volta del tunnel, ma Jonas
non se ne curò più di tanto dato che era qualcosa che andava fatto.
Senza perder tempo prese un legno, vi avvolse una pezzuola di cuoio e
lo piazzò tra i denti spalancati del giovane uomo.
“Mordi, se devi” considerò, “E fai scendere il volto di tuo padre a coprire il
dolore”. Quello lo guardò stranito da oltre le nebbie dell’alcool e della
sofferenza. Jonas si rimboccò le maniche preparandosi ad iniziare qualcosa
di rischioso.
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Fardo gli aveva spiegato che una freccia non va semplicemente
strappata dalla ferita, perché in questo modo si rischia di causare perdite di
sangue che potevano essere fatali. E, cosa ancora peggiore, la punta può
rimanere dentro la carne facendola imputridire.
L’unico modo per togliere una freccia era di farla uscire in modo naturale,
per così dire. Cercando di cauterizzare nel medesimo tempo per sopprimere
l’infezione.
Jonas si sfilò una cartuccia dal cinturone e, tenendo l’ogiva tra i denti, la
svitò cautamente rivelando il deposito di polvere nera; con attenzione sparse
il suo contenuto sull’asticella imbrattata di sangue, poi prese un respiro
profondo e prese un rametto in fiamme dal fuoco.
Non appena la polvere nera prese a bruciare fumigando il ragazzo spinse
con tutte le sue forze la parte superiore del legno, cercando di scacciare la
naturale repulsione che il gesto gli induceva. Avvertì puzza di carne bruciata
ed uno sfrigolio oleoso, come quello che si sente quando si butta una fetta di
pancetta a rosolare nel burro. Il soldato inarcò la schiena e si contorse
urlando ancora, questa volta al parossismo, perché doveva avergli fatto
male sul serio.
Jonas appoggiò il palmo della mano sulla fronte del giovane uomo
riverso, madida e tremante, per cercare insieme di tenerlo giù e
tranquillizzarlo. Con un ultimo strattone liberò l’asticella da sotto la gamba,
rimuovendola finalmente dalla ferita.
“Finito” dichiarò gettandola con noncuranza nel fuoco; l’altro si
accontentò di respirare con avidità, gli occhi chiusi ed il petto che si alzava
ed abbassava rapido. Il legno che gli aveva messo tra i denti si era
spaccato.
Ora veniva il turno della spalla, ma al giovane bastò una singola occhiata
per sincerarsi che quella non gli avrebbe dato problemi: la pallottola l’aveva
trapassato appena sotto la scapola uscendo senza fare troppi danni.
“Allegro” dichiarò, prendendo il coltello arroventato e premendolo sul foro
sanguinante. Altre urla.
“La pallottola è uscita, non dovrò levartela, basta cauterizzare”.
“C…confortante” gli rispose, “…macel…laio”.
Jonas si accigliò.
“Hey, davanti a Dio, bada a come parli! Credo di averti appena salvato la
vita, sai? Ricorda il volto di tuo padre e non piagnucolare per il dolore, o le
ragazze del tuo borgo rideranno di te non appena lo sapranno”.
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“M…ontgomery…non è un b…borgo…è capitale…” borbottò. Jonas non
conosceva alcuna Baronia che annoverasse una tale città come capitale. Ma
lui non è di queste parti, gli tornò in mente subito dopo.
“Comunque…grazie” aggiunse ricadendo con la testa sulla sella.
L’esiliato abbozzò.
“Aye, aye” annuì. Ripulito il coltello tagliò alcune strisce dalla camicia del
soldato e cosparse le ferite di erbe disseccate dal suo sacchetto della
medicina, per poi bendare strettamente. Il respiro regolare del giovane uomo
lo avvertì della sua definitiva perdita di conoscenza.
14
Poco più tardi Jonas mangiò carne secca e bevve graf per scaldarsi lo
stomaco, quindi si coricò accanto al fuoco con le pistole in grembo e la
fiasca a portata di mano. Cercò di distendere i nervi, lo sguardo indugiò sul
soffitto annerito del tunnel dove correvano grandi tubi rettangolari e
pendevano antiche lampade di focaria. Il ferito dormiva avvolto nella coperta
dietro di lui, il suo respiro continuo e disteso gli lasciava ben sperare.
Cercò di sbrigliare il pensiero ma non vi riuscì.
Non era ancora finita.
Non erano ancora fuori dalle paludi, e sospettava che il branco di lupi
mutanti gli avrebbe dato da pensare. In più sarebbe stato costretto a
muoversi lentamente, rallentato dal ferito, senza sapere quanta strada gli
rimaneva e con provviste che andavano assottigliandosi di giorno in giorno.
Ma aveva rimediato un nuovo compagno e questo bastava a pareggiare il
conto di tutti i problemi ed i possibili inconvenienti che gli stavano affollando
la mente.
Stava formando un nuovo ka-tet, e non stava certo succedendo per caso.
Perché il caso non esiste. C’è solo il ka.
Jonas ripensò con un mezzo sorriso al vecchio del sogno, alle sue
promesse di grandezza ed al vaticinio sui suoi futuri compagni: non
bisognava essere degli indovini per capire che quel sai sconosciuto era uno
di loro, e se tanto dava tanto anche la giovane di Am’lis avrebbe potuto
avere una parte in tutto quello. Un soldato, una donna…no, due donne…e
c’era dell’altro, rimuginò mentre il sonno giungeva: un Re che sarebbe
giunto, ed echi di parole che tuttavia gli sfuggirono dalla mente nell’attimo
stesso in cui provò a focalizzarle.
Decise quasi subito di lasciar perdere, e qualche attimo più tardi si assopì
con la mano stretta intorno al calcio della pistola.
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I masnadieri di Galloway
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62
1
Il nitrire del cavallo lo destò di colpo con il suo suono acuto ed
improvviso, sgradevole come quello di un’unghia sulla lavagna, quando
poteva essersi coricato da pochi minuti come da molte ore. Oltre
l’imboccatura del tunnel aleggiava nebbia: il cielo stava appena iniziando a
schiarirsi ed il fuoco non era ridotto che a poche braci.
Uno sbuffo di vento gli gettò in faccia una zaffata che sapeva di palude e
cose morte. Alzarsi dalle coperte ed accucciarsi sull’asfalto fu affare di un
attimo, capire cosa stava succedendo richiese ancora meno tempo. Come
per magia uno dei due revolver gli era apparso in mano e Jonas lo teneva
puntato verso l’alto, accostato appena alla guancia in una posizione che
Fardo chiamava “della guardia”.
Ancora loro!
Una forma ampia e scura sembrò staccarsi dalle ombre sul lato della
galleria, proiettandosi verso il ragazzo accosciato. Jonas colse il movimento
con la coda dell’occhio, e il braccio si distese quasi con calma nel momento
stesso in cui il torso si girava.
La vampa della detonazione rifletté un momento gli occhi dilatati del lupo
mutante, ucciso in volo con un solo colpo al cranio, poi la sua carcassa
terminò lo slancio nel fuoco proiettando cenere e braci tutto intorno.
Uno per sai Lupo Mannaro. E, cazzo, che ti sia caro! Il ragazzo sorrise,
abbassando la guardia un momento di troppo.
Unghie rasparono alle sue spalle.
Un attimo dopo il pistolero venne scaraventato di lato da qualcosa di
incredibilmente massiccio (e puzzolente) che gli rovinava addosso
dall’angolo di visuale cieca; sentì denti che affondavano come coltelli nella
spalla ed un tanfo rivoltante stringergli la gola. Rotolò e menò un colpo col
calcio dell’arma incontrando una superficie dura come cuoio; l’anca ed il
ginocchio sinistri, che gli erano stati storpiati da Fardo in occasione della sua
prova di disonore, urlarono la loro sofferenza allorché il peso del suo corpo
vi gravò sopra insieme con quello dell’aggressore. Nel cuore del ragazzo
montò una fiammata di collera.
Gli ci vollero pochi momenti per riposizionare la canna, durante i quali
lottò per tenere lontane fauci bavose ed infette dalla sua gola, poi una
seconda detonazione riverberò sotto le volte della galleria degli Antichi ed
uno spruzzo di sangue nero gli esplose in faccia.
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Jonas si scrollò di dosso il lupo mentre ancora si dibatteva, e malgrado il
movimento gli costasse altri spasmi dolorosi non perse tempo nel rialzarsi
ed armare anche l’altra mano.
Nello sparare i pistoleri di Gilead erano perfettamente ambidestri,
dovevano esserlo; ed anche se Jonas non lo era, manchevole della
rettitudine e dell’integrità necessarie a servire il Bianco, aveva velocità e
mira che non temevano il confronto.
Gli occhi fermi ad inquadrare i bersagli, con metodica precisione fece fuoco
sventagliando da destra verso sinistra: almeno quattro mutanti volarono via
come foglie secche, ricacciati a morire tra ombre e lamiere mentre gli altri
battevano in ritirata, ma lui non si fermò che quando le armi furono del tutto
scariche.
E questo fu un azzardo.
Mentre la rabbia se ne andava e le pistole venivano abbassate ancora
fumanti lungo i fianchi, registrò un movimento quasi al limite del campo
visivo. Proprio dove c’era il giaciglio del sai ferito.
Udì subito dopo il rumore, sommesso e minaccioso, della sua pistola che
veniva armata e realizzò immediatamente, per dire come avrebbe detto
Douglas, di aver fatto un errore del cazzo.
Jonas allargò cautamente le braccia, le pistole seguirono mandando
ancora un residuo pennacchio di fumo biancastro. Dal giaciglio, puntellato
alla meglio sull’avambraccio, il soldato aveva puntato nella sua direzione
quella sua grossa arma che gli aveva tolto dalla fondina la notte precedente,
e che evidentemente non gli aveva allontanato a sufficienza. Il suo viso era
arrossato e sudato, stravolto dalla febbre e dalla stanchezza, ma una luce di
determinazione malgrado tutti gli scintillava negli occhi. Non c’erano tremiti a
scuotere la lunga canna lucida.
Riconobbe al volo quell’espressione, perché avrebbe potuto giurarci era
la stessa che aveva lui quando sparava. Quando uccideva.
Jonas avvertì un tremito alle ginocchia ed ebbe paura.
Poi lo sparo, un rumore anch’esso estraneo, straniero come l’arma che lo
aveva prodotto, spazzò via di botto tutto il resto.
2
Qualcosa guaì pochi passi più indietro; si sentì un grattare di artigli contro
lamiera ed un tonfo sordo seguito da un ultimo uggiolio liquido a suggello del
tutto.
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Il tamburo dell’arma retta dal sai soldato ruotò con uno scatto secco, e fu
allora che Jonas si accorse di essere ancora vivo. Il ragazzo fece per
avvicinarsi al ferito, ma l’arma di quello si spostò subito nella sua direzione.
“Fermo dove sei” intimò.
Feemò ripeté mentalmente sorpreso da quello strano accento.
Un accento da straniero, aye, rotolò il pensiero successivo mentre si
fermava ubbidiente.
Il soldato non aveva abbassato l’arma di un millimetro; fumo bianco si
alzava ancora dall’imboccatura della canna, grossa e buia quanto
l’imboccatura di un pozzo di miniera. Lì dentro c’erano almeno altri cinque
proiettili, ognuno dei quali sarebbe stato più che sufficiente a scaraventarlo
nella radura in fondo alla pista. In quel frangente era senza dubbio utile la
prudenza, e con lentezza esasperante (in modo che lo vedesse bene,
davanti a Dio!) si abbassò verso terra lasciando giù le sue pistole.
“Non c’è ragione per queste minacce, sai, io non ho nulla contro di te”
aggiunse subito, ma non poté far nulla per smorzare il tremito di angoscia
nella voce. “Io ti ho salvato la vita, ieri, ricordi?”.
A giudicare dall’espressione dell’altro, la cosa non sembrava importargli
più di tanto.
“Ed io la tua un attimo fa, m’sieur, quindi siamo pari”.
L’arma ancora non accennava ad abbassarsi, e Jonas si era quasi perso
su quella strana parola che gli aveva rivolto (e che poteva essere tanto un
titolo quanto un insulto) quando il soldato parlò nuovamente.
“Cos’è qui?”.
Jonas aggrottò le sopracciglia, stringendosi nelle spalle.
“Cos’è qui, nom du diable!” strepitò nuovamente, la voce si fece
improvvisamente acuta; la pistola ebbe un sussulto nelle sue mani e Jonas
pensò che un colpo sarebbe bastato a staccargli di netto un braccio. O a
fargli esplodere la testa come una zucca matura. Si sforzò di non indugiare
troppo sull’immagine dello scoppio rossastro, né sui pezzi del suo cervello
sparsi nel raggio di tre metri almeno sulle pareti piastrellate.
“Calmati sai, ed abbassa quella pistola per l’amore di tuo padre…se ti
parte un colpo, mi fai secco dove mi trovo con un cannone del genere”.
“Forse dovrei farlo” considerò l’altro: Jonas aveva notato l’affiorargli di
una vena sulla fronte, pulsante e ramificata come un viticcio sulla pelle
paonazza ed imperlata di sudore.
“Hai la febbre, uomo, io ho curato le tue ferite; senza di me non andresti
da nessuna parte, non puoi camminare o cavalcare. E poi…faresti fuori
quello che ti ha salvato la vita?”.
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“Basta con questa merda!” lo interruppe di nuovo; il soldato rimase in
silenzio per qualche momento, Jonas lo vide inspirare avidamente l’aria
secca della grotta.
Era certamente febbricitante, ma un attimo prima aveva fatto fuoco con
l’abilità e la precisione di un uomo addestrato.
Come un pistolero.
Forse, comunque, era stato soltanto merito della paura: forse nemmeno
lui sapeva di potersi spingere così avanti fino a quando non ci aveva
provato.
“Te lo chiedo di nuovo…cos’è qui? Dove cazzo siamo, in nome di Dio?”.
Jonas deglutì rumorosamente.
“Siamo nell’Entro-Mondo,” esordì, cercando di mettere nella voce tutta la
calma di cui era capace. “Ai confini della Baronia di Nuova Canaan, ma
forse li abbiamo già superati. Le terre di Gilead, il feudo del Bianco, dove gli
uomini giusti governano il mondo cercando di purgarlo dalla violenza e dalla
barbarie”. Sentirsi in bocca quelle parole, realizzare di stare snocciolando
una delle vecchie lezioni di Fardo lo fece star male.
E sotto il dolore la rabbia covava.
“Tutte stronzate, se vuoi sentire la mia” concluse. L’altro lo guardava ora
con occhi allargati, e non mancò di notare che aveva abbassato di un pelo la
canna della pistola. Avrebbe potuto tentare di sopraffarlo, ma era un balzo
lungo ed il sai soldato, che aveva già dimostrato di avere una fibra fin troppo
resistente agli strapazzi, avrebbe sempre potuto essere meno conciato di
quel che appariva. “Mi stai prendendo per il culo?”.
La voce del soldato, frastornata ed acuta, lo riportò alla situazione.
“Che cazzo mi racconti? Sei uno scout? Eri con l’altra colonna vero?”.
Rabbrividì strabuzzando gli occhi.
“Non li avete visti?” chiese stranito, “Erano indiani, ci hanno attaccati con
gli indiani…da quando si usano gli indiani in guerra? Tu lo sai?”
Il soldato ricadde un attimo dopo sulle coperte, borbottando altre parole
smozzicate in una lingua che non comprese.
Delira, qualche nervo gli è saltato come la corda di una chitarra. Ma
anche adesso che i rischi sarebbero stati più ragionevoli scartò l’impulso di
saltargli addosso per disarmarlo.
Non è un nemico si disse. È ka-tet.
Con passo svelto Jonas si avvicinò al soldato soltanto per accorgersi che
era svenuto di nuovo; valutò se togliergli la pistola, ma ritenne subito che
non fosse necessario e la ripose invece nella fondina che gli adagiò tra le
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mani inerti. Se voleva trattarlo da alleato, e non da prigioniero, quella era
una buona base di partenza.
3
Ripartirono dalla galleria poco dopo che il cielo si fu tinto dei colori del
giorno; malgrado il bruciore crescente alla spalla Jonas aveva tagliato due
piccoli alberelli di betulla che crescevano poco oltre l’imboccatura del tunnel,
li aveva incrociati ad una estremità formando una “V” ed aveva legato le due
stanghe alla sella del cavallo. Tra i due montanti della rudimentale barella
aveva teso pezzi di lasso, ci aveva gettato sopra due coperte, ed infine
aveva deposto il soldato. Quest’ultimo aveva ripreso conoscenza verso la
fine delle operazioni, apparentemente rinsavito dalla momentanea follia di
poco prima, e si era lasciato sollevare senza fare storie: ma per tutta la
durata del suo lavoro l’aveva tenuto sotto tiro, e non aveva scostato la canna
nemmeno quando l’aveva sollevato per adagiarlo sulla lettiga, tenendogliela
fermamente puntata contro il cranio.
Un colpo da quella distanza gliel’avrebbe disintegrato del tutto, ma non
glielo fece notare perché quello aveva l’aria di non curarsene. Se ne batteva
il cu-culo, aye, per citare ancora il parlare di Douglas Mischief.
Se non altro, ora, sembrava più lucido: aveva una buona tempra, ma gli
lasciò comunque un otre a portata di mano.
“Stai svento a sparare se ne arrivano altri da dietro, e mira giusto” gli
disse soltanto. Quello annuì.
Ripartirono dalla galleria poco dopo che il cielo si fu tinto dei colori del
giorno.
4
Dopo una mezzora di cavalcata alla briglia il suono roco della voce del
sai riportò Jonas al presente mentre ripensava alla fanciulla di Am’lis ed al
vecchio suo zio, chiedendosi se i segugi di Gilead fossero passati da quelle
parti nel tentativo di ritrovare le sue tracce.
“Camarade, me lo vorresti dire, ora, dove mi hai portato e dove stiamo
andando?”.
Jonas non si girò, ma la mano gli corse istintivamente alle fondine e
dovette fare uno sforzo per bloccarla all’altezza delle reni. L’altro non diede
comunque segno di aver afferrato il movimento.
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“Te l’ho già detto, sai: questo è quello che tutti chiamano Entro-Mondo.
Se ha un altro nome, invoco il tuo perdono, ma io non lo conosco”.
Jonas sentì un sospiro rassegnato provenire dalla lettiga al traino.
“Non è l’America, vero?”.
“Non conosco nessun posto che si chiama così. Invoco il tuo perdono
un’altra volta”.
Una pausa, più lunga questa volta, poi l’altro riprese.
“Niente più guerra, niente indiani, nessun Lincoln e nessun Davis. Diable!
Credo di essere un uomo fortunato”.
Il tono non era poi così convinto. Rise.
“C’è la guerra da dove vieni tu?”. Jonas azzardò una domanda, in tono
peraltro affabile, ma l’altro non diede segno di averla udita.
“E quelle bestie, quei cani…cos’erano, e da dove arrivano?”.
L’esiliato si strinse nelle spalle.
“Sono lupi. Mutanti. Il mondo è andato avanti ed anche loro l’hanno
sentito. Ci sono posti dove la terra è velenosa” aggiunse, “E l’acqua ti fa
torcere le budella di dolore, raccontano i viaggiatori, ed altri che quando li
attraversi senti sapore di piombo in bocca; posti dove se non ti sbrighi a
toglierti di mezzo il tuo corpo si gonfia, i tuoi capelli cadono e la tua pelle si
stacca sanguinando. Poi muori, ma se non muori…beh, diventi come quei
lupi. Il mondo è andato avanti” ripeté grave.
Il sai tacque a lungo.
“Dici la verità?” interrogo poi rompendo il silenzio. Il tono era smarrito.
“Davanti a Dio, la dico”.
Il soldato rimase in silenzio nuovamente lasciando Jonas in compagnia
del sordo dolore alla spalla. Poteva essere che non si infettasse, rifletté, il
morso era stato di molto smorzato dal cuoio del farsetto. Poteva essere
che…
“Mi chiamo Louis” disse l’altro, saltandosene nuovamente fuori a
disperdere le elucubrazioni. “Louis Depape, di Montgomery, soldato
semplice dell’Esercito Confederato”.
“Eldred Jonas, di Gilead”. Jonas tentennò un attimo, poi aggiunse:
“Pistolero”.
Anche senza vederlo sentì che l’altro aveva sorriso, e nello stesso istante
qualcun altro sembrò sorridere nella sua mente.
Il vecchio del sogno.
Quello che io sarò tra molti anni.
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“Che il nostro incontro sia fausto” aggiunse, scacciando via quella
considerazione folle e tentando di dare alla voce un tono lieto. Ci riuscì a
metà, ma giudicò di essere stato abbastanza convincente.
“Quindi questo è il tuo mondo” puntualizzò il soldato con voce più calma,
ignorando i convenevoli. “Una vera mèrde se posso permettermi”.
Anche se l’accento era straniero, la parola l’aveva capita.
“Non diresti così se vedessi Gilead: laggiù abbiamo campi di grano e
frutteti di arance, e la terra è così scura e grassa che sembra caduta fuori
dai calzari dell’Uomo - Gesù”.
“E come mai allora non siamo in questa Gilède?”.
La domanda lo colse del tutto impreparato. La vena sardonica
nell’inflessione gli strinse il cuore, e tacque.
“Sembra che io abbia toccato un nervo scoperto” riprese l’altro, “È così,
n’est-ce pas?”.
Nespà, che modo fottutamente strano di parlare.
“Nessun nervo scoperto sai. L’acqua passata non muove più la ruota,
dicono nell’Entro-Mondo, e questo è un detto vero. Io non posso tornarci, ma
non ho desiderio di parlare di questo e vorrei che tu non me lo chiedessi
più”.
“Come desideri” replicò.
La via degli Antichi, lastricata di asfalto ora sorprendentemente in buono
stato, si stava snodando lungo il fianco di un’altura di elevazione modesta
come un serpente nero tutto a curve: di tanto in tanto scorgevano le
carcasse di altri carri di lamiera, arrugginiti e distrutti, alcuni posizionati a lato
del passaggio, altri ad ingombrarlo di traverso in cataste impilate che
avevano tutta l’aria del risultato di uno scontro. Sotto di loro la palude,
dominata dall’alto, si allargava come il calderone ribollente di una strega,
estesa in tutte le direzioni in un viluppo di vapori biancastri da cui si
alzavano in volo stormi di uccellacci deformi.
Era una fortuna che avesse scelto di seguire quella pista. Fortuna, o
semplicemente ka.
“Questo posto è molto strano” commentò ancora il soldato, dopo
l’ennesima svolta che li portò ad affacciarsi sull’altro versante. Jonas annuì
senza molta convinzione, in basso la collina digradava in una pianura brulla
ma non più paludosa.
Erano finalmente fuori.
“Il mondo è andato avanti” ripeté, fermando il cavallo a lato della striscia
d’asfalto per girarsi a bere dall’otre. Louis lo studiò con la fronte aggrottata:
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la pelle era tirata e sudaticcia, coi segni del rossore febbrile sulle guance, e
gli occhi apparivano stanchi e lucidi.
“Come va la tua salute, sai?”.
“Non sento dolore da queste ferite, ma ho caldo” ammise quello. Jonas
annuì.
“Probabilmente è febbre di palude” dichiarò, cercando di mostrarsi più
ottimista di quanto in realtà non fosse. “Nulla che possa ucciderti se non hai
almeno ottant’anni, io dico”.
“Aye, davanti - a - Dio” lo scimmiottò con un mezzo sorriso. “Parlate
sempre così da queste parti?”.
Annuì.
“Cosa vuol dire che ‘il mondo è andato avanti’?”.
Jonas lo guardò, ora a sua volta accigliato, lasciando passare qualche
momento per pensare a cosa dire.
“Noi diciamo così” fece infine, “I nostri vecchi dicono così perché questo
è vero”.
Nebi gli aveva insegnato del mondo - che - c’era, del mondo antico…o
meglio, del mondo degli Antichi; l’istitutrice non era mai stata ricca di
dettagli, in materia, perché l’eccessiva curiosità verso quello che c’era stato
poteva indurre negli uomini tentazioni pericolose. Spingerli a riattivare ciò
che è disattivato, risvegliare ingranaggi che dormono, riportare alla luce
cose che per il bene di tutti devono rimanere sepolte: nulla di buono può
venire da questo agire secondo i sapienti.
“L’Uomo - Gesù è venuto, Gan lo ha mandato per salvare noi uomini una
volta. Ma gli uomini siamo così stupidi e gli antenati degli Antichi gliel’hanno
ucciso inchiodandolo ad una croce. Può essere che già questo abbia
condannato il nostro mondo, io non so dirlo”.
Jonas si interruppe: l’altro lo stava guardando con la mascella appena
allentata. Continuò.
“Questo mondo, ad ogni modo, è tutto quello che ci rimane. È l’eredità
degli Antichi, è dove dobbiamo vivere nostro malgrado: alcuni luoghi sono
posti normali, tutto sommato, molti altri invece sono avvelenati per centinaia
di ruote intorno perché gli Antichi si sono distrutti a vicenda con armi che noi
non possiamo capire. La terra porta queste ferite da decine di secoli, che
forse in alcuni posti non guariranno mai”.
Ripensò a quando Nebi gli fece vedere un pezzo di cemento con sopra
due sagome nere, così dettagliate che sembravano opera artistica: era stato
in occasione di una visita a Garland, anni fa, sul finire di Tardestate, e gli fu
detto dall’istitutrice che la reliquia era stata portata fino alla Baronia da certi
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carovanieri i cui viaggi li avevano portati fino alle regioni remote del FuoriMondo. In sé era un semplice frammento di muro intonacato, tuttavia così
bianco e calcinato da far male agli occhi sotto la luce elettrica o di una
lampada a gas. Ciò che sconvolgeva erano le sagome impresse su di esso,
raffiguranti un uomo ed una donna che si abbracciavano. Sembravano
disegnate, ma non era così.
Nebi aveva detto che erano le ombre di due persone incenerite vive da
una delle armi degli Antichi, e lui ci aveva creduto senza esitazione
ammutolendo nella meraviglia frammista ad orrore di un tredicenne che si
trova per la prima volta davanti ad una manifestazione tangibile della
distruzione. Capitava ancora che se le sognasse di notte, le labbra della
donna, tese in avanti come petali di una rosa nera verso la bocca del suo
compagno mentre intorno a loro il mondo andava avanti.
Jonas ebbe un brivido, ma sai Louis lo ascoltava attento. C’era
intelligenza nei suoi occhi, oltre che mira accurata, e molto probabilmente
quel giovane uomo era anche istruito.
“Il mondo è andato avanti” ribadì. “Noi diciamo così perché è quello che è
successo; ma nessuno sa veramente cosa c’era prima”.
Jonas accarezzò il muso del cavallo, pescando dalla bisaccia una zolletta
di zucchero ed offrendogliela sul palmo della mano. Poi riprese a condurlo
incitandolo piano con le briglie lungo la strada in discesa.
Ora parlava di spalle, ma sentiva che l’altro ascoltava ancora mentre si
avviavano.
“Siamo come su una spiaggia dopo la risacca: ci trovi sopra oggetti, cose
portate dal mare” concluse, prendendo a prestito una delle metafore
preferite di Nebi, “Sono macchine, congegni, motori che fanno luce o
riscaldano l’acqua. Molto poco di quello che arriva è utilizzabile, comunque,
ed ancora meno è comprensibile io lo dico”.
Jonas ebbe la sensazione che sai Louis annuisse, nel lasciarsi ricadere
sulle coperte della lettiga. Ed infatti era successo proprio questo.
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Quella sera si accamparono ai piedi dell’altura: Jonas cambiò le
fasciature alle ferite del suo compagno e rinnovò le medicazioni, ma si
accorse immediatamente del principio di infezione alla gamba. Non era
ancora così gonfia, iniziava appena a ingrossarsi e neppure si sarebbe
potuto dire che proseguisse; ma se lo avesse fatto la situazione sarebbe
potuta diventare seria. Il ragazzo scelse di non comunicare i suoi timori al
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compagno: cosa avrebbe cambiato, infatti, fargli sapere che poteva morire di
sangue concio di lì a pochi giorni?
La sua ferita alla spalla era certamente più trattabile: la casacca di cuoio
aveva smorzato di molto il morso del lupo così che la faccenda si era ridotta
a null’altro che un grosso ematoma violaceo in cui spiccavano i punti rossi
dei denti che erano riusciti ad affondare nella carne. Quella si sarebbe
infettata, ne era certo, perché solo Gan sa cosa c’è nella bava dei mutanti.
Ma l’avrebbe tenuta sotto controllo. Avrebbe trovato altre erbe di
medicamento con cui rinnovare la sua scorta, si disse, ed in un modo o
nell’altro ne sarebbero usciti entrambi.
L’indomani arrivarono in vista delle prime costruzioni.
Scesi dalla collina si erano inoltrati da qualche ora in una pianura arida e
giallastra, dove la strada asfaltata era l’unico punto di riferimento nella
nebbia del mattino. Le carcasse di veicoli abbondavano in quel tratto, molte
ridotti a nulla più che cumuli di ruggine e vetri rotti; ad intervalli regolari, a
lato della pista, c’erano numerosi pali di metallo che reggevano ancora
segnali dai colori sbiaditi: forse indicazioni per i viaggiatori, forse semplici
icone beneauguranti per gli spiriti della strada.
Verso mezzogiorno la foschia iniziò ad alzarsi e fu allora che Jonas le
avvistò, ancora lontane, proprio nella direzione in cui si stavano dirigendo:
ombre in lontananza, grandi forme squadrate forse di magazzini o depositi in
rovina, ed altre strutture più piccole che mandavano riverberi metallici al
sole.
Poi uno sbuffo di vento diradò l’ultima nebbia e il cavaliere si accorse che
la strada si stava affiancando ad una monorotaia. Emergeva suggestiva
come un miraggio dal nulla brumoso dell’orizzonte accostandosi alla
carreggiata in un canale artificiale foderato di cemento, distanziato una
ventina di piedi e sprofondato nel terreno per una decina, ancora protetto dai
resti di una barriera di strani pannelli traslucidi. Le forme lucenti non erano
altro che vagoni abbandonati alla spicciolata come i grani della corona di un
rosario; c’erano perfino alcune cisterne, quegli ampi cilindri di metallo che a
Gilead utilizzavano per conservare le scorte di acqua ed olio nei magazzini
della rocca fortificata.
Si avvicinarono ancora: le sagome squadrate si ingrandirono rivelando
capannoni dai tetti franati e dalle pareti sventrate, che incominciarono ad
apparire come fantasmi oltre la monorotaia insieme a strani macchinari
dotati di ganci. Passarono accanto ad un’enorme incastellatura di ferro che
la scavalcava come un arco, ancora in piedi malgrado lo spesso strato di
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ruggine sulle travature, poi la sua vista acuta distinse il primo dettaglio che
spezzò quell’atmosfera di immobilità irreale; più avanti, sotto la pensilina di
un piccolo fabbricato proprio a ridosso della ferrovia, un riflesso di sole e
vetro aveva tradito la presenza di qualcuno che guardava col binocolo.
Jonas spostò prudentemente la mano sul calcio della pistola e diede un
tocco di sprone. I vagoni si fecero più prossimi.
C’era una scritta sbiadita, nelle lettere della Lingua Eccelsa, sulle pareti
di un monolite rettangolare franato di traverso sulla strada: riusciva a
leggerla ma non a dargli un significato. Lo aggirò con inquietudine. Poco
dopo due tronconi dai bordi frastagliati erano tutto ciò che rimaneva di una
cisterna di carburante saltata in aria, attorniati da altre carrozze rovesciate:
la monorotaia era stata strappata via dallo scoppio per un buon tratto, al suo
posto un cratere ingombro di lamiere e detriti, arricciata verso l’alto alle due
estremità come la corda strappata di una chitarra; più avanti tornava integra,
sebbene opaca di ruggine, tra l’erba diavola che cresceva insinuandosi nelle
placche di cemento ed avviluppandosi ai sostegni marcati da bande
diagonali gialle e nere.
L’uomo sotto il portico apparve come un miraggio dietro gli ultimi vagoni
immobili: un vecchio con un cannocchiale al collo, che si puntellava dorso e
ginocchia con le mani, inarcato in avanti come un legnetto. Quando li vide
sbucare ancora lontani si sbracciò nei saluti ed una folata di brezza portò
loro l’eco della sua voce ed il saluto dell’Entro-Mondo. Il saluto di Gilead.
Jonas si rabbuiò.
Approdarono alla stazione pochi minuti dopo. Un avviso semicorroso,
pendente di sghembo dal muro, doveva aver portato chissà quanto tempo
prima il nome della località: ora non vi si vedevano che poche grandi lettere
stampate in un massiccio carattere bianco che non riuscì comunque a
leggere.
Il vecchio corse loro incontro immediatamente.
“Hile, pistolero” disse soltanto, Jonas lo vide flettere un ginocchio e
portarsi il pugno chiuso alla fronte in un gesto insieme di saluto e rispetto.
Vide che uno dei suoi occhi era velato dalla cataratta ed attorniato quasi del
tutto da pustole biancastre; l’altro era invece ancora ben vigile, di un verde
acceso e profondo, e gli si piantò subito in volto. La pelle sul viso dell’uomo
era giallognola, conseguenza certo della vicinanza delle paludi e dell’aria
che vi arrivava, con la sommità del cranio punteggiata da qualche ciuffo di
capelli che sembravano indecisi sia sul da farsi, cadere piuttosto che
rimanere ancora attaccati, sia sul colore da prendere tra il candido della
vecchiaia o il corvino della mezza età. La sua corporatura era scarna,
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braccia allungate e dita ossute, gambe da uccello lunghe e nodose dove
l’unica cosa tondeggiante era il ventre pingue da bevitore.
Tutto sommato, sai Mucchio d’Ossa appariva innocuo.
“Hile” lo salutò di rimando, smontando. “Veniamo in pace cercando
ospitalità e piacevoli conciliaboli. Noi trattiamo piombo, ma gli amici li
paghiamo in moneta sonante”.
Una vecchia formula di rito insulsamente retorica, il saluto del pistolero,
che sembrò comunque sortire il suo effetto. Il vecchio sorrise mostrando
quel che restava di una dentatura dove alcuni dei soldati ancora in piedi,
fatto abbastanza disorientante, scintillavano come se fossero fatti di ferro.
“L’una e l’altro avrete se mi seguirete” dichiarò e Jonas, non vedendo
alcun pericolo imminente, decise di accettare al volo quell’offerta smontando
e legando il cavallo ad uno dei pali della veranda.
Subito dopo aiutò sai Louis ad alzarsi dalla lettiga; avvertì la sua pelle
bruciare mentre lo sorreggeva, l’odore del suo sudore febbrile, e scrutò con
preoccupazione il gonfiore che tendeva la fasciatura alla gamba. Il vecchio si
fece sotto ad assistere, ed insieme sostennero il soldato ferito fin dentro la
dimora.
6
Pittoresco.
Fu quella la prima parola ad affacciarsi alla mente del ragazzo, prima
ancora che gli effluvi di una minestra che bolliva
(cipolle, era una zuppa di cipolle e carne, con forse una spruzzata di
pepe!)
mescolati ai sentori di tabacco, polvere e carta gli solleticassero le narici
distendendogli piacevolmente i nervi. Da un vestibolo perlinato di legno
scuro, dove notò un attaccapanni di legno con appesa una vecchia
palandrana polverosa, un porta-ombrelli vuoto ed una sputacchiera invece
disgustosamente piena, una seconda porta immetteva nella sala comune
dell’abitazione che non era altro che una semplice casa di ferroviere.
Una unica stanza anch’essa provvista di perlinatura alle pareti, qua e là
rigonfia per l’umidità, a tratti scardinata a lasciare intravvedere il muro
sottostante, li accolse con gli stessi profumi di cui aveva già avuto sentore
nell’anticamera; un tavolo di legno con una tovaglia a scacchi era posato su
un tappeto al centro della stanza, alcune sedie vi erano accostate, e poco
distante contro la parete di destra c’erano una credenza ed uno stipo:
attraverso la vetrinette Jonas distinse alcune file di piatti e bicchieri, e dei
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barattoli che senz’altro dovevano contenere spezie o cibo. Sul lato opposto
un piccolo caminetto col focolare annerito era fronteggiato da una sedia a
dondolo con un cuscino, verso cui l’esiliato si avviò spedito per depositare il
soldato ora in bilico tra la coscienza e lo svenimento.
“Ti si attacca qualcosa sul fuoco, sai” disse, notando che l’odore si era
fatto dolciastro, ed il vecchio si batté la mano scheletrica alla fronte.
“Per Dio, la zuppa! Col tuo permesso pistolero!” si accomiatò, defilandosi
con apprensione ed un’andatura dinoccolata che trovò decisamente comica.
Lo osservò sparire rapido in una porticina poco distante dal focolare, e fu
nuovamente da solo, libero di guardarsi attorno.
Quasi ogni centimetro libero della stanza era occupato da mensole, ed
ogni mensola aveva la sua personale collezione di ciarpame: barattoli, palle,
fiori secchi, vasetti, lattine (lo sguardo di Jonas fu calamitato per qualche
attimo di troppo da un curioso piccolo cilindro color acceso, dove
campeggiavano le parole _*’Nozz-A-La°-. in una strana grafia
spiraleggiante): sembrava fossero stati raccolti con meticolosità,
indubbiamente nel corso di decenni di accurata ricerca.
Dove non c’era una mensola, veniva invece un quadro: alcuni erano
certamente dipinti con olio o tempere, altri sembravano disegni, ma non poté
giurarci tanto la loro superficie era lucida ed i loro tratti così privi delle
imperfezioni anche minime del tratto schizzato.
Si era giusto avvicinato ad uno di quelli per dare un’occhiata più da vicino
quando il rumore del vecchio che faceva ritorno lo indusse a girarsi di nuovo.
“Ho smorzato il bollore” dichiarò, “Oh, la zuppa di cipolle è buona, ma se
consuma troppo diventa pesante da digerire, e…”. Il vecchio mimò il gesto di
qualcosa che partiva con violenza dal fondo dei suoi pantaloni, seguitando
un sogghigno sdentato (e, cosa più importante, dorato); Jonas annuì.
“Puoi fare qualcosa per il mio compagno, vecchio uomo?” chiese, subito
dopo. “Siamo stati feriti mentre passavamo per le paludi, e temo che gli stia
venendo il sangue concio. Aveva due brutti buchi alla spalla ed alla coscia
ed è proprio l’ultimo che mi preoccupa”.
Il vecchio annuì.
Un attimo dopo Louis si ritrovava disteso sul tavolo e la sua bendatura
veniva disfatta.
Ha fatto infezione considerò mentalmente Jonas, mordendosi un labbro
mentre rimirava la ferita lucida ed arrossata, gonfia senza dubbio di pus
come una piccola montagnola. Le bruciature della cauterizzazione
correvamo come venature nere nel rosso circostante della carne viva.
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“Hai cauterizzato, vero?”. la domanda del vecchio lo colse un po’ di
sorpresa. Annuì.
“Forse hai fatto bene e forse no, aye, in ogni caso ormai è cosa fatta”.
L’uomo caracollò verso la madia, l’aprì in un tintinnio di cianfrusaglie
sbatacchiate e ritornò al tavolo reggendo un piccolo rotolino di garze ed un
flaconcino; c’era una fascetta di carta che tratteneva le bende, notò Jonas,
bianca con una grande croce rossa al centro, e quando l’altro la strappò e la
gettò via ne studiò il volteggiare a terra come se osservasse qualcosa di
estraneo. Louis gemette.
“Questa viene da dove vengo io” lo informò il vecchio. “Come questo”
aggiunse, versando una piccola razione del contenuto del flaconcino
direttamente sulla ferita e tamponando con un batuffolo di cotone. Questa
volta i gemiti si trasformarono in grida gutturali. Jonas si accigliò.
“Una cosa ben strana a vedersi, io dico”.
Il vecchio sorrise.
“Aye, terremo conciliabolo, dopo; ne avremo il tempo, poiché questo
giovane signore…questo sai…avrà bisogno di riposare se vuole far scemare
la febbre di palude”.
“Così faremo” stabilì Jonas, tenendo ferme le bende che il vecchio
svolgeva intorno alla ferita.
Ed avrebbe avuto le sue domande.
7
“Così si dice: ‘L’Entro-Mondo ti rimane sulla lingua ancora per molte ruote
dopo che ti sei scosso la sua polvere dagli stivali’. Sei d’accordo, pistolero?”.
“Credo valga per il Medio-Mondo ugualmente. E per quello che viene
dopo, se c’è qualcosa”.
Jonas rispose con fare brusco, essere chiamato in quel modo lo
infastidiva per ragioni fin troppo ovvie. Il vecchio, se lo capì, non lo diede a
vedere.
Stavano tenendo il loro conciliabolo dopo il pranzo, ed avvertiva ancora il
calore della zuppa di cipolle nel ventre: un blocco liquido che sarebbe stato
difficile smaltire senza qualche salva di peti, ma che comunque, al momento,
lo faceva sentire bene.
Se solo non l’avesse chiamato pistolero…
“Aye, così si dice. I modi di dire e di fare di questo…del mondo” si
corresse, e di nuovo questo non sfuggì al suo attento interlocutore: il balzo
del tono era stato evidente come un aratro che cozza contro una pietra.
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“…i modi di fare del mondo, dicevo, ti si attaccano addosso”.
Il vecchio raccolse da terra un legnetto e lo buttò nel focolare nero e
vuoto del camino davanti al quale si erano accomodati, su due seggiole, per
tenere il loro conciliabolo. Louis dormiva nella stanza da letto del padrone di
casa: parlava nel sonno in una lingua che Jonas non capiva.
“Una strana introduzione per una riunione” puntualizzò e l’altro annuì.
L’occhio guasto rimase fisso dinnanzi, con disinteresse, mentre quello
buono seguì il movimento del capo fino a piantarglisi in faccia.
“Aye, ma strano è il mondo. Non credo di saper tenere la conversazione
con l’abilità di un narratore o di un cantore, giovane uomo, per cui andrò
dritto al punto.
Io parlo come quelli del posto, ma non sono di queste parti”.
Jonas annuì.
“Non sei di questa Baronia, dici?”.
“Aradia” lo incalzò, “Si chiama Aradia, la prima Baronia dell’Ovest, ancora
nell’Entro-Mondo ma già sulla via per abbandonarlo. Ma non è questo il
punto. Io non sono…non sono del posto” ripeté.
Jonas si accigliò, poi improvvisamente capì. E sentì un’ombra di freddo
scendergli giù dalla schiena.
“Tu non sei del posto” sottolineò, l’altro annuì con l’occhio matto
ballonzolante come un grumo di gelatina.
Lui non è del posto, lui forse viene da dove ho preso il mio ka-sai, lui
forse arriva…
“…da un’altra parte” sembrò completarlo l’altro, “Vengo da un’altra parte,
un posto che si chiama
(America)
America” disse, e Jonas annuì.
Aveva sentito questo nome non più tardi di ieri, quando lui ed il soldato
avevano parlato nell’allontanarsi dalla galleria degli Antichi.
“Te lo dico” proseguì il vecchio, “Perché ho la sensazione che nemmeno
il tuo compagno sia di queste parti. Nel senso che abbiamo appena detto”.
“Tu lo dici e dici il vero” annuì Jonas.
Rimasero in silenzio per qualche momento; nell’altra stanza sai Louis
borbottava qualcosa di inintelligibile, e la voce suonava opaca e distante da
dietro la porta di legno chiusa.
Quando ripresero a parlare, fu il vecchio a rompere il silenzio.
“Aye, davanti a Dio, potresti non credere ad una sola parola tanto è
assurda. Io ci ho messo un po’ ad accettarla”.
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Jonas mosse semplicemente la mano in uno stretto cerchio verticale, in
un cenno che voleva dire “avanti, continua”. E l’altro continuò.
8
Vediamo il vecchio, qui, ora, e vediamolo molto bene.
Il vecchio si chiama Red Aspen, sai Red per gli amici, sai - della - ferrovia
per chi ha fiato e tempo da sprecare nel pronunciarlo.
Red Aspen non è di queste parti, oh no, lui viene da un posto che si
chiama America: è una nazione grande e potente. Una nazione antica, se
vogliamo. Una che al momento non è più vicina a lui che gli astri della
Vecchia Madre nelle sere calde di Piena Terra.
Sai Aspen è un soldato, ha combattuto una guerra in una Baronia che si
chiama Vietnam, in un tempo (all’incirca) millenovecentosessanta anni dopo
la venuta dell’Uomo - Gesù: una terra calda e vaporosa, piena di grandi
foreste e uomini che vogliono ucciderti nel nome di strani ideali che loro
chiamano “comunismo”. Sai Red ha fatto la guerra perché i suoi governanti,
i signori nei loro castelli, l’hanno mandato a farla insieme a Dio solo sa
quanti altri ragazzi come lui.
Ma a differenza di molti altri, lui è stato abbastanza duro da sopravvivere.
Sai Aspen aveva uno sparasvelto e sapeva usarlo presto e bene: ha
ucciso i nemici dei suoi signori e si è guadagnato il loro benvolere e le loro
medaglie; dopo la guerra gli è stato concesso di tornare a casa, di vivere
tranquillo e riposarsi per un po’, godendo forse dei piaceri che la sua donna
avrebbe potuto offrirgli.
Se non fosse che il Ka aveva qualcos’altro in mente per lui.
Sai Red ride di un riso catarroso quando racconta del mondo che gli è
caduto addosso: mentre era in guerra sua moglie, avvocato di successo in
una grande città che si chiamava Washington, se la spassava con un suo
vecchio compagno di università (ed alla domanda di Jonas, “Cos’è una
università?”, il vecchio aveva fatto spallucce dicendogli semplicemente che
era un posto dove i giovani andavano per essere istruiti; Jonas aveva capito
ed annuito) nonché collega nello studio legale dove lavorava. Sai Red li
aveva beccati con le mani nella marmellata (“Aye, ma non era certo
marmellata quella dove gliele aveva infilate lui!”) una sera che era tornato a
casa dalle sue occupazioni un po’ prima del solito. E, come era
comprensibile, non l’aveva presa bene.
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Aveva spezzato qualche costola all’uomo e dato una bella rimescolata al
muso di sua moglie, davanti a Dio era stata la prima ed unica volta che
aveva alzato le mani su di lei, poi li aveva buttati fuori casa entrambi e si era
attaccato alla bottiglia per tutta la notte.
Pessima idea, giustificabile quanto si vuole, ma pessima davvero ed
avrebbe avuto tempo a sufficienza per capirlo. Mai fare il culo ad un
avvocato, figuriamoci ad una coppia di avvocati.
Il mattino dopo gli sbirri, o se preferiamo gli uomini dello sceriffo, si erano
presentati alla porta di casa sua. Due mesi soltanto e sai Red si era ritrovato
senza casa, senza denaro, senza lavoro e senza la possibilità di poter più
vedere le sue due splendide bimbe (perché nessun giudice sano di mente
permetterebbe mai ad un picchiatore di donne di crescere dei figli, giusto?)
Fino ad allora, sai Red non aveva mai capito a fondo il significato della
parola “disperazione”: durante la guerra aveva avuto paura, era stato sul
punto di lasciarci la pelle un paio di volte e non si contavano i momenti in cui
gli era salita la botta di sconforto al pensiero che probabilmente non avrebbe
mai più rivisto la sua casa e la sua famiglia.
Ma almeno sarebbe morto come un soldato, per il suo Paese. Per una
causa.
Quello che aveva iniziato a provare dopo la separazione da sua moglie
Angela era un sentimento ben diverso, non di paura, ma solamente di
abbandono puro e semplice; passò le prime settimane di Maggio nel suo
limbo personale, chiuso in una stanza di motel oppure ciondolante in giro
per le strade di Falls Church, Montana, con una bottiglia sottobraccio avvolta
dentro un sacchetto per il pane.
Era come se si fosse spento, e quel che è peggio non aveva nemmeno
più la forza di odiarla.
***
“Probabilmente, io non gliel’avrei fatta passare così liscia” commentò
Jonas, riscuotendosi un poco dal principio di torpore che aveva iniziato ad
assalirlo partendo dal ventre. Il vecchio si strinse nelle spalle con un sospiro.
“Penso che nessun uomo sia davvero preparato a farsi cadere il mondo
addosso”.
“Cosa facesti dopo?”.
Il vecchio sospirò mandando fiato alle cipolle.
“Andai lungo le strade del mio Paese; perché le strade sono una risposta
talvolta, oh si…le strade su cui incamminarti sono l’unica cosa che ti rimane,
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insieme alla pellaccia, quando non hai più nient’altro in tasca. E talvolta le
strade sono anche qualcos’altro, sono…come potrei dire…”.
***
Nascoste.
Ci sono strade nascoste, nella Baronia del Montana che sai Red chiama
casa; strade nascoste che portano in posti pericolosi, strade subdole che
quasi si spostano sotto i tuoi piedi per farsi imboccare: le riconosci dal modo
che hanno le cartacce ed i pacchetti vuoti delle Lucky Strike di rotolare
sull’asfalto d’estate, nero e caldo come la pelle di un lebbroso.
Sai Red sale su un autobus, uno di quelli che partono dalla contea per
portarti chissà dove, forse verso posti migliori, molto più probabilmente
affanculo; ha fatto il pieno di Jack Daniel’s e non capisce più un cazzo,
l’autista lo squadra con lo sguardo che si riserverebbe ad un alieno fuori
rotta e lui replica con un ghigno pestilente allungandogli un foglio da dieci.
Sono passati due mesi, Falls Church è lontana e l’orizzonte degli eventi è
sfocato. Sai Red crolla su un sedile in fondo e gli viene da vomitare, ma
riesce chissà come a tenere tutto dentro: non si spreca così il whisky, oh no,
sarebbe un delitto.
L’autobus mette in moto con un rombo da drago e parte immettendosi
sulla Interstate; dal finestrino filtrano gli odori di gomma e gas di scarico, che
si appiccicano alla gola sfidando uno stomaco già scosso. Sai Red si
rannicchia e piange mentre fuori sfilano le luci della notte: farà sogni brutti e
strani cullato dall’ondeggiare dell’autobus, di un mondo che brucia ed
avvizzisce, ma che con tutto lo potrà accogliere a braccia aperte; sognerà di
un posto nuovo dove andare e nell’incoscienza dell’alcool si sposterà senza
accorgersene.
Passerà, perché le barriere tra i mondi si sono fatte sottili ed il perno della
Grande Ruota è un mozzo ormai cigolante e consumato.
Il mattino sorprende l’uomo accoccolato sul sedile dove si era
addormentato la notte precedente; l’autobus è fermo nel parcheggio di una
stazione di servizio, ha ancora il motore acceso ma dentro non c’è nessuno.
Sai Red si alza con la bocca impastata ed un terribile cerchio alla testa, e
sbircia dal finestrino. Macchine sfrecciano sulle quattro carreggiate di marcia
della Interstate come l’acqua di un ruscello intorno ad un’isoletta di sassi; c’è
il sole ed un vento fresco filtra fin dentro l’autobus portando odore di fiori ed
erba tagliata.
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All’improvviso, con un sobbalzo ed un rombo, il pullman riparte e si
immette nella corsia di accelerazione. Davanti agli occhi di sai Red sfila un
enorme cartellone pubblicitario rosso che reclamizza, col sorriso
ammiccante e le grosse tette di una bella fica, una bibita che si chiama
Nozz-a-La. All’uomo non sembra di averla mai sentita nominare.
Si alza barcollando per i postumi della sbornia e si avvicina al gabbiotto
del conducente; la radio sta suonando, riconosce la musica. Lirica italiana, in
Vietnam aveva un caporale che veniva da quelle parti: è il “Và Pensiero” di
Verdi, cantato in una curiosa interpretazione melodica con tanto di chitarra e
violini da un duetto di voci che non ha mai sentito, almeno una delle quali
deve appartenere ad un tenore; per un attimo l’uomo lascia che sia il suo, di
pensiero, a venire cullato sulle ali dorate della melodia prima che l’autista si
accorga di lui ed attiri la sua labile attenzione con un discreto colpo di tosse.
Red si riscuote e lo mette a fuoco a fatica, ed all’improvviso ha la
sensazione che non sia lo stesso uomo che era alla guida la notte scorsa;
disorientato chiude gli occhi scuotendo la testa, rifiutando quel pensiero così
folle anche per un alcolizzato: probabilmente è ancora fuori per quello che
ha buttato giù, tutto qui. Ma passerà, ne è convinto, passerà e come sempre
dopo una sbornia il ripiombare nella sua detestabile esistenza di relitto
umano sarà insieme confortante ed avvilente.
“Ci siamo svegliati eh?” gli dice quello, dando una leggera sterzata ed
iniziando il sorpasso di una Chevrolet.
“Tra mezzora si arriva, se il traffico non peggiora”.
Red si gratta la barba di una settimana: la sensazione che sta provando
non gli piace proprio per nulla. Dove cazzo sono finito? è la domanda che,
irrazionalmente, continua a rimbalzargli in testa; eppure troppo lontano non
può essere andato. Non certo in Canada, non in una sola notte di viaggio, e
nemmeno può aver cambiato Stato. Oppure si?
“Chi è il Presidente?”
Non sa nemmeno lui il perché della domanda, e l’autista lo guarda
stranito per un attimo prima di riportare gli occhi sulla strada.
“Nixon, giusto?” continua. “È Nixon il nostro presidente, vero?”.
L’autista gli rivolge nuovamente un’occhiata frastornata.
“Non c’è nessun Presidente che si chiami così, mister…l’ultimo che
abbiamo avuto è stato Donald Taylor, che si è dimesso dopo che abbiamo
vinto in Vietnam l’anno scorso: lo scandalo Miami Beach, anche se sarebbe
meglio dire ‘Miami Bitch’. Non ho idea di cosa porti un uomo che ha tutto a
farsi beccare in una camera d’albergo con una puttana messicana
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minorenne: davvero sono tempi in cui sembra che tutti abbiano dimenticato
cos’è la morale”.
Ma sai Red non lo ascolta nemmeno più: sente le gambe che gli cedono
e le sue dita scivolano sul vetro unto del gabbiotto mentre la testa cade in
avanti. L’America non ha vinto in Vietnam, ci siamo ritirati invece…e l’ultimo
Presidente era Richard Nixon, che teneva duro contro lo scandalo
Watergate e non aveva l’aria di chi vuol mollare.
“Mister, è sicuro di sentirsi bene?”.
Red sente che il pullman sta decelerando e piega verso destra. Annuisce
semplicemente al tono preoccupato dell’uomo.
“Troppo whisky, ma starò bene presto”.
La radio racconta delle torri diroccate di Sion, passando dall’Italiano ad
una lingua a lui più comprensibile, mentre le porte del mezzo si aprono con
un sibilo di serpente: l’odore che entra, ora ne è sicuro, non è quello
dell’estate del 1974.
In qualsiasi posto sia finito, in qualsiasi modo vi sia arrivato, non è più a
casa.
L’uomo rialza il capo e vede entrare altre persone, uomini e donne del
tutto normali che non gli rivolgono più di un’occhiata schifata, compatita o
indifferente prima di prendere posto.
“Qual è la prossima fermata, uomo?”.
La voce di Red ha un tremito, non vuole realmente sapere ciò che ha
appena chiesto, ma l’altro è più veloce.
“New York, la grande mela. Questione di mezz’ora, al più tardi un’ora,
come ho detto dipende dal traffico”.
Sai Red lo saluta con un accenno del capo, e strascicando i piedi torna al
suo posto verso il fondo del bus.
New York! Questa è follia, non può aver coperto tutto il tragitto in una
notte…
Fuori dal finestrino sfrecciano auto dai nomi mai sentiti prima, in
lontananza fa capolino lo skyline della città…e sai Red si sente fottutamente
perso, senza aver con tutto ciò capito come questo possa essere successo.
9
“Sei finito in un posto diverso nell’arco di una sola notte”. L’uomo annuì
con un sorriso storto.
“L’hai detto, giovane: io non ne sono mai venuto a patti”.
“Il mondo sta ancora andando avanti…”
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“Avanti ogni attimo che passa”. Il vecchio scuote piano il cranio pelato. “E
non può venirne nulla di buono”.
“Poi cosa successe?”
“Non voglio annoiarti troppo, ora”. L’uomo gli rivolse un sorriso giallastro
e luccicante. “Se come penso dovrai tornare qui da me, il tempo di
proseguire il conciliabolo non ci mancherà”.
“Pensi che il mio compagno possa guarire?”
“Mi sono rimaste medicine dei posti da cui sono venuto, e la scienza dei
mondi in cui sono transitato era progredita; ma sono passati decenni, e non
posso dire se siano ancora buone”.
“Acqua sarà se Dio lo vorrà” commentò Jonas. “Ci sono paesi qui
intorno?”
“Vai avanti nella direzione della ferrovia e troverai Galloway, qualche ora
se vai al passo e molto meno se spremi la tua bestia: è abbastanza grosso
ma il folken è bastardo ed infido! Guardati dallo sceriffo e dai suoi aiutanti”
ammonì, “Aye, mai conosciuti dei figli di puttana calzati e vestiti come quelli,
dannatamente svelti con i loro ferri da tiro. Si dice che tra di loro vi siano dei
pistoleri fallati, degli esiliati…degli scartati, capisci cosa intendo?”
“Aye, capisco si” rispose cupo, ed il vecchio sembrò avvedersene perché
non proseguì il suo parlare.
Nel tardo pomeriggio Jonas si accomiatò dal vecchio e dalla sua casa
nella stazione, dopo essersi raccomandato di prendersi cura del compagno;
l’avrebbe ricompensato, se così avesse fatto…ma, e glielo disse in modo
chiaro, l’avrebbe ucciso dolorosamente se avesse cercato di fregarlo. Si
lasciò anche indietro le sue armi, non tenendo con sé che le sue pistole ed
un fucile miliziano, immaginando che al soldato avrebbe fatto piacere
riaverle non appena si fosse ristabilito: era una prova di fiducia non da poco,
una decisione che non prese a cuor leggero.
Stando alle indicazioni del sai dall’occhio matto bastava seguire la
ferrovia per andare a sbattere nel villaggio di Galloway: ne avrebbe fatto
volentieri a meno, ma c’erano provviste da rinnovare se avesse voluto
tornare fino ad Am’lis e chiederle se voleva seguirlo.
Seguì la linea della monorotaia fino a quando il non si inerpicò su un
cavalcavia di vetro e piloni di ferro scavalcando la strada, scendendo giù e
perdendosi tra la foschia nella steppa alla sua sinistra; nemmeno un’ora più
tardi arrivò alle prime baracche, quando il sole stava già scendendo oltre
l’orizzonte e dalle paludi si era alzato un vento gelido e tagliente.
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Il borgo estendeva le sue propaggini intorno alla strada asfaltata che
aveva seguito fin lì come una crescita di funghi su un tronco: la via si
snodava tra file disordinate di baracche, che si facevano gradatamente
meno fatiscenti mano a mano che si inoltrava nella città, attraversando
parecchie vie trasversali dove ristagnava l’odore dei canali di scolo e del
legno marcio. Quella che lo aveva accolto doveva essere la città bassa, e la
sagoma scura di una piccola collina più avanti dava proprio l’idea che il
centro abitato proseguisse inerpicandosi sui crinali ad ospitare il folken più
ricco.
Pochi sfaccendati accolsero il suo arrivo, vecchi sotto le verande oppure
ubriaconi stravaccati nella polvere con la bottiglia ancora stretta tra le mani,
e ancor meno occhi si girarono a guardarlo. Jonas seguì la strada fino ad un
crocevia, in una piccola piazza di terra battuta, dove si biforcava: l’asfalto,
reso logoro e sconnesso dal passaggio di migliaia di ruote, si diramava
verso la sua destra in una pista che probabilmente conduceva fuori
dall’abitato; si avvicinò ad un segnale di legno e lesse a fatica la parola
“Lys”.
Studiò brevemente la via deserta, secondo la sua carta geografica
mentale da quella parte si tornava verso Gilead, poi le note scordate di una
pianola da saloon gli fecero immediatamente capire dove doveva essersi
rintanata tutta la vita del paese.
Con un sorriso diede al baio un leggero tocco di ginocchia voltandolo
nell’altra direzione: la nuova strada, un nastro più stretto di acciottolato
sconnesso, puntava dritta verso la sagoma scura della collina.
10
Trovò il posto con facilità, perché era stato costruito in modo che anche i
visitatori di passaggio non mancassero di trovarlo e non rinunciassero a
lasciare parte dei loro denari nelle tasche dei giocatori a pianterreno e delle
puttane a quello superiore. Nelle ombre della sera il saloon era una
costruzione alta e decrepita in legno perlinato, con il tetto a spiovente ed una
fila di finestre appena sotto; una veranda, dove c’erano alcune sedie a
dondolo sfitte ed una sputacchiera, occupava la parte anteriore dell’edificio
ed alcuni cavalli erano legati per la cavezza ad un sostegno vicino all’
abbeveratoio.
Dalla porta a battenti e da alcuni finestroni di vetro smerigliato filtrava la
luce densa delle lampade ad olio, insieme al rumore di molte voci, e si
vedevano ombre di uomini muoversi avanti e indietro all’interno.
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Jonas smontò da cavallo ed andò a legarlo a sua volta, ripromettendosi
di recarsi allo stallaggio non appena avesse visto che aria tirava e si fosse
sincerato che le mani di Gilead non erano ancora arrivate fin lì. Si sistemò le
falde della giacca in modo che nascondessero le sei colpi nelle fondine ai
fianchi, poi diede un’aggiustata al cinturone e si passò una mano tra i capelli
sporchi.
Well, Cindy is a little gal, she lives away down south, si sentiva cantare
da voci impastate, she's so sweet the honeybees swarm around her mouth!
Le note della pianola che lo aveva adescato accompagnavano un canto
sguaiato, insieme all’odore di fritto ed al sentore rancido di sudore ed
animali. Entrò rimanendo subito fermo sulla soglia.
Probabilmente era sabato, l’animazione dava certamente da pensarlo;
una spessa cappa di fumo proveniente da decine di pipe, sigari e sigarette si
era accumulata a rendere quasi irrespirabile l’aria di una grande sala
rettangolare affollata di tavoli non uno dei quali era libero: uomini dall’aspetto
di carrettieri, scavapietre o contadini giocavano infervorati a poker, a
Guardami, a Castelli ridendo sguaiatamente oppure imprecando al rivolgersi
delle loro fortune; altri mangiavano masticando a bocca aperta, altri
palpeggiavano le intrattenitrici della casa rivolgendo sorrisi neri e disgustosi.
L’atmosfera era tanto confusionaria che pochi notarono l’ingresso del
ragazzo, e meno ancora gli dedicarono più di un’occhiata distratta prima di
tornare alle loro occupazioni.
Jonas scansò un ubriaco barcollante e si decise a darsi una mossa
iniziando ad inoltrarsi tra i tavoli. Come a volerlo incitare la pianola si
arrampicò in un rapido crescendo di accordi, manovrata sul fondo della sala
vicino ad un piccolo palco da un suonatore che gli dava le spalle, a cui si
unirono subito le voci degli ubriachi.
Get along home, Cindy Cindy!
Get along home, Cindy Cindy!
Get along home, Cindy Cindy!
I'll marry you some day!!!
Cindy, come la nipote del vecchio gentile di Am’lis. Jonas provò una fitta
di nostalgia, prima che il romanticismo del momento venisse spazzato via
dallo sputo di un vecchio che, diretto ad una sputacchiera, l’aveva invece
centrato in pieno stivale. Quando l’uomo se ne accorse ragliò una risata e gli
rivolse un sorriso sdentato.
Qualcuno sparò un colpo di pistola ma il rumore quasi si perse nel
frastuono dell’attacco della strofa successiva; il ragazzo decise di non
chiedere conto dell’oltraggio subito e procedette per il banco, le sue narici
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immediatamente solleticate da un sentore di torcibudella tanto robusto da
sovrastare il lezzo dei corpi sudati e sporchi. Poco più in là una prostituta
ubriaca saltò sul tavolo e cominciò ad ululare la canzone agitando gonna,
sottoveste e culo per eccitare gli uomini che tutto intorno battevano le mani e
fischiavano. Si sentirono partire altri spari.
Jonas stava per farsene versare uno quando gli eventi precipitarono
rapidamente. Un giovane vestito di nero, poco più che un ragazzo in verità,
saltò sul tavolo insieme alla ragazza e le passò un braccio intorno alla vita
cercando di abbracciarla; lei si ritrasse scuotendo il capo e sorridendo.
Evidentemente poco incline a venire respinto il giovane ci riprovò, questa
volta lei lo spinse via con più decisione e provò a scendere. Jonas notò solo
in quel momento che gli uomini prima accalcati intorno al tavolo si stavano
facendo in disparte e come un’onda il silenzio andava diffondendosi come
un’onda veloce nel locale; solo la pianola non aveva smesso, probabilmente
soltanto perché il suonatore era troppo gonfio per accorgersi di quello che
stava succedendo.
Il ragazzo la acchiappò per un polso e glielo torse con cattiveria, poi,
quando questa urlò, le rifilò un violento calcio in mezzo alla schiena. Jonas
avvertì distintamente il suono secco delle ossa che si spezzavano quando
atterrò a corpo morto sulle assi del pavimento.
La prostituta urlò ancora e si trascinò sulle braccia tentando di rialzarsi,
ma l’altro saltò giù a sua volta e le fu subito sopra. “Ora ti scopo dove sei,
puttana!” gridò, il suono della pianola si interruppe di colpo su un’ultima nota
acuta che aveva un non so che di comico. Il giovane in nero le rifilò un calcio
allo stomaco, poi fece per caricare il secondo mirando al volto quando Jonas
estrasse la pistola e sparò un colpo nella sua direzione.
Lo scoppio fu potente, ben più forte dei colpi che aveva sentito poco
prima: la bottiglia sul tavolo esplose in una nuvola di cocci di vetro e schizzi
di whisky ambrato, e subito dopo il vetro della finestra sulla parete di fondo
andò in frantumi, la pallottola rasentando nella sua corsa i mustacchi di un
uomo immobilizzato come gli altri in quella sorta di comica attesa. Il giovane
si abbassò di scatto sulle ginocchia come un animale sorpreso dal
cacciatore.
Gli uomini al banco fecero cerchio intorno a Jonas allontanandosi
rapidamente a loro volta.
Per qualche interminabile secondo nessuno parlò, il saloon sembrò
congelarsi nell’immobilità, con soltanto il rumore del vento fuori a fare da
sottofondo. Poi, quando Jonas sentì il giovane in nero parlare, avvertì un
fremito di panico ed ebbe la sensazione di aver fatto una mossa avventata.
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“Credo che tu abbia appena sparato nella mia direzione, amico. Vuoi
spiegarmi di grazia il perché?”
La voce non tradiva emozioni, era fredda come una lama di coltello: la
voce di uno che sa il fatto suo. Ma cedere alla paura, oltre che non aiutarlo
minimamente, non era certo quello che avrebbe fatto un pistolero.
“Credo tu abbia preso a calci quella puttana, un attimo fa” lo rimbeccò.
“Non te l’ha detto tuo padre che le puttane si scopano, e non si prendono a
calci senza motivo?”.
Un mormorio passò come una folata di vento tra gli uomini nel saloon; il
pavimento scricchiolò piano quando alcuni tra i più vicini ritennero opportuno
mettere maggior distanza dai due contendenti, presumendo a ragione che la
controversia non si sarebbe risolta che a pistolettate. La prostituta storpiata
si trascinò penosamente, ma velocemente, fuori dal teatro dello scontro e la
folla si richiuse come una tenda facendola sparire alla vista.
L’uomo in nero si rimise in posizione eretta con un unico movimento
fluido e veloce, fermandosi con le braccia lievemente allargate e le mani in
corrispondenza dei fianchi. Jonas fece scattare il cane della pistola al primo
accenno di spostamento, ma soltanto quando l’uomo si fu alzato notò la
curva di una fondina al fianco sotto la falda della giacca.
“Non ti ho detto di muoverti. Fallo ancora e ti pianto una pallottola in
testa”.
L’uomo in nero sorrise appena.
“Credo di non avere bisogno del tuo permesso per decidere cosa fare,
anche se ti ritieni svelto abbastanza da poter dettare condizioni”.
Jonas non rispose, l’altro lo fissò per qualche istante ancora. Poi senza
alcun preavviso estrasse dalla fondina una pistola di forma inusuale e fece
fuoco verso di lui.
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Fardo ne era convinto: ogni pistolero che si rispetti deve possedere in
qualche misura il Tocco, poiché a renderlo differente da un qualsiasi
masnadiero armato non può essere la sola abilità nello sparare. E se un
Manni lo usa per fare profezie, vaticini sul raccolto o rivelazioni sui disegni
degli Dei, ad un pistolero il Tocco viene in aiuto per reagire in modo molto
più rapido di quanto il cervello possa mai fare da solo, non importa quanto
buona sia la vista o pronti i riflessi. Il maestro ci credeva così tanto che li
aveva esortati a lungo ad ascoltare il loro Tocco e ad abbandonarsi ad esso
nelle situazioni che lo richiedevano; Jonas l’aveva sempre vista come una
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mania, una di quelle molte idiozie, a suo dire, con cui Fardo e Nebi
riempivano le loro teste distogliendoli dalla vera conoscenza dei pistoleri.
Quella sera nel saloon cambiò improvvisamente idea.
12
Il giovane vestito di nero aveva estratto e sparato con la rapidità di un
fulmine, il suo movimento non era stato nulla più che uno svolazzo di stoffa
e metallo nell’aria sporca del saloon; se la reazione di Jonas fosse stata
mediata dalla percezione di certo non ne sarebbe uscito indenne. Ferito
gravemente, era probabile, forse anche ucciso perché non importa quanto
sei rapido: c’è sempre qualcuno che lo è più di te.
Invece Jonas ebbe coscienza del suo corpo che agiva come dotato di
vita propria e per qualche istante fu un mero spettatore delle sue reazioni.
Sentì il fianco e la gamba sinistra schivare con un rapido scatto all’indietro, il
torso ruotare appena mentre sparava a sua volta, ed i botti delle detonazioni
gli giunsero ovattati e distorti: la pallottola dell’uomo in nero gli sfiorò l’anca
scavando una traccia nel cuoio della giubba e nella carne più sotto mentre la
sua, più precisa, fece volare via in uno scoppio sanguigno la pistola dalla
mano dell’altro.
Pochi secondi ed era tutto finito.
Il ragazzo in nero lo guardava con gli occhi sgranati e la bocca aperta in
un’espressione di disorientamento ebete; la mano prima armata gli
penzolava inerte al fianco priva delle ultime due falangi del medio, ora
occhieggianti poco più in là da un monticello di segatura da vomito come un
curioso verme bianco-rossastro. Non avvertiva neppure dolore, solo un
sordo intorpidimento. Ed incredulità totale, quella si, all’improvviso
capovolgimento di fronte.
“Brutto bastardo…” balbettò con voce flebile, Jonas si strinse nelle spalle
avvicinandosi e piazzandogli la canna sotto il naso: l’altro si ritrasse di un
mezzo passo stringendosi la mano ferita al petto, che a quel gesto si
risvegliò di colpo facendolo urlare di sofferenza.
“Chi è causa del suo male piange sé stesso, sai” rispose con calma. “Sei
veloce, ma non puoi sperare di avere la meglio su un uomo che ti tiene una
pistola puntata contro. Non te l’hanno spiegato quelli che ti hanno addestrato
a sparare?”
“E a te non hanno spiegato che non si creano problemi senza motivo,
straniero?”.
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Sorpreso nel pieno del suo compiacimento dalla nuova voce, che
arrivava da qualche parte del suo angolo cieco, Jonas fece per girarsi ma lo
scatto repentino di un otturatore gli consigliò prudenza bloccandogli il collo
ed il torso a metà strada.
Passi pesanti si avvicinarono rapidi dietro le sue spalle ed un secondo
dopo qualcosa di freddo e duro lo pungolava al fianco ferito: abbassando lo
sguardo vide una canna di forma non comune, traforata sui lati e con un
curioso mirino triangolare, che lo spingeva per farlo staccare dal banco. In
effetti, considerò con una punta d’amarezza, sarebbe stato troppo bello se la
situazione si fosse risolta così.
Jonas girò lentamente la testa incontrando un paio di occhi suini venati di
rosso e di giallo, incastonati in una faccia larga dotata di capelli, barba e
baffi ugualmente lerci; abbassando lo sguardo notò con una stretta al cuore,
appena sopra il curioso e massiccio fucile che l’uomo gli teneva puntato
all’altezza dello stomaco, una stella di sceriffo appuntata di lato su una
pettorina bisunta. Tocco o non Tocco, la sua vittoria era stata fin troppo di
breve durata
“Te lo dirò una volta sola. Fai cadere quel cannone o ti riempio di piombo.
Questo sparasvelto non scherza, e nemmeno io sono in vena di giochi”.
Jonas eseguì rapidamente.
“Ammazzalo capo, fallo fuori quel figlio di puttana!” strillò il mutilato,
riprendendo coraggio alla vista dell’avversario reso così rapidamente
inoffensivo.
“Mi ha rovinato la mano, cazzo, mi ha rovinato la mano!”.
“Piantala Castor, dacci un taglio con queste stronzate; davanti a Dio,
mica ti ha ammazzato. Ora slacciati il cinturone” continuò, nuovamente
rivolto a Jonas. Mentre il ragazzo ubbidiva un terzo uomo, all’apparenza
poco più grande di lui, usciva dal cerchio di folla per accostarsi al ferito con
aria preoccupata.
“Eccoti Pollux, dove cazzo eri finito?” lo apostrofò. “Quando ho detto
‘entra dal retro’ non intendevo dire: ‘entra dal retro e fermati per il tempo che
ti serve a scoparti tutte le troie di Madame Higgins’, idiota. Raccogli le armi
di questo campione”.
L’uomo si accigliò ma non disse nulla; mentre la riponeva per raccogliere
il suo cinturone, Jonas notò che anche lui impugnava una pistola
decisamente diversa dai modelli che era abituato a vedere: lo sceriffo
l’aveva chiamata ‘beretta’ ed aveva la sensazione di averlo già sentito,
questo nome, sussurrato nelle conversazioni dei trafficanti di dubbia
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reputazione nelle bettole della città bassa. Uno scappellotto lo strappò alle
sue riflessioni facendogli schizzare il cranio in avanti.
“Muoviamoci” abbaiò lo sceriffo, e quando si avviò la folla si aprì in due
ali per farli passare. Preceduto dal marshal ed affiancato dai due giovani
suoi aiutanti, Jonas realizzò che non aveva possibilità di svignarsela né idea
di quello che gli avrebbero fatto passare; secondo il vecchio della ferrovia lo
sceriffo era ‘un figlio di puttana calzato e vestito’: ed a giudicare da come
l’aveva pizzicato doveva essere anche abbastanza sveglio, compensando in
ciò quello che l’età ed il disfacimento del corpo gli avevano portato via in
velocità e prontezza di reazioni.
Appena fuori dal saloon, lo sceriffo lo afferrò per il bavero della giacca.
“Ora ti porto dentro, e ti consiglio caldamente di non provare a fregarmi”
sibilò. “Sei rapido, oh si, ma parola mia non puoi esserlo più di una pallottola
che esce da qui dentro. Chiaro?”.
“Come il sole” accondiscese Jonas con un brivido ed un rapido accenno
del capo; ed in quel momento, sentendo la sua voce, il cavallo ebbe una
pessima scelta di tempi per salutarlo con un nitrito.
“Abbiamo anche un cavallo, qui, io vedo e sento. La serata è piena di
sorprese”. Lo sceriffo sogghignò in un’esalazione di fiato rancido mostrando
denti ingialliti e rovinati.
“Bella bestia” commentò l’uomo che si chiamava Pollux avvicinandosi al
cavallo per accarezzarne il manto.
“Come non se ne vedono spesso da queste parti, proprio no”.
“Ce la prendiamo noi” sentenziò in risposta lo sceriffo, mollandolo e
dandogli uno spintone di incoraggiamento.
“Muovi le gambe campione, ti portiamo a casa”.
Jonas meditò soltanto per un attimo di svicolare e buttarsi nel vicolo di fianco
al saloon, ma per fortuna non assecondò il pensiero; in ogni caso le sue
previsioni, di cavarsela con un passaggio veloce e l’acquisto di qualche
provvista, erano clamorosamente saltate.
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L’ufficio dello sceriffo era un solido edificio in muratura, affacciato sulla
Main Street qualche via più avanti rispetto al saloon dove la strada iniziava a
salire sul fianco della collina. Lo sceriffo spinse dentro Jonas in malo modo,
non appena la porta venne aperta, piantandogli il calcio dello sparasvelto tra
le scapole.
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“Benvenuto a casa” dichiarò, mentre l’aiutante sano accendeva le
lampade ed il ferito si lasciava cadere su una sedia vicino alla stufa.
Jonas ebbe solo il tempo di dare una veloce occhiata intorno: la stanza
era piccola e puzzava di chiuso, cibo e tabacco; c’erano scaffali addossati
alle pareti e faldoni ad occuparne i ripiani, e due rastrelliere dove facevano
mostra alcuni fucili emergevano dall’ombra sul muro di fondo accanto ad
una porta di legno verso cui si sentì spingere. Sfilò davanti ad una scrivania
ingombra di carte, una vista tutto sommato rara in un mondo che aveva
quasi dimenticato come si fa a produrla, e colse un rapido scorcio di un’altra
stanza che si apriva oltre una parete divisoria (probabilmente l’alloggio dello
sceriffo) prima di venire ficcato a forza nello stretto corridoio buio che dava
sulle celle: il marshal lo fece accomodare senza troppi complimenti
nell’ultima, abbassando la guardia soltanto quando la porta della gabbia fu
ben chiusa.
“Ora possiamo parlare con calma” riprese, appoggiandosi con
l’avambraccio alle sbarre della cella e piantandogli in volto due occhi duri e
penetranti. “Chi sei, da dove vieni, chi ti manda e cos’hai intenzione di fare
nella mia città. Bada, voglio risposte serie”.
Jonas sentì istintivamente gli occhi fuggire lo sguardo dell’uomo, ma si
impose di non farlo. Sarebbe stata una lampante dimostrazione di
mancanza di spina dorsale.
“Mi chiamo Ewan Prescott” disse semplicemente, prendendo a prestito il
nome di uno dei suoi compagni di bevute a Gilead. “Sono un computista,
vengo da Debaria ed ero diretto a Gilead; ho sconfinato perché sono stato
attaccato dai briganti lungo la strada per la capitale…”.
Jonas deglutì, fermandosi un momento ad osservare il volto dello
sceriffo nella penombra tremolante della lampada ad olio: l’uomo non
sembrava lasciar trasparire alcuna emozione. Semplicemente, accortosi
della pausa, mosse in circolo la mano destra nel gesto che voleva dire
‘continua’. Il giovane che aveva chiamato Pollux lo raggiunse dall’ufficio
proprio mentre Jonas stava riprendendo il suo racconto.
“Avevo appena superato Taunton, non avevo altri posti in cui fuggire se
non le paludi; me li sono lasciati alle spalle, per fortuna, poi ho seguito una
vecchia strada attraverso alcune gallerie nelle montagne…”
“Aye, la via degli Antichi” si intromise Pollux. “Ma non c’era una sottilità a
sbarrare il cammino?”. Lo sceriffo gli fece cenno di tacere.
“Io sono riuscito a passare, sottilità o meno, e non c’è molto altro da dire”
riprese Jonas.
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“Non avevo intenzione di creare problemi, ma quando ho visto quel tirapiedi
che se la stava prendendo con una puttana senza motivo…in fondo volevo
solo schiarirgli le idee. Volevo solo spaventarlo, non avrei mai sparato su di
lui se non l’avesse fatto lui per primo”.
Lo sceriffo sorrise.
“Quel tirapiedi fa parte del comitato dei vigilanti di Galloway, ed è
dannatamente svelto con la pistola. Nonostante questo tu non solo l’hai
battuto, ma l’hai anche risparmiato. La mia domanda adesso è: per quale
ragione? Lui non lo avrebbe fatto, perché è crudele anche se non tanto
sveglio”.
“Farlo fuori non mi avrebbe dato nessun guadagno” rispose
semplicemente.
“E cosa avresti fatto se non fossimo arrivati?”.
“Mi sarei ripreso il cavallo e sarei scappato ventre a terra”.
“Noi ti avremmo inseguito: anche se non fossi stato lì, tempo mezzora ed
avresti avuto al culo una posse di almeno dieci uomini tutti abituati a
maneggiare il fucile fin da ragazzini”.
“Avrei preso i miei rischi, in quel caso, così come voi i vostri”.
Lo sceriffo non rispose. Pollux, che nel frattempo, se n’era di nuovo
andato, fece ritorno portando un grosso faldone di carta rilegato in pelle che
immediatamente porse al suo superiore; lo sceriffo iniziò a consultarlo
velocemente alternando occhiate ai fogli ed alla sua faccia e Jonas sentì
una stretta alla bocca dello stomaco quando capì che si trattava di un
raccoglitore di avvisi di taglia.
“Ewan Prescott?” lo interrogò con scherno qualche attimo dopo. “Un
computista di Debaria diretto a Gilead, hai detto?”.
Pollux si mise a ridere, lo sceriffo si limitò ad accennare un sogghigno
mentre gli apriva sotto il naso una pagina in cui campeggiava un suo
accurato ritratto, tra la scritta ‘Ricercato vivo o morto’ e le parole ‘Duemila
pezzi d’oro’.
“Per omicidio ed alto tradimento, altro che computista! Ragazzo sei nella
merda”.
Jonas sospirò abbassando gli occhi.
Si sentiva stanco, frustrato e triste ma quando rialzò lo sguardo credette
di scorgere qualcosa di indefinito, sebbene rassicurante, nel fondo degli
occhi dell’uomo ancora fissi sui suoi.
“Pollux, lasciaci soli” disse. “Vai a vedere cosa combina quell’altro
coglione di tuo fratello con la sua dannata mano”.
92
Quando lo scatto della porta all’inizio del corridoio ebbe segnalato la sua
uscita di scena, lo sceriffo tornò a dedicarsi a Jonas. Agguantata una sedia
che stava appoggiata al muro l’uomo si sedette con un piccolo sbuffo e si
mise il mitragliatore di traverso in grembo.
“Ora che abbiamo scoperto chi sei, ragazzo, abbiamo due strade davanti:
o mandiamo un piccione viaggiatore a Gilead, domani mattina, così da
riportarti all’ovile - e puoi star certo che da quelle parti saranno molto, molto
contenti di rivederti se il loro modo di ragionare non è cambiato dall’ultima
volta che ci ho avuto a che fare - oppure possiamo trovare un accordo.
Duemila pezzi d’oro sono tanti e devo dire che sono estremamente tentato
da una somma del genere; yar, sai quante puttane mi ci potrei comprare, per
me ed i miei aiutanti? Anche dividendola con quell’inetto del sindaco, non
dubito ne pretenderebbe una parte per le casse della città, ce ne sarebbe
abbastanza per spassarsela per quasi un anno. Ma…” l’uomo proseguì,
abbassando il tono di voce, “…ma duemila pezzi d’oro sono ancora poca
cosa, se paragonati al valore di un ragazzo tanto svelto con le pistole da
bucare una zampa ad uno dei miei uomini migliori. Specie se quel ragazzo
ha tutta l’aria di essere un pistolero; dico bene, campione?”.
“Sono stato addestrato come pistolero” concesse Jonas, “Ma sono stato
scartato perché non ho superato la prova finale, quella per ottenere le mie
pistole”.
“Oh, ma te le sei prese lo stesso, e si vede chiaramente che hai una dote
rara nell’usarle. Un vero dono, se posso dirtelo. Tale e tanta è la cecità di
quegli idioti a Gilead, nel ritenersi i depositari prescelti della saggezza, da
non rendersi conto del valore pratico delle persone; tutto per assecondare le
loro fissazioni ed i loro riti…”.
L’uomo fece una pausa. “Cos’hai combinato per beccarti un’accusa di
tradimento? Chi hai fatto fuori?”.
“Ho ucciso un apprendista, è quello a cui ho preso le armi” mormorò
Jonas, “Eravamo amici io e lui, non mi va molto di parlarne”.
Lo sceriffo non rispose; lo fissò più a lungo questa volta, e Jonas avvertì
una strana, spiacevole sensazione alla base del cranio che non seppe
identificare.
“Yar, ed a me non interessa poi così tanto, in fondo”, replicò alla fine.
“Qui non troverai amici ma gente che come te ama farsi strada nella vita,
che cerca soldi e potere e non vuole deboli tra i piedi“.
Provò stupore quando lo sceriffo fece passare tra le sbarre della cella il
cinturone che gli aveva ritirato: non perse tempo nell’allacciarselo mentre
l’altro faceva scattare la serratura della cella.
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“Ti avverto, giovane, da adesso tu sei di mia proprietà”. Lo sceriffo gli
rivolse un’occhiata ammonitrice prima di farsi da parte per lasciarlo uscire.
“E lo rimarrai finché mi sarai utile, non sarai morto o non mi avrai fatto
guadagnare almeno duemila pezzi d’oro. Mi sono spiegato?“.
Jonas, sorpreso da quell’improvviso rivolgimento della situazione, si
limitò ad annuire. “Come farete a sapere che non me ne andrò alla prima
occasione?”.
Naturalmente non era sua intenzione andarsene, non dopo aver visto le
armi che quella gente portava; ma ciò che trasformò la sorpresa in reale
sconcerto fu il notare che lo sceriffo sembrava saperlo allo stesso modo e
con la medesima sicurezza.
“Oh, tu non te ne andrai ragazzo mio” rispose, posandogli una mano
grossa e pesante sulla spalla e rivolgendogli un sorriso da vecchia canaglia.
“Non te ne andrai, non subito almeno, perché sai di aver trovato gente che
può esserti utile. Tu stai fuggendo ma hai anche uno scopo”. La frase si
stemperò in un sorriso sornione da complice.
“E forse qui hai trovato gente che lo persegue al tuo stesso modo. Dico
bene, giovane?”.
Jonas non rispose, il suo sguardo guizzò via rifugiandosi tra le ombre
delle celle vuote e il sorriso dello sceriffo si trasformò in una breve risata.
“Hai sorpreso Castor, che è il più veloce di tutti i miei ragazzi, e l’hai
mutilato: e potrei scommetterci le mie palle flaccide che non è soltanto
merito dell’addestramento di Gilead”.
Impassibile davanti al suo turbamento, l’uomo scostò con la punta del
piede la porta in fondo al corridoio.
“E comunque, senza parlare di cazzi e di palazzi, tu devi risarcirmi per il
danno che mi hai causato”.
Nell’ufficio Pollux stava mettendo una benda alla ferita del fratello,
imbronciato e stravaccato su una sedia vicino alla stufa; la sua camicia
zuppa di sangue giaceva abbandonata sul pavimento ed il giovane mostrava
un torso dove non erano poche le cicatrici ed i segni delle pallottole.
Sentendo rumore dal corridoio delle celle i due si girarono con perfetto
sincronismo, e sembrarono accigliarsi nello stesso modo quando si
accorsero di Jonas a fianco dell’uomo.
“Cazzo capo, mi ha rovinato e tu lo rimetti in circolo?” la voce dell’uomo
in nero aveva ritrovato parte della compostezza che Jonas aveva avvertito
nel saloon, ma la vibrazione di fondo che il giovane avvertiva sembrava
rendere ancora possibile l’eventualità di una crisi. Lo sceriffo sospirò.
94
“Non sono affari tuoi quello che io decido o non decido, Castor; tu devi
solo ubbidire oppure alzare i tacchi e levarti dai piedi. Ma non andresti
lontano e lo sai: la tua faccia è ancora stampata sugli avvisi di taglia di tutto
l’Arco Esterno, e davanti a Dio ce ne vorrà di tempo prima che si
dimentichino di te”.
Castor fece per replicare qualcosa, ma Pollux gli fece segno di tacere.
“Ci possiamo fidare?” chiese soltanto, lo sceriffo annuì con sicurezza.
Gli aveva letto nella testa prima di liberarlo, sapeva che sarebbe rimasto
finché ne avesse avuto l’interesse. Non era il solo lì in giro, a quanto
sembrava, ad avere il dono del Tocco.
“Credo di si, per ora questo campione ha tutto l’interesse a volare basso.
Gilead uccide pubblicamente i traditori sventrandoli vivi sulla piazza, perché
servano da esempio. In ogni caso, tu e tuo fratello gli farete da chioccia: ti va
Castor?”.
“Puoi giurarci capo”commentò cupo, “Davanti a Dio, se ci prova soltanto
gli stacco i coglioni a pistolettate e glieli faccio mangiare, poi gli cavo le
budella, poi…”.
“Hai reso l’idea. Ora silenzio” sbottò girandosi nuovamente verso Jonas.
“Questi che hai già conosciuto sono Castor e Pollux” puntualizzò, “Ti do il
consiglio gratuito di non farli incazzare troppo. Gli altri della squadra sono a
caccia con un plotone della milizia, ed è già una settimana che sono via.
Dovrebbero ritornare al più tardi dopodomani, te li presenterò”.
“Siamo in dieci” saltò su Pollux, con voce atona. “Vedrai che ti
piaceremo”.
Jonas annuì.
“Il tuo cavallo è alla stalla di Mac Dougal, non farmi pentire di avertelo
lasciato”. Lo sceriffo si sedette alla scrivania, appoggiandovi i piedi sopra, ed
iniziò a prepararsi una sigaretta.
“Puoi levarti dai piedi adesso, fino a domani non mi servi più”.
Ancora confuso Jonas mormorò qualche parola di saluto prima di infilare
la porta, che si richiuse con un piccolo scatto alle sue spalle. Stava
succedendo tutto molto in fretta.
14
Lo sceriffo sembrò seguire il giovane pistolero con lo sguardo anche una
volta uscito, fissando l’uscio mentre le dita si muovevano rapide arrotolando
una sigaretta più che decente. Non a caso aveva spiato per conto di
Garland, decenni addietro, facendo visitare al suo culo tutto l’Arco Esterno
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prima di scomparire dalla circolazione: ed era ancora abile nel leggere
l’animo, o per meglio dire la mente, degli uomini che si trovava davanti. Oh
si, come andare a cavallo, quando lo impari non te lo scordi più: dono degli
Dei, ma i vantaggi sono miei. Sorrise.
“Dimmi che sai quello che fai, Otis”. La voce di Pollux suonò appena
preoccupata quando, poco dopo, ruppe il silenzio. L’uomo si girò,
contrapponendo all’espressione di cruccio dello scagnozzo il volto disteso e
compiaciuto di un uomo che ha la consapevolezza di aver fatto un buon
affare. Un ottimo affare.
“Ne vuoi una anche tu?”.
Lo sceriffo posò la sigaretta arrotolata vicino ad una pila di fogli e prese
subito ad arrotolarne un’altra; Pollux si accostò e la prese pizzicandosela tra
le labbra.
“Tu che hai da dire Castor?”. Al pari della sua espressione la voce
dell’uomo era calma, quasi divertita. Ben lontano da uno stato d’animo come
quello, Castor sputò facendo centro nel piccolo vaso di rame accostato alla
stufa.
“Io so solo che quel bastardo mi ha rovinato, lo so e questo mi basta e mi
è d’avanzo; per la puttana, mi ha staccato un dito e tu lo vuoi prendere con
noi?”.
“La sua velocità è una qualità troppo rara per fermarci davanti al tuo dito,
Castor. Sparerai ancora” tagliò corto, terminando la seconda sigaretta e
rimirandola soddisfatto; senza perdere tempo se la piazzò tra i denti e tirò
fuori da un cassetto una scatola di fiammiferi.
“Sparerai ancora, magari con uno sparasvelto”. Il fiammifero crepitò in
uno sfavillio arancione liberando un odore acre di zolfo, l’uomo lo accostò
alla sigaretta ed aspirò avidamente.
“Non mi hai forse rotto le palle per settimane, per averne uno? E io te lo do
adesso: uno sparasvelto tutto per te, non sei contento?”.
Evidentemente poco incline a farsi comprare, almeno non fino a quando
quella ferita l’avesse torturato come un amo rovente conficcato dritto dritto
nella mano, Castor sputò una seconda volta mancando la sputacchiera di
stretta misura.
“Affanculo, fratello, tu non dici niente?”.
Pollux si servì a sua volta di fuoco.
“Hai la tua parte di ragione” concesse calmo dopo qualche boccata di
fumo. “Non lo conosciamo, è un azzardo”.
“Fidatevi di zio Otis, ragazzi; non mi sono mai preso sul gobbo incapaci o
traditori, e non ho intenzione di iniziare adesso. Lui rimarrà con noi”
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concluse tirando una boccata e soffiandola di lato. “Almeno per adesso;
senza contare che ho un presentimento, e potrebbe servirci un rimpiazzo
per la squadra”.
15
A mente fredda Jonas accantonò subito quell’idea così irragionevole:
nessuno poteva leggere nella mente di qualcun altro, nemmeno un santo
Manni poteva; probabilmente lo sceriffo era soltanto una canaglia di vecchio
pelo e come tale aveva immediatamente fiutato qualcuno della sua stessa
risma.
Decise in ogni caso che, almeno per il momento, avrebbe ballato la loro
musica perché anche quell’incontro poteva non essere frutto del caso, e se
così fosse stato rimanendo con loro avrebbe solamente assecondato le
circostanze; ed era sempre meglio avere le spalle coperte da una
compagnia di uomini armati, piuttosto che doverla aggiungere alle cose da
cui guardarsi. Il sai ferito e la giovane di Am’lis, dunque, avrebbero dovuto
aspettare.
Tornato allo stallaggio allungò qualche soldo di rame al proprietario, un
vecchio dai capelli rossi tanto secco da sembrare uno scheletro ambulante
con gli occhi accesi dalla fiamma della cupidigia, e riuscì a convincerlo ad
offrirgli riparo nella scuderia; trascorse il resto della notte dormendo sulla
paglia e quando si svegliò, pungolato dalla punta di uno stivale, la prima
cosa che vide fu la brutta faccia di Castor che lo guardava dall’alto di una
balla di fieno.
Che il piede fosse suo fu una constatazione spontanea, ed ancora più
spontaneo fu mostrargli il dito medio sollevato in un gesto offensivo molto
comune nei bassifondi di Gilead; quello, vestito di nero esattamente come la
sera prima, si accontentò di ragliare una risata.
Jonas si tirò a sedere e lo squadrò dal basso verso l’alto. No, anche alla
luce del primo sole quell’individuo non gli piaceva proprio per niente; specie
perché sapeva, per esperienza personale, che un mutilato non si dimentica
mai del suo mutilatore. Tanto valeva ricordargli che non lo temeva.
“Il nero ti dona, stamattina, compare; peccato per la fasciatura bianca che
ti porti alla mano”.
Fu come passare una spugna sulla lavagna: l’espressione di divertimento
da bullo sparì immediatamente dalla faccia del giovane uomo, e come per
incanto nella mano ancora sana comparve la pistola dall’aspetto strano della
sera prima; o quella, o un’altra molto simile.
97
Aye, poteva anche non piacergli…ma Dei se era veloce.
“Attento, scarto di seme” ammonì, “Attento alle tue parole, perché ho un
dram di pressione su un grilletto che scatta con nemmeno due…”.
“Quella è una ‘beretta’?” indagò interrompendolo, il torpore del sonno
quasi del tutto svanito.
“Piuttosto piccola come pistola, poco massiccia” rincarò senza dargli il
tempo di rispondere, ”Non è così minacciosa, preferisco le mie”.
Si allacciò con tutta calma il cinturone mentre l’altro continuava a tenerlo
sotto tiro fremendo per qualcosa che avrebbe voluto fare, ma che
evidentemente aveva ricevuto ordine di non compiere.
“Queste sono armi da pistolero…”.
“Ma tu pistolero non sei” sogghignò l’altro, abbassando finalmente l’arma
nel cogliere l’occasione per pareggiare la stoccata. “Gli scartati non sono
mai durati a lungo, nella nostra squadra. L’ultimo è crepato un paio d’anni
fa”.
Jonas si morse il labbro, avvicinandosi alla cavalcatura e mettendosi a
tracolla il fucile e la borsa del denaro.
“Andiamo dove dobbiamo andare, questa conversazione non ci porta da
nessuna parte”.
Uscirono. Fuori il mattino era livido e freddo, il sole sorto da poco e la
Main Street ancora deserta ed addormentata; seduto sopra la staccionata
del recinto dello stallaggio c’era Pollux: vide il suo cenno di saluto e rispose,
poi i tre si avviarono verso la Main Street.
Fu Jonas a rompere il silenzio, dopo qualche minuto.
“Che c’è in programma stamattina?”.
“Ti facciamo conoscere gli altri ragazzi con cui lavorerai” rispose laconico
Pollux. “Sono tornati questa notte dalle pianure dopo la battuta, e si sono
passati le prime ore del giorno tra le cosce delle ragazze di mamma Higgins;
adesso però lo sceriffo ha convocato una riunione perché non vuole mai che
i suoi cani da caccia si riposino troppo. C’è sempre un gran lavoro da fare da
queste parti”.
“Questa città ha una milizia?”.
“C’è molta gente da queste parti: abbiamo allevamenti nell’entroterra,
dove c’è erba ed acqua, e sulle montagne a confine con Nuova Canaan ci
sono miniere di piombo e rame: ci passano molti soldi tra le mani, ragazzo, e
questi soldi fanno gola a chi li vorrebbe per sé”.
L’uomo fece una pausa.
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“I soldati dipendono dalla capitale, Demosiris” riprese, “Qui abbiamo un
piccolo distaccamento, i soldati sono utili soltanto a tenere sotto controllo i
briganti e i cercatori di guai”.
“Hanno anche loro gli sparasvelto?”.
Pollux sorrise.
“Cosa avete a Gilead per armare la vostra milizia di camicie blu?” chiese
di rimando. Jonas si strinse nelle spalle.
“Fucili a colpo singolo; i pistoleri, talvolta, possono usare quelli a
caricatore…ma ne abbiamo pochi, e comunque sono meno affidabili delle
pistole”.
“Sentito fratellino? Davanti a Dio, sono perfino messi meglio di noialtri!”.
Castor annuì con un ghigno, il fratello continuò.
“Gli sparasvelto sono regali inviati dai superiori dello sceriffo solo ed
esclusivamente per i suoi uomini, e ci sono arrivati da pochissimo tempo. I
miliziani non ne sanno molto, e noi abbiamo tutto l’interesse ad evitare che
si facciano troppe domande in proposito”.
“Morditi la lingua Pollux, chi ti ha detto di vuotare il sacco con questo
scartato?”. Castor sputò a terra. “Se dovrà essere informato, ci penserà il
capo”.
Pollux sospirò, facendo spallucce.
Arrivati davanti all’ufficio dello sceriffo, Jonas si accorse fin da fuori
dell’animazione all’interno; sembrava essere in corso una accesa riunione,
gli echi dei cui discorsi si sentivano fino in strada, e le ombre di numerose
figure si muovevano dietro i vetri e le tende delle finestre. Pollux picchiò alla
porta e il chiacchiericcio si quietò subito; pochi attimi e dalla soglia
socchiusa comparve uno spicchio del viso lentigginoso di una giovane
donna dal capelli rossi; Jonas la vide sorridere all’indirizzo dei due fratelli,
poi aggrottare la fronte nel vederlo: dal canto suo si accontentò di scoccarle
un’occhiata neutra.
“Tutto ok Mandy” si affrettò a rassicurarla, “Il ragazzino è con noi”.
“Da quando in qua invitiamo i succhialatte alle nostre riunioni?”. Il tono
della donna era acuto e sprezzante, e quando essa aprì la porta Jonas
venne investito da una vampa di dozzinale profumo dolciastro.
“Da quando i ‘succhialatte’, piccola, sono in grado di disarmare con un
tiro di pistola uno dei nostri uomini più svelti. Diglielo tu, Castor, se non è
vero!”.
Il ragazzo si godette con un piacere quasi fisico il rossore sul volto del
giovane e lo sgranare d’occhi della donna che si affrettò a mettersi da parte,
e che lui superò con passo veloce.
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Dentro l’ufficio faceva caldo e l’aria puzzava di sudore e caffè; nella sala
era accampato un gruppo di ragazzi e uomini dalla grinta truce, armati di
tutto punto con pistole e fucili: i vestiti, gli stivali ed i cappelli impolverati e
macchiati testimoniavano che la loro ultima cavalcata doveva essere stata
alquanto impegnativa, e i segni della fatica sui volti sporchi mostravano che
il breve ristoro al bordello cittadino non era bastato a ritemprarli.
Le conversazioni ammutolirono all’istante e Jonas si sentì
immediatamente addosso le occhiate di tutti. Dietro una scrivania, come un
uccello da preda appollaiato sul suo trespolo, lo sceriffo sorrise appoggiando
al piano di legno un mazzo di fogli.
“Eccovi, mancavate solo voi due fratellini e il nostro ultimo acquisto”.
“Maddock non è con noi, vedo” osservò Pollux, il marshal annuì.
“Hanno raccontato che è morto di sangue concio” rispose, “Una granata
gli ha portato via un piede, è durato una settimana; è rimasto in sella fino
all’ultimo, hanno detto. Grande uomo, Maddock, un uomo forte”.
“Da quando i banditi usano granate? Questa è nuova”.
“Avranno trovato un rifugio non saccheggiato del tutto” intervenne un
uomo sulla trentina, con barba e capelli biondi che scaturivano fluenti da
sotto un cappellaccio di cuoio, stravaccato sulla sedia della stufa. “Vengono
tre persone, ma io ne conosco una sola”.
“Credo che possa parlare per sé” replicò lo sceriffo con fare sornione,
invitandolo col gesto circolare della mano a parlare.
Jonas sospirò.
“Mi chiamo Eldred Jonas” dichiarò, “Sono un esiliato di Gilead, e porto
pistole di quella Baronia”.
“Ed ha quasi staccato una mano a mio fratello” saltò su Pollux, “Direi che
questo basta a dimostrare che qualcuno gli ha insegnato a sparare presto e
bene”.
A quella dichiarazione un mormorio passò tra i presenti propagandosi da
un lato all’altro della sala.
“Cazzo, ma stiamo parlando dello stesso Castor che conosco io?”
dichiarò dopo un po’ un ragazzo con una giacca di pelle a frange ed un
cappello piumato, seduto in prima fila, “Lo stesso Castor che dice di esser
più veloce di un crotalo?”.
Pochi passi più indietro, Jonas scorse il diretto interessato schiumare di
rabbia; d’istinto la mano gli scese fino a sfiorare il calcio della pistola di
destra, quando l’improvviso tocco sulla spalla da parte di Pollux non lo
indusse a ritrarla.
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“Questo per dirvi che abbiamo trovato il rimpiazzo per Maddock”
intervenne lo sceriffo per sedare il chiacchiericcio. “Mandy, dagli il suo
pendaglio quando abbiamo finito e spiegagli cosa deve fare. Adesso, tutti
quanti” alzò la voce, “Chiudete le fogne e spalancate le orecchie: c’è un altro
carico da ritirare sulla pista per Chisholm, sarà lì fra tre giorni e noi non
vogliamo farlo aspettare”.
“Viene da Mejis?” indagò l’uomo con barba e capelli biondi, lo sceriffo
scosse il capo.
“Non ci sono cose così rare nei rifugi di quella Baronia, sai Calavera”
sogghignò, “Sono state ricercate con cura da chi aveva interesse a
recuperarle ed hanno fatto un lungo viaggio per arrivare qui da noi:
potrebbero anche venire dall’altra sponda del Mare Orientale per quel cazzo
che ne so, oppure dalle terre verso i ghiacci di Fine-Mondo. Non ci sono solo
degli sparasvelto, questa volta, ma anche parti di macchine che dobbiamo
prendere in carico e di cui dobbiamo garantire la sicurezza. E poi ci sono i
vampanti, gli esplosivi, e i tubi terra-trema e scoppio-di-sole; nay uomo, non
sono cose che si possono trovare da queste parti”.
Per qualche secondo nessuno parlò.
“Suona complicato, questa volta” dichiarò infine la giovane donna dai
capelli rossi e le lentiggini, vicino ai due fratelli ed a Jonas. “Se arrivano da
Chisholm e seguono la pista, dovremo sconfinare a Nuova Canaan dal
Valico dell’Uomo Morto: e Nuova Canaan, sai, significa Gilead ed i suoi
cavalieri blu che non si fanno scrupolo nello sparare”.
Jonas prese la parola.
“Le piste più pattugliate sono quelle ad Est, verso l’Arco Esterno, e quelle
per le Baronie del Nord” dichiarò, “Perché Gilead ha interesse a tenere le
nostre vie commerciali sicure…ad ovest i confini sono soltanto sulla carta,
raramente mandiamo delle pattuglie, e comunque non quando arriva
l’inverno”.
La donna gli scoccò un’occhiata indecifrabile.
“Bene, questo taglia la testa al toro Mandy-sai” sorrise lo sceriffo dopo
qualche momento di pausa.
“Il nostro pulcino sembra già entrato nella parte. E se tutti voi aveste
ancora dei dubbi io vi dico che per questo lavoro vi pioveranno i tasca molti
soldi, almeno il doppio di quanto vi do di solito: potrete perfino mettere via
qualcosa alla banca di sai Thorncombe, invece che mangiarvi tutto in donne
e torcibudella come fate di solito”.
101
“Direi che non cambierò comunque le mie abitudini” dichiarò un uomo
calvo e corpulento con un mitragliatore in spalla, da una delle sedie di
seconda fila, e tutti sghignazzarono.
Jonas si sentiva disorientato: scoccò un’occhiata a Pollux, che si
accontentò di rispondere con un’alzata di spalle prima di prendere la parola.
“Io ed il pulcino vogliamo essere della partita”.
“Solo il ragazzo, tu mi servi qui” tagliò corto lo sceriffo. “Se non si farà
ammazzare, considererò ripagata una frazione del suo debito quando
tornerete. Con lui andranno Mandy e Calavera; potete prendervi
l’equipaggiamento nuovo e riempirvi le tasche di caricatori, ma non usate
questa roba in città…non voglio dover inventare una scusa per quell’altro
coglione del sindaco”.
L’uomo biondo con il cappello di cuoio, che aveva preso la parola poco
prima, fece scrocchiare il collo e si alzò: Jonas non poté fare a meno di
osservare che ai fianchi portava una coppia di pistole simili, ma non
identiche, alle sue.
“Quando si parte?”.
“Domani prima dell’alba, avete ancora tutto il giorno per riposarvi e fare il
pieno di fica, ma ricordatevi che vi voglio sobri quando sarà ora.
D’accordo?”.
I vigilantes annuirono, iniziando ad alzarsi e ad avviarsi verso l’uscita
dell’ufficio. E mentre li guardava sfilare Jonas si sentì infilare in mano
qualcosa di freddo, spigoloso e vagamente umido: giratosi di scatto incontrò
lo sguardo della donna che lo sceriffo aveva chiamato Mandy.
“Ficcatela al collo e non levartela più fino a quando crepi” dichiarò,
“Tienila quando mangi, quando dormi, quando sei a cavallo, sempre”.
Jonas osservò l’oggetto, stupito dal tono grave della giovane donna: si
trattava di un pendaglio costituito da una piccola pietra sferica nera con
bizzarre venature color oro e rubino, montata in un semplice avvolgimento di
filo d’argento che permetteva di allacciarla ad una collana o ad una
cordicella. La pietra al centro della montatura era stranamente fredda e
pesante, la sua superficie untuosa al tatto, e nel guardarla provava una
sensazione di vertigine. Quando la sfiorò sentì i peli sul dorso delle mani
drizzarsi ed un brivido poco piacevole gli corse lungo il filo della schiena.
“Questo è un ciondolo dissimulante, campione”. La voce improvvisa dello
sceriffo lo fece sobbalzare, strappandolo alla contemplazione del ciondolo: si
accorse all’improvviso che nell’ufficio insieme a lui erano rimasti soltanto più
i due fratelli, la ragazza dai capelli rossi ed il marshal.
“È magico vero?” indagò, e l’uomo sorrise.
102
“Yar, insegnano di magia durante l’addestramento da pistoleri”. Jonas
annuì…non gli era sfuggito che il tono non era quello di una domanda.
“Viene dalla capanna di Astrid del Cöos di Mejis: secondo quella vecchia
strega può alterare il tuo aspetto evitando che le persone possano
riconoscerti finché non imparano quello nuovo. Ora infilatela”.
Jonas si passò intorno al collo la cordicella. Avvertì subito odore di
marcio e senso di freddo, ed un moto di istintiva repulsione verso
quell’oggetto che doveva essere di sicuro una cosa cattiva a cui forse
sarebbe stato meglio non dare così tanta confidenza: si bloccò a mezz’aria,
ma subito le mani dello sceriffo intervennero a sciogliere gli indugi
spingendo con decisione le sue; quando la pietra si posò sul cuoio della
giubba una sensazione di freddo estremamente sgradevole gli attraversò il
petto accompagnata da un violento capogiro, mentre l’aria gli veniva
risucchiata fuori dai polmoni come se qualcuno gli avesse sferrato un pugno
allo stomaco. Strinse gli occhi e vide esplosioni di luce e macchie di colore
dalle forme strane mentre le gambe minacciavano di cedergli.
“Come un castrone la prima volta che va in guerra, eh, ragazzo?”
sghignazzò lo sceriffo, la sua voce lontana e distorta. Qualcuno da dietro gli
bloccò le spalle evitando probabilmente che franasse a terra come un sacco
di patate.
“Respira” comandò la voce della giovane donna, e lui, come se non
avesse atteso altro che quell’ordine, ubbidì risucchiando avidamente aria
nelle fauci.
E un attimo dopo quella sensazione così sgradevole, così aliena, era già
passata.
“Cos’era…” borbottò, lo sceriffo si strinse nelle spalle.
“Magia” disse soltanto, “Nessuno ha detto che sia una cosa piacevole”.
“Io la prima volta ho sboccato” saltò su Pollux rivolgendogli un accenno di
sorriso. “Ti fa i capelli chiari e corti, e ti cambia un po’ la linea della
mascella”.
“Basta con queste stronzate” sbottò lo sceriffo, “L’importante è che non lo
possano riconoscere quelli di Gilead, yar, poi può pure fargli la faccia a
forma di culo per quel che ce ne importa. Ora fuori dai piedi, fino a domani
non voglio più vedervi”.
Pollux alzò gli occhi al cielo, facendo cenno con la testa in direzione della
porta e dando un lieve spintone al fratello. Si avviarono e lui li seguì, ancora
malfermo sulle gambe.
103
Fuori dall’ufficio i quattro si separarono: i due fratelli si diressero verso il
saloon, mentre la donna dai capelli rossi dichiarò di volersi andare a ficcare
in una tinozza d’acqua calda all’albergo del paese e restarci finché avesse
iniziato a metter le branchie.
Jonas dal canto suo passò quel che rimaneva della mattinata
bighellonando per il paese; Galloway gli ricordava Gilead: come per la città
da cui proveniva si sviluppava alla base ed a ridosso di una piccola altura,
sulla quale erano estesi i quartieri più ricchi di case in muratura che
facevano da contrasto a quelli popolari di baracche in legno. La Main Street
era in realtà l’unione di vari tronconi di strade che nasceva dalla periferia del
paese, dove aveva termine la pista delle paludi, si inerpicava sulla collina e
molto presumibilmente digradava dal versante opposto dove la via
proseguiva per l’interno della Baronia; il ragazzo la percorse fin dove
possibile, ma, accorgendosi che per entrare nel quartiere più elegante
avrebbe dovuto superare un posto di blocco della milizia, decise di
soprassedere.
L’animazione che vide gli fece stimare la grandezza del borgo in
cinquecento, forse mille abitanti: ma l’impressione che il folken gli diede, e
che gli fece tornare alla mente le parole del sai della ferrovia, fu un misto di
diffidenza, ostilità e paura. Probabilmente, considerò, lo sceriffo e la sua
banda di vigilantes tenevano in pugno quella gente perché nessuno aveva
mai fatto nulla per impedirglielo, e facevano il bello ed il cattivo tempo come
più loro piaceva. Dagli accenni di discorso colti il giorno passato e quella
mattina, ed in accordo con ciò che gli aveva detto il sai della ferrovia, aveva
capito tuttavia che doveva esserci un sindaco o un borgomastro, e quasi
certamente un gruppo di notabili a fare da codazzo…gente che doveva
rasentare l’inettitudine, per non accorgersi della pericolosità dello sceriffo e
dei suoi cani da caccia, o che aveva troppa paura di prenderli di petto, o che
semplicemente non aveva interesse a che le cose cambiassero in meglio.
In ogni caso non erano problemi suoi, e la compassione per il suo
prossimo era qualcosa che in frangenti come quelli che stava vivendo aveva
poco spazio nel suo cuore. Verso sera tornò verso il centro del villaggio
passando dinnanzi allo stallaggio dove aveva dormito la notte precedente: il
posto era deserto, illuminato solo dalla luce tagliente di alcune lampade a
carburo appese ai lati dell’ingresso della scuderia. Da fuori, dal portone
semiaperto si intravedeva nella stalla una fila di cavalcature accudite dal
garzone dello stalliere: un ragazzone alto e ben messo con capelli rossi,
carnagione pallida ed un naso a patata che spiccava al centro di una faccia
104
larga la cui espressione era certo indice di un qualche ritardo mentale più o
meno grave.
Un idiota, per dirla semplicemente, che stava spalando fieno e merda
perché non avrebbe potuto fare nient’altro da nessun’altra parte: vedendo da
solo Jonas decise di giocare una carta avvicinandosi e chiamandolo a
conciliabolo.
“Conosci il sai della ferrovia, uomo?” gli chiese senza perdere tempo.
Quello annuì con un accenno di sorriso.
“Sai occhio-matto? Oh si, oh si: non viene spesso qui in paese, ma lo
conoscono tutti”.
“Bene, ho un messaggio per lui che tu devi fargli avere”.
“Un messaggio?” Il ragazzone aggrottò la fronte, come se il concetto gli
provocasse un inusuale sforzo mentale. “Io sto per finire il lavoro, qui…e poi
voglio andare a bere”. Jonas sospirò.
“Se lo farai, ti pagherò tre denari”.
Lo sguardo di capelli rossi si riaccese improvvisamente: almeno il
discorso dei soldi lo capiva.
“Devi dirgli” proseguì, “Che il sai suo amico non può tornare da lui
adesso, ma che deve continuare a fare quello che sta facendo se vuole
essere ricompensato con generosità. Digli soltanto questo, hai capito?”.
L’altro annuì, pizzicandosi in uno slancio di infantile buona volontà la
punta della lingua tra le labbra mentre ascoltava e cercava di memorizzare.
“Speriamo…” mormorò Jonas, poco convinto. “Vai adesso da lui, e
sbrigati” aggiunse, facendogli scivolare in mano tre monete pescate dalla
bisaccia. “Se arriva il padrone gli parlo io”.
Il ragazzo annuì nuovamente, con un secco scrollone del capo, poi si girò
ed infilò il portone della scuderia: Jonas lo vide transitare un attimo dopo in
groppa ad un mulo ragliante e recalcitrante, e lo seguì con lo sguardo fino a
che non fu sparito tra la bruma ed il buio.
Una volta che la sagoma dell’idiota sopra al suo mulo fu sparita, senza
minimamente pensare di rimanere a coprirgli le spalle girò i tacchi e non
tardò ad arrivare e ad oltrepassare il saloon puntando dritto verso l’ufficio
dello sceriffo; trovò Pollux ad attenderlo e si fece aprire, e qualche minuto
più tardi giaceva stravaccato sulla branda della cella in cui era stato
rinchiuso la sera prima, il cappello calato di trequarti sugli occhi a
proteggerlo dalla luce che filtrava dall’ufficio. Si addormentò con la mente
piena di pensieri confusi ed accavallati per la velocità con cui le situazioni si
stavano dispiegando intorno a lui.
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Quei masnadieri avrebbero potuto essergli utili: era questa l’irrazionale
consapevolezza, non suffragata è bene ricordarlo da nessuna evidenza
concreta, che lo accompagnava dalla sera precedente quando lo sceriffo gli
aveva restituito libertà e pistole…dopo essergli probabilmente entrato in
testa per sincerarsi che fosse una canaglia della stessa sua pasta.
(ma no, è impossibile, nessuno legge nelle teste degli altri, nemmeno se
è un santo Manni…oppure si?)
Avrebbero potuto essergli utili, ma lui in cambio avrebbe dovuto fare
attenzione.
16
Si sentì riportare alla realtà da uno scossone alla spalla; il torpore del
risveglio durò pochi attimi, ma il suono della voce che seguì lo indusse a
reprimere lo scatto e ad allontanare la mano dalla pistola.
“In piedi ragazzo, è ora”.
Jonas si tirò a sedere grattandosi una barba che iniziava a pungere, ed
inquadrò subito il corpaccione dello sceriffo che lo squadrava di rimando:
l’uomo aveva lo sparasvelto a tracolla ed indossava abiti pesanti e scarponi
da marcia, e lo guardava con aria spazientita. Il ragazzo avvertì il sentore di
caffè provenire dal corridoio, quindi accennò col capo e si alzò
aggiustandosi il cinturone per poi infilare la porta della cella senza replicare.
Nell’ufficio una cuccuma gorgogliava sul piano arroventato della stufa a
legna, diffondendo il suo piacevole aroma insieme al tepore; una spessa
patina di condensa ostacolava la vista fuori dalle finestre opache. Mandy e
l’uomo biondo che si faceva chiamare Calavera stavano studiando una carta
geografica alla scrivania del marshal.
Jonas si accostò alla stufa e prese una tazza di alluminio da una mensola
versandosi una generosa dose di caffè.
“Ben svegliato scartato” lo apostrofò la ragazza senza nemmeno
staccare gli occhi dalla mappa. Jonas si sporse e notò che la topografia era
quella delle montagne di confine della Baronia di Gilead: ma la fattura della
carta, la sua precisione, non erano proprie nemmeno delle mappe militari
che pure erano le più complete ed accurate esistenti. Quella doveva venire
dallo stesso posto da cui arrivavano gli sparasvelto e quelle strane pistole,
considerò mentalmente.
Un tondo rosso marcava con ogni probabilità il Valico dell’Uomo Morto; il
ragazzo si accostò al tavolo bevendo il caffè, oramai completamente sveglio.
106
“Tre giorni per duecento ruote, buon giorno ragazzo” borbottò l’uomo
biondo. “Dovremo viaggiare anche di notte se vogliamo arrivarci entro tre
giorni, e io detesto spostarmi a tappe forzate”.
“I trafficanti di armi non hanno orari o comodità, sai Calavera” lo rimbeccò
lo sceriffo, quarto uomo ad arrivare nell’ufficio.
“Lamentati quanto vuoi ma ricordati che il capo, qui, sono io”.
“Nessuno lo mette in dubbio Otis. Ma con tutto, viaggiare senza la giusta
calma mi fa incazzare ancora prima di cominciare”.
“Sai cosa ne penso della tua incazzatura?”.
Lo sceriffo mollò un peto rumoroso, l’uomo si mise a ridacchiare e la
ragazza assunse un’espressione di disgusto.
“Suppongo che, ora che ci siamo tutti e lo sceriffo ha accolto così bene le
mie rimostranze, potremo andare” riprese un attimo dopo alzando la testa
dal tavolo. “Sei pronto ragazzo?”.
Jonas annuì. L’uomo biondo sorrise, un gesto quasi amichevole se non
fosse stato per la crudeltà che vide luccicare in quegli occhi, quindi prese a
sua volta uno sparasvelto appoggiato contro il tavolo e si passò la cinghia
intorno alle spalle. Infine coprì il tutto con un ampio mantello di lana
marrone.
“Vi manderò incontro alcuni ragazzi tra due giorni” disse ancora il
Marshal, “Avrete sul gobbo tre carri di buoi, cercate di non perderne
nessuno per strada”.
Calavera fece spallucce, avviandosi verso la porta senza neppure
rispondere; Mandy lo seguì a ruota e Jonas si accodò rapidamente. Fuori
trovarono le montature ed il ragazzo fu lieto di rivedere il suo baio con
ancora, almeno apparentemente, tutto il suo equipaggiamento: il fucile a
colpo singolo faceva bella mostra di sé infilato nella fonda sul fianco della
sella, il sacco a pelo era ancora dove l’aveva lasciato, arrotolato da una
parte, e le sacche erano gonfie del loro abbondante contenuto di munizioni.
Ora si ragiona pensò, sentendosi improvvisamente vivificato; si mise in
sella con un salto e ripescò il manto di Douglas dalla scarsella sinistra
avvolgendoselo con piacere intorno al corpo.
Partirono mentre il villaggio era ancora addormentato, al galoppo tra la
polvere e le baracche della periferia lungo una pista sassosa che si staccava
da Galloway come un cordone ombelicale puntando, Jonas si orientò con la
posizione del sole, vagamente a Nord-Ovest. Cavalcarono fino a sera, e
l’imbrunire li sorprese in un’area di colline brulle a nemmeno un centinaio di
ruote dal borgo da dove erano partiti; la pista era andata allargandosi
durante il tragitto e presentava i segni di un discreto traffico nell’acciottolato
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sconnesso e segnato che la rivestiva: ma in quella sera fredda erano
completamente soli, in compagnia soltanto del vento ghiacciato che spirava
da Ovest e della Luna dell’Ambulante che splendeva sulle loro teste
luminosa come una lampada a gas.
Calavera tirò fuori un’armonica, Mandy gli sorrise e Jonas seppe che non
era la prima volta che quei due cavalcavano insieme. Erano compari, erano
camerati, potevano essere ka-tet? Non aveva idea se le canaglie
conoscessero il significato di quella parola, o intuissero quello di un vincolo
così speciale; nei discorsi della cosiddetta brava gente i malviventi erano
incapaci di tutta quella vasta gamma di sentimenti buoni che vanno dalla
fedeltà all’amore passando per l’amicizia ed il rispetto.
Chissà se la questione era davvero così semplice?
Calavera soffiò nell’armonica, tenendo le mani unite a coppa a formare
una cassa di risonanza, e la voce della ragazza accovacciata si fece calda e
dolce.
“Ho sei cose nella mente” intonò “E tu non ci sei più, mi dispiace”.
La riconobbe subito: era una canzone da bivacco antica almeno quanto
Hey Jude, Careless Love e tante altre così popolari sulle piste del MedioMondo; a lui l’aveva insegnata proprio Douglas, quando erano piccoli ed
ancora uniti.
“Guardo dentro gli occhi della gente, cosa cerco non so, forse un
uomo?”.
Il fuoco di radici ed erba diavola bruciava stentato spandendo luce tenue
e fumi oleosi. Tese le mani rubandogli quel poco di calore che poteva
offrirgli.
“Hey man, che cammini come me, dall’altra parte della strada…”.
Mandy chiuse gli occhi e dondolò piano la testa, l’armonica scalò
gorgheggi argentini. Decise di unirsi.
“Hey man, che sei solo come me, dall’altra parte della strada…”. La
giovane donna aprì gli occhi per un momento, poi senza smettere di cantare
gli sorrise.
“Canta e passa la malinconia, se si canta in due, passa meglio! Hey,
fratello di una notte d’estate, ci facciamo un po’ compagnia?”.
Anche Calavera aveva sbirciato, divertito all’intromissione della nuova
voce: l’uomo sfarfallò note metalliche con le dita e Jonas vide una lacrima
d’emozione luccicare sul viso di Mandy.
108
“Hey man, che cammini come me…dall'altra parte della strada; hey man,
vieni e canta insieme a me, da questa parte della strada…che ci facciamo
compagnia…”.
Oh si, era probabile che tutto ciò che Fardo e Nebi gli avevano sempre
raccontato non fosse altro che propaganda della peggior specie: non
esistevano il bene o il male assoluti, rifletté, mentre Mandy correva sulle
note dell’ultima strofa ed il vento univa il suo fischio al suono dell’armonica.
Non c’era una distinzione così precisa tra il bianco ed il nero, c’erano solo
tanti differenti grigi, e Gilead non faceva eccezione. Ogni uomo, ogni città,
ogni Baronia tirava l’acqua al suo mulino: ma questo non vuol dire che non
ci possa essere spazio per amicizia ed amore anche tra le canaglie.
Mandy gli passò un braccio intorno alle spalle, lui la cinse alla vita e
desiderò che lì con loro ci fosse anche la figlia del vecchio di Am’lis.
“Hey man, hey man, vieni e canta insieme a me…da questa parte della
strada…che ci facciamo compagnia”.
L’uomo posò l’armonica con fare soddisfatto.
“Non sapevo che sapessi anche cantare, scartato…”. Anche ora, dopo la
canzone, la voce di Mandy non gli suonava più così aspra; e non lesse più
scherno in quella parola o nel sorriso della giovane donna.
“Infatti non so cantare, me la cavo appena”.
“Come nello sparare?”.
Jonas si strinse nelle spalle. “Un uomo cerca di sopravvivere come può”.
“Come mai ti hanno mandato ad Ovest?”
Calavera aveva sistemato l’armonica e preso dalla fondina una pistola, di
cui aveva aperto il tamburo; senza guardare l’uomo sgusciò i cinque proiettili
facendoseli cadere in grembo ed incominciò a ripulire gli alloggiamenti con il
lembo di una pezza. Doveva essere una di quelle cinque-colpi che i più
chiamano spregiativamente ‘cesellatrici’, ma la canna era stranamente
allungata ed il corpo dell’arma più massiccio rispetto ai modelli che gli era
capitato di vedere a Gilead.
“Hai fallito una specie di prova o che cosa?”.
“Ho creduto di poter battere il mio maestro mentre ancora non ne ero in
grado” rispose spingendo un viluppo di radici nel fuoco. Il groppo avvampò
scoppiettando quasi subito. “Un peccato di presunzione, lo riconosco, ma
l’acqua passata non muove più la ruota. Questo si dice dalle mie parti”.
“Anche dalle mie” concesse la ragazza.
“Era una gara di tiro?” indagò Calavera, “Perché se davvero hai strappato
via un dito a Castor devi essere svelto”. Jonas scosse il capo.
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“Non lo era, perché non possiamo usare le pistole fino a quando non
riusciamo a dimostrare di sapercela cavare senza, battendo in
combattimento disarmato il nostro tutore con un’arma a nostra scelta”.
“Stai dicendo che senza le tue pistole non vali un cazzo?”.
“Vaffanculo, brutto stronzo” sbottò, l’altro per tutta risposta rise.
“Qual è, piuttosto, il gatto nel nostro sacco?” chiese poi cambiando
discorso; questa volta fu la ragazza a stringersi nelle spalle.
“Jonas, non ci è stato detto di parlarti di quello che facciamo più di quanto
sia necessario…”.
“…anche se io penso che qualche parola possa venire spesa, in questo
conciliabolo” la interruppe Calavera; Mandy gli scoccò un’occhiataccia, lui
semplicemente se ne fregò.
“In fondo, probabilmente non rimarrà vivo a lungo: quindi che danno può
fare?”.
“Vaffanculo di nuovo, uomo, e grazie della fiducia” sbottò tetro, l’altro si
accontentò di sputare di lato prima di arrotolare la pezza ed infilare lo
stoppino che aveva ricavato nella canna della pistola.
“Noi siamo contrabbandieri: di armi, di tecnologia, di vestigia degli
Antichi…qualsiasi cosa possa essere utile, noi la prendiamo e la passiamo
di mano”.
“Utile a chi?”.
Calavera sorrise.
“Ci sono potenze in movimento, a Nord, presso i Baronati Settentrionali;
e a Sud oltre il Mar Lindo la guerra sobbolle come lo stufato in una pentola”.
“Guerra portata da chi?”.
Mandy rivolse all’uomo la stessa occhiata di prima, lui nuovamente la
ignorò con un sorriso.
“Guerra portata da un Re” dichiarò alla fine, e Jonas sentì il cuore
aumentare i suoi battiti.
Nascerà un uomo, un guerriero del nuovo ordine, e le sue azioni serviranno
un solo ed unico Re: così aveva parlato l’apparizione del sogno, settimane
addietro, e quelle parole finora messe da parte gli tornarono con prepotenza
alla mente insieme col ricordo dei compagni che attendevano lungo la
strada, per lasciarsi dietro, un attimo più tardi, una sensazione di vuoto
inquieto.
“Un Re che deve giungere e portare libertà” azzardò, e Mandy lo guardo
con una punta di curiosità negli occhi, senza dire nulla.
“Io sento che le voci sono giunte anche a Gilead”. Senza sapere bene
cosa fare Jonas si limitò ad annuire e reggere il conciliabolo.
110
“L’Affiliazione sta perdendo la sua stretta sui feudi più lontani, ma le notizie
non sono mai state rese di dominio del popolo” aggiunse. “Voi ci credete?”.
Mandy si strinse nelle spalle, Calavera lo soppesò con lo sguardo.
“C’è gente che ci crede, gente che parla del Re e della sua venuta, come
tanti profeti Manni; a me interessa soltanto che la festa continui il più
possibile e mi faccia piovere altri denari nelle saccocce, che non sono mai
abbastanza.
“Quindi lo fai per soldi?”.
“E per che altro?” Sogghignò .
“Mi sono imbrancato con i loro giri cinque anni fa, prima ero un cacciatore di
taglie sui territori di Tepachi: ho fatto arrestare ed impiccare uno dei loro
uomini… loro mi hanno cercato per rimpiazzarlo. O prendevo il posto
dell’uomo che avevo fatto uccidere, o lo avrei seguito all’inferno”. L’uomo
rise.
“Non mi sembra molto una scelta”.
“Nay non lo è, ma mi ha reso ricco e mi ha fatto guadagnare questo”.
Calavera diede un’affettuosa pacca allo sparasvelto a tracolla.
“Magari un giorno te ne meriterai uno anche tu” concesse.
“Non ho mai sparato con uno sparasvelto: il mio tutore diceva che sono
armi imprecise e chiassose a sproposito”.
“Il tuo tutore, allora, ha la zucca piena di piscio di cane” concluse,
richiudendo la pistola con uno scatto”.
“Non ci sono armi migliori di queste in tutto il Vecchio Mondo: un esercito
armato di sparasvelto può rovesciare in poco tempo gli equilibri del potere e
consegnarlo nelle mani di chi l’ha armato”.
L’uomo si coricò tirandosi la coperta fino al mento come volendo sancire
la fine di quel lungo conciliabolo.
“Te la senti di fare il primo turno?”.
Jonas annuì. “Sicuro che me la sento, ho occhi ed orecchie buone sai?”.
“Nessuno lo mette in dubbio, ragazzo”. La voce di Mandy suonò
conciliante: la vide infilarsi da vestita nel giaciglio, le pistole prudentemente
appoggiate di fianco alla sua testa.
“Svegliami tra due ore, si?”. Jonas annui, gli occhi fissi nel fuoco e la
mente persa dietro il filo di pensieri strani.
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Quando il sonno arrivò Jonas sognò di lei mentre in un altro luogo lei
sognava di lui, perché tra le loro anime era stato teso un filo che in futuro
poteva soltanto rinforzarsi.
Nel nuovo sogno non c’erano vecchi parlanti e castelli sospesi tra la
bruma: soltanto quattro cavalieri che vestivano abiti strani e cavalcavano
con il sole alle spalle in una contrada deserta, lungo un nastro di asfalto che
si snodava tra costruzioni in rovina.
I quattro cavalieri erano loro, i compagni riuniti dal vaticinio, il ka-tet del
Rosso, ed era esattamente quello il luogo in cui dovevano essere e dove
erano giunti dopo un lungo viaggio: nel cuore di una desolazione antica, ben
oltre i confini del mondo conosciuto e dell’autorità del Bianco.
Nell’incrociare lo sguardo della giovane di Am’lis Jonas colse e ricambiò il
suo sorriso; ne guardò soddisfatto il corpo snello e giovane, dalle gambe
tornite ed il ventre piatto, che si teneva in arcione con abilità e vide senza
stupore che ai suoi fianchi c’era una coppia di pistole la cui forma era simile
a quella che usavano i vigilanti di Galloway.
Un attimo dopo avvertì la presenza degli altri due: uno dei due era Louis,
l’altro si teneva più in disparte e non riuscì a vederne il volto, coperto da un
cappellaccio calcato di trequarti su una testa piccola ed una cascata di
capelli ricci, ma anche lui era esattamente ciò che doveva essere. L’ultimo
compagno che la profezia gli aveva riservato, e non avrebbe potuto
conoscerlo che quando i tempi fossero stati maturi.
“Ti troverò?” aveva chiesto a Cindy e lei aveva sorriso in quel suo modo
tutto speciale, insieme dolce ed infantile, che pure se stava appena iniziando
a realizzarlo l’aveva fatto innamorare corpo ed anima.
“I pensieri sono cose” aveva detto. “Se vorrai, mi troverai”. Poi si era
sporta e lo aveva baciato sulle labbra.
Subito dopo il sogno era cambiato: la scena si era fusa, dissolta in un
tremolio che gli aveva ricordato, nell’attimo stesso in cui lo vedeva
succedere, la superficie increspata della sottilità attraverso cui era andato a
prendere Louis. Quando la visione era divenuta nuovamente chiara il
tramonto si era fatto cupo, la luminosità migrata dall’amaranto a quel colore
giallo e malsano che l’aria prende appena prima di una tempesta.
Erano fermi e Jonas aveva percepito davanti a loro, prima ancora di
vederla, una forma immensa e torreggiante il cui cono d’ombra copriva la
desolazione come un’eclissi di decine, se non centinaia, di chilometri di
diametro; ed alzando lo sguardo aveva provato meraviglia e terrore nel
contemplare il cilindro di travi d’acciaio, cemento, vetro e tubi contorti che
sembrava crescere dal suolo come una pianta malefica e si innalzava
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vertiginoso in quell’aria scura di temporale scomparendo tra le nuvole nere
che rotolavano veloci dall’orizzonte.
“È questo il posto?” aveva chiesto la figura in ombra con voce di giovane
donna, e poi Jonas aveva sentito un curioso rumore di schiocco.
“La vedo, la sento, così grande e così alta, così vecchia; siamo arrivati?”.
Jonas aveva fatto per parlare, ma subito una fitta di dolore intenso e
piacevole l’aveva zittito salendo come una scudisciata dal suo calcagno
tagliato e mai del tutto guarito. Allora aveva saputo all’istante che la risposta
era affermativa ed aveva risposto con un solo cenno del capo.
Subito dopo era stato colto da un improvviso senso di pericolo e la
visione era cambiata un’ultima volta: si era ritrovato davanti all’ingresso di
quella torre ciclopica ed i compagni gli facevano ala con le armi in pugno. Un
attimo dopo l’improvvisa sensazione di peso tra le mani gli aveva fatto
abbassare lo sguardo, ed aveva visto che tra di esse reggeva uno
sparasvelto.
“Arrivano” aveva detto con calma la figura in ombra, e di nuovo c’era
stato quello schiocco sonoro che gli aveva fatto fischiare le orecchie.
Cindy aveva spianato le sue pistole inclinandole lievemente verso il
centro (e sapeva di essere stato lui ad insegnarglielo) poi l’aria di tempesta
era stata saturata da uno stridio acuto che sembrava provenire da tutte le
direzioni. Dalla linea frastagliata delle rovine Jonas aveva visto un
movimento sciamante di cose con artigli e denti scalare il cemento e
riversarsi fuori dalle orbite vuote delle finestre per gettarsi alla carica contro
di loro.
“Al mio ordine” li aveva ammoniti mentre gli orrori macinavano terreno, ed
i compagni avevano atteso come soldati ubbidienti. Un attimo ancora di
attesa, poi aveva sciolto le catene e loro, come cani fedeli, erano partiti
all’attacco.
“Per il Rosso!” aveva gridato e lo stridio acuto era stato immediatamente
coperto dal fragore degli spari.
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Il rumore della detonazione gli arrivò soffuso tra le nebbie del sonno,
facendogli schizzare le palpebre come molle e dandogli per un attimo
l’impressione di essere ancora nella desolazione. Ma lì non c’era il calore di
un sole malato sulla pelle, faceva invece molto freddo ed una sottile crosta
di ghiaccio copriva le coperte e il terreno intorno. Il fuoco era spento.
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Mentre i ricordi del sogno lo abbandonavano rapidamente Jonas
inquadrò Calavera, sdraiato di sbieco sul giaciglio con la pistola spianata:
l’uomo fece fuoco nuovamente e qualcosa esplose in uno schizzo rossastro
a qualche decina di passi mandando un uggiolio disperato.
Il ragazzo sentì la mano contratta attorno al calcio di nichel del revolver.
Si costrinse a rilassare le dita.
“Che stai combinando, sai?” indagò con voce impastata, l’altro non si girò
nemmeno. Con la coda dell’occhio Jonas scorse che anche Mandy era
sveglia e semisdraiata sul giaciglio, scossa a quanto pare come lui, gli
occhioni spalancati e la canna di una pistola che faceva capolino da sotto la
coperta.
“Nuños” sbottò l’uomo. “Bimboli. Quei bastardi si erano fatti sotto e ci
stavano rubando le provviste”.
“Tutto questo casino per qualche bimbolo, uomo?” Jonas sbadigliò. “A
Gilead alcuni li tengono come animali domestici. Sono carini”.
“Ay, camerata, sono carini fino a quando non vengono a rubare il nostro
cibo”. L’uomo rinfoderò, Mandy lo guardò con occhi straniti.
Calmatasi l’agitazione per il brusco risveglio i tre viaggiatori ripartirono
dopo aver fatto bollire il caffè; le pianure aride dei confini di Aradia,
punteggiate qua e là da piccoli boschi stentati, mutarono gradualmente in un
paesaggio di montagne scure alle cui propaggini il piccolo gruppo giunse ad
accamparsi sul fare della sera.
Il giorno dopo raggiunsero il Valico dell’Uomo Morto.
La pista che avevano seguito nei due giorni passati si snodava ben
visibile tra le pendici dei Monti Calvi, i massicci rocciosi che segnavano
naturalmente una parte del confine tra la Baronia di Nuova Canaan ed i
territori di Aradia, inerpicandosi ripida sul fianco di una imponente montagna
senza nome; il Valico dell’Uomo Morto era, visto dal basso, una piccola
apertura a forma di “V” che sbucava dalla bruma a forse nemmeno
quattromila piedi d’altezza. Una collinetta, venne da pensare a Jonas che
quella mattina, prima di iniziare l’ascesa, lo osservò a lungo bevendo il suo
caffè. Le montagne, comunque, non gli piacevano.
Malgrado le Messi fossero ancora lontane il suolo era già duro di gelo,
reso bianco dal nevischio e scivoloso dal ghiaccio, crocchiante sotto gli
stivali e gli zoccoli dei cavalli condotti al passo; la piccola compagnia
procedette lentamente lungo una pista che andava restringendosi ed
innalzandosi sempre più in ampi tornanti sconnessi, l’acciottolato sostituito
dalla terra battuta, costeggiando strapiombi bui nel fondo dei quali si
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vedevano turbinare le acque bianche di un corso d’acqua troppo piccolo per
essere un semplice torrente.
“È il Lys”, rispose Mandy quando Jonas le chiese lumi, “Si divide, nelle
pianure a valle, un braccio va alle paludi e l’altro a Nord-Ovest. C’è un
attraversamento a poca distanza da Galloway, con un ponte di ferro a
traversine. Perfetto per azzoppare un cavallo dico io”.
Il gruppo arrivò al valico nel tardo pomeriggio; Calavera, che procedeva
in testa, fu il primo ad accorgersi che qualcosa non andava fiutando il debole
odore di legna e carne bruciata che il vento portava fino a loro.
Facendo segno ai compagni di fermarsi l’uomo smontò di sella ed avanzò
da solo, a piedi, nello slargo innevato in cui la carrareccia si apriva per poi
restringersi scendendo ripida dall’altra parte.
Si era combattuto in quel luogo, non molto tempo prima: su un lato del
passo, dentro una fenditura del suolo certo scavata dalla pioggia, giaceva
coricata su un fianco la carcassa di un carro dato alle fiamme: tra i legni
anneriti spuntavano resti carbonizzati di corpi inequivocabilmente umani che
mandavano un penetrante odore di carne affumicata.
L’uomo sputò a terra passandosi una mano tra i capelli, sconcertato.
“Merda..”.
Mandy e Jonas si accostarono.
“Sembra che la spedizione sia andata a puttane” commentò il ragazzo,
l’altro imprecò nuovamente.
“Briganti?” indagò Mandy.
“Tutto può essere tesoro”.
Il cacciatore di taglie si avvicinò ai corpi, lei e Jonas lo seguirono.
“Ci sono delle tracce di cavalli ferrati, molto confuse: qui qualcuno si è
sdraiato per prendere la mira con un fucile”. L’uomo indicò una piccola
depressione del terreno dietro alcune rocce, dove la neve raccolta
nell’incavo era stata calpestata; bossoli di cartucce erano sparsi a pioggia
tutto intorno.
“Li hanno aspettati ed hanno fatto il tiro al piccione” commentò Mandy.
Calavera raccolse un bossolo d’ottone.
“Ti dicono niente questi?”.
Jonas prese la cartuccia e gli bastò un’occhiata per capire.
“Sono cartucce di fucili miliziani” rispose. “Non briganti, bensì Gilead è
stata qui; io lo dico e ne sono certo”. Entrambi stettero in silenzio.
“Venite qui, gente, questo dovete vederlo…”.
La voce di Mandy li strappò a quella paralisi pochi momenti dopo.
“Questo l’hanno torturato…merda, ma che cazzo è successo qui?”.
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Il corpo di un uomo, la carne bluastra a seguito del congelamento,
giaceva disteso con mani e piedi legati a paletti accanto ai resti di un
focolare presso la parete rocciosa; aveva tumefazioni e bruciature sul torace
e sul volto, e l’avambraccio sinistro era stato squarciato per tutta la sua
lunghezza come se qualcuno fosse andato a cercare i nervi per infliggere un
supplizio tanto doloroso quanto abietto. Tuttavia non erano state le torture
ad ucciderlo: un grosso foro slabbrato in corrispondenza del cuore mostrava
chiaramente che quell’uomo era morto per una pistolettata a bruciapelo.
“Torturato e finito a sangue freddo” commentò Calavera in tono tranquillo.
“Non sapevo che i pistoleri si occupassero di questo genere di lavoretti”.
Jonas rabbrividì.
“Io non ne so molto dei loro comportamenti, sai…sono uno scartato, ma
penso comunque che sia una cosa da infami”. L’uomo fece spallucce.
“Quando sarà successo?”. La voce di Mandy suonava apprensiva; il
vento prese a rinforzare investendo il piccolo gruppo con sferzate gelide e
sbuffi di nevischio.
“Da non più di un giorno, aye, questo è un lavoro abbastanza fresco.
Probabilmente hanno fatto cantare questo povero bastardo…e poi? Se la
cantata è stata buona, allora potrebbero anche aver preso la via di Galloway
per vedere cosa bolle in pentola”.
“Questo sarebbe proprio un casino, non dirlo nemmeno per scherzo…”.
Calavera non rispose: l’uomo si passò con stizza la mano a raspare la
barba intorno al volto.
“Quanti dei vostri sono ancora in città?” indagò Jonas.
“Non siamo mai in molti; Otis…il marshal…non ci tiene in città che per il
tempo necessario; con lui non ci sono mai più di due o tre uomini, di solito
tocca a Castor e Pollux; qualche volta rimango io, qualche volta rimaneva
Maddock, gli altri curano gli affari nel territorio, mantengono le comunicazioni
e l’ordine nelle altre città. Per non dare nell’occhio, capisci?”. L’uomo
sembrava confuso.
“Non dobbiamo combattere una guerra” aggiunse Mandy, “Non c’è
ragione di tenere i vigilanti uniti, se non quella di voler attirare l’attenzione di
chi ama ficcare il naso e farsi domande”.
“Comunque sia, che cosa facciamo adesso?”.
Per qualche lungo momento, di nuovo, nessuno parlò; il cielo si era fatto
grigio ferro, ed improvvisa quanto indesiderata era presa a cadere una neve
leggera.
“Torniamo indietro” disse ancora Mandy. “Dobbiamo avvisare lo sceriffo
di questo casino, lui saprà cosa fare”.
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“Non è possibile sapere se i miliziani abbiano proseguito verso Galloway”
mormorò Calavera, tormentando con le dita il calcio della pistola al fianco
sinistro.
“Rischiamo di finirgli in bocca: e se così fosse, sapremmo che lo sceriffo
è già stato informato…e sollevato dal suo incarico”.
“Hai idee migliori?”.
“Ammetto di non sapere cosa fare, Mandy-sai”.
Il cacciatore di taglie le rivolse un sorriso tirato.
“Torniamo, anche a me sembra la pensata migliore” aggiunse Jonas,
“Certamente non sono rimasti ad aspettarci lungo la pista, li avemmo visti
altrimenti; una volta al borgo annuseremo l’aria che tira e vedremo se
battercela o se dare una mano”.
Calavera sorrise nuovamente.
“Ti stai calando in questa parte alla perfezione, ragazzo. Probabilmente ci
finirai sul serio, ammazzato nel giro di poco”.
La discesa della montagna richiese meno tempo e fu compiuta alla luce
elettrica di alcune torce che i vigilantes avevano portato con sé; il gruppo
arrivò alla base del passo a notte inoltrata, e venne stabilito un campo fino
alle prime luci dell’alba. Non appena il cielo incominciò a schiarirsi
nuovamente si rimisero in marcia percorrendo la pista già vista, tenendosi
pronti ad abbandonarla alle prime avvisaglie di pericolo per andare ad
infrascarsi nella boscaglia.
Fu così che lo avvistarono, verso mezzogiorno nel discendere una
collina, quando ancora era lontano: un cavaliere che procedeva da solo, al
piccolo trotto, sollevando una piccola nuvoletta di polvere con l’aria di chi si
sta allontanando rapidamente da qualcosa che non quadra.
Lo aspettarono alla base dell’altura in un punto in cui la pista faceva una
curva e bordeggiava un piccolo boschetto, chiusa su un lato dal crinale
punteggiato di neve: Calavera si era arrampicato per scrutare a distanza e
non tardò a ridiscenderne di corsa rimontando in sella.
“Quello è Castor” dichiarò soltanto, spronando il cavallo per uscire allo
scoperto; quando anche Jonas si accodò vide che ugualmente il cavaliere si
era fermato, solitario al centro della pista, ad aspettarli a sua volta;
l’abbigliamento nero della figura in effetti gli era familiare.
Alla fine anche l’altro si mosse e fu vicino a loro nel giro di pochi minuti.
Era proprio Castor, con l’aria stravolta di chi aveva macinato molte ruote
in poco tempo; il suo cavallo tremava per la fatica ed era coperto di sudore
che fumigava nell’aria gelida…lui non stava meglio, sfiancato, spettinato, gli
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occhi infossati e (Jonas lo notò con una certa soddisfazione) completamente
disarmato ad eccezione del coltello che gli pendeva al fianco.
“Amici, non sapete quanto sono felice di vedervi” esalò in un unico fiato;
Jonas sogghignò imitato dallo stesso Calavera.
“Non hai mai chiamato nessuno così, aye, Castor-sai” dichiarò
quest’ultimo. “Gli accadimenti devono essere stati particolarmente gravi per
indurti a cambiare così il tuo modo di fare”.
“Possiamo dire che i nostri traffici sono andati a puttane, se preferisci,
biondo” lo rintuzzò, nella voce si fece di nuovo strada l’usuale arroganza.
“Cosa è accaduto?” domandò l’uomo nuovamente serio.
“Sono arrivati all’improvviso dalla pista del Lys, due giorni che eravate
partiti: ero al saloon quando li ho visti sfilare in Main Street come tanti
scarafaggi azzurri, e mi sono detto ‘Che cazzo ci fa la milizia di Gilead da
queste parti?’”.
Calavera mosse la mano con impazienza, nel gesto circolare che voleva
dire ‘vai avanti’, Castor fece una smorfia e proseguì.
“Ho preso e sono andato dallo sceriffo, ma con cautela, per strade e
vicoli…ho fatto in tempo ad arrivare ed appostarmi per vedere i cavalli di
almeno tre di quei figli di puttana legati davanti all’ufficio. Poi è successo il
fottuto casino: hanno iniziato a litigare e si sentiva anche dalla strada…e ad
un certo punto si sono messi a sparare, io lo dico”.
Una pausa; Calavera ascoltava con fare accigliato, Mandy aveva gli
occhi sgranati.
“Gli spari ne hanno attirati altri, non erano molti ma si sono piazzati
intorno alla porta con i fucili spianati; poi lo sceriffo e mio fratello sono usciti,
erano feriti ma quei cazzo di bastardi li hanno fatti fuori subito! Non hanno
nemmeno dato l’alt, li hanno visti uscire e li hanno bruciati!”.
Un’altra pausa; la voce di Castor tremava, Jonas la giudicò sul punto di
spezzarsi.
“Hanno ammazzato mio fratello come un cane, i porci di Gilead!”.
Il giovane uomo tirò su col naso, curvo sulla sella; Mandy gli si avvicinò,
l’altro si accontentò di scrutarlo con fare preoccupato.
“Questa è brutta, oh si” dichiarò poi. “Dopo il lavoretto sulla montagna
sono scesi, hanno preso la pista parallela e sono entrati in città per finire il
lavoro”.
“Avranno trovato tutto” lo incalzò Mandy, “Le armi, i soldi, il libro dello
sceriffo con le sue note…”
“Quello era cifrato, e se l’hanno ammazzato si è portato il segreto nella
tomba; sei sicuro che sia morto?”
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Castor lo guardò con occhi spenti.
“Io ho visto che gli hanno sparato…ho visto cadere lui e mio fratello, poi
ho solo pensato a scappare”.
“Già, l’ho visto; non ti facevo così coniglio Castor…ma non eri tu quello
svelto e coraggioso?”.
“Dacci un taglio, biondo” lo riprese Mandy. “Davanti a Dio, tu avrai un
fottuto cuore di pietra e nessuno a cui voler bene, ma non tutti sono come te;
e poi era disarmato, come avrebbe…”.
L’uomo mosse semplicemente la mano in circolo, con fare beffardo.
Jonas sentì di ammirarlo.
“Dovremmo verificarlo” disse, cogliendo al volo l’idea che gli era subito
affiorata alla mente, e subito tre teste si girarono nella sua direzione.
“Vuoi tornare laggiù?”.
“Io in città non sono conosciuto come voi: pure se i vostri volti sono
distorti da un incantesimo, il folken di Galloway certamente vi conosce e così
il borgomastro; quando Gilead invia la sua milizia a sbrigare affari, ad
accompagnare i soldati c’è sempre un piccolo ka-tet di pistoleri: e quelli sono
cervelli di prim’ordine”.
“Non vedo dove vuoi arrivare” replicò Mandy; Calavera rimase invece
zitto, e Jonas seppe dalla sua espressione che aveva già inquadrato il
problema.
“Mentre i soldati sono andati per arrestare lo sceriffo,” proseguì,
“Certamente i pistoleri si saranno incontrati con le autorità ed avranno tenuto
un conciliabolo; poi, quando il comandante di compagnia ha portato la
notizia dell’arresto – o della morte – dello sceriffo, tutti avranno speso parole
struggenti dichiarando come non ci si possa fidare di nessuno, come sia
facile allevarsi serpi in seno, e così via…”.
La ragazza lo invitò a spicciarsi accennando con la mano.
“E dopo, di certo il discorso si sarà spostato su collaboratori e
tirapiedi…perché chi commette un reato non è mai da solo, io dico. Giusto?”.
“Il sindaco avrà dato le nostre descrizioni” si intromise Calavera, “E dato
che non ci ha mai visto di buon occhio, è facile capire come non debbano
nemmeno aver impiegato troppa pena per conoscere ciò che desideravano.
Avranno riferito con molti particolari come ci vestiamo, come ci atteggiamo, e
quali sono i nostri lineamenti; i ciondoli che ci portiamo addosso potrebbero
essere l’unico vantaggio che abbiamo conservato, ma dubito che in questa
occasione ci impediscano di essere riconosciuti…specie in una città dove
tutti, bene o male, ci hanno visto in circolazione”.
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“Io non sono conosciuto come voi” riprese Jonas, “Potei tornare in città,
anche se hanno presidiato gli ingressi come credo, dovrei riuscire a farcela:
potrei vedere e agire, se necessario”.
“E lo faresti per altruismo o sbaglio?”.
La voce di Castor, ora, era tornata pressoché quella di prima; Jonas gli
scoccò una lunga occhiata.
“Ora sono imbrancato con voi, coniglio”. Al suono di quella parola, il
ragazzo sgranò gli occhi come se fosse stato schiaffeggiato. Rossore affiorò
sulle sue guance.
“A differenza vostra, io so come Gilead giustizia i traditori: non sempre si
ricorre ad un metodo pulito come la forca, per far fare il grande salto a
qualcuno. Talvolta si sceglie di bollirlo nell’olio, di scorticarlo o di cavargli le
budella, il tutto davanti al folken riunito in piazza che si gode lo spettacolo. E
se permetti voglio evitare di fare quella fine: voglio che si scordino di me”
mentì, “Voglio far sparire le tracce alle mie spalle per non vivere
nell’angoscia che le pance blu vengano prima o poi a pizzicarmi”.
“Siete dei pazzi sanguinari, a Gilead” rise Calavera, e Jonas non poté
fare a meno di annuire.
“Siamo anche la sede dell’Affiliazione…o, come qualcuno ama dire, il
feudo del Bianco: vigiliamo sulla sicurezza di tutto l’Arco Interno, e con
questi mezzi manteniamo la nostra forza”.
“Siete dei pazzi sanguinari lo stesso, aye, ma io dico che hai ragione; in
qualunque modo ci si deve sincerare che lo sceriffo sia morto per evitare
che possano strappargli di bocca tutte le informazioni che ancora ha in
testa”.
Calavera si stropicciò la barba.
“Se fosse ancora vivo, potremmo ammazzarlo noi direttamente” cogitò, al
ché Mandy sgranò gli occhi.
“Sei un maiale spietato, biondo!” gli sbottò in faccia, “Lo sceriffo si
sempre comportato bene con noi, ci ha armato ed arricchito per anni, e tu
vuoi farlo fuori come un cavallo zoppo?”.
“Aye, ci ha armato ed arricchito,oh si…tenendoci in pugno con la
minaccia di consegnarci alle giustizie da cui eravamo in fuga se solo
osavamo scoreggiare senza il suo permesso; un vero benefattore del
cazzo”. L’uomo sputò.
“Comunque era solo un’idea; possiamo pure cercare di liberarlo, se è
ancora vivo. Certo, se fosse morto non avremmo tutti questi ma e questi se”.
120
“La vedo difficile”. Jonas riprese la parola, “Non impossibile, ma difficile;
fuggendo da Gilead ho fregato i miliziani, ma i pistoleri non hanno la testa
nel sacco e nemmeno i comandanti di compagnia sono degli sprovveduti”.
“Acqua sarà se Dio lo vorrà”. Calavera si strinse nelle spalle.
“Voi siete pazzi…tutti pazzi, dal primo all’ultimo!”.
Castor spazzò a mezz’aria con la mano, di taglio, in un gesto di ferma
dissuasione; Jonas lo vide sputacchiare per la foga con cui parlava, e notò
che portava ancora le bende intorno alla ferita che lui stesso gli aveva
inflitto.
“Io laggiù non ci torno, per un cazzo, avete capito? Io tolgo le tende, non
voglio andare a far compagnia a mio fratello per assecondare voi dementi!”.
“Bene, faremo a meno di te; tanto sei disarmato, e con quella mano
ferita…nay,a ben pensarci non ci servi proprio” tagliò corto il cacciatore di
taglie.
Il ragazzo in nero scostò il cavallo con fare irato, senza dire altro: lo girò e
lo spronò con un colpo di tacchi alle loro spalle, scomparendo rapido alla
vista dietro la curva del poggio.
“Bel codardo” commentò ancora Calavera. ”Mandy, tu che fai? Vieni?”.
La ragazza annuì.
“Mi sento in debito con lo sceriffo, aye…sarà una cosa stupida ma è
così”.
L’uomo fece spallucce.
“Ad ognuno il suo motivo; ragazzo, allora, qual è il piano?”.
Jonas sfilò il fucile dalla fonda della sella e se lo mise a tracolla, come
per averlo a portata di mano nel caso la situazione precipitasse
all’improvviso. “Non ho mai detto di avere un piano, sai” replicò
semplicemente, e vide allargarsi il sorriso sul volto dell’uomo biondo.
Questo qui non deve starci del tutto con la testa, pensò…ma mi piace, oh
si, perché ha stile…e nasconde molto più di quel che mostra.
“Qualcosa mi verrà in mente, dico io: mancano ancora due giorni per
arrivare al borgo…è tutto il tempo del mondo, per chi ha intraprendenza e
cervello fino”.
Il ragazzo sorrise sornione a sua volta. Anche lui stava nascondendo
molto più di quel che mostrava.
19
L’avvicinamento a Galloway fu rapido, non tuttavia frettoloso al punto da
far dimenticare la prudenza: muovendosi fuoripista ed accampandosi solo
121
per il tempo strettamente necessario al riposo dei cavalli, il terzetto coprì lo
scarso centinaio di ruote che ancora mancavano in una giornata e mezza.
L’ultimo campo venne posto nel tardo pomeriggio del secondo giorno, in un
piccolo bosco a fianco della pista dove il terreno formava una piccola
depressione.
Spintosi in perlustrazione da solo, quando le prime ombre della sera
erano già calate, Jonas scorse il posto di blocco in mezzo alla pista qualche
centinaio di metri oltre l’avallamento: ben guardato da almeno cinque
uomini, confermava appieno le sue congetture; concluse che sarebbe stato
decisamente avventato prenderli di petto, e si ritirò silenziosamente per
informare gli altri.
Quella sera si arrovellò a lungo cercando un piano per risolvere la
situazione: si era inevitabilmente messo in mostra, forse anche assumendo
arie da leader quando una seccatura tale era proprio ciò che gli
mancava…ma ormai il dado era tratto: e se voleva assecondare la sua idea,
e magari guadagnarsi un po’ più di rispetto dai suoi compagni di viaggio, non
doveva tirarsi indietro.
Un aiuto insperato gli venne frugando tra le cose di Douglas, quando si
risolse infine a ficcanasarvi; non aveva mai provato il desiderio di farlo, anzi
l’idea lo faceva stare male, ma sapeva che ogni pistolero (anche se era solo
un apprendista) spedito in missione veniva spesso accompagnato da
salvacondotti e lettere di presentazione per permettergli di svolgere i suoi
incarichi nelle Baronie dove era destinato senza incontrare troppi bastoni tra
le ruote. Fardo era stato chiaro su questo: talvolta anzi i documenti erano
vere e proprie coperture, e lui avrebbe potuto utilizzarli proprio come tali…a
patto di non andare a stuzzicare qualcuno troppo vicino al consiglio dei
pistoleri; qualcuno, in definitiva, che sapesse che il legittimo proprietario di
quelle carte era stato fatto fuori…ed in quel caso il suo inganno avrebbe
davvero avuto vita breve. Giudicava comunque che, forzando solo
minimamente la mano alla Signora Fortuna, un qualsiasi capitano di milizia
ne sarebbe stato sufficientemente impressionato.
C’era solo da sperare che anche Douglas fosse stato munito di questo
genere di lasciapassare, ma l’incertezza ebbe breve durata; dopo una rapida
ricerca, cucita nella fodera di una sacca della sella Jonas rinvenne una
lettera di presentazione inviata e firmata nientemeno che da Henry Deschain
al podestà di Lyndria, una Baronia al confine della Cressia, a molte centinaia
di ruote da Gilead.
122
Che cazzo andava a farci Doug in Cressia? si chiese mentre sfogliava i
documenti. Lo qualificavano ufficialmente come ‘inviato dell’Affiliazione’ ma il
fatto che fossero stati nascosti poteva significare molte cose…il giovane
decise comunque di accantonare ogni congettura, limitandosi a sfruttare
come meglio poteva quel lasciapassare per rivestirsi almeno un minimo
dell’autorevolezza dell’apprendista, suo amico, che aveva assassinato e
della missione che gli era stata affidata.
Illustrò il suo piano agli altri quella sera: si erano accampati in una radura
addentro il bosco, senza accendere fuochi malgrado il freddo, ed il
conciliabolo alla luce pallida delle torce elettriche li faceva davvero sembrare
più un gruppo di cospiratori che di contrabbandieri.
“Entrerò dalla direzione della pista come uno che non ha nulla da
nascondere” esordì, ricevendosi subito occhiate sorprese e poco convinte.
“Non credevo bastasse un pomeriggio a far sviluppare la vocazione del
suicidio” commentò canzonatoria la ragazza.
“Probabilmente ha un gatto nel sacco” si limitò ad osservare Calavera,
biascicando un pezzo di carne secca prelevato dalle loro provviste.
“Aye, un gatto che, se non mi permetterà di passare inosservato, almeno
dovrebbe evitarmi seccature troppo grandi”. L’uomo accennò con la mano,
inducendolo a proseguire.
“Quello che ho ucciso” dichiarò, sforzandosi di mantenere il tono il più
possibile neutro (nay, non ci riuscì troppo), “…il mio amico…”.
“Quello a cui hai anche rubato le pistole” aggiunse la ragazza in tono
insieme divertito e crudele, e Jonas fece una smorfia.
“Grazie-sai, per aver puntualizzato…”.
“Diamoci un taglio con le stronzate, io dico” si intromise nuovamente il
cacciatore di taglie; la ragazza fece spallucce zittendosi.
“Il mio amico, dicevo, era un apprendista pistolero che si apprestava a
partire per una missione…lo stavano mandando lontano”.
“Lontano…” ripeté l’uomo, “Dove?”.
“Questo non lo so, e francamente non mi interessa” mentì, “La cosa che
invece conta è che aveva con se dei salvacondotti, delle lettere di
presentazione firmate da un pezzo grosso della capitale…i nomi aprono
delle porte, e più i nomi sono grandi, più sono pesanti le porte che fanno
spalancare”.
“Aye, fammi vedere se capisco bene” si intromise nuovamente la
ragazza, “Vuoi presentarti ai posti di blocco con i tuoi scartafacci e far presa
con il nome di questo tuo pezzo grosso?”.
123
“L’idea è questa…”.
“Non pensi che la cosa possa suonare, non so…sospetta…dato che il tuo
amico dovrebbe essere in missione ‘lontano’ da qui?”.
Jonas tacque.
Era vero: la Cressia era fin troppo lontana, e se non dubitava di poter
rimbeccare facilmente un soldato semplice che avesse fatto domande, le
cose si sarebbero certamente fatte più spinose se fosse incappato in un
ufficiale anche solo moderatamente curioso.
E c’era sempre l’eventualità che sapessero che Douglas Mischief era
morto, anche se la morte di un apprendista pistolero non veniva certo
comunicata ad ogni soldato del reggimento. Come a fare eco al filo di quei
pensieri la ragazza lo incalzò nuovamente.
“Spacciarsi per un morto è un gioco pericoloso, che funziona solo fin
quando non trovi qualcuno che sa che sei morto”.
“Ed in quel caso, probabilmente, la realtà si conforma rapidamente alla
finzione” ghignò Calavera.
Era tutto vero, tutto verissimo, il piano (se così si poteva chiamare)
faceva acqua ed era palese.
“Questo è tutto quello che abbiamo, e questo conciliabolo non ci porterà
più lontano di così” tagliò corto Jonas, indispettito. “Se avete delle idee in più
cavatevele di bocca, altrimenti potete andare a farvi fottere perché non è con
le parole che si costruiscono i castelli”.
Nessuno replicò.
Jonas si rimise in marcia quando mancava poco all’alba e l’oscurità era
più fitta, procedendo al passo lungo la pista: guidava il cavallo con le
ginocchia ed in mano stringeva una torcia accesa; allacciato alla schiena,
seminascosto sotto al mantello, c’era lo sparasvelto del cacciatore di taglie
che nell’oscurità avrebbe potuto benissimo passare per un fucile ordinario.
Aveva lasciato i due compagni nel boschetto, dicendo loro di spostarsi
verso il guado sul Lys ed aspettarlo nelle vicinanze della pista facendo
attenzione agli altri blocchi; quando gli avevano detto che c’era un ponte
sopra la gola del fiume, istantaneamente aveva deciso di usare quel
particolare a suo vantaggio. In un modo o nell’altro, uscendo dalla città,
sarebbe passato di lì: e se avesse avuto inseguitori alle calcagna si sarebbe
tagliato la ritirata alle spalle.
Malgrado tutto, però, si sentiva teso.
I battiti del suo cuore accelerarono quando, risalito oltre la depressione
del terreno, scorse fermi in mezzo alla strada a qualche centinaio di passi
124
due cavalieri ed alcuni miliziani appiedati. Anche loro avevano delle torce, e
vedeva chiaramente luccicare le canne dei fucili che portavano a tracolla.
Passarono pochi istanti, poi lo inquadrarono, e nel silenzio notturno il
ragazzo avvertì chiaramente il rumore di otturatori che scattavano
incanalando colpi in canna. Deglutì, aumentando di poco il passo. Qualcuno
intimò un “alt”, ora poteva vedere chiaramente le lunghe canne dei fucili a
colpo singolo puntate nella sua direzione.
Jonas fermò il suo cavallo proprio in mezzo alla pista.
“Hile!” gridò, nascondendosi dietro a quel saluto pronunciato (e non poté
fare ameno di accorgersene) con voce tutt’altro che ferma. Allargò le braccia
lontane dal corpo mostrando i palmi.
“Sono un pistolero e chiedo di passare!”.
Qualche canna di fucile si abbassò, ed il ragazzo vide alcune forme scure
staccarsi dal gruppetto per venirgli incontro.
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Sommario
Prologo – Eldred Jonas.................................................................................... 3
Sulla via dell’Ovest .......................................................................................... 8
La pista dell’esilio .......................................................................................... 17
Louis Depape ................................................................................................ 36
I masnadieri di Galloway............................................................................... 61
126
Parte II
Le compagnie del Bianco e del
Rosso
Commala come-lo-so
vecchi compagni ritroverò.
Per cavalcare una volta ancora
al loro fianco nell’ora più dura.
2
Prologo – La battaglia di Paddyfield
3
4
1
Lo chiamavano Gurdulù, quelli che avevano fiato da sprecare e voglia di
farlo; per i più era lo scemo del villaggio, e il villaggio non era prodigo di
buon cuore verso di lui.
Il villaggio si chiamava (con poca fantasia) Paddyfield ed era la sola cosa
che Gurdulù avesse mai visto da quando era uscito gridando dalla pancia di
sua madre, poi morta di mandrus quando lui aveva appena un anno (e se
non fosse stato per il ministro di Oriza, Padre Calum, probabilmente anche
lui avrebbe fatto la stessa fine). Un buco stagnante di risaie e zanzare anche
d’inverno, nelle pianure basse della Baronia di Desatoya, in cui Gurdulù,
dodici anni dopo quel lieto evento, piantava riso perché non avrebbe mai
potuto fare altro.
Ma non quella mattina.
Quello era un giorno brutto e fin dalla sera precedente le campane del
santuario sulla rupe, a poche ruote dal villaggio, avevano suonato a martello
per richiamare il centinaio scarso di persone che abitavano le baracche e
radunarle sotto la protezione della dea. Tutti erano saliti ed anche lui lo
aveva fatto, ma a differenza degli altri non era rimasto: perché anche se era
lo scemo del villaggio Gurdulù era curioso, maledettamente curioso, curioso
come un gatto alcuni potrebbero dire (ed ignorante di cosa fece la curiosità
al gatto del detto).
Quella mattina uomini si sarebbero affrontati ed uccisi nelle risaie di
Paddyfield, aveva detto il Padre, senza spiegare come lo avesse appreso;
loro avrebbero dovuto pregare per i soldati…e per loro stessi, perché da
quasi un anno le voci parlavano di guerra e alla fine la guerra era arrivata
anche lì. E sfortuna voleva che il loro villaggio si trovasse dritto dritto sulla
strada per la capitale.
2
Gurdulù voleva vedere; per questo aveva rubato a Padre Calum un
occhio-di-vetro, un prodigio che funzionava con la luce del sole e permetteva
di vedere più lontano di un falco: il Padre raccoglieva molte meraviglie come
questa nella torre campanaria e gliele aveva mostrate molte volte
spiegandogli che cosa fossero, pur non permettendogli mai di toccarle. E
visto che Gurdulù era scemo, ma non stupido, aveva saputo come fare per
prendere esattamente ciò che voleva.
Poi, dopo averlo rubato, era fuggito scendendo la collina tra la boscaglia
mentre gli ultimi uomini stavano ancora arrivando; si era rintanato fin da
5
prima dell’alba sul piccolo colle giusto dopo le risaie, quello dove i ragazzi
andavano con le ragazze del villaggio a fare quella cosa che si chiama
‘sbattere’. Aveva spiato ed a poco a poco li aveva visti arrivare: da una parte
c’erano arcieri, fanti e cavalieri con vesti bianche ed azzurre su cui risaltava
lo stemma di Wingada, la capitale. E dall’altra…
Sembravano uomini come tutti gli altri ma il solo vederli gli fece stringere
il culo dalla paura: non c’erano stemmi sulla schiera eterogenea che si
andava ammassando, soltanto divise scarlatte, mantiglie svolazzanti, strane
armi puntate al cielo di cui soltanto poche erano simili ai vecchi fucili che
alcuni degli uomini del villaggio possedevano; e sotto i cappucci, esplorò con
inquietudine e l’occhio-di-vetro che tremava appena nelle mani, le facce di
molti di quegli strani guerrieri erano coperte da elmi di ferro con occhi grandi
ed accesi e feritoie strette al posto della bocca.
Gurdulù non conosceva la prammatica delle battaglie ma non riuscì
comunque a staccare gli occhi dal teatrino dello schieramento fino a quando
le due schiere non furono una davanti all’altra, separate da una spianata di
seicento iarde. Poi un uomo uscì dalla prima fila dello schieramento cremisi
ed il suo cavallo era diverso da qualsiasi animale avesse mai veduto: non
sembrava nemmeno una bestia, sembrava fatto a sua volta di ferro.
Gli bastò alzare la mano e l’urlo della schiera dietro di lui crebbe in un
alzarsi di picche e di canne verso il cielo; iniziarono a volare le prime frecce
e Gurdulù guardò atterrito dentro l’occhio-di-vetro gli uomini delle prime file,
dall’una e dall’altra parte, cadere a terra.
Poi l’uomo sul cavallo si lanciò in avanti e da dietro emerse un manipolo di
cavalieri che lo seguì; dalla parte opposta del campo altri cavalieri uscirono
dalla prima linea per andare ad intercettarlo, seguiti dai fanti appiedati.
Uomini e cavalli cozzarono e si rovesciarono dopo un tempo
straordinariamente breve mentre alle loro spalle ne sciamavano altri, come
formiche, e gli sembrò che il rumore dell’urto fosse giunto fin lì; cercò di
rimettere a fuoco l’uomo ma era sparito nella mischia, poi un nuovo rumore,
più basso e continuo, diverso da qualsiasi altro rumore avesse mai udito, gli
fece abbassare di scatto e d’istinto la testa.
Qualcosa volò sopra le fronde del boschetto alle pendici del colle e
Gurdulù strillò con quanto fiato aveva in gola.
3
Vide sfrecciare quelli che a prima vista sembravano grossi uccelli di ferro
dalle ali a trapezio: passarono in volo radente sulle cime delle betulle
scompigliandole con getti d’aria rovente che sapeva di olio bruciato e
Gurdulù si coprì la testa con le mani mentre il rumore si ripeteva rapido a
6
testimoniare un passaggio ripetuto per poi cambiare di tonalità, facendosi
più lontano, acuto e vibrante. L’occhio di vetro era scivolato più in basso
lungo l’erta e Gurdulù, realizzato che quegli strani rapaci non lo avevano
nemmeno visto, per un attimo fu combattuto tra il desiderio di scappare a
gambe levate e quello di vedere ancora; quando il secondo ebbe la meglio
sul primo si lasciò scivolare di culo lungo la china, lo abbrancò e se lo
appiccicò nuovamente agli occhi mentre il nuovo e più strano rumore si
inframmezzava a quello dell’aria risucchiata e tagliata.
C’erano, sembrava, degli uomini ritti sopra le cose che stavano volando
sopra la mischia, e c’erano dei raggi di luce che scaturivano da loro: getti
pallidi e quasi invisibili nel sole del primo pomeriggio, pallidamente rossi, ma
ogni volta che uscivano la terra sembrava aprirsi sul campo e uomini e
cavalli venivano lanciati in tutte le direzioni come dopo lo scoppio di una
bomba (e lui sapeva cos’erano le bombe, oh si, glielo aveva spiegato Padre
Calum, sicuro!).
Come poteva la luce fare una cosa del genere?
Uno degli uccelli di ferro precipitò, forse colpito da una scarica di proiettili, e
quando impattò al suolo il rumore del boato arrivò chiaro e netto fino al colle;
Gurdulù vide il terreno accendersi di fiamme chiarissime e gli uomini
bruciare come foglie secche mentre la mischia continuava intorno a loro.
Poi all’improvviso la linea dai colori bianchi ed azzurri vacillò: come
spighe di riso sferzate dal vento si piegò verso l’interno ondeggiando sotto il
rinnovato urto della terza e della quarta linea degli uomini in rosso. Malgrado
molti di loro fossero già stati uccisi continuavano a venire, a correre in avanti
come se non conoscessero paura. Gurdulù ritrovò l’uomo, il comandante,
emergere da dentro la mischia con una picca fiammante levata in cielo,
appena prima di trafiggere alla schiena un cavaliere, sollevarlo e lanciarlo
via come una balla di fieno. L’occhio-di-vetro gli rimandò l’immagine, nitida e
ingrandita, del corpo che si squarciava mentre volava via e Gurdulù strillò di
nuovo, poi da dietro il comandante la massa del rosso proruppe come un
frangente travolgendo i fanti ed i cavalieri che ancora tenevano la posizione:
la linea si disfece e le armi tuonarono con il loro crepitio secco soltanto più
da una parte.
Adesso cadevano gli uomini vestiti di bianco e d’azzurro, aggrovigliandosi
gli uni con gli altri, trascinando giù cavalli ed armature, e Gurdulù non poté
che guardare a bocca aperta mentre i soldati cremisi li calpestavano
sparando ed affondando picche e lance nella massa di corpi stesa al suolo.
Li inseguirono per un breve tratto, fino a che non furono certi che avrebbero
corso, poi vide l’esercito scarlatto raggrupparsi ed il nuovo fronte, l’attimo
immediatamente successivo, si compattò rivolto proprio vero il colle.
7
E dietro il colle, a nemmeno dieci ruote di distanza, c’era il tempio,
c’erano Padre Calum, c’era la gente del villaggio.
Gurdulù sembrò riscuotersi da una specie di sogno; le gambe tremanti, ficcò
l’occhio-di-vetro nella bisaccia ed incespicò nel voltarsi mentre (oh, ne era
sicuro) la linea di fanti stava già iniziando a venire da quella parte.
Gli uccelli di ferro lo sorvolarono nuovamente fischiando e stridendo col
loro fiato d’olio bruciato, la vampa calda lo schiacciò a terra e gli tolse il
respiro per un attimo; quando si rialzò Gurdulù seppe che doveva correre a
sua volta, e che doveva farlo presto e bene.
Da quando gli schieramenti si erano avventati l’uno contro l’altro non
erano passati neppure venti minuti.
8
4
“Scappate! Vengono i demoni!”.
Gurdulù non si preoccupò della santità del luogo; con i polmoni che
bruciavano come sacche di tizzoni, nemmeno lui sapeva da dove avesse
tirato fuori l’energia per continuare a correre, spalancò le porte
interrompendo un salmodiare di preghiera (“O-riza o-riza, madre viva e
principessa, eterna e santa donna, donna come noi!”) e la gente trasalì
abbassando le teste e sgranando gli occhi. Poi, finalmente, mente Padre
Calum accorreva si lasciò cadere al suolo respirando avidamente. Quando
l’uomo si chinò su di lui, gli occhi scintillanti su un volto dall’aria stanca, trovò
ancora la forza di parlare.
“Vengono gli uomini cattivi, vestiti di rosso…volano, e la luce scoppia”
mormorò.
Capì che l’uomo aveva capito quando vide per un istante le sue labbra
serrarsi nel gesto di collera che precedeva sempre uno scapaccione. Ma il
colpo in quell’occasione non vi fu, e l’espressione tornò a stemperarsi subito
dopo.
“Scendete nelle cripte, voi tutti” disse; un attimo più tardi Gurdulù si sentì
sollevare da terra e la voce del padre parlò nuovamente, più bassa e forse
anche spazientita.
“Sei uno stupido idiota, ragazzo mio”.
“Volevo vedere, Pà’a”. Una porta, di ferro, legno o pietra che fosse, si
aprì con stridore da qualche parte sul fondo della navata.
Qualcuno chiese: “Vengono davvero? Li ha visti lo scemo?”.
Qualcun altro indagò mentre Padre Calum lo trasportava: “Basteranno a
proteggerci?”. Gurdulù lo vide assentire sbrigativamente tra due ali di volti
preoccupati, molti dei quali di donne che stringevano bambini al collo.
“Riza ci nasconderà e provvederà” dichiarò soltanto.
Secondi dopo Gurdulù vide la luminosità diminuire, farsi grigia da colorata
che era, poi rossastra e tremula quando una torcia venne accesa dallo
sfrigolio inconfondibile dell’acciarino a pietra focaia.
Avvertì odore di muffa e resina sovrapporsi al sentore d’incenso ed erba
del tempio. Il padre lo guardò ancora.
“I nostri sono vinti?” chiese e Gurdulù rabbrividì nel rivedere lo
schieramento dei fanti biancazzurri venire sopraffatto dall’onda rossa come
sangue.
“Aye, Pa’a” disse ed anche a sua voce era un sussurro; una donna, che
era abbastanza vicina, colse le sue parole e gridò di disperazione prima che
il Padre parlasse nuovamente e mettesse a tacere i mormorii.
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“Riza vedrà e provvederà!” dichiarò. Il rumore della pietra, o forse legno,
o ferro, che strideva nuovamente contro la pietra, ed il tonfo secco che ne
seguì sembrarono sigillare le parole del Padre con un auspicio che non era
certamente buono.
5
Gli uomini e le donne del villaggio attesero col cuore in gola nel buio della
cripta e proprio quando iniziavano a credere che il passaggio dell’esercito
rosso li avrebbe risparmiati, anche attraverso il pavimento di pietra poterono
sentire i passi pesanti ed affrettati, lo schianto dei vasi sbattuti a terra, il
rumore dei soldati che lo stavano cercando.
Stavano pregando sottovoce quando la porta di legno e ferro della cripta
venne trapassata da una rosa di colpi, che soltanto pochi tra i più anziani
riconobbero come quelli di uno sparascoppio (e fu per miracolo che nessuno
venne preso in mezzo); un’altra bordata di piombo investì la serratura
svellendo il catenaccio e Gurdulù, da dietro le spalle di Padre Calum, guardò
infine la porta cadere spinta giù da uno stivale nero, attaccato ad una gamba
vestita di stracci rossi ed infangati.
“Uscite, cani!” gracchiò una voce, nel suono simile a pietre che
sfregavano in un setaccio. “Venire a salutare l’esercito del Re!”.
La gente mormorò di spavento mentre il Padre si metteva nel cunicolo tra
loro e l’apertura.
Li trascinarono fuori e quelli che non furono abbastanza rapidi nel
muoversi si ritrovarono a terra con la testa spaccata; li misero in fila nel
cortile del tempio e malgrado facesse caldo Gurdulù si sentiva freddo e
sudato, tremante come se avesse avuto la febbre. L’unico che non
sembrava avere paura era proprio il Padre: aveva di nuovo il volto tirato, la
bocca serrata di collera mentre qualcosa che non poteva essere un uomo –
non poteva proprio esserlo – lo fronteggiava sopravanzandolo di almeno un
piede. Gurdulù poteva vederne solo l’armatura: scarlatta, di un rossore
febbrile, tutta punte e lame che increspavano un mantello più scuro.
Era lo stesso che nella mischia aveva travolto i difensori di Wingada, ed
in mano aveva la stessa picca che aveva usato nel farlo: una strana lancia
con due lame lunghe, una ad ogni estremità, con piccoli forellini lungo tutta
la superficie e l’aspetto annerito di qualcosa che fosse stato a lungo nel
fuoco.
Dietro di lui altri dei suoi attendevano e guardavano, anche loro in fila, ma
nessuno aveva una bardatura simile. Le facce in compenso erano quelle di
10
uomini sanguinari dalla furia a malapena trattenuta, quelle scoperte almeno:
molti vestivano gli stessi elmi dagli occhi grandi ed accesi che aveva visto da
lontano con l’occhio-di-vetro, ma era sicuro che i volti che c’erano sotto
fossero del medesimo stampo.
“Hai fegato, ingannatore, a guardarmi” borbottò la cosa-uomo in una
specie di ronzio d’api, e Gurdulù fu sicuro che qualsiasi cosa ci fosse sotto
quell’elmo (poteva persino essere la sua vera faccia!) avesse sorriso.
“Perché mi chiami così, soh?”. La cosa-uomo si irrigidì per la mancanza
di rispetto.
“Vendi un dio a queste persone, dunque li inganni. Nel nuovo mondo che
verrà non ci deve essere spazio per gli dei ed i loro ministri”.
“E chi prenderà il loro posto, spaventapasseri di rosso vestito?”. Padre
Calum sorrise e la vibrazione dell’altro fu assolutamente convinta.
“Il Re Rosso” disse con calma; tirò indietro il braccio e poi lo fece scattare
in avanti, Padre Calum si insaccò all’indietro; poi la sua pancia si aprì
quando la lama venne torta e liberata con uno strattone.
Padre Calum cadde con un gemito soffocato, le mani strette sulla ferita da
cui uscivano fuori le viscere; Gurdulù gridò e scattò verso il Padre mentre la
cosa-uomo guardava. Qualcuno dietro di lui rise, ma nessuno del villaggio,
donne comprese, osò emettere più di un mormorio sommesso.
Il ragazzo sollevò la testa dell’uomo e sentì il suo respiro, veloce di
sofferenza, fischiare tra i denti stetti; la tenne su con le ginocchia, poi lo
sentì tremare mentre le viscere si lasciavano andare del tutto ed il sangue
che gli vomitò sulle gambe con l’ultimo respiro era scuro e caldo.
“Tornate alle vostre case, uomini e donne” disse la cosa-uomo allargando
le braccia. “Noi torneremo, quando vi avremo liberati”.
Padre Calum morì proprio mentre la cosa risaliva in sella e si avviava al
passo, seguita dalla doppia fila sorprendentemente ordinata dei suoi
masnadieri. E quando la gente del villaggio trovò finalmente il coraggio di
muoversi, Gurdulù stava già piangendo da un pezzo.
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6
“È stata una bella battaglia”.
Dall’altra parte l’uomo vestito di nero non rispose, accontentandosi di
rimuginare su come fosse facile che certi esperimenti sfuggissero al
controllo.
Per parte sua l’uomo dalla corazza rossa, alla testa di un esercito
accampato a solo poche decine di ruote da Wingada, era raggiante. O
meglio: avrebbe potuto esserlo, se gli impianti nel suo cranio glielo avessero
permesso; così invece non poteva far altro che lasciar emergere appena la
soddisfazione da sotto il carapace dell’armatura spinale in cui era stato
rinchiuso.
Poteva percepirlo, l’uomo in nero, e se anche lui era ben allenato nel
dissimulare e nel reprimere la cosa non faceva altro che aumentare il suo
fastidio.
“Li abbiamo sbaragliati mio signore, per la terza volta in poche settimane;
abbiamo avuto delle perdite, ma potremo rimpiazzare i morti con la gente del
popolo che ha già scelto di seguirci in questa rivoluzione, e…”.
“I tempi non sono maturi”.
Non voleva parlare, non voleva degnarlo nemmeno di quella
considerazione, e quando l’uomo in nero lo fece fu solo per tirare una
secchiata d’acqua gelida addosso all’entusiasmo di quel seppe-sai sbandato
che aveva rovinato preparativi in atto da mesi. Da anni, che Gan lo
stroncasse!
E se avesse potuto indubbiamente lo avrebbe stroncato lui stesso, senza
attendere l’intervento di Gan; se le notizie della sua impazienza gli fossero
giunte in tempo lo avrebbe fermato, rimpiazzato, rottamato ma ora poteva
soltanto coltivare il pensiero – calmante come una carezza – di strappargli le
placche dermali una ad una per poi immergerlo nel sale.
Forse avvertendo la sua collera l’immagine tremò sullo schermo
mescolandosi in righe e linee colorate.
“Lo erano, mio signore, e col vostro aiuto…”.
“Nessun aiuto folle! Non vi sarà aiuto, perché i tempi non sono ancora
maturi!”. L’uomo in rosso sembrò interdetto.
“Potete soltanto sperare di finire ciò che avete iniziato, e di farlo rapidamente
e con le forze che vi restano”.
Una pausa.
“Se occuperete la capitale verrete perdonati, e vi sarà aiuto” ritrattò solo
in parte prima di svanire, e l’uomo in rosso fissò per qualche istante lo
schermo nero mentre una vaga inquietudine iniziava a farsi strada
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strisciando sotto gli inibitori comportamentali. SI sforzò di scacciarla quando
i circuiti impiantati nel cranio gli suggerirono che non poteva, non doveva
avere paura perché la sua era una missione giusta, una missione di
liberazione e per questo avrebbe avuto successo.
Tutto sarebbe andato come meglio poteva andare, perché non sarebbe
potuto essere altrimenti.
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La sua brigata contava mille uomini che avevano fucili, sparasvelto e
bah, ed il sangue saturo di medicine che impedivano loro di sentire fame,
dolore o stanchezza (entro certi limiti) oltre a garantirgli in tutto e per tutto la
loro dedizione: se gliel’avesse ordinato sarebbero corsi a cuor leggero verso
reticolati o cavali di Frisia, aprendosi la strada a mani nude se fosse stato
necessario, come migliaia di anni prima avevano fatto i loro predecessori già
drogati della stessa pappa. Quasi il doppio dei suoi fanti invece non era
umano, ma ne aveva solo le sembianze, e a loro ed a loro soltanto era
permesso di imbracciare i tiraluce o lanciare le volasfere.
Dopo il conciliabolo con l’uomo vestito di nero nemmeno gli inibitori
comportamentali riuscirono a tenere sotto controllo la voglia di tornare a
combattere per concludere, in fretta, ciò che aveva iniziato
(possibile che avesse fatto un passo falso?)
così gli bastò diramare ai suoi luogotenenti l’avviso di partenza immediata
ed in meno di due ore il piccolo esercito si trovo pronto a lasciarsi alle spalle
le pianure per puntare senza più indugi verso la capitale.
Non c’erano carri armati nella massa di uomini e macchine vestita di
rosso, come un mare febbrile dai manti svolazzanti e le armi sollevate, né lui
aveva fiducia nelle macchine d’assedio primitive che molti dei partigiani
favorevoli alla guerra avevano messo a disposizione; aveva accettato di
prendere con sé dei trabocchi ma non ne aveva mai fatto uso, in compenso
possedeva molte ali da guerra che erano state occultate nei castelli dei
feudatari favorevoli alla sollevazione, insieme con carburante sufficiente a
farle andare fino ai confini del Mare Occidentale se fosse stato necessario.
Si avvicinò alla formazione dei droni persecutori, che i taheen
chiamavano Lupi, ritti sui loro trespoli che avevano soltanto l’aspetto di
cavalli, e come ubbidendo ad un comando trecento vampanti si alzarono e si
accesero inondando il cielo serale della luce pallida del fuoco al plasma;
sarebbe andato con loro, a fianco dell’esercito, mentre i suoi luogotenenti
avrebbero tenuto le formazioni della fanteria.
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Ciò che rimaneva delle forze di Wingada – quanti uomini? Forse duemila,
forse anche il doppio, non era importante – li avrebbe sicuramente attesi
sulla piana davanti alla capitale, dove i sopravvissuti si stavano dirigendo
ventre a terra portando la notizia dell’ennesima sconfitta; sarebbero arrivati
entro tre giorni, forse meno se non avesse avuto uomini in carne ed ossa a
rallentarlo. E forse ci sarebbe anche stato un assedio da spezzare, prima di
prendere il barone e giustiziarlo come aveva fatto con il ministro di falsi dei.
Lui lo avrebbe fatto, ne era sicuro, e fu con questo pensiero che spronò il
cavallo alla testa del reparto di Lupi. Portava il nuovo, lui, portava la
rivoluzione ed i tempi erano maturi per accoglierla, altroché se lo erano!
L’esercito dei masnadieri si mise in marcia come uno sciame di insetti
rossi, immenso e brulicante, diretto verso l’ultima battaglia.
14
8
A Gilead il Consiglio era irrequieto e Nebi fiutava il nervosismo degli
uomini nell’aria della sala; una vecchia cavalla bizzosa avrebbe forse fatto
roteare gli occhi e sbruffato vapore dalle froge, lei si accontentò di dimenarsi
leggermente sullo scranno al tavolo dei notabili mentre il corriere si
apprestava a parlare, colta da un accesso di prurito la cui unica causa era
nella sua testa.
Era giunto proprio mentre il Consiglio era riunito, cuore pulsante
dell’Affiliazione che perdeva un colpo dopo l’altro, ed aveva preteso di
riferire immediatamente all’assemblea notizie riguardo una questione che lì
dentro era nota a tutti. E lei aveva paura, forse più di ogni altro, di ciò che
avrebbe detto.
Sentì lo stomaco serrarsi minacciando di diventare liquido ed uscire da
sopra o da sotto; nay, non era ammissibile che ci fossero ancora rivolte e
sedizioni, non dopo che centinaia di uomini erano morti nelle decadi passate
per portare la legge dell’Eld fino ai confini dell’Arco Esterno.
Che cosa stava succedendo?
“Lunghi giorni all’assemblea” proclamò l’uomo non ricevendo in cambio
che un brusio soffocato.
“Parlate messaggero” rispose Nebi, forse un po’ troppo sbrigativamente,
comunque sempre secondo il protocollo.
Non c’era punto nel tirarla in lungo, ma per un attimo desiderò farlo perché
(se già non fosse stato detto) aveva una paura maledetta di ciò che avrebbe
potuto udire; lo stomaco le si rimescolò una seconda volta e non poté
proprio evitare di liberare uno sbuffo d’aria inodore da dietro. Alla sua destra
il comandante in capo della milizia, Jacob Lafferty, guardava a sua volta con
uno sguardo che tradiva attesa e timore.
Se Desatoya fosse caduta…
“A nome del mio comandante di compagnia, porto notizie di vittoria”
disse; Nebi poté quasi sentire la platea tirare il fiato e lei stessa, prima che
potesse reprimerlo, sentì un sorriso allargarsi da un capo all’altro del suo
volto grinzoso.
“Abbiamo avuto molte perdite?”. Lafferty mosse la mano in circolo, anche
lui concedendo alla gioia soltanto una brevissima parentesi.
“Signore, dei nostri sono morti in cinquemila almeno”.
Ecco una notizia che contribuì a gelare considerevolmente la letizia
dell’attimo appena passato. Nebi allargò gli occhi mentre il sorriso si
spegneva: cinquemila uomini erano quasi tutta la forza di spedizione che
avevano inviato in aiuto a Desatoya, non appena le notizie della calata dei
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masnadieri – venuti da chissà dove, nemmeno questo lo si sapeva con
certezza – erano divenute da ciancia a fatto acclarato.
Forse se quello stesso consiglio non avesse preteso di vedere i fumi dei
roghi, prima di decidersi alla mobilitazione…
“Ma gli invasori sono annientati?”.
“Signore, lo sono”.
“Gan sia ringraziato” mormorò qualcuno dai banchi di prima fila in un
brusio crescente, che ritenne di dover tacitare sul nascere battendo il
martelletto di legno in pochi tocchi rapidi.
“Potete congedarvi, corriere” disse e l’uomo, di certo un militare tutto d’un
pezzo, malgrado la giovane età, annuì con uno sferragliare d’elmo ed uno
schizzare di fango rinsecchito.
Ma prima che lei, o chiunque altro, potesse parlare nuovamente qualcuno la
prevenne.
“Sebbene la notizia della vittoria ci renda tutti lieti, io dico che nuove
come queste non sono più tollerabili!”.
Nebi riconobbe dopo un attimo la voce del vecchio cancelliere, Alfred
Vaughn, e se fosse stata un gatto avrebbe di sicuro abbassato le orecchie.
Quell’uomo era un piantagrane di prima specie, e per giunta (poiché le
disgrazie non giungono mai sole) aveva molto seguito nell’assemblea per
essere stato un alto funzionario quando a Gilead c’era ancora una corte.
“Abbiamo quasi perso il Mar Lindo solo l’estate scorsa per sommosse di
questo tipo, e del tanto parlare che si fece, che cosa in concreto è stato
concluso?”.
Lafferty scoccò un’occhiata a Nebi mentre qualcun altro si intrometteva e
dava ragione al cancelliere, scatenando fatalmente le osservazioni di
qualcun altro ancora, per il quale non era vero, era una fola, il Mar Lindo non
era mai stato sul punto di dichiarare una secessione perché le Baronie sulle
sue sponde, prima fra tutte Mejis, erano alleati storici e fidati del Bianco.
Nebi sbatté il martelletto ancora tre o quattro volte prima di poter placare
nuovamente gli animi; colse con la coda dell’occhio il corriere imbambolato
alla destra del tavolo dei notabili, accennò verso la porta e l’ometto fu grato
e rapido nel dileguarsi.
“Penso sia noto a tutti che queste rivolte vengono fomentate da
sobillatori…ed armate da trafficanti” disse ancora il cancelliere, il tono a
mala pena un po’ più calmo.
“Dunque io chiedo a questa assemblea”. L’uomo sorrise mostrando denti
ingialliti.
“Che cosa aspettiamo a stroncare gli uni e gli altri?”.
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Quello era il suo cavallo di battaglia, e nel sentirlo rispolverare Nebi non
poté fare a meno di pensare che Vaughn volesse tornare alla carica:
metterla in difficoltà davanti al Consiglio sembrava essere divenuta la sua
missione, nei tre anni oramai della sua elezione. Prima nel dire che
quell’incarico non si confaceva alle sue mansioni di sapiente ed istitutrice di
apprendisti, poi nel cercare di dimostrare che la sua condotta era
inadeguata, che con lei quell’assemblea non sapeva concludere nulla, che
forse un uomo avrebbe rivestito con più frutto quel soglio…e poco
importava, se era una carica null’altro che onorifica!
Insistere sulla necessità di stroncare i traffici nascosti d’armi sembrava
essere il suo modo prediletto per cercare di screditarla: come se avesse il
potere di inviare pistoleri in missione dove e come desiderava. Era un
compito dell’assemblea stessa, quello, e negli ultimi anni i pistoleri si erano
fatti sempre meno numerosi: era meglio sfruttarli come generali per
mantenere l’ordine nei feudi lontani, piuttosto che costringerli ad
improvvisarsi agenti, e tutti i voti espressi, in occasione delle interrogazioni,
avevano confermato precisamente questa volontà.
“Verranno organizzate investigazioni, sai Vaughn, se è questo ciò che
l’assemblea chiede”.
“Tempo sarebbe, mia cara, tempo sarebbe!”. Nebi sospirò sentendosi
svuotata, dopo la tensione che aveva preceduto l’annuncio liberatorio del
messaggero.
“Se l’assemblea lo riterrà opportuno invieremo agenti sotto mentite
spoglie nelle Baronie più vicine, con il compito di indagare e riferire”.
Si stupì di sentir parole come queste proprio da Lafferty; ed anche se non
era donna che desiderasse esser grata a qualcuno non poté fare a meno di
sorridergli. L’uomo quasi si impappinò terminando in un borbottio confuso
che si perse nella voce del cancelliere.
“Da quanto tempo si parla di prendere provvedimenti, senza che invece
venga fatto alcunché? Non vendetemi fumo, comandante!”. Nebi sbatté il
martelletto sul suo appoggio e il rumore fu secco ed improvviso come quello
di una fucilata; il cancelliere sussultò e ci mise qualche attimo per metterla di
nuovo a fuoco, con l’espressione contrariata di un avvocato interrotto nella
sua arringa migliore.
Dal canto suo, Nebi parlò con voce insolitamente calma.
“Voi stesso potete mettervi in caccia se lo desiderate. Ma non
dimenticate, cancelliere, che le delibere di questa assemblea sono vincolate
dal voto”. Si alzò in piedi mentre un accenno di rossore colorava la pelle
giallastra delle guance di Vaughn.
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“Dagli alleati su cui possiamo contare pretenderemo maggior controllo sul
folken; e per parte nostra, se realmente contrabbandieri camminano sulle
nostre piste allora non lasceremo nulla d’intentato per smascherarli ed
assicurarli alla giustizia”.
L’applauso fu tiepido e stanco, ma lei nemmeno se lo aspettava.
“Sciolgo questa assemblea, pistoleri; nella prossima vi saranno voti e
delibere. Lunghi giorni a voi tutti”.
Il mormorio della gente si mescolò al rumore degli stivali sul pavimento di
legno e delle sedie scostate e Nebi ritenne che forse era davvero tempo di
farlo, ciò che aveva appena dichiarato. Ma da dove incominciare?
“Avete fatto una promessa pericolosa, siha”.
Lafferty si alzò portandosi una mano alla schiena, nella sua uniforme blu
scolorito, chiamandola con un titolo che non aveva più sentito da troppo
tempo.
“Si è rimandato anche troppo” tagliò corto lei tornando a sedersi.
“Per cercare aghi nei pagliai c’è sempre tempo”. L’uomo si avvicinò,
mentre gli ultimi abbandonavano l’aula: le ricordarono studenti, apprendisti
svogliati che scappano dopo una lezione particolarmente noiosa.
“Non possiamo chiedere alla milizia di fare anche questo, e in tutta sincerità,
i soldati non ne sarebbero neppure in grado. Quanto ai pistoleri…”.
“Sono pochi, aye, lo so!” sbottò e l’uomo si fece indietro prima di
accennare una timida replica.
“Prima vi ho dato manforte, ma desidero anche farvi notare che ad oggi
la cosa è stata contenuta, se capite cosa intendo, perché di più non si è
potuto domandare; sono anni che troviamo casse di fucili nascoste nei carri,
ai posti di frontiera, e tutti sanno che questa è soltanto la punta di uno
smercio più vasto. Ma che possiamo fare? Forse impegnare i pochi pistoleri
che restano per dare la caccia ai fantasmi?”.
Lafferty allargò le braccia e Nebi si accorse che quello sproloquio così
passivo e rinunciatario le aveva ridato vigore.
Si rialzò; era vero, non sapeva da dove avrebbero dovuto incominciare,
ma non era rimanendo seduti che avrebbero risolto il problema.
“Chiederò un voto nella prossima assemblea, affinché i nostri uomini
migliori vengano inviati presso le Baronie da dove si sospetta che il traffico si
diparta. Erano agenti, un tempo, i pistoleri prima che generali, e forse ridare
loro questo ruolo non servirà”. Lo guardò e l’uomo abbassò gli occhi.
“Ma è giusto che venga fatto, sai Lafferty, perché forse si è dormito
troppo ed i fatti ci stanno dicendo che è ora di svegliarci”.
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Nebi si staccò dal tavolo con uno svolazzo di tunica ma non smise di
fronteggiarlo.
“Da voi e dai vostri soldati mi aspetto il primo e più grande sforzo” disse;
l’uomo inghiottì, dimenticando di essere lui quello di grado più altro in quella
conversazione. Allargò nuovamente le braccia guardandola dall’alto in basso
e Nebi iniziò a trovare gesto ed atteggiamento ugualmente odiosi.
“Faranno ciò che possono…”.
“Faranno ciò che devono, sai, come noi tutti d’ora in poi. Perché io dico
che forse non è ancora troppo tardi per salvarci dal disastro”.
“Avete già in mente dei nomi?”.
“I giovani più promettenti, mio fratello saprà ben consigliare l’assemblea
in occasione della prossima riunione. Ed abbiamo veterani capaci, seppure
anziani, che sapranno ancora fare la loro parte” concluse.
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Pistoleri!
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21
1
Henry Deschain, che era un pistolero prima che un magistrato di Gilead,
aveva passato tutta la sua vita in sella e non avrebbe mai rinunciato alla sola
esistenza che riteneva degna di essere vissuta.
Di famiglia nobile (ramo collaterale della discendenza di Eld, nossignore,
mica noccioline!) aveva conquistato le sue pistole a diciassette anni
battendo Manfred Andrus, il padre di Fardo, uno dei migliori e più duri tutori
per la gioventù di Gilead. E da allora era stata una lunga, continua
cavalcata: prima da apprendista, facendosi le ossa come emissario
dell’Affiliazione nelle Baronie Settentrionali, poi da comandante di milizia
nelle guerre contro i secessionisti sulle coste del Mare Orientale, ed infine, a
degno coronamento della sua parabola ascendente, come membro
permanente del governo di Nuova Canaan e del consiglio giudiziario: anche
se in verità era una vista rara quella di un politico che preferiva partire alla
carica contro i predoni piuttosto che partecipare ad assemblee e consessi.
Ma ora, alla boa dei quarant’anni e con un figlio tredicenne da tirare su
senza una madre, le circostanze sembravano proprio aver deciso per lui.
2
La tenuta della famiglia Deschain sul lago Saroni era formata da un vasto
podere su cui crescevano vigne ed aranceti, e nella bella stagione dava
lavoro ad un cospicuo gruppo di braccianti. Il cuore del latifondo era
certamente la grande casa colonica costruita pietra su pietra dal padre di
Henry, il nobile Giscard, che sembrava fatta apposta per ospitare una
famiglia numerosa e felice: il lungo portico bianco, ombroso e fresco
d’estate, raccolto e riparato d’inverno, sulle cui arcate di mattoni si
arrampicavano l’edera e la verdamara era il luogo ideale per il riposo e le
corse dei bambini, e nelle ampie stanze rivestite di legno all’interno si
potevano trovare calore e tranquillità come in un piccolo mondo finalmente
saldo dentro uno che continuava inesorabile ad andare avanti.
Di quel luogo il pistolero aveva fatto il suo buen retiro anche se tutto gli
ricordava le persone che non c’erano più ed il vuoto che avevano lasciato
nella sua vita: e là dove erano stati scambiati baci e promesse ora
rimanevano solo più bottiglie vuote ed occhi abbrutiti dal vizio, che tornava
sempre a presentare il conto quando il peso dei ricordi si faceva
insopportabile.
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Più volte gli avevano proposto di ritirarsi, di dimettersi dagli incarichi di
governo per tornare alla sua casa ed alla sua terra e ciascuna richiesta
aveva meno tatto e diplomazia della precedente; e ogni volta lui aveva
rifiutato con tutto lo sdegno di chi si sente gettato via come una scarpa
vecchia quando può ancora dare molto alla causa.
Alla fine loro, i politici, i notabili, l’avevano semplicemente messo da
parte; anno dopo anno gli incarichi si erano rarefatti ed insieme avevano
preso a circolare voci riguardo ai suoi malcostumi ed alla stabilità della sua
mente: la polvere aveva iniziato a posarsi su di lui come già da dieci anni si
posava sui mobili pregiati nelle grandi stanze sbarrate al primo piano della
casa colonica. L’avevano lasciato solo in compagnia dei suoi fantasmi
perché non serviva più a nessuno, perché un uomo dalla mente spezzata
non era più utile, né tantomeno affidabile, per condurre incarichi delicati ed
affari di stato.
In effetti non c’era una ragione nel gran disegno di Gan per la quale una
chiamata dovesse ancora arrivare; ed è per questo che, quando giunse, fu
totalmente inattesa e per questo ancora più gradita.
Era l’ora in cui il sole colora l’aria d’oro e fa allungare le ombre, e la Luna
Baciante aveva appena iniziato a mostrarsi diafana ad Est; stravaccato nel
suo brago quotidiano all’ombra del portico aveva visto i cavalli arrivare dalla
pista di Hemphill (la nuvola di polvere era troppo grande per ignorarla, anche
con mezza bottiglia di whisky di segale nel sangue) ed entrare a spron
battuto nell’aia tagliando la strada ai lavoranti che tornavano dalla vigna. Gli
occhi riparati con la mano messa di taglio, l’altra prudentemente abbassata
alle pistole, aveva colto lo scintillare dei fucili e delle uniformi blu ed aveva
capito all’istante.
La mano si era subito allontanata riportandosi sulla bottiglia, l’altra aveva
cercato nuovamente il bicchiere poggiato sul bracciolo; il pistolero li aveva
attesi così, e non aveva potuto fare a meno di apprezzare l’espressione di
sorpresa e disgusto dipinta sulla faccia del giovane ufficiale che l’aveva
fronteggiato, rigido come un manico di scopa nella sua impeccabile
uniforme, mentre i due miliziani della scorta attendevano coi fucili a tracolla
vicino ai cavalli.
Un tenente di compagnia che aveva molto da imparare sulla vera natura
degli uomini, aveva riflettuto, mentre il chiacchiericcio dell’ufficiale gli
ronzava nelle orecchie che pure se intorpidite dall’alcool non si perdevano
una sola parola del discorso; quando il tenentino aveva finito gli aveva teso
una busta chiusa da sigilli di ceralacca, che lui aveva preso prima di alzarsi
e fare cenno ai due soldati semplici di venire avanti: aveva detto loro di
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servirsi liberamente della bottiglia, di non farsi alcun problema, davanti a
Dio, perché l’ospitalità è sacra. Poi era entrato in casa, aveva richiuso la
porta alle sue spalle ed aveva aperto la cassapanca impolverata nella
penombra del vestibolo: dentro c’era la sua uniforme, lavata ed
ordinatamente piegata dopo l’ultimo incarico che aveva assolto tre anni
prima. Aveva respirato l’odore di flanella e liscivia, e come per incanto la
sbronza era passata di colpo.
Aveva aperto la busta e letto le poche ma eloquenti righe dello scritto,
quindi si era cambiato mentre fuori l’ufficiale redarguiva i suoi sottoposti (che
probabilmente avevano avuto l’ardire di fissare troppo a lungo la bottiglia) a
proposito del bere in servizio, avendo cura di sistemarsi in ogni dettaglio
prima di uscire. Quando l’aveva fatto aveva visto l’espressione dei soldati
colorarsi di stupore: il vecchio leone non era nemmeno così macilento, tutto
considerato, dopo che aveva indossato una criniera pulita.
“Vi chiedo ancora un momento per sistemare alcune cose”, aveva detto,
e il tenentino aveva annuito in risposta con un accenno di sorriso. Il pistolero
era corso dal suo soprastante per avvertirlo della sua partenza,
raccomandandogli di tenere in riga le teste calde ed avere cura della tenuta:
l’aveva aiutato a sbarrare le porte e le finestre al primo piano, poi i due si
erano seduti vicino all’abbeveratoio e si erano fumati una sigaretta insieme
mentre i soldati aspettavano pazienti.
Nemmeno mezz’ora dopo il pistolero stava già galoppando ventre a terra
sulla pista di Gilead.
3
Henry Deschain era stato richiamato in attività, amici lo attendevano nella
capitale per cavalcare ancora con lui giacché erano fondate le notizie su
traffici di armi da fuoco che snodavano le loro rotte sui territori delle Baronie
Interne, diramandosi verso le regioni dell’Arco Esterno come vene gonfie di
sangue concio; i migliori uomini dell’Affiliazione erano stati richiamati, scelti
per condurre le indagini, e considerare di essere ancora ritenuto tale lo
inorgoglì.
Avrebbe fatto del suo meglio in questi tempi difficili, si era detto, mentre i
soldati lo scortavano là dove i suoi compagni erano in attesa. Tempi in cui i
venti di guerra stavano riprendendo a soffiare nelle regioni del Medio-Mondo
quando nessun uomo sano di mente avrebbe potuto immaginarlo: a
Settentrione i separatisti contro cui si era battuto in gioventù avevano
dissepolto l’ascia di guerra e massacravano coloni e viaggiatori sulle coste
del Mar Fosco, mentre a Sud, oltre la Cressia e le regioni stabili di Mejis,
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Tepachi e Cunupa, sulla sponda meridionale del Mar Lindo le Baronie degli
Stati Fratelli manifestavano sempre più apertamente il desiderio di staccarsi
dalla sfera d’influenza dell’Affiliazione per costituire una nazione a sé stante.
E poi c’erano le voci, confuse ma insistenti, che riferivano della diffusione
di armi da fuoco in sempre maggior numero sui teatri delle rivolte accanto
agli archi, alle frecce, alle lance ed ai forconi con cui solitamente si armava il
popolo scontento. Addirittura qualcuno giurava di aver visto scendere in
battaglia le antiche macchine di guerra precedenti all’avanzata del mondo:
grandi carri di ferro montati su cingoli che stritolavano tutto ciò che
trovavano sulla loro strada, impenetrabili alle pallottole ed equipaggiati con
armi in grado di sparare lontano proiettili esplosivi; cannoni li chiamavano, e
ce n’era perfino qualcuno a difendere i bastioni più alti della rocca di Gilead,
ma erano aggeggi rumorosi, inefficienti ed imprecisi oltre che inamovibili una
volta posizionati, e certo era un’idiozia pensare che potessero esistere
macchine in grado di spostarli ed utilizzarli a supporto delle truppe su un
campo di battaglia.
Aye, certamente queste notizie erano frutto della fantasia visionaria di un
folken spaventato ed ignorante poiché, se pure esistevano, le macchine
degli Antichi si muovevano bruciando petrolio e l’alchimia della raffinazione
era una conoscenza persa ormai da secoli. Ed in più tutti sapevano che
queste macchine erano maledette ed abitate da demoni, e si sarebbero
certamente rivoltate contro chi nella sua follia avesse pensato di impiegarle
con profitto in una rivolta: questo era il pensiero dell’Affiliazione, con cui
Henry Deschain concordava appieno.
Il ka-tet si ricompose due giorni dopo a Gilead, ed era da parecchio
tempo che uomini dai nomi così importanti non cavalcavano insieme; a
Henry Deschain si unirono Fergus Allgood e Daniel Johns, i suoi più cari
amici dei tempi della giovinezza, che pure se non avevano fatto carriera
nella vita politica erano comunque lupi di vecchio pelo; gli amici erano riuniti,
e la peste avesse a cogliere chiunque si fosse piazzato di traverso sulla loro
strada.
5
La Fortuna del Nomade era un’elegante casa da gioco in piena città alta,
un posto di donne e sigari pregiati: un luogo che, fosse dipeso da lui,
avrebbe volentieri messo fuori legge…se non vi fosse stata così tanta gente
importante ad amare quel tipo di divertimenti; lì era stato indirizzato dal
breve messaggio dei suoi compagni e lì Henry, gli abiti ancora impolverati
per il breve viaggio, entrò e si guardò attorno nell’atrio dal pavimento di
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legno coperto di tappeti e le pareti su cui erano appesi quadri, specchi e
lampade di focaria. Un usciere azzimato ed impomatato gli venne subito
incontro con l’espressione allarmata e le mani tese verso l’alto per fargli
osservare che forse quello non era posto per lui, ma per sua fortuna venne
bloccato da un altro damerino in redingote e tuba che lo richiamò con un
fischio da dietro la sua scrivania di legno lucido prima che potesse arrivargli
a tiro.
Il secondo uomo diede segno di averlo riconosciuto, e lo salutò prima di
condurlo attraverso la sala da gioco verso i salottini privati; bussò ad una
porta di legno chiaro e quando dall’interno rispose una voce conosciuta
Henry sorrise. L’omino si congedò e lui non perse tempo nell’aprire la porta.
Dentro Fergus e Daniel aspettavano, anch’essi avevano vesti non certo
consone al loro lignaggio ed entrambi portavano con loro le armi; sotto i
cappellacci a tesa piatta, avvolti in spolverini di cuoio e col fucile a tracolla,
sembravano sgherri pronti alla razzia piuttosto che due delle più importanti
personalità della capitale. Ed erano senza dubbio una vista fuoriposto
nell’elegante salottino dal parquet tirato a lucido ed il tavolino di marmo e
radica.
“Ecco che anche il terzo arriva” commentò Fergus vedendo entrare il
vecchio camerata: l’uomo fu rapido nel mettere mano ad una bottiglia di
cristallo piena a metà di un denso liquore rosso, che attendeva sul piano del
tavolo attorniata da tre bicchieri, due dei quali già pieni.
“La noia iniziava a prenderci; ne è passato di tempo, dinh”.
“Quattro anni e qualche mese” rispose, “E invero non mi aspettavo di
incontrarvi in questo ritrovo di peccatori. Quello non è graf, vero?”.
“Un magistrato non dovrebbe bere qualcosa di così dozzinale” commentò
Daniel.
“A me piace, che male c’è?”. Henry fece spallucce, accostandosi e
bevendo una sorsata del liquido che gli veniva offerto: era fiordirosa, il
liquore di pesca e fitolacca fermentata, e sebbene fosse gradevolmente
fruttato e non un’oncia più dolce del necessario il pistolero arricciò le labbra,
increspando i baffoni neri che gli cingevano il viso come un rinforzo
divenendo barba all’altezza delle guance.
“Bontà divina, quanto preferisco il graf; non ne hanno in questo posto?
Dannazione, è pur sempre un maledetto saloon”.
“Tuo figlio cresce?” indagò Fergus ignorando l’osservazione, ed il
pistolero annuì alla domanda di rito. Tutti gli uomini in quella stanza avevano
figli e speranze da crescere: ed a lui, grazie al cielo, almeno quella non
l’avevano stroncata.
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“In fretta ed ha carattere”. L’uomo si concesse solo un momento per
abbandonarsi ad un lieve sorriso, gratificato dalla cortesia, poi sembrò
riscuotersi: con aria da pirata scostò una sedia e si accomodò facendola
scricchiolare.
“Allora, cosa bolle in pentola questa volta?”
“Davvero non sono giunte nuove, nel tuo retiro?”. Fergus sogghignò di
pari passo col lieve accigliarsi dell’altro.
“Ciò di cui corre voce da due o tre anni a questa parte. I separatisti, i
movimenti di partigiani che vogliono rovesciare i governi dei baroni in nome
di non so quali ideali; gli Stati Fratelli, che si proclamano indipendenti fino a
quando i nostri distaccamenti non giungono a schiarir loro le idee…”. L’uomo
fece una pausa.
“L’Affiliazione che perde i suoi pezzi come un carro scassato, e nemmeno in
fin dei conti dovrebbe interessarmene più qualcosa”.
“Tu stesso non credi in ciò che dici”. Daniel intervenne con l’effetto di una
sassata precisa: dei tre era quello che parlava di meno, ed in tutti quegli anni
Henry non aveva ancora capito se avesse il dono di farlo a sproposito o
quando era più necessario.
“Molto probabilmente non lo credo” sospirò.
“Dunque?”.
“Desatoya è pressoché capitolata, a Piccola Terra”. Henry allargò appena
gli occhi.
“Una calata di masnadieri è stata, una rivolta improvvisa e violenta di cui non
abbiamo saputo accorgerci delle avvisaglie”.
“O forse i potenti le hanno sottovalutate”. Fergus intervenne
commentando tranquillamente come se stesse valutando le qualità di un
cavallo o di un levriero.
“Ciò che deve impensierirci, comunque, è che ha avuto un certo successo”
“Era una delle armate più numerose, quella di Desatoya”. Henry strinse
appena le mani una dentro l’altra, confuso. “Vi erano pistoleri distaccati nel
feudo, al comando di compagnie dai nostri colori. Come è stato possibile?”.
“Se lo sapessimo, amico mio”. Fergus allargò le braccia.
“Il prezzo per mantenere il barone saldo sul suo trono è stato alto”
puntualizzò Daniel. “Molti castelli sono caduti e gli invasori si sono spinti in
profondità prima che i nostri potessero fermarli, appena prima che
prendessero la capitale.
Avevano…”. L’uomo scosse il capo.
“Strane armi” lo completò Fergus.
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“Né archi né fucili, o meglio, non solo. Macchine volanti e raggi-rasoio,
raccontano i nostri che sono partiti e tornati…quei pochi che l’hanno fatto”
aggiunse.
“Macchine volanti? Questa è una fola bela e buona!” disse Henry, ma lo
sguardo che i due compagni gli rivolsero ebbe l’effetto di smorzargli la voce
in gola.
“Può essere; ma è un fatto che transitano cose strane, sulle vie dell’Arco
Interno, da troppo tempo a questa parte”.
A quelle parole entrambi videro un guizzo balenare, per un attimo, negli
occhi del dinh. Quando parlò avvertirono la vena di tensione nella sua voce:
un fremito che riportava alla mente fatti spiacevoli, e che tradiva forse la
voglia di ripeterli.
“Come ai vecchi tempi?”.
“Se così vogliamo dirla” si intromise nuovamente Daniel, e la voce non
era quella di un uomo che volesse perdere tempo negli indugi.
“I tempi passano ma i problemi rimangono sempre gli stessi. Come gli
uomini, forse”.
Henry colse la stoccata ed alzò le mani mostrando i palmi con un mezzo
sorriso.
“Il nostro Daniel ha la mosca al naso, io credo sia perché dorme poco, o
forse sua moglie non concede abbastanza le sue grazie”. Fergus bevve e
celiò nel tentativo di stemperare gli animi, ma nessuno dei due ritenne di
dover raccogliere il suo sorriso.
“Si sono svegliati nel riconoscerlo quando si sono trovati col culo sulla
brace, i nostri signori” proseguì. “Sono state avviate investigazioni, altrove,
ed anche qui è venuto forse il tempo di sollevare un po’ di pietre”.
“Cosa sappiamo?”.
“Che usano le nostre piste, sicuramente da prima dei fatti di Desatoya”.
Daniel fece ondeggiare il liquore nel bicchiere.
“Quelli di Brea sono implicati, ma l’idea non parte da loro, non sono così
furbi, e comunque sono troppo prossimi alle nostre grinfie per poter pensare
di organizzare una tresca del genere”.
“Amici miei, le mani che reggono le fila di questa faccenda provengono
da lontano”. Fergus alzò il bicchiere in tono di scherzosa solennità. “Come
da lontano provengono gli oggetti di contrabbando”.
“Dall’Arco Esterno?”
“Per quello che ne sappiamo non esiste roba del genere in tutte le terre
conosciute; questi oggetti potrebbero venire…” l’uomo fece una pausa
scenica. ”…potrebbero venire persino dal Vecchio Mondo, per quanto ne
sappiamo”.
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Henry Deschain distese i mustacchi in un sorriso più ampio e sornione,
che gli disegnò rughe precoci intorno agli occhi come una fitta ragnatela.
“Per la miseria, compagni, non esiste alcun Vecchio Mondo! ” disse,
“Sono solo storie, leggende, e miti: non c’è nulla oltre il Mare Orientale,
soltanto acqua e pesci, e voglio sperare che la vostra pista non sia lastricata
da queste…fole da fuoco di bivacco!” ripeté.
Daniel aggrottò le sopracciglia e senza rispondere spinse un involto, fino ad
allora rimasto a riposare accanto alla sua mano, nella direzione di Henry: un
piccolo pacco di tela cerata verde, incrostato di fango, che mandava un
odore pungente ed inconfondibile a cui il pistolero arricciò subito i baffi.
Polvere da sparo.
“Guarda, lì dentro c’è parte delle tue fole da bivacco” precisò Fergus.
Henry aprì l’involto trovandovi dentro una pistola sporca di fango
rinsecchito, ma le somiglianze con un’arma da fuoco si limitavano al fatto
che avesse una canna, un grilletto ed un mirino; il disegno del calcio, la linea
allungata del corpo e la sua sezione semi-rettangolare, e più ancora il
materiale di cui era costituita, freddo e liscio al tatto come la pelle di un
serpente, gli erano del tutto sconosciuti. Di più: si poteva a buon diritto dire
che non avesse mai visto nulla di simile in vita sua, lui che di armi ne aveva
maneggiate sicuramente parecchie.
“Che ne pensi magistrato?” indagò Fergus, ed il suono improvviso della
voce strappò con un sussulto l’uomo alle sue riflessioni; la riappoggiò sul
tavolo
“Dove l’avete trovata?”. L’altro si protese verso la bottiglia versandosi due
dita di liquore, come a prendere tempo.
“Un giorno e mezzo fa una pattuglia della milizia ha intercettato sulla Via
dell’Ovest una carovana proveniente da Brea, presso la gola dell’Hampton
Creek”. Daniel coprì nuovamente la strana pistola con la sua tela cerata ed
Henry gliene fu grato, in un certo qual modo.
“Loro erano un gruppo di mercanti di compagnie differenti, riuniti in gruppo
come spesso accade per viaggiare con maggiore sicurezza; da parte nostra
c’era solo un controllo come tanti.
Il sergente di pattuglia ha raccontato che mentre stavano controllando i
documenti di carico un piccolo carro si è staccato dalla colonna ed ha
provato a fuggire lanciandosi al galoppo verso di loro. Ha quasi travolto due
dei nostri soldati”.
“Spero non li abbia presi”. L’uomo scosse il capo.
“No, fortunatamente no; ed anzi, non riesco proprio a capire come quel
conducente abbia pensato di poterla fare franca, provare a battere un
cavaliere con un carro di buoi. Questa è buona!”.
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“La paura spinge ad atti inconsulti” sentenziò Fergus con voce solenne,
prendendo a sua volta la parola. “Per farla breve, l’inseguimento è durato
pochi secondi; poi il carro è scivolato giù per la gola finendo a mollo
nell’Hampton. Il conducente comunque si è salvato spezzandosi una gamba
e qualche costola: il medico militare dice che rimarrà storpio, ma non è in
pericolo di vita; prevengo la domanda dicendoti che è tenuto sottochiave e
guardato a vista nelle prigioni della guarnigione”.
Henry annuì.
“Gran parte del carico aveva preso la via del fiume” riprese Daniel, “Ed il
carro si era spaccato rivelando un doppiofondo; dentro c’erano cinquanta
pistole come quelle e varie casse delle munizioni adatte a farle funzionare.
Aggeggi del genere probabilmente nemmeno potrebbero far partire un
colpo” si affrettò ad aggiungere, “Se non dopo una profonda manutenzione,
lo vedi anche tu in che stato sono; e ciò nonostante…”.
“Ciò nonostante” lo prevenne Henry, lasciando cadere l’arma sul tavolo.
“Chi commercia in oggetti del genere non si muove certamente per il bene
dell’Affiliazione o per la sicurezza delle nostre Baronie”. Una pausa.
“Invoco il vostro perdono per la sufficienza con cui vi ho trattati prima,
amici miei” concluse in un fiato.
Fergus Allgood sorrise con accondiscendenza, Daniel scosse
semplicemente la testa servendosi un'altra volta del liquore.
“Non è necessario invocare alcun perdono Henry; nemmeno io ho voluto
crederci, fin quando non ho visto quell’arma coi miei occhi. A parere dei
nostri sapienti è roba che risale a prima dell’avanzata del mondo”.
Il pistolero si alzò avvertendo un brivido corrergli giù per la schiena,
poggiando i palmi aperti sul bordo del tavolo. E come se non stessero
aspettando che un suo gesto, anche gli altri immediatamente lo seguirono.
“Voglio che queste…cose….siano distrutte senza perdere tempo”
dichiarò, “Spaccate sull’incudine di una forgia e fuse, io dico; la legge dice
che non è lecito servirsi di alcuna delle armi dell’Antico Popolo”.
“E così faremo” accondiscese Daniel.
“In ogni caso, noi non rimarremo qui a vedere mentre ciò accadrà”
aggiunse l’altro, posando sul tavolo il bicchiere che aveva riempito e
svuotato due volte.
“Se non hai nulla in contrario, Henry, potremo puntare subito verso Brea:
il consiglio ci ha dato mano libera, per cui meno aspettiamo e meglio è…”.
Henry annuì, ancora scosso dall’improvviso succedersi di eventi,
vuotando quel che restava del bicchiere di Fiordirosa.
“Datemi soltanto il tempo di fare i bagagli”
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5
Partirono sulla Grande Via, il Sentiero del Vettore come ai nostalgici
piace chiamarlo, diretti a Sud-Est verso la Baronia di Brea; ad Henry
Deschain bastò poco meno di un’ora per radunare lo stretto indispensabile
nelle sacche della sua sella: provviste, acqua e munizioni, era tutto ciò di cui
aveva bisogno .
Il gruppo di uomini cavalcò fino a sera inoltrata, riprendendo la marcia di
buon’ora il giorno seguente. La Grande Via, lastricata con pietre grandi
come carri rese lisce da ere di passaggi dei veicoli più strani, facilitava di
molto il loro spostamento: arteria di comunicazione tra le più importanti ed
antiche di tutto l’Entro-Mondo lo attraversava completamente da un capo
all’altro, snodandosi in decine di contrade e Baronie nella direzione da NordEst a Sud-Ovest prima di perdersi nelle regioni semi-esplorate e nei deserti
contaminati delle Terre Esterne. Il tratto che i tre uomini dovevano
percorrere era comunque molto più contenuto: nemmeno duecento ruote
separavano Gilead dal confine con la Baronia di Brea, tra le due città-stato
da sempre era corso sangue cordiale, e poche alte decine si
inframmezzavano per giungere alla loro destinazione: il ricco centro agricolo
di Meadowgrain, da dove era partito il carro col suo carico di reliquie
proibite.
Poco prima del tramonto di quello stesso giorno si trovarono a transitare
sulla sommità dello strapiombo dell’Hampton Creek: poterono vedere bene i
resti del carro sfasciato sul fondo ed Henry si domandò come avesse fatto il
postiglione, sia pure con gambe e costole rotte, a sopravvivere ad un salto di
non meno di sessanta piedi.
“Il mercante di cui ti abbiamo parlato” iniziò semplicemente Fergus,
indicando con un cenno della briglia, “Aveva fogli d’accompagnamento per
le sue merci che lo qualificavano come dipendente di una compagnia di
trasporti di Meadowgrain, dove siamo diretti. Poiché il fatto è accaduto da
neanche una settimana è plausibile che la notizia di questa disgrazia non sia
ancora arrivata alle orecchie dell’impresario…e, dato che non abbiamo
trovato strumenti di comunicazione sul carro, né eliografi né tantomeno
piccioni viaggiatori, abbiamo motivo di pensare che questo mercante non
avesse ordine di mantenere informati i suoi capi sui suoi spostamenti”.
“Fammi indovinare” si intromise il pistolero, “Vuoi essere tu ad andare a
dargli la buona notizia?”. L’uomo sogghignò, subito imitato dall’amico.
“Perspicace, magistrato: noto con piacere che la vita ritirata non ti ha
rammollito il cervello”.
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I tre uomini ripresero la marcia; sotto di loro l’Hampton, più torrente di
montagna che fiume vero e proprio, gorgogliava tra le rocce: avrebbe
costeggiato la Grande Via ancora per un po’, le sue acque incanalate in
canali e fossati per l’irrigazione, poi avrebbe deviato e si sarebbe ingrossato
in modo considerevole solo trecento ruote più a Nord raccogliendo un
numero sempre crescente di affluenti nella sua corsa verso il Mare
Occidentale.
“È la tattica del gettare una pietra in un formicaio, o sbaglio?” aggiunse
dopo poco il dinh, e Fergus annuì.
“Oh si, so già cosa ti sta frullando in mente” proseguì subito, “Significa
giocare a fare i finti tonti, e tutti sanno che i pistoleri non lo sono; d’altro
canto noi non possiamo spacciarci per altro, dato che le nostre facce sono
fin troppo conosciute in tutto l’Arco Interno”.
“Il prezzo da pagare per la celebrità” sentenziò Henry, e Fergus abbozzò
un sorriso.
“Sono dubbi venuti anche a me” riprese ”E ti dico, amico mio, che in tutta
sincerità nemmeno io li ho fugati del tutto. Ma altro non abbiamo se
vogliamo agire rapidamente; e poi non sappiamo nemmeno a quale livello
questa compagnia sia implicata: potrebbero essere dei semplici passacarichi
che prendono la buonamano per vidimare le bolle Baronali senza controllare
in modo troppo approfondito”.
“Io non ho detto nulla” dichiarò Henry, dopo quel lungo sproloquio
difensivo. L’amico tacque, il pistolero sorrise: ed ai due compagni
quell’espressione non piacque per nulla.
Il discorso morì nel silenzio, e senza più una parola i tre uomini
spronarono le montature ad un passo più deciso in cerca di un posto dove
mettere il campo per la notte.
Il viaggio procedette spedito nei due giorni successivi: le colline ondulate
di Nuova Canaan digradarono come tratti di matita in pianure punteggiate di
erbe alte e taglienti, grigioverdi e vigorose, quando un confine invisibile
segnato solo su mappe e carte geografiche venne raggiunto e superato; poi
a poco a poco iniziarono ad apparire i vasti campi coltivati che davano a
quella regione il suo nome caratteristico ed i tre seppero che la loro meta e
l’inizio della loro ricerca era prossima.
A mezzogiorno del quarto giorno di viaggio arrivarono in città, ed i guai
furono subito loro addosso.
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6
Meadowgrain era una piccola capitale di almeno duemila abitanti,
adagiata in mezzo a pianure fertili adatte alla coltivazione di frumento e
cereali, rese tali dall’abbondanza di acqua nel sottosuolo che
spontaneamente affiorava in superficie sottoforma di sorgenti e fontanili. La
Grande Via lo attraversava per tutta la sua estensione arrivando da Gilead
ed allontanandosi oltre esso verso gli altri centri abitati della regione di
confine di Brea: i paesi di Stockton, Hope e Saddleshack erano a poche
decine di ruote verso l’interno, e tanti piccoli villaggi minori punteggiavano il
suo percorso.
I tre pistoleri si erano fermati prima di entrare in paese, sulle propaggini di
una piccola foresta che seguiva la Via nel suo tratto terminale prima del
borgo, per assecondare il piano già concordato: solo due dei tre pistoleri
sarebbero andati in avanscoperta – ed era già stato deciso che fosse Daniel,
il meno diplomatico dei tre, il meno adatto alle sfide verbali - ad aspettare in
disparte il loro ritorno.
“Io e Fergus andremo a tastare il polso al sindaco” stabilì Henry,
“Dopodiché passeremo alla sede della compagnia: usciremo dal paese sulla
pista per Hope e faremo un largo giro prima di tornare indietro”.
“Niente sceriffo?” indagò Daniel, l’altro scosse il capo.
“Non mi sembra ancora il caso: potremmo dover ricorrere a metodi spicci,
nel qual caso lo sceriffo ci sarebbe della stessa utilità di un bubbone sul
culo”.
“Poche ore e ti raggiungeremo di nuovo” disse Fergus, “Verso sera, io
dico; tu torna indietro ed aspettaci al bivacco di questa notte, e tieni gli occhi
aperti sulla strada”.
Daniel annuì.
“Siate prudenti”.
I due compagni accennarono a loro volta prima di allontanarsi e
proseguire senza dire altro; nemmeno dieci minuti dopo il borgo li accolse
apparendo dalla foschia come un miraggio dietro l’ultima curva della Grande
Via, con le sue strade di fine acciottolato lucido e le case dalle facciate in
mattoni e legno dipinto, con balconi pieni di vasi e porte di quercia fasciate di
ferro. Un centro ricco, quello, attraverso il quale i pistoleri erano già passati
molte volte: tutti e tre sapevano dove si trovava la sede del municipio e fu
proprio lì che Daniel e Fergus si diressero, traversando il paese lungo
Regent Street e sfilando davanti tanto all’ufficio dello sceriffo quanto al Silver
Spur Saloon senza degnare entrambi d’uno sguardo.
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Non fu invece parco d’occhiate il folken, poiché anche se erano una vista
comune, da quelle parti, i pistoleri di Gilead erano sempre calamite per gli
occhi dei passanti. Calamite di piombo, si potrebbe dire.
Giunti presso il municipio i due smontarono e legarono i cavalli alla
palizzata poco distante dall’ingresso; si scambiarono soltanto un’occhiata
mentre prendevano i fucili dalle fonde delle selle e se li passavano a tracolla.
Non scopriamo le nostre carte.
Anche quello era un avvertimento superfluo, come già la
raccomandazione di Daniel, poiché tutti sapevano come comportarsi in
situazioni come quelle…ma si sa, non sono mai le parole – o le occhiate –
dette di troppo che uccidono: semmai a fare danno sono quelle risparmiate.
Il sindaco di Meadowgrain, Gus Blossom, oramai detentore della carica di
primo cittadino da più di dieci anni, era un omino piccolo, basso e grassoccio
con una barbetta nera ed ispida, baffi ugualmente irsuti ed il cranio
precocemente spelacchiato; il volto dai tratti paffuti e dal naso a patata,
corredato da un paio di occhialetti a pince-nez dietro cui sbucavano occhietti
piccoli e mobili, aveva sempre dato a Fergus l’impressione di un topo di
dispensa perennemente sul chi vive. Quella mattina l’uomo si chiese se non
lo fosse per davvero.
L’ufficio del sindaco era una piccola stanzetta rivestita da perline di legno
scuro che arrivavano fino a metà delle pareti; due o tre schedari verdi a
forma di parallelepipedo erano appoggiati alla parete di fondo ed un numero
considerevole di faldoni polverosi vi era appoggiato sopra; dai cassetti aperti
se ne potevano scorgere altri, tutti ordinatamente etichettati. Una piccola
stufa a legna occupava lo spazio tra il muro e la scrivania del sindaco, un
semplice scrittoio di legno verniciato anch’esso ingombro di libri ed incarti,
diffondendo un piacevole tepore di cui facilmente si poteva esser grati in una
giornata umida come quella.
Il sindaco staccò gli occhietti da un plico di fogli che stava avidamente
consultando non appena sentì la porta aprirsi: Henry lo vide scostare con
gesto rapido le carte, poi trarre una penna dal calamaio lì vicino ed apporre
su una di esse uno svolazzo che probabilmente era la sua firma.
“Ay, pistoleri, io vi saluto” esordì gioviale riconoscendoli immediatamente;
lo videro emergere da dietro la scrivania, sopra cui in verità non si elevava
considerevolmente, accompagnato dallo stridore del seggio che si scostava:
si avvicinò a loro sfoggiando un gran sorriso di denti piccoli ed aguzzi
discretamente ben tenuti.
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“Lunghi giorni, lunghi giorni” proseguì, stringendo prima la mano a Henry
e poi a Fergus: la sua stretta, come al solito, era molliccia e sgradevole; il
dinh ricambiò comunque il sorriso con uno più contenuto e formale.
“E piacevoli notti” rispose, l’altro ammiccò facendo ballonzolare una duna
di grasso sullo zigomo sinistro.
“Oh, alla mia età sono quasi un ricordo, io dico! Sedete vi prego”
proseguì allargando le braccia ad indicare, con gesto ampio, alcune sedie
davanti allo scrittoio. “Così terremo un piacevole conciliabolo e mi direte
cosa posso fare per Gilead, e per voi”.
Henry scosse lievemente il capo, senza perdere nulla del sorriso di
cortesia.
“Ti ringraziamo della tua gentilezza e disponibilità, Gus…ma siamo venuti
soltanto a portarti i nostri saluti; siamo di passaggio, alcune questioni di poco
conto che tuttavia richiedono la nostra presenza nella tua città”.
“Oh” commentò soltanto il sindaco lasciando ricadere gli arti ed
insinuando rapido le mani nelle tasche del panciotto, come un bimbo
sorpreso dalla mamma mentre le sta allungando verso il vaso della
marmellata.
“Naturalmente, la mia città è la vostra” borbottò in tono affrettato, “Qui
siete come a casa vostra, miei signori, non desideravo davvero trattenervi
o…o distogliervi dai vostri affari, ecco. Invoco il vostro perdono” esalò infine,
sfuggendo per un momento dallo sguardo del dinh, e nuovamente Henry
scosse il capo.
“Per così poco, amico mio? Non mi sembra il caso…e non abbiamo
pensato nemmeno per un attimo che tu volessi distoglierci dalle nostre
funzioni. Dico il vero, compagno?”.
“Tu lo dici” gli fece eco Fergus, non potendo a sua volta fare a meno di
sorridere. “Ma qualcosa per noi lo puoi fare se vuoi”.
“Domanda, signore” fu rapido a rispondere.
“Potesti indicarci la sede della compagnia Overland, io chiedo: abbiamo
necessità di parlare con quello che manda avanti la baracca”.
Lo colsero chiaramente, al di là delle maniere impacciate (o fintamente
impacciate) di poco prima: un lieve cambio nell’inflessione del suo parlare,
un imbarazzo, ben diverso dalla sorpresa di pochi attimi prima.
Il pensiero attraversò in un lampo la mente del dinh.
Questo qui fa il pesce in barile.
“La Overland?” indagò in tono incerto, poi la voce sembrò raddrizzarsi. “È
la compagnia di sai Al Tender, un uomo non più alto di un barile e mezzo ma
robusto come un cinghiale, oh si; al fondo di Regent Street girate sulla
vostra sinistra e vedrete immediatamente i magazzini”. Il tono dell’uomo,
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dopo l’incertezza introduttiva, si era rifatto normale…a detta di Henry, forse
anche più cordiale.
Desideroso di essere utile come un bravo cagnolino, si sarebbe detto.
Il sindaco si appoggiò al bordo della scrivania ma non poté dissimulare
appieno il nervosismo nel guizzo delle dita, e questa volta i due uomini lo
notarono entrambi.
“Per caso è successo qualcosa?”.
“Nay, nay, niente di così straordinario; un carro fracassato fuori della
pista, affari del tenutario in ogni caso”. Fergus si strinse nelle spalle.
“Ti ringraziamo per la tua gentilezza, e ci recheremo subito a parlare con
questo sai Tender” Henry si girò e scostò la porta dell’ufficio con un lieve
tocco ed un’espressione strana sul viso. Lo salutarono cordialmente e
quando furono usciti il sindaco rimase a fissare la porta ascoltando con
attenzione i rumori che venivano dal corridoio mentre il suo volto cambiava
rapidamente e rughe di inquietudine si disegnavano sopra i suoi occhi.
Quando l’eco dei passi si fu spento aggirò la scrivania con passo rapido e
si lasciò cadere a peso morto sulla sedia facendola gemere di sforzo; trasse
un profondo respiro nell’asciugarsi la fronte con una manica della camicia,
spazzando via goccioline di sudore nervoso.
Che cazzo è successo? cogitò mentre le sue mani, come dotate di vita
propria, aprirono un cassetto dentro cui riposava una bottiglia di whisky; fu
affare di un attimo afferrare un bicchiere e versarsi una dose generosa, e
solo quando l’ebbe svuotato sembrò ritrovare un po’ di calma.
L’attimo successivo si versò un altro bicchiere, che questa volta vuotò
con sorsi più misurati: ma nel cuore non riusciva a sopprimere il germe
dell’inquietudine che sempre viene a chi ha la coscienza sporca quando c’è
il pericolo che i suoi maneggi vengano scoperti.
“Tu che ne dici?”.
Senza perdere tempo, appena usciti dal municipio, Fergus aveva
interrogato Henry e questi aveva compresso per un attimo le labbra in una
sottile striscia esangue, come se stesse scegliendo la parola più adatta.
“Puzza” aveva dichiarato dopo poco, forse senza trovare termini più
incisivi; il compagno aveva annuito.
“Aye, forse non come un paio di mutande andate a male ma qualcosa
l’ho notato anch’io. Prima si è confuso quando abbiamo declinato il suo
invito, e poi…”.
“Quello non c’entra, Fergus, non diciamo cazzate” sbottò, sciogliendo il
cavallo dalla palizzata e montando in sella con un piccolo salto.
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“Gus Blossom è sempre stato un vermiciattolo, per questo il suo
servilismo non è importante. Quando gli abbiamo detto che cerchiamo quella
compagnia di trasporti, è stato lì che il suo tono è cambiato: si è fatto più
calmo e circospetto; spero bene che tu l’abbia notato” aggiunse,
l’espressione si stemperò in un mezzo sorriso, “Altrimenti non appena
torniamo ti farò restituire le pistole e ti farò addestrare nuovamente da
Fardo”.
“Avresti il coraggio di esporre un povero vecchio come me al pericolo di
essere spedito ad Ovest?” gli diede corda lui.
“Povero vecchio un cazzo, hai solo quarant’anni! Comunque, davvero te
l’eri perso?”.
Fergus tacque per qualche momento.
“Invoco il tuo perdono, ma in realtà ho colto il suo disagio solo alla fine
dei nostri discorsi; che il nostro vermoso abbia imparato l’arte della
dissimulazione?”.
Henry sogghignò nel sentire quella parola; si, era proprio la definizione
adatta per un tipo come Gus Blossom.
“Talvolta anche i vermi imparano a strisciare cautamente” disse; il
pistolero indusse al passo la montatura con un lieve tocco di tacchi.
“Ora vediamo cos’ha da dirci il principale di questa compagnia” aggiunse.
Fergus gli si affiancò incitando il suo cavallo con un breve schiocco di lingua.
“Puoi giurarci che sarà contrito e dispiaciuto di apprendere la notizia che
gli portiamo, oh si”.
Il sorriso si increspò sul volto del dinh.
“E noi, amico mio, staremo bene attenti a come esprimerà il suo
dispiacere e la sua contrizione”.
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La compagnia di trasporti aveva la sua sede ed i suoi depositi alla
periferia di Meadowgrain, all’interno di un magazzino basso e largo dalle
pareti di mattoni ed il tetto in lamiera, con una facciata di legno più alta ed il
nome stampato in Grandi Lettere nere sullo sfondo brunito delle tavole; una
recinzione di rete metallica stabiliva un largo perimetro intorno alle
costruzioni come ad isolarle dal resto del paese, comprendendo nel suo
abbraccio anche un ampio spiazzo in terra battuta dove si vedevamo
parcheggiati alcuni carri ed accatastate, in pile tutto sommato ordinate,
grandi casse rettangolari di legno scuro.
I pistoleri trovarono con facilità il posto, dedicando non più di una rapida
occhiata alla grande insegna di ferro fissata ad uno dei battenti del cancello
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nella recinzione. Nello spiazzo alcuni operai stavano scaricando un grosso
carrozzone con ancora i buoi aggiogati: non appena uno degli uomini si
accorse dell’arrivo dei due cavalieri, in breve il lavoro venne sospeso ed
almeno cinque paia di occhi seguirono i nuovi giunti approssimarsi a cavallo
vicino all’ingresso del primo magazzino.
Ma i due non avevano fretta: smontarono con la calma di chi ha tutto il
tempo del mondo a sua disposizione, poi legarono le loro montature ad una
palizzata vicino ad un piccolo abbeveratoio dove già altri cavalli
attendevano; infine, come fossero loro i padroni del posto, si inoltrarono
all’interno della costruzione ancora seguiti dagli occhi curiosi dei lavoranti
fissati sui fucili che portavano a spalla.
Il magazzino era ampio e freddo, pervaso da una strana luce verdastra
che filtrava da grandi lucernai di vetro colorato aperti in più punti del tetto;
altre grandi finestre rettangolari, più simili a caditoie, si aprivano protette da
inferriate nei muri perimetrali ed uno stretto ballatoio di legno correva
appena sotto di esse per tutto il perimetro dell’edificio. Videro qua e là altri
lavoranti intenti a prelevare casse dalle finestre ed a trasportarle a forza di
braccia verso le cime delle pile più alte, raggiungibili direttamente dal
camminamento tramite corte passerelle, quando una voce roca e spazientita
dirottò immediatamente la loro attenzione.
“Ehi, voialtri! Chi diavolo siete?”.
I pistoleri inquadrarono subito un uomo tanto basso quanto tarchiato
avvicinarsi a loro a grandi passi, con un sigaro fumigante in bocca, una
bombetta alla sommità di un cranio dai capelli cortissimi ed i resti di una
maldestra rasatura sulle guance. Una pettorina a strisce blu e nere ed un
paio di pantaloni di jeans, entrambi generosamente cosparsi di macchie di
cibo e di sporco, completavano degnamente la vestizione.
“Quello deve essere il capo” borbottò Fergus, Henry annuì.
“Dico a voi! Chi vi ha fatto entrare?”.
Decisamente il cognome che portava non viveva nei modi dell’uomo:
piazzatosi a pochi passi da Henry piantandogli in volto due occhi da
cinghiale che lampeggiavano spazientiti sulla via della collera dietro sbuffi di
fumo grigio che sapeva di vaniglia. Il pistolero si prese qualche momento per
rispondere, e quando lo fece la sua voce era calma.
“Dobbiamo parlare col capo spedizioni, sai Al Tender” dichiarò soltanto,
l’altro aggrottò le sopracciglia; la cenere sulla punta del sigaro pulsò di
rossore a testimoniare una profonda, nervosa inspirata.
“Ay, ce l’hai davanti, spilungone; cosa devi dire al capo?”.
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“Che probabilmente uno dei suoi carri è andato a puttane nella gola
dell’Hampton Creek”.
La mascella dell’uomo prima serrata in un grugno da molosso intorno al
sigaro si allentò lasciando intravvedere denti neri corrosi dal fumo. Gli occhi
prima fessurati si aprirono un poco.
“Ma che cazzo…voi chi siete?” chiese ancora, la stizza ora sostituita da
un più vago senso di disorientamento.
“Pistoleri di Gilead” dichiarò Fergus, e l’uomo si ritrasse di un mezzo
passo.
“Oh, io…non lo immaginavo, ecco…” sembrò ritrattare, poco convinto.
“E sono sicuro che se l’avessi fatto” riprese Henry, in tono piatto, “Avresti
di certo scelto meglio le tue parole: ma nay, non è di questo che dobbiamo
parlare”.
L’uomo sospirò.
“Venite nel mio ufficio” disse, girando i tacchi ed iniziando ad allontanarsi
verso una scala che saliva al ballatoio quasi alle spalle dei due uomini. I
pistoleri lo seguirono.
“Dunque cos’è questa storia di carri e di fiumi, io chiedo?”.
L’ufficio del capo spedizioni non era altro che una piccola baracca
ricavata da tavole di legno inchiodate le une alle altre a formare due
paraventi sul ballatoio, dove i muri del magazzino formavano un angolo; la
porta era un semplice foglio di lamiera malamente incernierato su cardini
arrugginiti, e dentro l’ufficio c’era soltanto una misera scrivania con qualche
foglio di carta di lino sparso in giro ed un piccolo schedario. Nessuna sedia
per eventuali visitatori, nessuna comodità, nessun riscaldamento, solamente
un piccolo frigorifero – evidentemente in disuso – cacciato in un angolo a far
da ripiano a qualche libro contabile e ad un piatto con alcuni resti di cibo.
L’uomo, che a quanto pare aveva ritrovato la sua grinta da cagnaccio, li
apostrofò mentre ancora non erano entrati, andando a piazzarsi dietro lo
scrittoio con le braccia incrociate al petto: Fergus si tese verso Henry come
aspettandosi che da un momento all’altro quello, dinnanzi all’ennesima
dimostrazione di malagrazia, potesse iniziare a far volare pugni (o peggio
pallottole). Ma l’espressione sul volto del dinh era neutra, apparentemente
refrattaria a quella grossolanità, e l’uomo tornò a girarsi. Meglio così.
Il pistolero si appoggiò al tavolo coi palmi.
“Due o tre giorni fa cavalcavamo sulla Grande Via con una compagnia
della nostra milizia verso i posti di confine” esordì, “All’altezza della gola
dell’Hampton, dove la pista corre proprio sul bordo del precipizio, abbiamo
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trovato i resti di una ruota e di un assale spezzati; sul fondo, nel torrente,
c’era un carro rovesciato e due cavalli morti ancora legati al traino”.
Il capo spedizioni, a quelle parole, morsicò il sigaro con un colpo di denti
ed inspirò con un sibilo per poi esalare dal naso una nuvolaglia di fumo
denso. I suoi occhi guizzarono dal volto del pistolero al piano del tavolo e
ritorno.
“Certamente una disgrazia, io penso: niente briganti, forse il cavallo ha
perso la tramontana ed il carro è volato giù. Ad ogni modo, siamo scesi a
vedere ed abbiamo trovato le bolle baronali col nome di questa compagnia”.
“Che ne è del carico?” chiese in un fiato l’uomo, Henry si strinse nelle
spalle.
“Gran parte deve avere preso la via del fiume, ed abbiamo visto tracce di
cavalli e stivali intorno al carro fracassato”. Henry mise su la faccia
dispiaciuta a bella posta.
“Sciacalli bastardi, tutto il mondo è paese”.
L’uomo imprecò e il sigaro sembrò sottolineare la bestemmia con uno
sbuffo di fumo ed una pioggerellina di cenere; poi, come se la cosa gli
costasse uno sforzo non indifferente, aggiunse: “Vi ringrazio per il vostro
disturbo miei signori”. Al ché anche Fergus sogghignò.
Sai mastino si rode a sentirsi in debito valutò, e probabilmente, almeno a
giudicare dall’espressione, il compagno stava pensando la stessa cosa.
“Il conducente si è salvato?” indagò Tender un momento dopo; il pistolero
scosse il capo.
“Nay, è morto con la testa fracassata sul greto e l’abbiamo seppellito lì
vicino. Neanche gli stivali gli avevano lasciato”.
“Una disgrazia, una disgrazia, e la peste colga i ladri delle mie merci”. Il
capo spedizioni scosse il capo ed il sigaro mandò pennacchi sottili.
“Ci siamo sentiti in dovere di informare dell’accaduto, tutto qui” intervenne
Fergus, adottando per l’occasione un tono umile e dimesso; l’altro annuì.
“Ay, sono doppiamente in debito con voi, pistoleri: per la notizia che mi
avete portato e per esservi presi carico delle mie merci; e vi prego di
perdonare i miei modi, quando vi ho accolto”. Tender si staccò dalla
scrivania e la aggirò con passo rapido tornando a fronteggiare i due uomini.
Naturalmente l’espressione sui loro volti era di accondiscendenza.
Nay, nay, nessun perdono da invocare: in fondo siamo abituati a farci
spalar merda sul muso da tutti coloro che passano, si?
“Mi rincresce di non avere nemmeno qualcosa da bere con cui
ringraziarvi, ma purtroppo questa è una sede di lavoro e volutamente ho
scelto di non avere graf o whisky nei paraggi: i lavoranti, voi mi capite…”.
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“Capiamo perfettamente, sai Tender” dichiarò Henry scostando con la
sinistra la porta di lamiera ed offrendo la destra al suo interlocutore.
“Lunghi giorni e piacevoli notti” salutò, l’altro la strinse con vigore e
persino un accenno di sorriso.
“E due volte altrettanto a voi” rispose uscendo dall’ufficio.
“Quando potrò riprendere in consegna il mio carico?”.
“È sufficiente che i vostri incaricati si presentino al posto di confine
sull’Hampton con una copia della bolla baronale di spedizione; formalità
burocratiche, si capisce…”.
“Si capisce, naturalmente”.
I tre uomini presero a scendere a passi lenti la scala del ballatoio: e
mentre si muovevano Henry ebbe l’impressione di cogliere il movimento di
una figura presso la baracca dove avevano tenuto quel breve conciliabolo;
ma quando l’uomo si girò non vide nessuno.
Al Tender li accompagnò fino all’ingresso del cortile, per salutarli ancora
una volta e per assicurarsi che montassero realmente sui loro dannati
ronzini e si levassero dai piedi; li vide allontanarsi a passo lento, tirando dal
sigaro oramai quasi ridotto ad un mozzicone, e quando furono scomparsi
dietro l’angolo delle case di Regent Street sembrò improvvisamente
riscuotersi tornando a passo rapido verso l’interno del magazzino.
Lo incrociò un tizio che sembrava essere il suo esatto contrario: alto e
magro, vestito di uno spolverino di cuoio sotto cui si vedevano apparire abiti
da cowboy ed un cappello a tesa larga portato di traverso sulla testa.
Tender fece per parlare, lo spilungone lo zittì con un gesto e sgusciò fuori
dal magazzino attraversando lo spiazzo polveroso con passo rapido. Il sole
mandò solo un lampo sul metallo di una pistola che l’uomo portava al fianco,
allacciata bassa sulla coscia destra, subito nascosta dai lembi del soprabito.
“Puzza anche lui?”.
“Tu lo dici, amico mio”. Henry fece incamminare il cavallo con uno
schiocco di lingua, il compagno si accodò. “Non hai visto che faccia ha fatto
quando gli abbiamo detto che siamo pistoleri?”.
“Poteva sempre essere stato preso in contropiede…sentirsi in imbarazzo
per come si è rivolto a te”.
Il dinh rimase silenzioso per qualche attimo. Allontanatisi di qualche
decina di passi dal cancello dei magazzini, verso Regent Street, nessuno dei
due fece particolare caso all’uomo vestito da mandriano che ne era uscito e
si stava avviando nella loro direzione con passo dinoccolato.
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“Preferisco considerare più plausibile il caso peggiore che quello migliore;
e poi è un fatto, le armi si trovavano su un carro di questa compagnia, perciò
qualcuno deve avercele messe”.
Lo spilungone vestito di cuoio si affiancò ai due e li superò senza degnarli
di uno sguardo; Fergus lo seguì con lo sguardo, distrattamente, poi riportò
l’attenzione sul compagno.
“A giudicare dall’apparenza, sai Tender deve essere arrivato in ritardo
quando l’Uomo-Gesù distribuiva il cervello” chiosò. “Tu cosa faresti se
avessi la coscienza sporca ed un paio di gendarmi si presentassero alla tua
porta recando le notizie che abbiamo portato noi? Aye, cosa faresti nei panni
di un bestione collerico e senza cervello, io dico” precisò.
“Manderei qualcuno a controllare” rispose l’altro dopo qualche secondo,
“Questo è ciò che farei sull’onda emotiva”.
“Appunto. Ora dobbiamo solo sperare che lui sia così stupido come ci è
apparso”.
“Adesso che si fa?”.
I due svoltarono in Regent Street: non se ne avvidero, ma da dietro
l’angolo di un vicolo in ombra due occhi tutt’altro che stupidi li osservavano
attentamente sotto un cappello di cuoio a tesa larga.
“Ci buttiamo sulla pista per Hope, cavalcando per almeno due ore; poi
taglieremo per le campagne e torneremo indietro a prendere Daniel:
certamente, se passassero, non si lascerà sfuggire un gruppo di uomini a
cavallo nella direzione dell’Hampton; nel caso ci riferirà, e noi sapremo che
la trappola è scattata” concluse.
“Ed in questo caso non ci rimarrà che seguirli per pizzicarli come merli, io
dico”.
Henry annuì.
“Potrebbe essere una possibilità, specie se anche sai bombetta fosse
con loro…ma di questo io dubito. In ogni caso, non mettiamo il carro avanti
ai buoi”.
Il pistolero diede un piccolo colpo di sproni al cavallo e questi si avviò in
un trotto sostenuto al centro della Main Street. Fergus fece altrettanto, ed in
breve i due uomini si allontanarono per poi svoltare in una traversa della
strada scomparendo alla vista.
Solo allora lo spilungone si staccò dall’ombra del vicolo e con passo lento
si diresse verso il magazzino della Overland.
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Ruby Velasco, l’uomo che aveva spiato non visto i movimenti dei due
pistoleri, ritrovò il capo spedizioni nel suo ufficio intento ad abbeverarsi ad
una fiasca di graf con l’avidità di un vitello assetato dopo una marcia nel
deserto. Giudicò a naso che fosse tanto inquieto quanto incazzato, ma
questo non lo dispensò dal presentarsi nell’ufficio con il suo solito sorriso
sottile ed insolente, l’espressione di un individuo abituato a prendersi a
pistolettate ciò che vuole.
Veder sobbalzare quell’uomo grasso, tanto collerico quanto incline alla
perdita di controllo non appena le circostanze si rivoltavano contro di lui, lo
appagò in una certa misura.
“Ma che cazzo…” tossicchiò Tender sbrodolando liquido sulla pettorina.
“Fottuto Mejito, quante volte devo dirti che devi bus-sa-re prima di entrare da
me?!”.
“Invoco il tuo perdono, sai” dichiarò semplicemente quello in tono non
troppo convinto.
“Hai origliato immagino” replicò l’altro riponendo la fiasca ed
asciugandosi il mento col dorso di una mano irsuta di peli. “Che ne pensi?”.
“Leggerini”. Il capo spedizioni si chinò a rovistare tra i cassetti in cerca di
fumo e fiammiferi, emergendone quasi subito in possesso del suo tesoro:
spezzò la punta del sigaro coi denti, la sputò di lato, poi lo azzannò
saldamente.
“Per essere dei pistoleri lo sono fin troppo” riprese. “Ed io lo so.
Fingevano”.
Il capo spedizioni grattò con l’unghia del pollice la capocchia di un
fiammifero sprigionandone una fiamma giallastra che si affrettò ad accostare
all’estremità libera del sigaro. Aspirò e soffiò fumo di lato, attendendo di
concludere l’operazione prima di replicare.
“Tu dici? Perché?”.
“Sveglia sai, il perché è sotto il tuo naso” rispose lo scagnozzo in tono
tranquillo. “Probabilmente hanno trovato le armi”.
A quelle parole il capo spedizioni allentò sensibilmente la mascella.
“Hanno trovato le armi ma non sanno bene in cosa si sono imbattuti”
proseguì il compare, “E si sono messi a giocare a Guardami con noi per
cercare di capire cosa bolle in pentola”. Fece una pausa durante la quale
Tender lo squadrò con occhi impauriti su un volto che aveva assunto il
colore della carne lì lì per guastarsi..
“Se viene fuori qualcosa ci tirano il collo a tutti quanti”.
“Aye, oh si, come tanti pollos prima di una cena di gala”. Lo scagnozzo
sogghignò. “A meno di toglierli di mezzo prima”.
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Tender lo guardò senza dire nulla, Velasco si sporse sul tavolo
appoggiandosi con entrambe le mani.
“La pista della Gran Vía si percorre in quattro o cinque giorni, di più se
parliamo di gruppi numerosi, e i soldados di Nuova Canaan non vanno mai
in giro da soli. Ma noi abbiamo degli hombres ad Hamptonville” dichiarò, “Se
una compagnia della milizia fosse passata di là ce l’avrebbero sicuramente
fatto sapere. Per ora i pistoleri sono soli, yo digo”.
L’uomo si sfilò il cappello e ne raddrizzò la cupoletta, mostrando per un
momento capelli neri luccicanti di sudiciume. Al Tender ascoltava.
“Forse non hanno nemmeno scoperto le armi e sono venuti qui in buona
fede” riconsiderò. ”Prima li ho visti filare lungo la pista per Hope, davvero
potemmo stare qui a preoccuparci per niente”.
L’uomo fece una pausa, rifletté un momento e Tender lo guardò col fare
di un vitello che deva dinnanzi a sé la mannaia del macellaio in attesa di
cadere.
“Prendi due dei tuoi hombres e spediscili sulla Via” disse poi.
“Manda i più svegli, dai loro piccioni e cavalli di ricambio: devono arrivare
fino al fiume, segnalare cosa trovano e aspettare almeno un día prima di
tornare passando per la pista di Hamptonville. Se hanno lasciato degli occhi
puntati sulla strada loro li attireranno”.
“Dici che quei due non erano gli unici?”.
Velasco si strinse nelle spalle.
“I pistoleri si muovono sempre in gruppo: due è un numero accettabile,
tre è il numero perfetto, quattro è l’ideale se si vuole fare casino. Non lo so”
ammise, “Se erano in buona fede non succederà nulla e io andrò a
recuperare le armi coi miei matuteros; se invece ci sono occhi in agguato
lungo la pista, e noi inviamo un gruppo di idioti a pascolare, quelli
penseranno che siamo cascati nella loro trappola e faranno la loro mossa”.
“E quale potrebbe essere questa mossa?”.
Lo scagnozzo sospirò.
“Se hanno lasciato qualcuno lungo la strada potrebbero pizzicarli, ma da
loro non caverebbero niente perché i tuoi non sanno niente, no?”.
Tender si stropicciò gli occhi: la faccenda iniziava a dargli il mal di testa.
“Ma dubito che li fermerebbero” continuò Velasco, “E dubito anche che
vadano a chiedere aiuto allo sceriffo perché la legge non può muoversi
senza prove…dunque, ecco che torniamo al discorso di prima: le prove”.
L’uomo si schiarì la voce.
“Ce n’è ancora di quel torcibudella che stavi sbevazzando prima?”.
Il capo spedizioni gli gettò la fiasca con movimento nervoso: quando si fu
dissetato, Velasco riprese a parlare.
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“Dunque, se tu mandi dei cavalieri ventre a terra lungo la Via questa è
una ammissione di colpevolezza bella e buona. Loro sapranno che ci sei
dentro fino al collo, se ancora hanno dei dubbi, e si preoccuperanno di
recuperare delle prove per incastrarti”.
“Ma qui non ci sono prove…”.
L’uomo sospirò esasperato dalla lentezza di comprendonio del compare.
“Hombre, sono loro che non lo sanno! E se io fossi in loro le prove verrei
a cercarmele qui dentro, mentre tutti dormono, comprendes?”.
L’uomo distese le labbra in un sorriso sottile e crudele a cui fece eco
l’espressione bovina di Al Tender.
“Ay, non ci avevo pensato…potrebbero…”.
“Per le prossime notti, io e i miei ce ne staremo nel magazzino con un
occhio chiuso ed uno aperto” concluse Velasco, “E durante il giorno ti
faremo da servizio d’ordine discreto. Non ci vedrai nemmeno, te l’assicuro”.
“Me l’hai già detta una volta questa cosa, e ricordo di averti risposto che
non voglio gente tra i piedi mentre lavoro”.
Lo scagnozzo si strinse nelle spalle.
“Preferisci i miei compadres tra i piedi o la compagnia dei pistoleri
quando verranno a prenderti per tirarti il collo?”.
Senza aspettare altra risposta, Velasco si girò e scostò la porta
dell’ufficio con un unico gesto lasciando il capo spedizioni all’interno, solo
con pensieri non proprio tranquilli.
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I pistoleri procedettero al piccolo trotto lungo la pista per Hope
attraversando paesaggi di colline ondulate e campi in cui ondeggiava ancora
rigoglioso l’ultimo grano dell’anno; dopo due ore deviarono tagliando
attraverso i poderi sui sentieri utilizzati dai coltivatori, ed in capo ad un altro
paio d’ore giunsero nuovamente in vista di Meadowgrain da cui si tennero
ben alla larga. Rientrarono nel bosco a margine della Grande Via quando
già il sole stava declinando.
Mezzora più tardi Henry, che stava procedendo col cavallo alla briglia
verso il bivacco della notte precedente, si fermò tendendo l’orecchio
all’improvviso verso di una civetta.
L’uomo sorrise e procedette più speditamente nella direzione del rumore,
il compagno pochi passi più indietro: quando scorse una sagoma nera nella
boscaglia inclinò il capo in cenno di saluto. La figura rispose al gesto.
“Vi aspettavo” disse Daniel, “Venite, c’è del caffè sul fuoco”.
Il campo era stato posto in una piccola radura non molto distante dalla
pista: nel cerchio di pietre preparato la sera prima bruciava nuovamente un
fuoco basso su cui era stata piazzata una caffettiera gorgogliante, metà del
cui contenuto era già stato distribuito nelle tazze dei tre uomini seduti
intorno.
“Dici che c’è dentro anche il sindaco?” indagò Daniel, e Henry annuì
appena.
“Ha dato l’impressione di uno che nasconde qualcosa, ma non è uomo
da infilarsi troppo in profondità in giri come questi. Non ne ha il fegato”.
“Potrebbe limitarsi a chiudere un occhio” azzardò Fergus, “Coprire con la
sabbia i loro traffici, tenere lontani lo sceriffo o la milizia”.
“Sempre che lo stesso sceriffo non sia sul loro libro paga…”.
Questo lo trovo difficile da credere” replicò Henry quasi risentito “Voi non
conoscete Hank Brannigan come lo conosco io: lo sceriffo è ed è sempre
stato una persona onesta, non potei credere che si sia fatto comprare
nemmeno se lo vedessi”.
“Allora perché non hai voluto che lo informassimo della nostra
presenza?”.
Il pistolero bevve un sorso di caffè.
“Prima è meglio iniziare a far luce sulla situazione, ve l’ho detto: proprio
perché conosco Brannigan da una vita, so che è uno sbirro di vecchio
stampo, tenace come un mastino azzannato al fondo di un paio di
pantaloni…ma senza prove non c’è verso di ottenere da lui qualcosa di
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concreto. Senza contare che non tollererebbe certo quel che abbiamo in
mente di combinare nella sua città”.
Un sorriso increspò i baffoni dell’uomo.
“Ci infiliamo lì dentro già stanotte?” chiese Daniel, il pistolero annuì.
“Aspettare non avrebbe senso” fece eco Fergus. “Nella pentola c’è
sicuramente qualcosa, e prima la scoperchiamo meglio è”.
“Sappi che penso sia un errore non avvisare lo sceriffo”. Daniel gettò un
ramo nel fuoco sollevando qualche scintilla.
“Potrebbe aiutarci a tenerli d’occhio, forse ne caveremmo di più osservandoli
che non stuzzicandoli”.
“O forse daremmo loro il tempo di far sparire le prove a loro carico”.
Henry sbuffò.
“Il consiglio vuole gente portata in catene dentro un’aula di tribunale: vuole
processi e patiboli da allestire davanti al popolo per farlo sentire protetto,
credetemi quando vi dico che è così, e se riusciamo a mettere le mani su
qualsiasi cosa possa essere considerata una prova io sento il dovere di
provarci. E se riusciamo a farlo senza smuovere troppo le acque penso che
il vecchio Brannigan, quando lo saprà, metterà da parte il protocollo
nell’interesse superiore della giustizia”.
Per un momento i due uomini rimasero in silenzio, e Daniel si sforzò di
considerare che da una parte il suo dinh aveva ragione: forse sarebbe stata
una vittoria per la giustizia di Nuova Canaan, allestire processi dall’esito
scontato, e forche in attesa di pendaglio per far sapere a tutti che la stretta
dell’Affiliazione era ancora salda, almeno nel cuore dell’Arco Interno; ed
anche se non fossero riusciti a risalire immediatamente ai mandanti
avrebbero comunque stroncato la linea di traffici che passava per il loro
territorio, rallentato l’opera dei fomentatori e dato ai contrabbandieri un
motivo per pensarci due volte prima di riprovarci. Sospettava anzi che fosse
questa, l’unica cosa a stare a cuore ai pistoleri del consiglio: da bravi politici
di carriera erano continuamente alla ricerca di apparenze salve e per loro la
Baronia doveva in qualsiasi caso rimanere pulita dagli scandali, anche a
costo di accontentarsi di una vittoria parziale.
Eppure c’era un altro pensiero che gli era saltato in testa quando Henry
aveva obiettato: un pensiero che lo atterriva e che aveva scacciato
immediatamente, e sul quale tuttavia la mente si rifiutava di cedere terreno.
“Sempre che non se lo aspettino” dubitò Fergus; Henry scosse il capo e
Daniel ci vide una certezza forse troppo convinta.
“Hanno mandato due cani a fiutare la pista, e francamente non mi aspettavo
nulla di diverso da uno come sai mastino: quell’uomo si è sentito franare il
terreno sotto i piedi non appena ce ne siamo andati, io penso, e non deve
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essergli sembrato vero apprendere che non eravamo lì per mettergli i ceppi
alle caviglie; si è convinto che il suo prezioso carico deve essere rimasto
nascosto, ed ha spedito gli scagnozzi a recuperarlo al più presto. Semplice.
E potrebbe anche decidere di sospendere le spedizioni” rifletté, versandosi
altro caffè, “Forse medita di sparire per un po’ dalla circolazione, tanto per
sicurezza, portandosi dietro qualsiasi cosa possa rappresentare una prova a
carico suo o dei suoi mandanti”.
“In ogni caso non può farlo fino a quando quelle armi non tornano
indietro” aggiunse Fergus. “E anche ammazzando i cavalli, dall’Hampton a
qui non ci arrivi in meno di due giorni”.
“Dunque a noi non rimane altro che anticiparlo: ci infileremo dentro il suo
magazzino stanotte e, se non troveremo nulla a suo carico, solo allora
andremo dal marshal e vuoteremo il sacco mostrandogli anche la pistola che
abbiamo portato. Dovrebbe bastare a convincerlo”.
Henry tacque per un attimo.
“Ma sono convinto che qualcosa troveremo” concluse poi, “Gli stupidi
commettono sempre qualche errore”.
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Tornarono in città verso mezzanotte e la Baciante era al suo ultimo
quarto, in un cielo già autunnale venato di nuvole: la sua luce fioca
rischiarava solo passabilmente la Main Street deserta e scura come una
striscia d’inchiostro sotto le ombre lunghe degli edifici a margine; l’unica oasi
di chiarore era localizzata nella direzione del Silver Spur da cui si sentivano
provenire note di pianola ed echi di canti.
Conducendo le cavalcature al passo il gruppo si mosse con calma verso
i magazzini della compagnia di trasporti, e non appena avvistarono le
sagome tozze ed allungate dei fabbricati Henry fece segno ai compagni di
fermarsi. I tre si infilarono silenziosi nei vicoli adiacenti a Regent Street e
smontarono nell’ombra di una viuzza che sboccava quasi davanti al cancello
di ferro del cortile, ora ben chiuso da una catena ed un grosso lucchetto.
“Io e Fergus andiamo dentro” dichiarò soltanto. “Daniel farà il palo; il
richiamo della civetta segnalerà il pericolo”.
“Sicuri di sentirmi, quando sarete rintanati lì dentro?”.
“Fai torto alle nostre orecchie, camerata” dichiarò Fergus sogghignando.
L’uomo si alzò sul naso il fazzoletto che portava al collo, subito imitato dal
compagno.
“Non succederà nulla” aggiunse, “Non hanno nemmeno un guardiano”.
“Logico, non si aspettano una visita da nessuno”.
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Non così presto almeno cogitò Daniel; l’uomo guardò i compagni
allontanarsi senza più dir nulla; per pochi momenti la luce lunare disegnò le
loro figure che attraversavano rapide il tratto allo scoperto e si
arrampicavano come ragni sulla recinzione metallica. Li vide lasciarsi cadere
dall’altra parte, poi scomparire furtivi fondendosi tra le molte ombre del
cortile.
Si sentiva teso e quel brutto pensiero era ancora lì, in agguato, proprio
dietro l’angolo della mente.
Henry e Fergus si guardarono intorno con circospezione, acquattati
nell’oscurità dietro una pila di casse; per un attimo al dinh era sembrato di
cogliere un movimento dietro una finestra al primo piano, ma di certo era
stata un ‘illusione. I due uomini scivolarono da ombra ad ombra, quasi senza
fare rumore sulla terra del cortile, ed una volta prossimi al fabbricato
seguirono di spalle il profilo del muro fino a girare l’angolo. Lungo la parete
scorsero subito una scala coricata per terra, fu affare di un attimo sollevarla
e posizionarla in modo da raggiungere una delle finestre che davano sul
ballatoio. Henry si arrampicò e dopo nemmeno un minuto un piccolo rumore
secco testimoniò che il povero lucchetto messo di guardia era stato
rapidamente fatto fuori.
Fergus vide il compagno infilarsi nell’apertura con un rapido svolazzo del
suo spolverino e fu rapido a seguirlo, riaccostandosi la portafinestra alle
spalle.
All’interno del magazzino faceva più freddo, poca luce filtrava dai lucernai
sul tetto rivelando un mare silenzioso di forme quadrate e scure. I due
uomini si mossero con passi lenti ed uno scricchiolio appena percettibile, gli
occhi allenati distinsero dopo poco una rampa che portava a terra. Henry
fece cenno a Fergus indicando la rampa e subito dopo la sagoma del
miserabile ufficio che avevano visitato quella mattina, sul ballatoio all’altro
capo del magazzino.
Iniziarono a scendere.
Daniel socchiuse gli occhi sporgendosi fuori dalla zona d’ombra del
vicolo: aveva perso di vista per un momento le sagome dei due compagni; le
ritrovò quasi subito, sembravano scivolare da un’ombra all’altra e furono
visibili solo per una manciata di secondi quando arrivarono a ridosso del
muro del magazzino. Li vide poi scomparire un attimo dopo dietro l’angolo
senza la minima esitazione. Dietro di lui i cavalli se ne stavano buoni, legati
per la cavezza alla staccionata di un piccolo orto.
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Meditò quasi di prepararsi una sigaretta; esitò, consapevole che un gesto
come quello in una situazione come quella sarebbe stato degno di un
novellino. Poi cedette al vizio e le sue dita si mossero rapide verso la
sacchetta del tabacco appesa alla cintura accanto al coltello.
Tanto non c’è un cane qui in giro, e vacca se ho voglia di farmi una
fumata!
In quel momento, alle sue spalle, qualcosa schiacciò fango ed acqua con
un lieve rumore liquido ed uno dei cavalli sbuffò strattonando le briglie; il
pistolero fece per girarsi ma immediatamente una mano salì a stringerlo
sulla bocca: subito dopo avvertì la spiacevole sensazione di qualcosa di
freddo e tagliente che si appoggiava proprio sopra il suo pomo d’adamo.
Una voce dal fiato pestilente che sapeva di alcool e cibo gli sibilò
all’orecchio qualcosa di appena comprensibile.
“Tranquilo hombre”.
Daniel deglutì mentre veniva sospinto in avanti, di nuovo nella strada,
con una ginocchiata a metà schiena.
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Le casse nel magazzino erano come pareti di un labirinto, gli uomini si
orientavano al tatto. Entrambi udivano scricchiolii provenire dalla zona
soprastante del ballatoio: ma dopo il primo, che li fece bloccare nell’ombra
con le pistole in pugno senza che succedesse alcunché, non vi prestarono
più che una marginale attenzione.
Probabilmente era il legno che si rilassava nella frescura della notte.
I pistoleri si avvicinarono lentamente verso il grande portone chiuso, da
sotto il quale filtrava un piccolo tassello di luce argentata, e videro la scala
su cui erano saliti in compagnia del capo spedizioni: convinti di esserci si
staccarono dall’ombra dell’ultima pila di casse e camminarono più spediti
quando la luce bianca dei tubi di focaria, che durante il giorno non avevano
notato, inondò il magazzino ferendo i loro occhi e bloccandoli all’istante
come conigli spaventati.
“Mira, los pistoleros!” dichiarò una voce nel dialetto delle Baronie
Meridionali; Henry strinse gli occhi ed alzò il capo scorgendo un uomo
vestito di cuoio, con un largo cappello ed una pistola in mano puntata con
sicurezza verso di loro; tutto intorno, sul ballatoio, ce n’erano almeno altri
cinque, armati di tromboni e di archi con la freccia già incoccata.
“Non lo sapete, hombres, che non bisogna entrare senza permesso in
casa di altri? Ay de mì, questa è una cosa molto, molto scortese”.
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Dietro l’uomo armato, Al Tender si fece avanti sporgendosi sul ballatoio:
la prospettiva dal basso lo rendeva quasi comico, con la bombette di
sghembo sul cranio pelato ed un grugno corrucciato sul muso, ma ai due
uomini era momentaneamente passata la voglia di ridere.
“State minacciando dei pistoleri di Gilead, fossi in voi mi affretterei a
riconsiderare” dichiarò Henry solo ed esclusivamente per prendere tempo.
Fergus afferrò al volo ed il dinh colse un impercettibile movimento della sua
mano verso la fondina.
“Se mettete giù le armi potremo accordarci…”.
“Sentito, jefe?” sghignazzò Ruby Velasco. “Ora che li abbiamo beccati
vogliono ‘accordarsi’ con noi; aye, io dico, c’è da aver paura di vermi come
questi?”.
Lo scagnozzo si mosse con un leggero spostamento laterale abbassando
di un pelo l’arma. E questo fu un errore del quale avrebbe avuto modo di
pentirsi nell’immediato futuro.
“Credo invece, pistolero” riprese “Che ben presto ci direte cosa stavate
cercando qui. Aye, oh si, ce lo direte llorando e noi ascolteremo con
piacere!”.
“Fagli posare le armi, voglio vederli disarmati sennò non sono tranquillo”
grugnì Tender, lo scagnozzo annuì.
“Avete sentito il capo? Voglio vedere i vostri ferri da tiro a terra, màs
ràpido, prima che mi venga voglia di farvi piantare qualche freccia in corpo”.
Henry si chinò appena sulle ginocchia, abbassando le mani verso il
cinturone; lo scagnozzo lo squadrava dall’alto, con un arrogante sorrisetto di
superiorità, e l’uomo decise che non l’avrebbe tollerato un attimo di più.
Invece che slacciare la fibbia le sue mani cambiarono repentinamente
direzione correndo fulminee alle pistole: l’uomo estrasse sparando in alzata,
ed uno degli uomini accanto allo scagnozzo cadde indietro all’istante con un
grosso foro slabbrato nel cranio. Una frazione di secondo più tardi, mentre il
pistolero riparava con un balzo dietro una pila di casse, anche Fergus
entrava in azione riempiendo di fuoco e di tuono l’aria polverosa del
magazzino.
Daniel si sentì torcere dolorosamente il braccio dietro la schiena mentre
un ginocchio lo spingeva ancora avanti come un mulo recalcitrante;
avvertiva il cuore martellargli nelle tempie ed il fiato maleodorante respirargli
nell’orecchio sinistro, e la lama appoggiata sulla sua gola non era scesa di
un millimetro.
“Avanti, idiota!” imprecò l’altro dietro di lui e l’uomo non poté fare altro
che ubbidire maledicendosi ancora per la tua stupidaggine.
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“Oh si, pesciolino, dentro ti faremo cantare, a te ed ai tuoi amici: quanto è
vero l’Uomo-Gesù tu canterai così forte che ti sentiranno fino in Cressia!”.
Li avevano spiati mentre si avvicinavano; David inviò mentalmente un
sentito anatema al suo dinh per la sufficienza con cui si erano approcciati a
quella situazione, distogliendo solo per pochi momenti la sua mente nella
ricerca di soluzioni per togliersi dagli impicci.
Quell’uomo non era un professionista, rifletté, altrimenti lo avrebbe
messo a dormire con una botta in testa o gli avrebbe comunque
immobilizzato entrambe le mani; finché ne aveva una libera, la partita era
ancora aperta…ma non poteva esser certo di liberarsi dell’assalitore con un
colpo improvviso fino a quando questi gli avesse tenuto il coltello puntato
così saldamente alla gola.
Il recinto della compagnia di trasporti si andava avvicinando, la faccenda
invecchiava rapidamente. Il pistolero aveva bisogno di un diversivo.
Proprio quando si era deciso a tentare un trucco banale, come quello
dell’inciampo, o a provare il tutto per tutto sferrando una gomitata allo
stomaco dell’uomo che lo tratteneva, vide luci intense accendersi all’interno
del magazzino e riverberare dalle finestre; si fermò e per tutta risposta sentì
la pressione della lama farsi più marcata sulla pelle tenera della gola.
“Questi sono i miei amigos che hanno pizzicato i tuoi compagni. Ora metti
in movimento le gambe ed avvicinati a quel fottuto cancello, o ti sgozzo qui
dove siamo”.
Daniel deglutì avanzando lentamente mentre l’altro lo pungolava; un
attimo dopo sentì la presa al polso allentarsi, seguita da un breve trafficare
del suo assalitore con una bisaccia ed un tintinnio di chiavi.
No davvero, non erano professionisti, ma anche se i punti a suo favore
erano aumentati la minaccia del coltello sulla gola rimaneva. L’uomo gli rifilò
una ginocchiata all’altezza delle reni mandandolo a sbattere contro la
recinzione metallica, ed armeggiò con la mano libera cercando di infilare le
chiavi nel buco della serratura.
Poi una violenta detonazione, che aveva tutta l’aria di provenire da una
pistola di grosso calibro, cancellò tutto il resto.
Entrambi si bloccarono sorpresi e l’uomo staccò per qualche momento la
lama del coltello dalla gola del pistolero. Daniel colse l’attimo scattando
violentemente all’indietro con la testa e colpendo il suo assalitore dritto sul
naso; un lieve grido, più di sorpresa che di dolore, fece eco a quella
manovra ed il coltello si allontanò ancora fino a non costituire più un
pericolo.
Ci sei bastardo! gongolò estraendo a sua volta il suo e menando un
affondo all’indietro. Sentì la lama penetrare tra carne e vestiti fino al manico,
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e questa volta il gemito di dolore fu decisamente più sentito; il pistolero
strappò il coltello dalla ferita, ruotò su sé stesso e squarciò al volo la gola
dell’uomo piegato a reggersi la pancia bucata.
Un attimo più tardi si era già aggrappò alla rete metallica scalandola con
la stessa rapidità dei suoi compagni; in un balzo fu dall’altra parte e corse
rapido verso l’angolo del magazzino, dall’interno del quale si stavano ora
susseguendo spari e le grida in rapida successione.
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Henry Deschain vide chiaramente Fergus Allgood piantare qualche grano
di piombo nella spalla di sai Tender, rimasto affacciato al ballatoio a fissare
con stupore bovino il rapido precipitare degli eventi; il pistolero guardò con
soddisfazione la tozza figura del capo spedizioni venire sbalzato all’indietro
come un birillo, poi una pallottola rimbalzò in una nube di schegge
sull’angolo della pila di casse dietro a cui si era rintanato.
Questo doveva essere il tirapiedi vestito di cuoio, l’unico che finora aveva
dato prova di sapere come si maneggiavano le armi da fuoco. Mira
passabile, si concesse di riflettere, mentre come dotate di vita propria le sue
mani miravano ed abbattevano un altro arciere che si stava dando alla fuga
sulla passerella.
Fergus dal canto suo aveva appena fatto lo stesso; l’odore acre della
polvere da sparo aveva rapidamente invaso, saturandola, l’atmosfera del
locale quando negli ultimi secondi il conteggio dei loro avversari era sceso
sensibilmente.
Una seconda pallottola si conficcò nel legno a due dita dal suo cranio:
l’uomo si sporse di lato sparando verso l’alto, inquadrando per un attimo la
figura del sicario vestito di cuoio e facendogli volare via di netto il cappello.
“Merda” imprecò. Un altro uomo cadde giù piovendogli quasi addosso, un
grosso schioppo ancora stretto fra le mani e la faccia ridotta ad una
marmellata di sangue ed ossa da un preciso colpo che gli aveva spaccato la
testa in due: Fergus sparava presto e bene, e le poche frecce che erano
state loro tirate addosso non avevano causato loro alcun danno.
La voce di una terza pistola si unì improvvisamente al concerto scavando
crivellature dietro il riparo dello sparatore, unico avversario veramente
pericoloso in quella specie di tiro al bersaglio.
“Compagni, a me!” gridò Henry, poi senza attendere risposta (che, ne era
sicuro, ci sarebbe stata) si gettò verso la rampa di scale che saliva all’ufficio
del capo spedizioni; una pallottola lo colpì di striscio ad una spalla mentre
correva facendolo sbandare solo lievemente, poi ogni altro tentativo di
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contrattacco fu letteralmente sepolto dietro la tempesta di fuoco che le
quattro pistole dei suoi amici fecero piovere all’unisono addosso al riparo
dello sparatore. Quando il pistolero guadagnò la copertura della rampa
niente più si muoveva da quella parte.
“Scagnozzo!” gridò il dinh, “Sei rimasto solo! Sono io ora a voler vedere
le tue armi a terra!”.
Un grugnito di sofferenza giunse per tutta risposta dal piano superiore.
L’uomo realizzò che probabilmente la guerra era finita, e dopo aver
ricaricato le cartucce consumate uscì dal riparo con una sola arma in pugno,
tenuta verticale a puntare verso l’alto nella posizione della guardia.
La luce dei tubi di focaria rendeva forse ancora più acceso il colore del
sangue, che era stato sparso copioso negli ultimi cinque minuti; Henry
scavalcò il corpo di un arciere morto raggomitolato su sé stesso, le mani a
stringersi un grosso foro nero nel ventre, e distinse poco oltre la figura di Al
Tender riverso a terra con la spalla scardinata, in una pozza di sangue che
andava allargandosi rapidamente. Sorrise.
Presso la finestra da cui erano entrati anche Daniel stava avanzando,
tenendo prudentemente sotto tiro l’ultimo nascondiglio del sicario armato.
“Grazie-sai per la festa”. L’uomo si chinò sui talloni sporgendosi
sorridente sopra il capo spedizioni, il cui volto era adesso in parti uguali
suddiviso tra paura, collera e dolore puro e semplice.
“Non aspettarti che sia io, però, a pulire questo casino”.
L’uomo fece per sottrarsi al pistolero, ma urlò come un maiale scannato
quando la spalla ferita strusciò contro il legno. Il suo respiro era affrettato.
“Questo qui è morto”.
Daniel emerse da dietro la pila di casse trascinando per una caviglia il
tirapiedi che li aveva minacciati: metà del suo volto era coperto di sangue,
lasciò una breve scia sul pavimento prima che l’uomo lo lasciasse cadere;
poi Fergus si accovacciò vicino a lui e si accorse che respirava ancora, e
nello stesso istante qualcosa di insanguinato che spuntava da sotto lo
spolverino dell’uomo attirò la sua attenzione.
“No che non lo è, gli è partito soltanto un orecchio. Char-gott” sentenziò
sporgendosi ad afferrare il libriccino che spuntava dal farsetto e sfogliarne
qualche pagina con una improvvisa luce di interesse negli occhi.
“Che cos’hai trovato?”. Quando glielo allungò Henry poté vedere che si
trattava di un cifrario dalle pagine fittamente coperte da una scrittura di punti,
tratti e cunei.
“Come diceva sempre il mio vecchio: ‘se hai un segreto tienitelo in
tasca’”.
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“E il mio la diceva proprio uguale”. Henry chiuse il quaderno e squadrò il
capo spedizioni con un sorriso ampio e soddisfatto.
“Il tuo compare ha cose da nascondere sai; vogliamo parlarne?”.
“Aiutami” borbottò Tender gorgogliando saliva tra le labbra serrate. Fuori
si sentì rimbombare un colpo di fucile: lo sceriffo doveva essere stato
stanato dal suo ufficio dalla sparatoria. Era ora considerò.
Con la coda dell’occhio vide Daniel avvicinarsi ai cancelli del magazzino e
farne saltare la serratura con una pistolettata per poi uscire andando
incontro al marshal.
“Aiutarti? Ma certo amico mio” proseguì. “Non morirai oggi, nay…”.
L’uomo sollevò il corpo del capo spedizioni e questi cacciò un nuovo urlo
acuto. Fergus si accostò ed iniziò a preparare un rudimentale bendaggio per
fermare il sangue con un lembo di vestito preso a qualche morto. “Non
morirai oggi” riprese il pistolero, “Ci sarà il tempo per te di percorrere i
gradini della forca e danzare il gran ballo della corda, oh si, mi farò un
dovere che questo accada”.
Ogni colore residuo sembrò colare via dal volto di Al Tender, che
nemmeno urlò più quando Fergus tamponò senza troppi riguardi il foro
d’uscita del proiettile.
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Venti minuti più tardi, medicata e fasciata la scalfittura al braccio di
Henry, i tre pistoleri erano allineati e coperti nell’ufficio dello sceriffo,
ciascuno fornito di una razione di caffè caldo, accostati in religioso silenzio
intorno ad una scrivania accatastata di faldoni. Il marshal Hank Brannigan,
un uomo che aveva da un pezzo superato la mezza età, con mustacchi e
barba venati di bianco ed un principio di calvizie sul cranio, li fissava
dall’altra parte del tavolo in compagnia di un aiutante; l’altro, molto
probabilmente, stava tenendo d’occhio l’unico sopravvissuto nelle celle sul
retro mentre il dottore del paese lo ricuciva alla meglio.
Nessuno osava ancora parlare e le espressioni sui vari volti erano quanto
di più variabile potesse esser radunato in uno spazio così ristretto: mentre i
tre pistoleri erano l’espressione della più serafica tranquillità, c’erano
confusione e disagio in parti uguali sul volto dell’aiutante in piedi accanto ad
uno schedario, rigido come un manico di scopa, le mani giunte dietro la
schiena e gli occhi che correvano in giro senza sapere dove posarsi.
Sul conto dello sceriffo non c’era invece di che sbagliarsi: quella che tutti
vedevano era collera pura e semplice, a malapena tenuta a bada dal fatto di
trovarsi davanti tre delle più importanti personalità della Baronia limitrofa.
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Che avevano tuttavia sparato ed ucciso nella sua giurisdizione, nella sua
città, dopo esser stati sorpresi in evidente violazione di domicilio.
Il marshal sbatté un plico di fogli sul piano della scrivania facendo
oscillare pericolosamente la lampada ad olio. Negli ultimi venti minuti gli
eventi si erano susseguiti in un crescendo troppo rapido: per prima cosa i tre
pistoleri erano stati presi rapidamente in consegna per evitare che potessero
combinare altri danni, e parcheggiati in ufficio sotto la custodia dei riluttanti
assistenti; lui aveva dovuto avvertire il dottore ed il becchino, che non
avrebbe mancato di sfregarsi le mani per il tanto lavoro che gli era stato
procurato, mentre già le strade iniziavano a riempirsi di curiosi ed esagitati.
Infine l’uomo si era prodigato come possibile per calmare gli animi di mezza
città: aveva dovuto rimandare nelle proprie case gli uomini scesi in strada,
convincere i capannelli a disperdersi, convincere le mani a riporre torce,
forconi e roncole perché no, non stava succedendo niente di grave, non
c’erano banditi all’attacco da respingere e la banca aveva ancora le
casseforti piene e salde.
C’erano solo tre stupidi politici d’azione che per qualche motivo avevano
deciso di venire a sparacchiare in un paese così tranquillo da non ricordare
l’ultima volta che qualcuno era morto ammazzato!
“Credo che voialtri mi dobbiate delle spiegazioni” disse, il tono pacato ma
gelido. La calma che precede la tempesta a giudizio di Fergus, ma Henry
non sembrò scomporsi.
“Ascolta Hank, so che hai tutti i motivi per essere alterato…” incominciò,
ma l’altro lo interruppe immediatamente menando una violenta pacca sulla
scrivania.
“Affanculo! Io sono ‘alterato’ quando vedo gli ubriachi ciondolare, quando
devo calmare gli animi per una vacca che sparisce da una stalla e ricompare
in un’altra, o quando alcuni idioti fanno rissa al saloon il sabato sera: questo
mi rende ‘alterato’, Henry, maledizione a te! I morti da piombo e da coltello
mi rendono ben più che ‘alterato’, e tu e i tuoi compari…”.
“Fergus Allgood e David Johns” puntualizzò il pistolero, l’altro si bloccò
con la bocca aperta e l’uomo vide guizzare una vampa d’ira nei suoi occhi.
“Fanculo! Cazzo!” sbraitò facendo sussultare l’assistente. “Nemmeno se
fossero l’Uomo-Gesù o Arthur Eld me ne potrebbe fottere qualcosa!”. Lo
sceriffo abbrancò la sua tazza di caffè e bevve una lunga sorsata: quando
riprese a parlare il tono si era calmato un poco, ma era ancora tremante di
rabbia che non aveva nemmeno iniziato a sopirsi.
“Così come non me ne fotte un cazzo se tu sei un pezzo grosso a Nuova
Canaan; qui non siamo a Gilead, questa è la mia città ed è qui che hai fatto
dei casini che sono puniti col ballo della corda”. Una pausa.
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“Mi devi delle spiegazioni” concluse, nel medesimo tono gelido di prima.
“D’accordo, ti devo spiegazioni e davanti a Dio te le darò” esalò Henry.
Anche sul suo volto, ora, non c’era più traccia di sorriso.
“Al Tender e la sua compagnia sono dentro fino al collo in un traffico
d’armi” disse, e quelle parole ebbero l’istantaneo effetto di far appianare
parte delle rughe di collera sulla fronte dello sceriffo. Il marshal mosse in
circolo la mano, ma non ce n’era bisogno perché il pistolero non aveva
voglia di prendersi pause. Fergus gettò sulla scrivania il registro, che scivolò
lasciando una sottile striscia di sangue sul piano di legno lucido; lo sceriffo lo
prese, lo sfogliò senza naturalmente capirci nulla, quindi lo rimise a posto e
tutti notarono che la vampa di rabbia nei suoi occhi si era affievolita
notevolmente, sostituita da un accenno di vaga curiosità.
“Non è un contrabbando come tanti, questa è roba seria amico mio, e se
non ne avessimo avuto la ragionevole certezza non ci saremmo certo mossi
in questo modo”.
Si girò verso i compagni.
“La nostra milizia ha scoperto reliquie degli Antichi in un carico della
Overland” aggiunse Fergus. “Pistole come non se ne sono mai viste a
memoria d’uomo, che fino ad oggi sono esistite soltanto sulle pagine di libri
strani, quelli utilizzati dai professori e dai maghi”.
Henry si godette l’espressione di stupore dello sceriffo; l’uomo si lasciò
ricadere sullo schienale della seggiola con vari scricchiolii, bevve in silenzio
e quando parlò di nuovo non c’era più traccia di irritazione nella sua voce.
“Non provo nemmeno a mettere in dubbio quello che mi dite, pistoleri,
sarebbe farvi un torto troppo grande…e nemmeno la collera può farmi
dimenticare il vostro prestigio”.
Henry sorridette sornione.
“Ma potevate almeno avvertirmi…e tu fatti sparire quel sorriso dal muso!”
aggiunse subito come a voler improvvisamente ritrattare.
“Perché non mi avete detto nulla?”.
“Volevamo avere qualcosa in mano, e volevamo procurarcela prima che
potessero pensare di far sparire tutto”.
Henry si strinse nelle spalle.
“Ti avremmo detto ogni cosa, Hank, ma la legge non si muove senza
prove: così ci siamo presi la libertà di intraprendere una piccola e tranquilla
investigazione notturna”.
“’Piccola e tranquilla’, tu dici? Ay, avete seminato cadaveri a piene mani
invece! Dovete avere uno strano concetto di tranquillità a Gilead”.
“Perché ci stavano aspettando” si intromise improvvisamente Daniel, ed
Henry colse acredine nella voce del compagno.
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“Questo è vero” intervenne subito, “Li abbiamo sottovalutati e loro ci
hanno anticipato”.
“Quel tipo vestito di cuoio” dichiarò Fergus. “Sapeva pensare e sapeva
sparare; probabilmente ci ha tenuti d’occhio quando siamo andati a tastare il
polso a Tender…”.
“Ferma un secondo” lo bloccò lo sceriffo, “Eravate già stati lì?”.
“Questa mattina”. Fergus fece spallucce.
“Tanto per sentire che aria tirava” gli diede manforte il dinh. “Volevamo
indurli a scoprirsi: e infatti, appena ce ne siamo andati hanno inviato degli
uomini lungo la Grande Via per controllare se le nostre parole
corrispondevano alla verità”.
“Ma questo non ha fatto abbassare le loro precauzioni”.
Lo sceriffo si sporse ad aprire un cassetto tirandone fuori una bottiglia
che doveva certamente contenere qualcosa di forte; se ne versò una dose
generosa nella tazza del caffè.
“Sarà meglio che voi pellegrini mi raccontiate tutto, dall’inizio e con
ordine” sospirò.
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Fergus e Daniel misero il marshal al corrente dell’antefatto nel giro di
pochi minuti: gli raccontarono di come avevano scoperto il carico di armi, e
di come si erano organizzati per sfruttare quella che per loro era l’unica
traccia. Henry raccontò il colloquio con il sindaco ed il marshal, sentendo di
come i pistoleri sospettassero una sua complicità, spedì subito l’aiutante a
prenderlo in consegna. E mentre aspettavano che facesse ritorno, gli uomini
si passarono la sacchetta del tabacco confezionandosi delle sigarette
mentre il discorso deviava e gli animi provavano a stemperarsi.
“Credevo che la vostra ultima corrente elettrica se ne fosse andata
cinque anni fa” osservò Henry, lo sceriffo fece spallucce.
“Un viaggiatore di passaggio dall’Arco Esterno ha risistemato il
generatore a vento sulle colline, l’estate scorsa, e rimesso in linea due dei
nostri quattro accumulatori. Una specie di mago, non erano che rottami
arrugginiti ma li ha fatti andare lo stesso; ci ha anche dato una mano a tirare
una nuova linea di cavi, quelli non mancavano anche se la gente li usava
per legare le fascine di legna e le tavole nelle staccionate, ed a rifare
l’impianto elettrico nel municipio. Ora fino a quando una cicogna non farà il
nido negli ingranaggi, se Dio vorrà avremo di nuovo un po’ di corrente. Il
sindaco aveva anche pensato di mettere i tubi di focaria per far luce nelle
strade, ma sono merce così rara da trovarsi…”.
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“Ho visto che nel magazzino di Tender ce ne sono parecchi, e tutti
funzionanti” osservò Henry. Lo sceriffo annuì.
“Si, ne abbiamo qualcuno anche alla sala delle feste. Li ha fatti venire
proprio sai Tender, ma non ho la minima idea di dove li abbia scovati, ormai
comunque saranno dieci anni che ci sono”.
“E non vi ha insospettito che un uomo in grado di procurarsi merci del
genere potesse anche trafficare con reliquie più pericolose?”.
Di nuovo il discorso tornava al presente, di nuovo la voce di Daniel
mostrava arroganza: anche se l’uomo era seccato per essere andato vicino
a rimetterci la pelle, lui non era certo l’unico che quella sera aveva rischiato.
E forse, ritenne Henry, era ora di farglielo capire.
“Se il futuro è una faccia sull’acqua” lo rimbeccò parlando nella Lingua
Alta, “Talvolta
il presente è un cielo velato di nubi”.
Fergus aprì lievemente la
bocca senza parlare, Daniel dal canto suo tacque ma l’occhiata che scambiò
con Henry non era certo amichevole.
“Ehi, ehi, andiamo…non è il caso di litigare fra voi, giusto?”.
“Nessun litigio Hank” aggiunse Henry. “Sono solo nervi che non sempre
sanno stare al posto che loro compete”.
“Quando la gente tira in ballo la Lingua Alta” proseguì lo sceriffo, “Di
solito si è ad un passo dal far scoppiare il duello: e per stasera di casini ne
abbiamo già fin troppi”.
Henry sorrise.
“Non sono più tempi da duelli e nobiltà, questi”.
Un’ombra passò dietro i vetri della porta dell’ufficio accompagnata dal
chiarore di una lanterna; il viso ventenne dell’assistente dello sceriffo fece
capolino all’interno.
“Il sindaco non era né a casa né in ufficio” disse, “Non so dove possa
essere andato, è la sua governante che mi ha aperto”.
I pistoleri si scambiarono un’occhiata eloquente.
“L’uccellino ha preso il volo” commentò Fergus.
“Una perfetta ammissione di colpevolezza da parte sua e di incapacità da
parte nostra” sospirò Henry. “Avremmo dovuto mettergli il sale sulla coda fin
da subito, pure se non pensavo che le cose precipitassero così”.
“Oppure venire a raccontarmi qual era il gatto nel sacco fin da stamattina”
rincarò lo sceriffo, “Invece di fare di testaccia vostra, io dico”.
“Puoi spedirgli alle costole qualcuno?”.
“E su quale pista, uomo? Verso Hope? Verso Saddleshack? Nelle
campagne?”.
Il marshal scosse il capo, seccato, quindi si rivolse all’assistente.
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“Prendi tuo fratello e passate al pettine fitto la casa del sindaco in cerca
di qualsiasi cosa possa anche solo sembrare un indizio”. L’uomo si alzò ed
afferrò la bottiglia sulla scrivania.
“Noi andiamo a sentire che cos’hanno da dirci i due piccioni”.
Il gruppo di uomini si diresse verso le celle sul retro: c’era luce nell’ultima,
ed all’odore di muffa che permeava l’aria si mescolava quello dell’alcool
medicinale. Il dottore del paese, un uomo che doveva essere quasi
coetaneo dello sceriffo, stava suturando la ferita di Al Tender assistito dal
secondo aiutante: il lavoro era a buon punto ed il capo spedizioni non
sembrava più sul punto di tirare le cuoia da un momento all’altro, ma era
ancora pallido e sussultava appena quando l’ago lo pungeva troppo in
profondità mentre dalla branda della cella di fianco, nuovamente cosciente e
sicuramente di pessimo umore, lo scagnozzo li guardava con occhi da belva
presa in gabbia tenendosi una mano sulla vistosa fasciatura arrossata che
gli copriva la scalfittura alla tempia.
Lo sceriffo accennò verso il corridoio e gli aiutanti tolsero immediatamente il
disturbo, poi attese pazientemente che il medico terminasse.
“L’hai rattoppato che è un piacere, Bernard” dichiarò quando questi
recise il filo e posò l’ago sciacquandosi le mani in una bacinella di acqua
sanguinolenta.
“Il piacere è tutto mio sceriffo” rispose il medico. Poi fece una pausa, e
solo dopo si sentì in dovere di aggiungere una raccomandazione.
“Quest’uomo non è in grado di sostenere un interrogatorio”.
“Ma che cosa dici, nessuno qui ha intenzione di interrogarlo!” rispose il
marshal cascando dalle nuvole. “Io e questi amici siamo semplicemente
venuti ad informarci sulle sue condizioni, non è così gente?”.
Una serie di affermazioni davvero molto convinte fece desistere il medico
dall’aggiungere altro; il vecchio sospirò riponendo ago e filo, insieme ad un
bisturi dalla lama lucida, nella sua borsa dei ferri.
“Tornerò domani a vedere come sta” disse. “Spero di trovarlo vivo”.
“Me ne faccio garante, medico” puntualizzò Henry, con uno strano lampo
oscuro in fondo agli occhi, ed a quelle parole Tender mandò un uggiolio
strozzato. Il medico non aggiunse altro: la sua ombra danzò per un
momento nel cono di luce della lampada, poi i suoi passi si fecero via via più
flebili lungo il corridoio.
“Veniamo a noi” mormorò il marshal quando fu sicuro che l’altro se ne
fosse davvero andato.
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“Questi miei amici, questi pistoleri, hanno fatto molte ruote da Gilead per
venire a pizzicare proprio te, sai Tender…devi averla combinata davvero
grossa per scomodare tre fulmini di guerra come loro”.
“Sceriffo, vi prego…” piagnucolò l’uomo, e Brannigan scosse il capo.
“Non pregare sai” lo rimbeccò in tono quasi benevolo, “Non servirebbe a
nulla, se conosco abbastanza questi diavoli scatenati”.
“No hables, cabron”. L’uomo mugugnò quello che doveva essere un
avvertimento, ma bastarono le tre occhiate simultanee dei pistoleri a
convincerlo a mordersi la lingua; per un attimo, anzi, Henry valutò di
rivolgere a lui le sue attenzioni prima di scartare immediatamente l’idea.
Aveva l’aria di uno che sapeva tacere, e considerò con una punta d’invidia
che l’incarico di spezzarlo sarebbe andato al boia della Cittadella; con
Tender invece non sarebbe stato necessario passare alle vie di fatto, e per
questo motivo non avrebbe rinunciato per niente al mondo a sfogare su di lui
un po’ della sua rabbia.
Lo sceriffo si sporse sulla branda e l’uomo lo guardò con l’aria di un cane
bastonato. “Dunque? Vuoi parlare?”.
“Non so nulla sceriffo…”.
“Andiamo, sai, non farci perdere tempo; questi miei amici non sono certo
famosi per la loro pazienza, e la giustizia di Gilead ha fama di essere
dura…”.
“Io non ho fatto nulla!”. Tender cacciò un urlo stridulo che si spense in
singhiozzi, striduli ed irritanti quando si coprì il volto con le mani. Lo sceriffo
fece per replicare, quando sentì la mano guantata di Henry posarsi sulla sua
spalla. Il pistolero incontrò lo sguardo dell’amico e scosse piano il capo. Poi
si sporse in avanti calando la punta dello stivale sul braccio ferito dell’uomo
ed i singhiozzi esplosero in uno strillo di porco scannato.
Henry si sollevò di un ciglio la tesa del cappello.
“Non ho tempo di giocare con te, che tu lo sappia: le prove a tuo carico ci
sono e basterebbero a qualsiasi giuria per spedirti sul patibolo. Abbiamo
trovato quaranta armi degli Antichi nel doppiofondo del tuo carro. E io
adesso voglio che tu mi dica da dove sono giunte e dove erano dirette”.
Al Tender tremolò e cercò di scostare lo stivale con un tocco flaccido che lo
disgustò.
“Fergus, vai a mettere il tuo coltello sulla stufa” dichiarò senza girarsi,
mantenendo fissi sul volto del malcapitato due occhi che sembravano
mandar lampi.
“Henry io non credo sia una…”.
“Vai!” gridò, Fergus scomparve rapido oltre la porta ad inferriate.
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“Se tu non parli presto e bene, sai, io ti strapperò la verità parola per
parola” riprese l’uomo protendendosi verso Tender senza più sfiorarlo.
“Te la strapperò un brandello alla volta, e con essa la tua carne fino a che
non sarai ridotto ad una massa tremante ed irriconoscibile; le tue unghie, i
tuoi occhi, i tuoi denti, i tuoi nervi e le tue ossa: tutti sono strumenti per
giungere alla verità, e davanti a Dio non avrò alcuno scrupolo nell’utilizzarli”.
Tender scoppiò a piangere nuovamente.
“Parla, verme!” gridò il pistolero afferrandolo per il bavero e sbattendolo
contro il muro; l’uomo urlò.
“Parlerò, parlerò, dirò tutto, dirò tutto, dirò tutto!” gemette in un crescendo
isterico quando infine i nervi gli cedettero. Ed il pistolero fu pago di tanto
perché lo lasciò andare, questa volta con maggiore delicatezza, e la luce
oscura in fondo ai suoi occhi si sopì.
Ascolterò ciò che hai da dire” disse. ”Hank, ti andrebbe di scortare il
prigioniero nel tuo ufficio?”
I due uomini ancora presenti gli rivolsero un’occhiata stravolta.
Al Tender fu fatto accomodare su una sedia vicino alla stufa: gli fu
concessa una coperta in cui avvolgersi, ancora tremante, e persino qualche
bicchiere di graf con cui aiutarlo a sciogliere la lingua. E quando ebbe
riacquistato il controllo dei suoi nervi e fu pronto a parlare, tutti lo
ascoltarono con interesse.
“Io sono solo una pedina” disse per prima cosa, come a cautelarsi in
anticipo. “Gestivo il passaggio dei carichi lungo questa pista, attraverso Brea
e Nuova Canaan, verso Aradia…non so che fine avrebbero fatto le armi,
davanti a Dio lo facevo solo per soldi, per pagare i debiti della mia
compagnia!”.
“E ora ci dirai che avevi anche una famiglia da mantenere?”. Fergus
sputò di lato centrando
“I debiti non sono una scusa per mettersi contro la legge” commentò
freddamente Henry, muovendo la mano in senso circolare per incitarlo a
proseguire.
“Da dove arrivano queste armi?” volle indagare Daniel, e l’uomo si strinse
nelle spalle.
“Dai rifugi delle Baronie Settentrionali, dalle montagne
sul Mare
Occidentale…per l’Uomo-Gesù, io questo non posso saperlo! Non venivano
certo a dirle a me queste cose…Ruby, lui teneva i contatti”.
“E sfortunatamente, adesso potrà parlare dei suoi maneggi soltanto con
messer Satanasso”.
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“I suoi compagni verranno a cercarvi” profetizzò l’uomo, Henry fece
spallucce.
“I pistoleri di Gilead non hanno paura dei briganti di strada; se verranno
sapremo riceverli. C’è nient’altro?”.
L’uomo ebbe una lieve esitazione, che fu però così palese da non poter
sfuggire ai pistoleri.
Henry lo afferrò per il bavero della pettorina macchiata di sangue e lo
sbatacchiò.
“Ti si è seccata così presto la lingua? Il coltello è ancora là ad
arroventarsi, oh si, ed io non aspetto altro che tu mi dia il pretesto per
usarlo!”.
L’uomo tacque ed Henry gli diede un manrovescio, incapace di
controllare un accesso di furore; fece per caricarne un altro quando il tocco
leggero di Daniel lo bloccò con la mano alzata. Quando si girò a guardarlo
vide che il compagno si sforzava di sorridere…ma capì anche che era
spaventato dal suo modo d’agire. Spaventato da lui.
E provò, di nuovo, dolore.
“Se parli faremo di tutto per assicurarti un trattamento clemente quando
verrai giudicato” disse Daniel, in tono conciliante. Henry lasciò andare il
prigioniero facendosi da parte; le mani gli tremavano.
“Il tuo compare non può salvarsi dalla forca, ma tu sei soltanto un
complice e noi diremo ai giudici che hai collaborato per rendere lieve la tua
pensa; ma se vuoi avere questa possibilità di cavartela devi vuotare il sacco
fino in fondo”.
Tender esitò ancora un attimo, gli occhi spaventati corsero dal volto di
Daniel, a quello di Henry, a quello di Fergus, per tornare infine
sull’interlocutore.
“Ho altre armi nel magazzino” esito, “E merce di contrabbando, un
deposito sotto il pavimento. Spostate le casse nell’angolo a Nord e troverete
una botola per scendere. Ruby tiene le sue cose lì, forse ci sarà dell’altro”.
Daniel sorrise.
“Puoi spaccar la schiena dell’asino col bastone” citò portando in Lingua Alta
il verso di una filastrocca di bambini. “Ma
talvolta una carota è meglio di un
calcione”
Guardò Henry con fare di sfida e lui allargò gli occhi come se l’amico gli
avesse appena rifilato uno schiaffo; intorno al tavolo scese il silenzio e lo
stesso Daniel si pentì quasi subito di quella sua provocazione; ma ormai il
dato era stato lanciato…e poi l’importante era aver risolto la faccenda. Tutto
il resto si sarebbe potuto appianare in seguito.
63
15
Ripartirono il mattino dopo perché non c’era più ragione di trattenersi;
nelle sacche della sella di Henry si trovava al sicuro il registro dei messaggi
della compagnia di trasporto. Dietro al magazzino si erano imbattuti in una
piccionaia, e nel mucchio di rifiuti lì accanto avevano rinvenuto resti di
messaggi che erano stati bruciati con negligenza e che forse avrebbero
contribuito a dipanare meglio la matassa.
Nella sala sotterranea che Tender aveva indicato loro, invece, il bottino fu
molto più cospicuo: trovarono almeno dieci casse di merce di contrabbando
tra pistole, fucili e munizioni, insieme ad altre curiose armi simili a picche,
dalle punte spesse e traforate, fatte di un materiale leggero e lucido con
alcuni pulsanti alla base del manico. Naturalmente avrebbero dovuto essere
distrutte tutte, dalla prima all’ultima, Henry era stato estremamente chiaro su
questo ed aveva fatto un grosso sforzo per scacciare dalla mente il tarlo del
dubbio, l’eventualità che qualcuno dei notabili alla capitale, quando l’eco di
quella storia fosse giunto fin là, potesse decidere di tenerle magari per
armare un nuovo corpo di milizia.
Tutto il resto, edifici e merci ordinarie, sarebbe stato messo sotto
sequestro in attesa di decidere il da farsi, e per quanto riguardava i
prigionieri la giustizia di Gilead (nella persona di Henry) pretese che Ruby
Velasco venisse portato alla capitale per estorcergli le informazioni che
poteva ancora nascondere: poi sarebbe seguito il processo, e quasi
certamente la corda del boia lo avrebbe avuto prima che l’inverno avesse
termine. Tender sarebbe invece rimasto nelle prigioni dello sceriffo fino a
che non si fosse ristabilito, e poiché le sue colpe erano in qualche misura
minori Henry aveva accondisceso a che fosse un tribunale di Brea a
decretarne la sorte: l’uomo sperava in cuor suo che quel verme tremebondo
non scampasse alla forca che a suo modo di vedere si era così ben
guadagnata, anche se Fergus ed Henry si erano raccomandati con lo
sceriffo perché spendesse alcune parole in suo favore.
Non si era invece trovata traccia del sindaco Blossom: la governante non
aveva saputo dare indicazioni, ed alcuni funzionari al municipio riferirono
che questi si era assentato dal suo posto fin dal pomeriggio del giorno prima
senza che più nessuno lo vedesse in circolazione. Erano comunque rogne
che avrebbe dovuto grattarsi lo sceriffo, loro non potevano trattenersi oltre.
Il gruppo ripercorse speditamente la Grande Via, cavalcando ventre a
terra con la compagnia di un pallido sole che preannunciava con troppo
64
anticipo un autunno che avrebbe dovuto essere ancora in là da venire; la
notte li colse accampati tra le praterie sotto un cielo punteggiato di stelle, in
cui spiccava stagliandosi netta l’ultima falce della Luna Baciante.
Semicoricato, la schiena appoggiata alla sella, distante da due compagni
che erano stati fin troppo taciturni Henry sfogliava lentamente il registro
cifrato, scritto in un codice che almeno all’apparenza era simile a quello
utilizzato dai pistoleri per scambiarsi messaggi tramite piccioni viaggiatori;
non riusciva a leggerlo tuttavia, ad eccezione di qualche parola che
sembrava catturare la sua attenzione qua e là: il senso del tutto gli sfuggiva,
ma non aveva l’aria di uno scritto importante. Quale trafficante terrebbe
ordinatamente traccia dei suoi maneggi?
Si era appena deciso a darci un taglio quando avvertì la presenza di
qualcuno alle sue spalle, e un attimo dopo udì la voce di Fergus che cercava
un pretesto per il conciliabolo.
“Rubi il lavoro ai nostri sapienti Henry?”.
Il pistolero sorrise chiudendo il registro e riponendolo nella tasca interna
della giubba: riusciva a capire quando i suoi compagni volevano parlare di
qualcosa d’importante dallo stupido modo in cui giravano intorno
all’argomento. E credeva di conoscere il motivo del contendere.
Si sporse a gettare qualche ramo nel fuoco.
“Non c’è alcun lavoro da rubare, sembra un cifrario semplice: riesco
persino a leggere qualcosa e non sono certo la sapiente Nebi”.
“Aye, sapiente quanto vuoi, ma fredda come un crotalo ed altrettanto
antipatica dico io”.
L’uomo sorrise alla considerazione, con cui si trovava in verità
pienamente d’accordo.
“Pensi che lei sappia decifrarlo?”.
“Ne sono convinto, ti ho detto che sembra simile a quello che usiamo
noi”. Una pausa, durante la quale l’uomo spinse altra legna nel fuocherello.
“Allora, di cosa vuoi parlarmi?”.
A sua volta Fergus tacque per qualche momento.
“Ieri sei stato…” iniziò a dire, poi si corresse, “Ti sei comportato, beh…”.
Un’altra sospensione.
“Ci hai fatto paura, ecco” riuscì infine a dire.
“Pensi che quel verme di Tender meritasse i guanti di velluto?”. L’uomo si
sforzò di mantenere il tono calmo, ma l’osservazione gli provocò una
sferzata di fastidio.
“Tanto grosso eppure tanto vile, ed io trattandolo come si meritava vi ho
fatto paura, e magari anche disgusto già che ci siamo” rifletté guardandolo
dritto negli occhi. “Perché?”.
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“Perché eri diventato un criminale tu stesso”. La voce pungente di Daniel
li fece voltare entrambi. “Perché sei sceso al loro livello e questo non è il
ruolo di un magistrato”.
“Ecco chi si degna di rivolgermi nuovamente la parola!”. Henry sputò nel
fuoco. “Hai altro da dirmi, dopo avermi tenuto il broncio per tutto il giorno?”.
“Hai sottovalutato la situazione fin dall’inizio” rincarò. “Io dico, non ti
sembrava vero di poterti rimettere a sparare ai trafficanti di armi; ed
affanculo la prudenza, affanculo se qualcuno di noi ci rimaneva sotto, ed
affanculo se il sindaco se l’è filata e andrà a mettere in allarme i pesci
grossi!”
“Daniel…”. Fergus appoggiò una mano sulla spalla del compagno, questi
semplicemente se la scrollò via e l’uomo vide che aveva i pugni serrati di
collera trattenuta.
“Ho un pensiero che mi gira in questa testa fino da ieri, desidero
condividerlo con te e invoco il tuo perdono se sono in fallo, ma tu non volevi
cercare prove: tu ci speravi che succedesse, il casino che è successo,
perché volevi soltanto farli fuori tutti quanti senza nemmeno prenderti la
briga di imbastire un processo”.
Fergus si fece indietro con la mascella allentata di stupore, incapace di
credere a ciò che aveva appena sentito, ed avvampò di vergogna al posto
del compagno che aveva osato gettare un’accusa come quella; Henry dal
canto suo non poté fare a meno di abbassare gli occhi, ma fu soltanto un
attimo.
“I trafficanti di armi rappresentano in modo particolare una minaccia per
tutto ciò che noi abbiamo costruito…che l’Affiliazione ha costruito” recitò,
con il tono di chi si stesse preparando ad arringare un tribunale. L’uomo
sentiva freddo dentro.
“Prima ancora dei banditi o dei cospiratori; senza il trafficante, il bandito non
ha la possibilità di combattere al nostro stesso livello ed il cospiratore non
può armare contro di noi coloro che sobilla”.
“Non ne dubito, ma con tutto, tu non mi hai risposto”.
Fergus lo guardò implorante: voleva che tacesse, prima che potesse
succedere qualcosa di irreparabile, ma gli occhi di Daniel erano come pietre
dure.
“E so che non lo farai, ma permetti che io ti ricordi questo: noi siamo sul
campo, tu hai una missione da compiere ed è tuo dovere di uomo di legge,
prima ancora che di pistolero, compierla al meglio delle tue possibilità; ieri
non l’hai fatto e se l’irruenza, i colpi di testa, o il desiderio di vendetta erano
tollerabili quando eri giovane, ora che non lo sei più nemmeno loro debbono
più avere ragione d’essere in te.
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Non devi dimenticare chi sei” concluse allontanandosi. “Nemmeno se sono
state armi di contrabbando, portate da trafficanti, ad armare le mani di coloro
che ti hanno portato via Deirdre”.
“Non nominarla!” gridò Henry, la voce rimbombò nel silenzio notturno
della prateria. Fergus sussultò, ma Daniel rimase impassibile.
“Ti ho parlato dan-dinh di mia volontà e non ho paura di ciò che ti ho
detto. Avrei voluto farlo molto prima, quando già una volta ci hai quasi
portato a farci ammazzare”. L’espressione del pistolero si distese in un
accenno di sorriso.
“Me la portavo dentro da quasi dieci anni questa cosa. Da quando…” una
pausa, poi la Lingua Alta gli salì spontanea alle labbra come un fiotto di
vomito. “…da quando il giudice divenne aguzzino, esigendo vendetta con la
nostra complicità”.
“Ci fu un patto in quell’occasione…”.
La voce di Fergus suonò incerta. “Avevamo detto che non ne avremmo
più parlato per il bene di questo ka-tet”.
Daniel fece spallucce.
“Un patto col diavolo se mi è consentito, di cui io mi pento ancora oggi; e
mi ero ripromesso che se fosse successo ancora io non avrei più taciuto.
Vedere un amico che pianta una pallottola in testa a uomini inermi, legati,
imploranti, dopo averli a lungo torturati è una visione che non scorderò
finché avrò vita, e mi faccio schifo da solo per aver retto il sacco a questo
amico in quell’occasione”.
“Hai intenzione di denunciarmi al consiglio?”.
La voce di Henry era fredda.
“Vuoi denunciarmi perché in quell’occasione non sono stato giudice, ma
torturatore ed assassino a sangue freddo? Fallo ed io ti rimarrò amico anche
in questo caso”.
Daniel scosse il capo.
“Noi siamo uno da molti e non sarò certo io a spezzare questa unione.
Ma con tutto ti scongiuro, per l’amore di tuo padre…”. Daniel esitò. “…per
l’amore di Deirdre, non mettere il tuo cuore vicino alla tua mano. Mai più, io
prego, perché i nostri compiti sono troppo importanti da non ammettere
sconsideratezze o rischi calcolati nemmeno una volta”.
“Vite dipendono da noi” rincarò la dose Fergus. “Noi siamo la Mano del
Bianco, non dobbiamo mai dimenticarlo”.
Henry sospirò. Per la prima volta dopo tanto tempo provò il desiderio di
piangere.
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“Invoco il vostro perdono amici miei” si arrese mentre la gola gli si faceva
arida.
“Ed io il mio te lo concedo, ancora una volta” accomodò Daniel con voce
dura. “E spero che questo conciliabolo sia riuscito a gettare luce laddove
c’era buio. Faccio il primo turno” concluse alzandosi e spolverandosi le
ginocchia.
“Riposate se vi è caro, io vi chiamerò quando sarà ora”.
Fergus annuì, imitato in modo poco convinto da Henry; i due uomini si
coricarono nei giacigli mentre Daniel, amareggiato ed al tempo stesso
sollevato, sedette vicino al fuoco e si avvolse in una coperta mente le sue
dita cercavano e trovavano la sacchetta del tabacco.
Non si accorse che dall’oscurità della coperta Henry lo stava spiando con gli
occhi ora asciutti come sabbia: se piangere è una cosa che non aveva più
più fatto, da quel giorno sulla tomba di sua moglie, anche ammettere che
Daniel aveva colto nel segno con l’abilità di un tiratore scelto era una
confessione al di là delle sue capacità, e prima ancora della sua volontà.
Lo odiò per questo e se ne pentì allo stesso tempo, perché già sapeva
(senza bisogno di parole premurose a ricordarglielo) che c’era oscurità nel
fondo del suo cuore: non era poi così diverso dai malfattori che il Bianco
combatteva, nei suoi modi e nei suoi pensieri, ed anche questo lo sapeva fin
troppo bene.
68
16
Si separarono al bivio per Sheaf dopo tre giorni di viaggio in cui la
cavalcata era stata fredda ed i bivacchi silenziosi: né Fergus né Daniel
avevano molta voglia di andare a fare rapporto alle alte sfere della milizia,
così lasciarono fosse Henry a sbrigare tutto; e nemmeno al momento dei
saluti le parole spese furono molte, o particolarmente calde.
Lui dal canto suo li invidiò nel vederli ripartire per Sheaf, dove entrambi
avevano case e famiglie ad aspettarli, e si incamminò al passo soltanto
quando i loro cavalli furono scomparsi del tutto oltre la svolta della strada
tirandosi dietro il mulo su cui montava il prigioniero.
“Andiamo, sacco di merda”. Strattonò il mulo
“Stasera potrai sgranchirti le gambe in una cella, ed è per questo che ti
consiglio di respirare a fondo quest’aria pura!”.
L’uomo sorrise. “La mia parola in pegno, sarà l’ultima volta che potrai farlo”.
“Tu sei un hombre muy malo, un uomo cattivo”. Henry si stupì di ricevere
risposta. “Che cosa ti hanno fatto?”.
“Chiudi la bocca o ti taglio la lingua” lo redarguì ma la pausa fu di
nemmeno cinquanta iarde.
“Ti è morto qualcuno in questa guerra, jerife, ho sentito che ne parlavi al
tuo amico; ay que barbaridàd!”. Lo senti sghignazzare alle sue spalle, un
rumore veloce, liquido, e la sua vista si tinse di rosso: prima che potesse
rendersene conto si era girato e la pistola gli era comparsa in mano, puntata
alla fronte bendata del prigioniero; che la mano che la reggeva tremasse
non era poi un dettaglio così rilevante, da quella distanza non l’avrebbe di
certo mancato.
L’uomo si bloccò con gli occhi spalancati a metà della sua allegria, e fissò la
canna puntata con aria di sfida.
“Cosa aspetti?”. Henry inghiottì a vuoto e alzò il cane.
“Avanti jerife, fallo, so che lo vuoi; chi è che ti è morto? Una donna forse?”.
“Se vuoi vivere fino a stasera, ti consiglio di non parlare più” scandì,
l’altro non sembrò essere particolarmente intimorito dalla minaccia.
“Io sono già morto, sono soltanto un altro caduto in guerra; tu puoi renderlo
soltanto più veloce, ma io morirò in ogni caso”.
Già, era quello che voleva: una morte rapida e per qualche momento, anche
se avrebbe significato fargli un favore, meditò seriamente di concedergliela.
Poi qualcosa (che non poteva proprio essere la voce della ragione) gli fece
abbassare l’arma; c’era un altro modo per farlo stare zitto, in fin dei conti.
“Sei proprio un codardo, hombre” insistette, per tutta risposta Henry
smontò, prese lo straccio che usava per pulire il fucile e glielo ficcò in bocca
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senza troppi complimenti, e quando l’altro provò a divincolarsi lo calmò
all’istante con una bella botta in testa.
“Tanto per non cedere alla tentazione, sacco di merda” commentò
risalendo in sella, e stavolta le occhiate ed i mugolii rabbiosi dell’uomo lo
gratificarono più che se avesse premuto il grilletto.
“Sei troppo prezioso per crepare adesso, ma morirai comunque, e non
sarà da caduto in guerra”. Henry sogghignò mentre realizzava che cos’era
stato a fermarlo: il tocco leggero di una mano piccola e abbronzata, l’eco di
una voce, la parvenza di un profumo che si erano affacciati all’improvviso
dietro l’angolo della mente e se n’erano andati subito lasciandosi dietro una
sensazione che conosceva bene.
“Creperai come l’insetto schifoso che sei, e adesso reggiti forte perché il
giorno invecchia”.
Senza aggiungere altro spronò il cavallo ad un passo più lesto tirandosi
dietro il mulo che arrancava ragliando; poco prima dell’imbrunire arrivò in
vista delle mura ed attraversò la città bassa dai cancelli della porta Sud fino
alla rocca, preso da un’urgenza dolorosa che durante le ultime ruote di
strada non aveva fatto altro che crescere.
Il quartier generale della milizia non era distante dal palazzo del
borgomastro e fu un sollievo ugualmente amaro tirare giù di sella il
prigioniero, stordito e quasi strozzato, e affidarlo alla consegna dell’ufficiale
di giornata.
Per tornare alla tenuta, l’unico posto dove volesse andare in quel
momento, avrebbe dovuto attraversare la rocca e imboccare la pista dalla
porta Settentrionale. E il cimitero gentilizio era proprio sulla stessa strada.
17
La loro stanza da letto a secondo piano della casa colonica era rimasta
proprio come allora, con i suoi vestiti nel guardaroba, il catino e la brocca in
un angolo, ed un vaso di ortensie secche sul davanzale della finestra:
avevano perso ogni colore da anni, ma sui gambi recisi c’era ancora il suo
tocco.
Le ortensie, i quadri, il letto, i ninnoli: tutti facevano parte del suo tesoro di
memorie dolorose e non passava giorno che lui non sostasse davanti alla
porta chiusa per ricordarla; per contro non era più venuto al cimitero da
quando era stata sepolta, e di sicuro anche questo aveva contribuito a farlo
scadere nella considerazione dei notabili: ma allo stato in cui erano le cose
la considerazione altrui aveva per lui lo stesso valore della carta da latrina.
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In verità ci aveva provato qualche volta, ma anche soltanto avvicinarsi a
quel posto lo faceva stare male: perché era lì che adesso abitavano sua
moglie ed il suo bambino mai nato, in una cassa di legno laccato oramai
marcito, a loro volta divorati dai vermi.
Non riusciva a concepire né tantomeno ad accettare fino in fondo l’idea di
questa sorte e per questo non l’aveva visitata nemmeno una volta da
quando la terra era stata richiusa, preferendo ricordarla davanti alla porta
impolverata della loro stanza da letto.
Quella sera invece sentì che doveva vederla, ed il custode del cimitero fu
davvero stupito nel vedere un uomo dall’aspetto di brigante che voleva
essere indirizzato alla tomba di Deirdre Guillon in Deschain.
“Moglie mia, ti vedo. Scusami se non sono venuto prima”.
Henry, il cappello tra le mani, guardò la lapide mentre il cuore gli
martellava nelle tempie con un ritmo rabbioso; la cappella funeraria della
sua famiglia era un emiciclo di colonne che reggevano una piccola cupola di
marmo, le tombe erano scavate nella terra perché così aveva voluto il suo
trisavolo Ambrose Deschain quando aveva spostato il mausoleo dalla città
d’origine della loro casata, Debaria, alla capitale.
Quando i becchini avevano preparato la fossa di Deirdre avevano avuto
molto spazio per scavare, dato che di molti degli antenati più antichi erano
rimaste soltanto le targhe commemorative piantate in file ordinate nel
terreno. E poi la casata non era mai stata troppo prolifica: era stata Deirdre a
volere a tutti i costi Steven ed il suo fratello mai nato, ricordò con una fitta di
rimpianto inconsolabile, e fu in quel momento che i suoi occhi iniziarono a
buttare acqua.
Henry Deschain cadde in ginocchio davanti alla lapide di sua moglie e di
suo figlio: qualcosa gli suggerì che lei non era realmente lì sotto, lei era da
Gan adesso, o dalla Torre, dappertutto in ogni caso e si era mostrata a lui
quello stesso giorno quando era stato a tanto così dall’ammazzare sul posto
il suo prigioniero impedendogli di dimenticare definitivamente il volto di suo
padre.
Affondò le dita nella terra e la chiamò sottovoce respirando odore di muschio
a cui si mescolava, vago ma inconfondibile, il sentore del suo profumo.
E io vedo te marito mio.
Oh si, stava davvero diventando pazzo, anzi probabilmente lo era già ed
il destino dei pazzi è lo stesso degli scartati: vengono spediti ad Ovest e lui
come magistrato ne aveva condannati parecchi a questa sorte. Ma pazzia o
non pazzia in quel momento la vide oltre il velo delle lacrime, nel vestito che
indossava quella mattina maledetta e dentro il quale sarebbe morta mentre
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lui era lontano: un vestito da contadina, perché a lei era sempre piaciuto
lavorare insieme ai braccianti della tenuta ed occuparsi della loro terra.
“Cosa devo fare Deirdre?”.
Ciò che è giusto marito mio. Tu sai cosa devi fare.
Nella sua mente lei lo guardò triste e distante e lui sentì le lacrime
ritirarsi, ma non provò vergogna per avere ceduto.
“Devo darti la pace moglie mia, e davanti a Dio, davanti a tutti gli dei, io lo
farò”. Ma nessuno rispose più e Henry seppe che lei non era più lì, che era
tornata ad essere un doppio corpo marcito quando nel rialzarsi respirò
soltanto odore di muschio e di terra.
Era andata, se mai ci fosse stata davvero, ma ricordarla gli aveva fatto bene;
sfilò dai passanti del cinturone un bossolo e lo appoggiò sulla testata di
marmo della tomba.
“Tornerò a prenderlo quando tutto sarà finito” dichiarò in tono affettuoso, poi
avvertì un calpestio di stivali nel suo angolo cieco.
“Sai, il cimitero dovrebbe chiudere…”. Henry si girò ed inquadrò con un
momento di ritardo il custode nel cerchio di luce della sua fiaccola, e non gli
sfuggì lo sguardo che aveva: quello che si rivolgerebbe ad uno che non ha
tutte le rotelle a posto, tuttavia bastò che gli facesse scivolare in mano
alcune monete d’argento per vederlo mutare con rapidità (e dal canto suo, il
becchino si augurò che di matti così generosi nel suo cimitero ne capitasse
almeno uno al giorno).
Mezz’ora dopo Henry scendeva al trotto la salita fortificata della rocca, ed
attraversati gli ultimi sobborghi già deserti si gettava ventre a terra sulla pista
del Saroni.
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Colpo di mano
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74
1
Gilead si prepara in anticipo all’inverno, poiché l’autunno è appena
iniziato ed il freddo è già troppo intenso per essere normale.
I campi dove il grano ed il frumento erano stati mietuti a Piena Terra
vengono messi a maggese, i resti delle spighe bruciati in falò che diffondono
pennacchi di fumo verso un cielo ancora luminoso: e quando i fuochi
smetteranno di bruciare la terra verrà vangata con la cenere perché si
mantenga fertile.
Nei cascinali e nelle fattorie il grano battuto sotto la Luna Baciante viene
messo a seccare e sistemato in cannicci dalle donne al lavoro nelle aie e nei
cortili, simili da lontano a tante papere variopinte con le loro gonne gonfie ed
i capelli raccolti nei foulard, mentre nei terreni che avevano riposato si dà
inizio all’aratura: uomini in maniche di camicia spingono i vomeri al seguito
dei traini di buoi, cavalli o muli a rivoltare la terra nera dei campi della
Baronia; sotto la Luna dell’Ambulante, dal secondo quarto in avanti, si
seminerà poi per l’anno venturo confidando nei buoni auspici che vengono
dal sacco ricolmo dell’uomo sull’astro.
L’ultima farina rimasta sul fondo dei sacchi viene consumata insieme alle
verdure rimaste dall’anno vecchio: pani alle cipolle ed alle noci, minestre di
fagioli e pomodori diffondono dalle tavole della gente i loro profumi nell’aria
che si fa giorno dopo giorno più fredda; negli orti e nei giardini si raccolgono
i cardi e le prime zucche mentre nei grandi frutteti della Baronia le pere e le
mele sono turgide sui rami piegati sotto il loro stesso peso. Nei fienili i covoni
di paglia lasciati a seccare vengono ritirati insieme alle provviste di foraggio
per l’inverno, e nei recinti i maiali ed i vitelli iniziano a languire dopo la loro
ultima estate in attesa della mannaia del macellaio.
Gilead si prepara all’inverno in un mondo che sta ancora andando avanti,
crescendo figli che in gran numero non vedranno mai la vecchiaia,
godendosi torpida le sue ultime decadi di pace prima dell’annientamento.
2
Il padiglione delle udienze al municipio di Gilead era una sala
semicircolare ampia, polverosa e fredda: i gradoni erano occupati da seggi
di legno, o panche nella parte più arretrata, tutti rivolti verso un lungo tavolo
laccato su un piccolo palco al centro del salone. Lì era dove il consesso
amministrativo si raccoglieva in occasione delle riunioni più importanti,
insieme talvolta ai notabili ed al folken più in vista; ma le riunioni, da qualche
tempo a quella parte, si erano fatte rare: il Consiglio dell’Affiliazione, che di
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fatto aveva preso le redini del potere, preferiva governare dalla rocca
fortificata dopo aver esautorato di ogni potere l’autorità cittadina ordinaria e
tenere le sue riunioni alla Sala degli Avi più ampia e solenne; così avveniva
nel tempo di guerra, ed a quanto pare lo stato di belligeranza perdurava da
almeno una decade .
Lampadine a filamento, quasi una rarità coi tempi che correvano, erano
installate dentro coppe di vetro ad intervalli regolari sul muro, inframmezzate
da dipinti e busti di persone importanti che ormai dovevano essere polvere
da generazioni: molte erano bruciate da tempo e non esistevano più ricambi
per rimpiazzarle, ma le poche superstiti erano accese ed accolsero col loro
brillare vigoroso l’entrata dei tre pistoleri nella sala, i cappelli in mano
accostati al petto, le armi nelle fondine ed i bagagli in spalla. Era passata
appena una settimana dal loro rientro, e di nuovo i tre uomini erano preparati
ad una partenza immediata.
A riceverli trovarono il podestà, la sapiente, il comandante della milizia e
alcuni membri del consiglio dell’Affiliazione: Mischief, Lafferty, Deloessian,
Vaughn erano nomi e volti ben familiari ad Henry, in misura minore a Fergus
e Daniel meno addentro la vita politica della capitale. In tutto sette uomini ed
una donna li squadravano aspettandosi, come sempre ci si attende dai
pistoleri d’esperienza, il meglio per qualsiasi cosa decidessero di chieder
loro.
“Lunghi giorni” li salutò il sindaco con fare pomposo non appena
entrarono. “Lunghi giorni e piacevoli notti a voi, pistoleri”.
“E due volte a te sai” rispose Henry in tono decisamente più sbrigativo,
“Anche se temo che le nostre notti di qui in avanti si faranno tutto meno che
piacevoli”.
“Dici il vero magistrato: avrete poco tempo d’ora innanzi per riposare”.
L’istitutrice prese la parola con piglio autoritario, occhi si girarono a
puntarla.
“Il contenuto dei messaggi cifrati che avete recato è di grande importanza”
riprese. “Anche se poco si è potuto decifrare io desidero realmente
congratularmi con voi per questo ritrovamento così importante”.
“Dunque cos’hai scoperto?”.
La voce di Daniel era impaziente; la donna, che quasi stava indulgendo
in un lieve sorriso, serrò immediatamente le labbra in una sottile smorfia di
disappunto a quell’intromissione troppo diretta avvenuta senza i preamboli
del protocollo. Henry scoccò un’occhiata all’amico, che si accontentò di
ricambiare con un’alzata si sopracciglia.
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“Quanto basta per spedirvi subito in caccia: il che non penso sia un male
dal punto di vista di…individui che si trovano a loro agio soltanto tra le
scariche di fucileria ed il puzzo di uomini e cavalli”.
Dal modo in cui lo videro allargare gli occhi, Fergus ed Henry si
aspettarono che l’amico tirasse fuori la pistola e la facesse secca sul posto;
a parere di Fergus non sarebbe nemmeno stata una cattiva idea, tuttavia
l’uomo colse l’occhiata di Henry e convenne con lui che non potevano
proprio lasciarglielo fare.
“Ah, sai Johns, irruente come tutti gli uomini d’azione che si rispettino!”.
L’uomo sorrise con fare da imbonitore, passò un braccio intorno alle spalle
di Daniel e gli diede una scrollata, e quando lui fece per dire la sua Henry lo
tacitò con una seconda e più severa occhiata.
“Gli faremmo tuttavia torto se non gli riconoscessimo anche perspicacia
ed acume, io penso, e…”. L’istitutrice interruppe quel tentativo di diplomazia
goliardica tacitandolo con un gesto della mano, come a voler scacciare una
mosca moderatamente fastidiosa, e fu lui adesso a mordersi la lingua.
Quanto detestava le assemblee.
Jacob Lafferty si schiarì la voce con fare imbarazzato ottenendo di
attirare su di sé l’attenzione di tutti; comandante in capo della milizia di
Gilead, era un uomo anziano dai modi spicci che aveva l’aria di trovarsi fuori
posto in una situazione del genere non meno dei due compagni del
magistrato.
“Se mi è concesso di prendere la parola…”.
“Stavamo giusto chiedendoci quando ci avreste ragguagliato, sai
Lafferty”. Se non fosse che il suo grembo era già secco prima ancora che lui
si sposasse, Fergus ritenne che quella mattina Nebi doveva proprio avere le
sue lune. Il comandante tormentò il gemello della sua uniforme abbassando
un attimo lo sguardo prima di riposizionarlo da qualche parte tra i seggi
intorno al tavolo.
“Sapevamo che le piste di confine erano attraversate da carichi di
contrabbando a cadenza regolare, almeno da quando le voci delle ribellioni
nelle Baronie settentrionali si sono rivelate fondate; poche volte i nostri
controlli ai posti di frontiera hanno dato risultati”. L’uomo sembrò in qualche
modo imbarazzato.
“Le informazioni che abbiamo potuto ottenere dal prigioniero, tuttavia, ci
hanno permesso di gettare una nuova luce sulla vicenda, oltre che costituire
schiaccianti prove a suo carico nell’accusa che è stata sostenuta contro di
lui a processo”. Daniel si morse la lingua per trattenere un’altra osservazione
pungente, ma l’occhiata che scambiò con Fergus gli fece intendere che
anche lui aveva afferrato per la coda lo stesso pensiero: di certo
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nell’ottenere la confessione erano state coinvolte pinze roventi e ruote di
argano in uguale misura, e quella era una consuetudine che entrambi non
erano mai riusciti ad accettare, dal loro dinh né tantomeno dall’autorità che
servivano.
“Brea doveva essere un punto di passaggio stabilito di recente, una
nuova base di operazioni, forse per abbreviare i passaggi attraverso le piste
di confine”.
“Dove gli unici a controllare sono i soldati delle guarnigioni…” osservò
Henry.
“…che fanno il possibile, certo, per controllare i loro territori” aggiunse
rapidamente Fergus, “Ma col fatto che gran parte delle nostre forze sono
distaccate presso gli alleati dell’Arco Esterno non possiamo chieder loro
l’impossibile”.
“Storie!” saltò su uno dei pistoleri del consiglio, Leonard Mischief, che a
tutti e tre era ben familiare: meno di due mesi prima il suo unico figlio era
stato ritrovato morto in un boschetto poco oltre la discesa della rocca,
all’imbocco della Via dell’Ovest; l’uomo non se ne era ancora ripreso,
complice il fatto che il presunto responsabile (un apprendista fallito che si
chiamava Eldred Jonas, se ben ricordava, scacciato la sera stessa
dell’omicidio) non era ancora stato assicurato alla giustizia.
“Se i nostri soldati facessero meglio il loro dovere a quest’ora avremmo
già acciuffato e impiccato lo scartato che ha ucciso mio figlio; la vostra
milizia dorme, sai Lafferty!”.
Il comandante della milizia si ritrasse come schiaffeggiato: la pelle delle
guance, di colore giallastro come carta da parati invecchiata, avvampò di
nuovo colore.
“Non vi permetto!” vociò a sua volta in tono acuto. “La dolorosa perdita di
suo figlio non deve dare a sai Mischief il permesso di calunniare la milizia!”.
L’uomo sbatté una mano sul tavolo, con scarsa convinzione tuttavia,
dopo la fiammata di sdegno iniziale mentre l’altro gli rivolgeva uno sguardo
truce. Fergus e Daniel dal canto loro si scambiarono un’occhiata sorniona: la
situazione aveva perso rapidamente molta della forma iniziale,
trasformandosi rapidamente in un convivio di matti, e probabilmente
entrambi si chiedevano quando sarebbero iniziate a volare le pallottole.
“Signori, vi prego” si insinuò il sindaco, anch’egli poco convinto nel fare
da paciere, mentre Nebi faceva vagare lo sguardo in giro per la sala con la
rapidità di un gatto impazzito.
Henry sospirò.
“Sono sicuro che sai Mischief non intendeva portare alcun oltraggio, né
insinuare che i soldati della milizia abbiano dimenticato i volti dei loro padri”.
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Il magistrato assunse il suo tipico tono da tribunale, lui per primo per nulla
convinto di quanto stava dicendo: fatti salvi pochi reparti la milizia di Gilead
non era altro che una manica di scansafatiche dalla mira tremula buoni solo
a fare numero. Lo sapeva lui e probabilmente lo sapeva anche il
comandante Lafferty: l’unica vera forza di Gilead, gli unici uomini realmente
preparati ed addestrati, erano i pistoleri dal numero sempre più esiguo.
Alle sue parole, comunque, i due contendenti sembrarono rilassare un
poco le espressioni. Il sindaco esalò un piccolo sospiro.
“Prenderemo l’uccisore di Douglas, capitano, amico mio” riprese
guardando dritto negli occhi quel pistolero che conosceva bene. “Lo
prenderemo e faremo giustizia, me ne faccio garante io. Ma qui, ed ora, non
possiamo discutere di questo: abbiamo per le mani questioni il cui dipanarsi
potrebbe interessare tutto il Medio-Mondo, ed io ritengo che esse debbano
essere trattate con la massima urgenza”.
Henry si sentì puntati addosso gli occhi di tutti e con la coda dell’occhio
distinse un mezzo sorriso sulla faccia di Fergus. Gli hai fatto ‘Castelli’,
camerata! sembrava dire.
“Sta bene” concesse l’altro, ritrattando dopo un breve silenzio.
“Sai Lafferty, invoco il vostro perdono per ciò che ho detto”.
Il comandante della milizia abbozzò un cenno di assenso, le guance che
tornavano gradualmente al colore della cartapecora. Si schiarì, di nuovo, la
voce.
“Come stavo dicendo, è nostra delibera unanime che il traffico sul
territorio della Baronia venga stroncato a qualsiasi costo: non sappiamo
quali e quante reliquie siano già state fatte passare e Gilead non vuole avere
ulteriori responsabilità sulle spalle”.
Daniel considerò che ci aveva preso proprio in pieno: tutto ciò che importava
al consiglio era non avere patate bollenti per le mani, e sospettava che
sollevare obiezioni in merito sarebbe stato interpretato come un altro gesto
di sterile polemica.
“Alcuni dei nostri uomini ai posti di frontiera erano in contatto con i
trafficanti di Brea” riprese l’istitutrice. “È inutile dire che abbiamo già fatto
giustizia dei traditori, ma alcuni trasporti sono riusciti lo stesso a passare la
dogana come il vostro prigioniero ci ha confermato, e come i messaggi cifrati
hanno testimoniato: avrebbero dovuto puntare verso Brea, il loro itinerario è
stato cambiato proprio nella speranza di sfuggire ai nostri controlli”.
“Li abbiamo comunque già identificati” si affrettò ad aggiungere Lafferty.
“Ci sono stati segnalati meno di una settimana fa dalla stazione di posta a
Jewell, e se non è certo un fatto eccezionale che dei Mejiti conducano carri
sulle nostre piste, è sufficientemente peculiare da poter permettere ai nostri
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esploratori di tenerli d’occhio da lontano. Secondo gli ultimi rapporti alcuni
stanno procedendo lungo le piste delle miniere ed altri verso il confine, sulla
via di Taunton e Debaria: pensiamo che vogliano uscire dalla Baronia
attraverso il Valico dell’Uomo Morto e le paludi, proprio là dove la frontiera
non è che una linea tracciata sulla carta”.
L’uomo fece una pausa e si umettò le labbra con un guizzo nervoso di
lingua.
“Come possono pensare di far passare dei carri attraverso le paludi?
Esistono poche piste sicure, e sono tutte presidiate”. Nebi squadrò Daniel
con un sorriso di superiorità.
“Avete dimenticato la Strada degli Antichi, sai Johns”.
“Che per quanto ne sappiamo è interrotta da una sottilità” si intromise
Fergus, lei annuì.
“Nonché quasi interamente sul territorio di Aradia, dunque sottoposta alla
sua sovranità ed al suo controllo; ed i nostri vicini non sono mai stati troppo
solerti nel presidiare le loro frontiere”.
“Se si muovono da quella parte devono aver trovato un passaggio sicuro,
Daniel”. Henry sentì un muscolo guizzare sulla guancia.
“Anche i Calvi sono sempre stati considerati impraticabili a Nord di
Chisholm, fino a vent’anni fa non c’erano altri valichi segnati che li
attraversassero; abbiamo dovuto scoprire a nostre spese che non era così”.
Avvertì il tocco di Fergus sulla spalla mente il ricordo si faceva sentire
nuovamente con una fitta di dolore stantio: da lì erano venuti i masnadieri
che gli avevano portato via Deirdre, quando nella vicina Baronia c’era la
guerra civile, e il fatto che a suo tempo in molti avessero fatto atti di colpa e
si fossero affrettati a fortificare il nuovo passaggio non gliel’avrebbe certo
riportata indietro. Era stata soltanto un’altra negligenza, ed in
quell’occasione era toccato a lui pagare.
La mano dell’amico si sollevò dopo un attimo.
“Di cosa parlava il registro?” indagò, Nebi si strinse nelle spalle.
“Non era che un diario, sai Allgood, dal contenuto di scarsa importanza,
come quello che talvolta tengono gli uomini molto lontani da casa per
scacciare la nostalgia. Risparmio alle vostre orecchie i dettagli scabrosi di
ciò che quell’individuo avrebbe voluto fare alla sua donna quando fosse
tornato a casa. Non potrà più farlo in ogni caso”. Il sorriso dell’istitutrice si
allargò e quello di Henry fece seguito prima che l’anziano cancelliere
Vaughn prendesse a sua volta la parola.
“Se non c’è altro, ora vorremmo congedarvi”. L’uomo li guardò uno per
uno soffermandosi sui volti e sui cappellacci per il tempo che ritenne
necessario a dare il giusto peso alle sue parole. “Pistoleri, avrete dalla
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milizia tutto l’appoggio che riterrete necessario e potrete agire nei modi che
riterrete più opportuni. Non deludeteci”.
Henry annuì e chinò il capo in un cenno ugualmente solenne ed
altrettanto fuori posto; quando rialzò lo sguardo ciò che Fergus e Daniel
videro nel fondo dei suoi occhi, arrossati dall’alcool bevuto in giorni di
solitudine, non piacque loro nemmeno un po’: senza tema di sbagliarsi era lo
stesso demone che avevano veduto agitarsi un giorno di dieci anni prima,
quando quell’uomo così retto era caduto tanto in basso da scavare un
cratere profondo un miglio.
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“Solo perché quella baldracca è l’istitutrice dei nostri giovani non significa
che può trattare tutti quanti come merda di buoi” sbottò Daniel. Erano
appena usciti, e l’uomo si sentiva in parti uguali frustrato e deluso.
“Non dovresti parlare così” replicò Fergus in tono conciliante, “Sai com’è
fatta quella gente, e Nebi è una donna di molte qualità: sa più cose lei di noi
due messi assieme”.
“Ciò non toglie che a parer mio sia soltanto una arrogante baldracca, e
sono felice di non aver fatto il politico”.
L’uomo si girò verso Henry aspettandosi che dicesse qualcosa, ma vide il
suo dinh camminare a testa bassa, le mani agganciate distrattamente al
cinturone, la fronte aggrottata a rimuginare chissà cosa. E lo stesso bagliore
oscuro di prima negli occhi.
“Lascialo perdere quello” rincarò. “Non vedi? È come un levriero che
sente la volpe, e non vede l’ora di buttarsi in caccia per stanarla”.
Fergus gli diede una gomitata aspettandosi come minimo uno scoppio
d’ira da parte dell’amico rimasto in silenzio. Ma non accadde nulla.
I tre uomini discesero lentamente la viuzza che dal municipio sbucava sulla
strada per la rocca, diretti verso la caserma della milizia presso il posto di
presidio esterno della cittadella; oltre il bordo del parapetto, alla base della
collina, la città bassa era una distesa fosca di tetti e comignoli fumiganti che
si allargava in tutte le direzioni, interrotta solo dalle mura esterne, ospitando i
quasi quarantamila abitanti della capitale.
Anche tutta quella gente, da loro, si aspettava il meglio.
“Io andrò ai Calvi” dichiarò Henry, indicando con il dito sulla carta
geografica militare distesa sul tavolaccio della guarnigione. “Voi bloccherete
i carichi sulla pista delle paludi, dovrebbe essere la parte del lavoro più
facile…”.
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“Com’è che rifili sempre a noi il ‘lavoro più facile’?”.
Henry si accigliò: non era una semplice punzecchiatura, quella che
veniva dall’amico; c’era acredine nella sua voce e l’uomo aveva la
sensazione, ad ogni nuovo conciliabolo, ad ogni nuova occasione di parlare,
che qualcosa tra loro si fosse rotto irrimediabilmente.
Fergus dal canto suo non disse nulla, accontentandosi di appoggiarsi al
tavolaccio con il palmo delle mani; fuori dalla caserma della milizia,
malgrado fosse solo il primo pomeriggio, l’aria si era fatta scura e nel cielo si
accavallavano nubi cariche di pioggia.
“Perché in questo modo ve la sbrigherete rapidamente e potrete venire a
darmi una mano, se necessario”.
“Credi di non saper gestire dei semplici trafficanti?”.
“Il problema è un altro” dichiarò pacatamente. “Sono andato a conferire
con Nebi, prima, da solo a solo, e lei è convinta che a Galloway ci sia gente
che la sa lunga su questo traffico”.
L’uomo guardò qualcosa sul muro alle spalle dell’amico. “Per questo motivo
potrebbe essere necessario mettere il blocco alla città”.
Fergus allargò appena gli occhi, Daniel fu molto meno diplomatico.
“Tu sei pazzo, non puoi volere una cosa del genere! Te l’ha data quella
bisbetica, l’imbeccata per un tale colpo di genio?”.
“Nebi è una donna che sa quello che fa” rispose docile il pistolero. “E mi
ha fatto capire che il Consiglio potrebbe trovare accettabile un gesto del
genere”.
“Sarebbe accettabile dare l’avvio ad una guerra? Morte e dannazione!”.
L’uomo sbatté il pugno sul tavolo facendo trasalire Fergus, ma Henry non
sembrò essere particolarmente impressionato dalla sfuriata.
“Voglio solo evitare che altri pesci possano sgusciarci via dalle dita come è
successo col sindaco di Meadowgrain” tagliò corto. “E un blocco discreto
provocherà irritazione, non certo una guerra”. Daniel scosse la testa
borbottando qualcosa di incomprensibile.
“Quanti uomini prenderemo?”. Fergus ritenne opportuno deviare il
discorso.
“Sessanta soldati saranno più che sufficienti; ce li divideremo, il grosso
verrà con me, voi avrete comunque una scorta più che sufficiente a
garantirvi le spalle coperte”.
L’uomo fece una pausa.
“Vi chiedo di fidarvi di me come avete sempre fatto” aggiunse dopo poco.
“Io vi vedo molto bene, e voi?”. Poco convinto, Fergus annuì.
“Daniel?”.
Il pistolero lo fissò con occhi sconsolati.
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“Daccene motivo, amico mio, dacci motivo per fidarci e per vederti con
chiarezza, e noi saremo con te come ai vecchi tempi”.
Henry si sentì stringere il cuore: sentiva quei due uomini distanti come
non mai, tuttavia accennò un sorriso.
“Ve lo prometto amici miei, non farò nulla di avventato: non metterò più il
mio cuore vicino alla mia mano, questo posso promettervelo”.
Ma era lui il primo a non crederci, in quello che diceva; e vedendo gli
sguardi che i compagni gli rivolgevano seppe che nemmeno loro l’avevano
bevuta fino in fondo.
Come stabilito presero commiato quella sera.
Mentre Fergus e Daniel con l’appoggio di una piccola scorta si sarebbero
mossi ad intercettare le carovane sulla Via dell’Ovest, Henry si mosse con il
gruppo più numeroso verso il valico sui Monti Calvi per attendere al varco la
terza carovana che, stando agli ultimi messaggi, aveva superato Gilead più
a Nord ed ora stava muovendosi lentamente lungo la pista dei villaggi
minerari. L’uomo non l’avrebbe mai confessato ma, mentre cavalcava alla
testa dei suoi uomini, era insieme grato e spaventato dalla consapevolezza
di poter agire realmente come avrebbe ritenuto più opportuno. Senza avere
le mani legate dalla presenza dei suoi compagni.
Oh si, qualcosa si era seriamente incrinato tra loro per indurgli pensieri
del genere: poteva essere accaduto al bivacco, ma più probabilmente era
successo una decade addietro e da allora la loro amicizia era stato un
motore dagli ingranaggi rotti che aveva iniziato solo ora a rallentare. Se ne
doleva l’uomo, si rammaricava di come trovasse facile mentire loro
rassicurandoli sui suoi intenti; ma in fondo ognuno ha i suoi demoni con cui
venire a patti: ed il suo si chiamava Deirdre, una rosa in fiore strappata
troppo presto nello splendore dei suoi vent’anni. Loro non l’avrebbero mai
capito, rifletteva, e pur dolendosene sapeva esattamente cosa fare.
Superarono Hendrickson due giorni dopo, lasciandosi rapidamente alle
spalle le prime propaggini dei Calvi lungo una pista tortuosa e piena di
polvere che si snodava tra i colli rocciosi bucherellati dalle miniere e gli
squallidi insediamenti dei minatori; all’indomani del quinto giorno lo
squadrone dava la scalata al valico dell’Uomo Morto e la sera stessa gli
uomini erano attestati sul passo. Da lì in poi non si trattò che di aspettare.
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4
La pista delle montagne era poco trafficata nei mesi che precedevano
l’inverno, per non dire del tutto deserta: il ghiaccio si formava presto al valico
ed il terreno infido era l’ideale perché un cavallo da tiro o un bue si
spaccassero una zampa; e non era nemmeno così raro che qualcuno
volasse direttamente giù per la montagna, fracassandosi le ossa in fondo a
qualche precipizio oppure finendo inghiottito nella corrente del Lys sul
versante che scendeva verso Aradia.
La carovana dei contrabbandieri si fece attendere ancora un paio di
giorni durante i quali gli uomini, appostati come briganti tra le rocce del
passo, si videro sfilare sotto il naso solo pochi sparuti carrozzini e branchi di
bestiame condotti a valle dai pastori per riparare dal freddo.
Poi una mattina, dopo una notte di neve precoce, nelle lenti del binocolo
di Henry (una delle poche reliquie degli Antichi che era lecito utilizzare)
apparve a fondovalle la preda tanto attesa: tre carri trainati da buoi
accompagnati da uomini a cavallo, ne contò sei o sette in tutto, armati chi di
arco e frecce, chi di vecchi schioppi dalla canna ad imbuto sulla cui efficacia
ci sarebbe stato di che scommettere; non c’era invece da dubitare sul fatto
che il prezioso boccone fosse alfine arrivato, ma in caso contrario ci sarebbe
sempre stato tempo per chiedere scusa.
L’uomo osservò ancora qualche momento la carovana che s’inerpicava,
sdraiato tra le rocce col sole alle spalle, poi con cautela quasi ingiustificata
strisciò nuovamente al coperto e si mise a tracolla il fucile che aveva
poggiato a terra. Avrebbe disposto i suoi uomini in modo da minimizzare i
loro rischi; quanto a lui, si sarebbe messo come sempre in prima linea.
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I carri salivano lenti, scricchiolando sugli assali gravati dal peso di un
carico eccessivo. Allargati a ventaglio tutto intorno alla colonna c’erano sette
uomini delle Baronie sul Mar Lindo (come del resto tutti coloro che
trafficavano in quella parte dell’Arco Interno), forse male in arnese ma non
certo innocui: tre di loro portavano archi con la freccia già incoccata, e
piccole lance di ferro affastellate alla sella; altri avevano vecchie escopetas
a colpo doppio, archibugi e spingardini portati a bandoliera, tutti quanti a
modo loro micidiali malgrado l’aspetto arcaico. E le grinte sui loro brutti musi
color terracotta, le labbra tirate ad increspare barbe e mustacchi, gli occhi
arrossati, mobili e attenti sotto i sombreros erano la spia dell’atteggiamento
di uomini che prendono molto sul serio il loro lavoro.
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Il capo carovana si fermò ad un tornante della pista innevata, poco sotto
l’apertura del valico, per attendere gli altri carri che aveva lievemente
distaccato; l’uomo si strofinò le mani nel poncho per riscaldarsi,
rimpiangendo per un attimo il sole ed il caldo di Cunupa, poi, alzato il capo a
scrutare la montagna, gli parve di scorgere un movimento presso le rocce in
alto. Strizzò gli occhi per vedere meglio, sporgendosi dal sedile a cassetta,
ma non vide più nulla.
“Qué pasò, Cisco?”.
Uno degli sgherri della scorta fece avvicinare il castrone al carro fermo
con un colpo di talloni; l’uomo in sella si sporse a sua volta guardando in
alto, con la mano di taglio sugli occhi per ripararli dal sole. Ma anche lui non
vide niente.
“Una bestia forse” commentò il capo carovana, lanciando una rapida
occhiata alle sue spalle e pungolando poi i buoi con decisione. Lo
scagnozzo guardò ancora a sua volta, poi fece girare il cavallo e andò a
passare parola agli altri. Probabilmente era solo una bestia, ma essere
prudenti non costava nulla.
Accovacciato in un avallamento sulla spianata del valico, dietro ad alcuni
massi, Henry fece una smorfia quando qualcuno dei miliziani appostati
aveva smosso pietre provocando una piccola valanga.
“Davanti a Dio se lo prendo lo stronco” bofonchiò spostandosi
cautamente per inquadrare la curva finale della salita: non c’era ancora
nessuno, ma non avrebbero certo tardato; l’uomo si riabbassò nuovamente
fino a lasciar sporgere soltanto la cupoletta del cappello, che si sarebbe
potuta scambiare benissimo per un sasso. Il capitano della milizia, anch’egli
sdraiato lì di fianco col fucile puntato, sistemò meglio il calcio dell’arma
contro la spalla.
Era tornato tutto immobile.
Passarono ancora svariati minuti, in uno stillicidio interminabile, ed Henry
si era quasi convinto che avessero mangiato la foglia quando il muggito di
un bue ed il rumore di uno scricchiolio sommesso annunciarono l’arrivo dei
carri. Il pistolero girò la testa verso il costone della montagna pregando in
cuor suo che i soldati si attenessero ai suoi ordini.
Se qualcuno di questi idioti fa fuoco senza il mio ordine, gli stacco la pelle
a calci e gliela faccio mangiare cogitò tetro. Si sporse cautamente di lato,
oltre la china del dosso ed il bordo dei macigni, per abbassarsi di nuovo
subito dopo: i carri stavano avanzando lentamente, c’erano due cavalieri a
fiancheggiare il primo e di certo gli altri erano sparsi lungo la piccola
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colonna. Avevano l’aria circospetta di chi crede di aver fiutato qualcosa e si
tiene pronto ad essere sorpreso.
L’uomo si morse il labbro.
Cisco Remuda stava facendo avanzare il carro con lentezza esasperante
perché non si sentiva per nulla tranquillo: aveva addosso quell’inesprimibile
sensazione che ti viene quando ti rendi conto che c’è qualcosa che non va.
Se fosse stato un Manni avrebbe certamente pensato al suo ‘Tocco’
personale che cercava di dirgli qualcosa: ma lui era soltanto un grasso
carovaniere ed una guida mediocre, e non c’era nulla più che capelli unti ed
un cervello passabile sotto il sombrero floscio e bisunto che portava calcato
di sghembo sul capo. Gli uomini che gli cavalcavano al fianco, invece, loro si
che erano dei veri capataz…gente che sapeva pensare e sapeva sparare: e
se non avevano fatto fermare la carovana loro, cosa poteva pretendere di
saperne lui di prudenza e brutte sensazioni?
Ciononostante non si sentiva tranquillo.
L’uomo pungolò più vivacemente il tiro di buoi ed il carro s’inerpicò con
un gemito legnoso oltre l’erta del passo; sulla spianata coperta di neve non
c’era nessuno, solo lingue di ghiaccio luccicanti e l’ombra nera ed
incombente dei costoni della montagna.
“Anda, anda!” incitò e pungolò, ed i buoi risposero con un muggito sordo
accelerando il tiro; i cavalieri ai lati del carro si allargarono a ventaglio e lo
precedettero di qualche passo raggiunti, notò, da un uomo della
retroguardia.
Il secondo carro lo affiancò a destra subito dopo, seguito dal terzo che
poggiò sulla sinistra. L’uomo si guardò in giro con apprensione: nuovamente
gli sembrò di cogliere il movimento di qualcosa tra le rocce sovrastanti…ma
di nuovo, quando vi ritornò con gli occhi, non vide nulla.
Il fischio acuto di uno dei pistoleros lo fece sobbalzare a cassetta: diede
uno strappo con le redini ed un bue mugolò il suo disappunto; l’uomo lo
guardava storto.
“Cosa aspetti gordo maldito? Muovi quel culo grasso che ti ritrovi,
altrimenti parola mia vengo lì e te lo affetto!”. Un altro masnadiero rise in un
chiocciare acuto che mostrò denti storti e guasti; Cisco deglutì ed incitò
nuovamente gli animali.
La carovana ebbe il tempo di giungere fin quasi a metà della spianata
quando il silenzio del valico venne rotto da un comando gridato con voce
tanto imperiosa che sembrava provenire da ogni parte.
“Fermi dove siete e gettate le armi! Gilead ve lo ordina!”.
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Henry spiò da dietro le rocce la carovana che si ridisponeva avanzando
sulla spianata: i carri si erano affiancati e gli uomini di scorta si erano
disposti una fila davanti ed una fila dietro, e ora cavalcavano al passo con le
armi in pugno e gli sguardi inquieti; anche i carrettieri sembravano incerti e
titubanti nell’avanzare: la piccola frana li aveva messi sull’avviso, o forse era
naturale per i mascalzoni sviluppare un sesto senso per le imboscate.
Il pistolero scambiò una rapida occhiata con il capitano della milizia, ed al
suo sguardo interrogativo rispose con un tranquillo cenno d’assenso: era ora
di far scattare la trappola. L’uomo accostò all’occhio il mirino del fucile
inquadrando il suo bersaglio.
“Fermi dove siete e gettate le armi!” gridò il comandante. “Gilead ve lo
ordina!”.
I soldati uscirono allo scoperto dietro i loro ripari sul costone puntando i
fucili verso la carovana ferma al centro del valico.
Se avessero bloccato le persone sbagliate (cosa di cui, a giudicare dalle
grinte e dall’armamento, sinceramente il pistolero dubitava), allora molto
probabilmente quelli se la sarebbero fatta sotto ma avrebbero ubbidito da
bravi bambini: avrebbero alzato tutti quanti le mani al cielo lasciando cadere
i loro pistoloni ed i loro archibugi, e la cosa sarebbe finita con scuse e
reciproco levarsi dai piedi. Invece, dopo l’attimo di smarrimento iniziale, gli
sgherri all’avanguardia gridarono qualcosa in uno strano dialetto e voltati i
cavalli fecero per correre al riparo dei carri. Da dietro i convogli qualcuno
sparò ed un soldato cadde giù con un grido piombando nella spianata con le
braccia allargate.
Tanto gli bastava.
Il pistolero contrasse il dito sul grilletto e la testa di uno dei cavalli esplose
in uno scoppio sanguinolento: l’animale stramazzò in avanti fulminato senza
nemmeno un nitrito, proiettando il cavaliere che lo montava contro un grosso
masso affiorante da cui non si alzò più. L’uomo si ritrasse dietro la roccia e
fece scattare l’otturatore espellendo il bossolo della cartuccia. Altre scariche
partirono dai soldati appostati ed il costone fiorì di tanti piccoli sbuffi di fumo
bianco: sentì il capitano gridare ai suoi marmittoni di sparare sui cavalli, poi
una pallottola si piantò nella pietra ad un palmo dalla sua testa sollevando
uno spruzzo di schegge. L’uomo si girò di scatto ed inquadrò lo sparatore
che cercava disperatamente di tener ferma la montatura, strattonando le
briglie con una mano e brandendo nell’altra una grossa pistola dalla canna
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ancora fumigante; prima che avesse il tempo di sparare ancora gli piantò
una pallottola nel petto sbalzandolo di sella come un fuscello.
Altre pallottole piovvero sulle rocce dietro cui si era rintanato
costringendolo a cambiare rapidamente posizione. Gettandosi a terra vide i
buoi del carro più avanzato strattonare il giogo e tirare disordinatamente in
avanti, insensibili alle urla del conducente ed ai colpi di sferza; poi le ruote si
infilarono in una cunetta ed il carro si rovesciò su un fianco in una festa di
schianti, urla e muggiti.
Un altro soldato cadde fulminato dal costone ed Henry imprecò
sbirciando da dietro il suo riparo. La faccenda stava facendosi rapidamente
stantia: due carri erano rimasti in piedi,e dietro di essi dovevano essere
rimasti almeno due uomini ben decisi a vender cara la pelle; entrambi i
carrettieri erano stati uccisi, forse proprio da loro per evitare che provassero
a fuggire, ed i loro corpi giacevano riversi a terra in pozze di sangue. E
malgrado dalla parete della montagna la fucileria continuasse, in un crepitio
fumoso che si alzava e si abbassava, aveva idea che la faccenda potesse
andare per le lunghe.
“Andiamo a stanarli capitano?”
Il comandante di compagnia, che stava ricaricando con velocità e
precisione tutto sommato accettabili (ma era imperdonabile che guardasse
mentre lo faceva) si interruppe ed alzò il capo.
“Signore, possiamo mandare i soldati…”. Henry fece una smorfia.
“Freddo ai piedi eh? Sta bene. Coprimi uomo, e bada soltanto di sparare
diritto” disse, poi schizzò fuori dal masso iniziando a correre in diagonale
verso il costone dall’altra parte del valico.
Come ogni volta che consapevolmente sfidava la sorte, come mai
dovrebbe fare un vero pistolero, anche questa Henry Deschain sperò di fare
il passo più lungo della gamba. I suoi occhi si riempirono di lacrime mentre si
gettava allo scoperto, asciugate quasi subito da uno sbuffo di vento che
bruciò come una rasoiata; come tutte le volte sperava che forzando la mano
alle circostanze una pallottola arrivasse e lo sollevasse da ogni peso.
Ma nemmeno questa volta gli andò bene.
L’uomo avvertì i proiettili fischiargli pericolosamente vicini al capo, altri
sollevare sbuffi di ghiaia lungo la sua traiettoria mentre le gambe
pompavano come pistoni ed i piedi facevano del loro meglio per non
scivolare sul ghiaccio: quando fu abbastanza vicino si gettò a corpo morto
verso una pila di rocce addossate alla parete sinistra del valico, atterrando
dietro di essa con un urto che gli tolse il fiato e gli schiacciò dolorosamente i
testicoli. Si rialzò.
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L’angolo di tiro era migliore e lui non perse tempo nel posizionarsi: non si
scostò nemmeno quando una pallottola gli portò via il cappello dalla testa,
anzi mirò con calma e piantò un proiettile dritto nel cranio di uno dei due
contrabbandieri superstiti.
“Il tuo volto nella mia mente” mormorò accovacciandosi nuovamente in
copertura e facendo scattare l’otturatore mentre un’altra pallottola miagolava
vicina: c’erano almeno cinquanta metri tra i carri ed il suo riparo, avrebbe
davvero potuto mandare i soldati…ma dubitava che avessero tanta voglia di
crepare quanta ne aveva lui. Il pistolero saltò fuori da dietro la pila di rocce e
si gettò di nuovo in corsa; vide spuntare da sotto il bordo dei carri le gambe
di quello che era forse l’ultimo superstite e scaricò rapidamente qualche
colpo in quella direzione: senti una voce acuta urlare la sua sofferenza, ed
una forma umana franare a terra e rotolare all’indietro stringendosi il
ginocchio.
Sbucò dietro i carri col fucile spianato una frazione di secondo dopo. Non
c’era più nessuno che avesse voglia di combattere, e fatta eccezione per
l’uomo che aveva gambizzato (e che ci teneva a farglielo sapere strillando
come un porco al macello) sembravano tutti morti.
“Milizia, a me!” gridò abbassando appena il fucile. Realizzò in quel
momento che la sparatoria era già cessata, probabilmente i soldati avevano
smesso di tirare non appena lui si era gettato allo scoperto.
Uno scalpiccio affrettato alle sue spalle preannunciò l’arrivo del capitano
di compagnia.
“Signore, io non ho mai visto nessuno fare ciò che avete fatto voi…”.
Henry si girò e lo squadrò come se stesse osservando un pidocchio;
anche le grida del ferito gli giungevano lontane, ridotte ora a gemiti
sommessi sottolineati dal raspare disperato nella ghiaia con cui cercava,
senza riuscirci, di rialzarsi in piedi.
“Raduna i tuoi uomini capitano” disse con voce atona, “Prendi in
consegna i carri, ammassa i cadaveri e fai in modo che quel verme sia in
grado di sostenere un interrogatorio”.
Il pistolero sfilò oltre il comandante di compagnia senza aggiungere altro:
si sentiva vuoto dentro, e l’unica cosa di cui sentiva di avere bisogno in quel
momento era la sua fiasca di whisky personale.
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L’ispezione del carico rivelò presto ciò che tutti si erano aspettati di
trovare: insieme alle merci ordinarie vennero rinvenute, in doppifondi
accuratamente occultati, altre pistole, sparasvelto e munizioni; sul carro che
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si era fracassato i soldati scovarono anche numerosi, strani tubi di ferro,
alcuni lunghi quanto un avambraccio, altri quasi quanto un uomo, molti
provvisti di curiose alette ad una estremità e tutti accuratamente imballati in
casse foderate di paglia. Il pistolero ordinò che ogni cosa venisse gettata nel
Lys e così puntualmente accadde. Solo le merci ordinarie, farina di
frumento, carbone, legna ed attrezzi vennero requisite come bottino dalla
sovranità della Baronia che rappresentava, e caricate sui due carri superstiti
per essere spedite sulla via di ritorno il pomeriggio stesso.
I corpi dei masnadieri e dei conducenti uccisi vennero ammassati tra i
rottami del carro distrutto, e si provvide alla sepoltura sommaria con il fuoco;
presso il rogo fu poi piantato un palo con un cartello su cui il capitano di
compagnia incise, laconica, la parola “Contrabbandieri”.
A sera la spedizione si accampò per l’ultima notte al valico ed Henry fece
parlare il masnadiero superstite con modi ed espedienti che un pistolero non
dovrebbe nemmeno prendere in considerazione.
Si presentò in modo che le cose da subito fossero chiare.
L’uomo era stato medicato alla meglio e giaceva legato mani e piedi
contro il costone roccioso, vicino ai cavalli, guardato a vista da un piantone
che Henry si affrettò a congedare: la gamba ferita all’altezza del ginocchio
gli era stata bendata e steccata con una tavola di legno presa dai rottami del
carro, ma il lavoro non era stato eseguito con perizia e l’arto si allungava in
una posizione innaturale accanto all’altro, raccolto invece al petto. Di lì a
poco, in ogni caso, quell’uomo non ne avrebbe mai più avuto bisogno.
Era sveglio e li vide arrivare, il pistolero ed il capitano di compagnia, e
non perse tempo nel vomitare loro addosso ogni genere d’insulto nella sua
lingua spedita e liquida; Henry lo tacitò con un calcio alla mascella che lo
rovesciò come un bambolotto, ma l’uomo si chinò subito e fu lesto a
strattonarlo per rimetterlo in carreggiata.
“Non ho tempo per giocare a Guardami con te, idiota” dichiarò
sbattendolo contro la roccia, e ricevendosi in cambio uno sguardo insieme
spaventato e carico d’odio. Avvicinò il viso.
“Se mi dici quello che voglio sapere, hai la mia parola che ti darò una
morte rapida”.
Quello increspò le labbra, facendo come per parlare…poi sputò in faccia
al pistolero un grumo di sangue e denti rotti.
“Pezzo di merda!”.
Il pistolero si ritrasse di scatto dominando l’impulso di staccargli la testa a
calci. Sarebbe stato fare il suo gioco, e lui non poteva permettersi di
sprecare così un sopravvissuto.
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Prima avrebbe dovuto parlare.
“Signore, forse dovremmo promettergli qualcosa in cambio: questi
tagliagole sono dei duri, si lasciano ammazzare piuttosto che…”.
L’uomo squadrò il capitano con occhi folli, quello subito tacque. Il
pistolero snudò il torace del prigioniero, poi tirò fuori il coltello e si avvicinò
ad uno dei fuochi che erano stati accesi; si sentì addosso gli sguardi degli
altri uomini seduti intorno, ma non se ne curò: quella era marmaglia, carne
da cannone che non contava nulla, mentre lui era un pistolero e doveva fare
tutto ciò che era in suo potere per il bene della Baronia.
Ed in quel momento sapeva esattamente cosa fare.
Henry Deschain appoggiò la lama del coltello sulla brace. Pensò a
Deirdre con una fitta di nostalgia, e quando parlò la sua voce era fredda
come il piombo di una pallottola.
“Non farò alcuna concessione a quell’uomo, capitano; ma sappiate che
egli parlerà, quanto è vero l’Uomo-Gesù: parlerà e ci dirà urlando tutto ciò
che vogliamo sapere”.
Non era un duro, aveva retto al massimo mezz’ora. Nel ripensarci, una
volta svanita l’animosità del momento, Henry si sentì disgustato da sé
stesso. L’aveva torturato anche quando non era necessario, infierendo più
del dovuto, e la cosa peggiore era che ci aveva provato gusto.
Nell’oscurità che precedeva di poco l’alba, avvolto nel sacco a pelo
incrostato di ghiaccio, l’uomo si sentiva insieme soddisfatto per il risultato
che aveva raggiunto, e di merda per il modo in cui c’era arrivato. Urlando la
sua sofferenza mentre la sua carne veniva bruciata, i suoi denti spezzati ed i
suoi nervi snudati e pizzicati, il masnadiero aveva detto ciò che volevano
sapere: il carico sarebbe transitato per Galloway sotto la protezione dello
sceriffo del paese e dei suoi vigilanti, a quanto pare un altro anello di
quell’infinita catena che palmo a palmo stavano risalendo.
Lui dal canto suo aveva mantenuto la parola e, una volta appreso ciò che
voleva, aveva estratto la pistola e l’aveva freddato con un colpo dritto al
cuore liberandolo dalle sue sofferenze. Un gesto pietoso, che peraltro la
legge gli consentiva di compiere.
E allora perché si sentiva così?
Il pistolero trascorse immobile nel giaciglio quelle ultime ore della notte,
ed all’alba pretese che tutti fossero pronti a partire nel giro di nemmeno
mezz’ora. Gli sguardi che gli uomini gli indirizzavano mentre passava tra loro
erano del tutto simili a quelli che Daniel e Fergus gli avevano rivolto in più di
un’occasione. Ma lui non se ne curò, perché ciò che aveva fatto era, a suo
modo di vedere, necessario.
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Forse qualcuno avrebbe anche parlato nella speranza di causargli dei
problemi, ma la parola di semplici soldati valeva poco; in ogni caso era
pronto a dichiarare di aver agito per il bene di Gilead e null’altro:
un’argomentazione che da sempre faceva presa sul consiglio dei pistoleri,
composto anch’esso da uomini che tutto erano meno che stinchi di santo.
La compagnia ripartì dal valico sotto un cielo che prometteva neve ed
elargiva vento ghiacciato, discendendo la pista sul versante di Aradia tra
contrafforti color grigio ferro; a valle il pistolero decise di dividere le sue
forze: assegnò metà degli uomini al capitano sperando che non combinasse
troppi guai, spedendoli nella direzione di Galloway lungo la pista del Lys con
l’ordine di accerchiare il borgo da Est; lui dal canto suo si sarebbe avvicinato
da Ovest, muovendosi fuori pista, per porre il blocco dalla direzione opposta.
Con un po’ di fortuna, la rete sarebbe stata stesa senza svegliare i
pesciolini addormentati.
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Lo sceriffo Otis Trenton odiava il freddo, e quell’anno per giunta aveva
iniziato dannatamente presto. Il suo ufficio sulla Main Street quella mattina
era una serra dai vetri appannati ed incrostati di ghiaccio dopo una notte
particolarmente gelida. L’uomo si era appena alzato da un sonno torpido,
conciliato la sera prima da una generosa dose di graf, ed aveva trovato
Pollux seduto alla sua scrivania e la stufa già accesa col caffè a bollire: e se
era grato al compare per la seconda congiunzione di cose, constatare la
prima lo indispettì lievemente.
“Non ricordo di averti nominato sceriffo al posto mio” borbottò, uscendo
dal corridoio per le celle ed andando dritto filato verso la caffettiera; il
vigilante si strinse nelle spalle.
“Il posto era libero e me lo sono preso. A proposito“ aggiunse, “Castor si
è fermato a divertirsi da Madame Higgins, ieri sera, e non tornerà tanto
presto”.
Lo sceriffo scoreggiò, si grattò il culo e poi si versò da bere e l’aroma
stuzzicante del caffè ebbe il potere di snebbiargli la mente quasi del tutto.
Trincò e si leccò le labbra con fare soddisfatto.
“Si sarà scopato un bel po’ della sua paga, invece di mettere qualcosa da
parte; non ha proprio senno tuo fratello”.
“Aye, dici il vero: ragiona col cazzo ma è ancora giovane”.
L’uomo si appoggiò alla scrivania; vide che il vigilante stava annotando
qualcosa sul registro delle spedizioni vergando rapidamente e fittamente i
simboli cifrati senza sprecare un centimetro di carta a sproposito.
“Cosa scrivi?”.
“Che sono due giorni che abbiamo mandato gente a prendere in
consegna il carico al valico, e che oggi non c’è niente da segnalare”.
“Dovremmo scrivere solo quando un carico passa, e dovremmo scrivere
poco” lo rimproverò. Pollux fece spallucce.
“Mi piace scrivere, lo sai. Li avranno già raggiunti?”. Pollux chiuse il
quaderno e lo appoggiò sulla scrivania dietro una pila di scartoffie.
“Nay, il biondo non se la prende a cuore per nulla che non sia inseguire
ed ammazzare qualcuno”.
“Ma è uno dei migliori a farlo”. Pollux giocherellò con la penna: un piccolo
capolavoro di incomprensibilità, uno stilo la cui punta compariva e
scompariva alla pressione di un bottone, che portava al suo interno
l’inchiostro di cui aveva bisogno e non necessitava d’essere intinto nel
calamaio per scrivere. Ad essersi imbrancati con quella manica di pazzi si
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vedevano e si sentivano un sacco di cose che avrebbero tenuto facilmente
inchiodato l’uditorio di una bettola.
Forse avrebbe potuto fare il cantastorie, rifletté, quando avesse deciso di
darci un taglio con quella vita. Castor e Pollux, gemelli trovatori: il pensiero
gli strappò un sorriso.
“Sfortuna vuole che in questo lavoro non si debba sempre andare a
sgozzare; fosse per lui sarebbe capacissimo di farsi aspettare per strada.
Per fortuna c’è Mandy con loro”.
“Scrupolosa fichetta, Mandy-sai” replicò il vigilante alzandosi per andare
a versarsi un’altra dose di caffè. Lo sceriffo ne approfittò per riguadagnare il
suo posto di rappresentanza.
“Ce l’ha un uomo?”.
Trenton sogghignò mostrando il suo campionario di denti ingialliti.
“Chi, Mandy? Le piacciono le donne da quanto ne so”.
“Aye, un peccato davvero, io dico”.
“Ad ogni modo li terrà sotto controllo lei” proseguì dando una scorsa al
registro, poi si alzò per riporlo nel nascondiglio ricavato sotto le assi del
pavimento proprio sotto la scrivania.
Il grasso posteriore dello sceriffo era appena scomparso alla vista
quando qualcuno bussò alla porta.
“Vado io” bofonchiò Pollux; senza posare la tazza si accostò alla porta e
diede un sorso. Da fuori il bussare riprese impaziente, e l’uomo afferrò la
maniglia..
“Per l’Uomo-Gesù, cosa c’è di tanto urgente alle otto del mattino? Brucia
il bordello?”.
Spalancò la porta con decisione, ma ciò che vide gli fece morire la voce in
gola.
Davanti a lui c’erano tre soldati della milizia di Gilead, due dei quali con i
fucili imbracciati e decisamente puntati nella sua direzione.
L’uomo arretrò incespicando, con calma loro si fecero avanti.
“Lo sceriffo?” interrogò quello che sembrava il capo, un uomo anziano
dai baffi a scopettone ed il cranio tonsurato dalla calvizie. Pollux borbottò
qualcosa ed accennò col capo verso la scrivania; il soldato annuì e si girò
rigido come un manico di scopa, seguito da uno dei suoi due compari: l’altro
rimase davanti all’ingresso col fucile spianato. Il giovane sentì il marshal
armeggiare alle sue spalle, ancora chino sotto la scrivania: lo scatto delle
assi mobili che sigillavano il nascondiglio, lo scricchiolio del pavimento
mentre quello si alzava e lo sfregamento della sedia…poi ogni rumore cessò
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repentinamente, e gli parve quasi di vedere l’espressione di sorpresa che
certamente gli si era dipinta sulla faccia.
“Sai Otis Trenton?”.
Doveva essere un qualche ufficiale di milizia, rifletté: la sua voce suonò
neutra e rilassata. Pollux girò lievemente il capo avvertendo solo
distrattamente il calore della tazza che iniziava a scottargli i polpastrelli:
lesse insieme stupore e disorientamento sul viso del marshal, simile a quello
di un bambino sorpreso a rubare la marmellata. Gli occhi del vigilante
corsero immediatamente allo sparasvelto appoggiato nella rastrelliera a
muro, desolatamente fuori portata.
“Ce l’avete davanti, ufficiale” replicò lo sceriffo quando riuscì a darsi un
contegno, e la sua voce di vecchia canaglia suonò subito sicura dopo
l’incertezza iniziale. “Posso fare qualcosa per voi, io chiedo? Non desiderate
sedervi?”.
Pollux tornò ad inquadrare il miliziano davanti all’ingresso, che nel
frattempo era entrato chiudendosi il battente alle spalle; appena un ragazzo,
evidentemente inesperto, stava guardando verso il suo superiore ed aveva
abbassato l’arma di una buona spanna. Il vigilante ne approfittò per spostare
ancora un po’ la mano libera verso il fodero del coltello appeso dietro la
schiena.
“Non sarà necessario che io mi sieda sceriffo”. Il tono dell’ufficiale si fece
secco. “Sono qui per ordine della sovranità di Gilead, e devo sollevare voi ed
i vostri assistenti da ogni incarico”.
Pollux deglutì; non c’era più alcun dubbio, se mai prima ve ne fossero
stati: erano venuti fin lì per il traffico, probabilmente qualcuno aveva parlato
e di conseguenza tutti loro stavano per sprofondare in una montagna di
merda.
“La sovranità di Gilead ha mosso guerra e conquistato le terre di Aradia,
per permettersi di dire una cosa del genere?”.
Pollux avvertì un accenno di movimento, sottolineato da un lieve
scricchiolare del tassellato: l’altro compare all’ingresso era tornato a
dedicargli una attenzione solo sporadica, spostando lo sguardo tra lui ed il
suo superiore più avanti. Le dita del vigilante sfiorarono il cuoio
dell’impugnatura del coltello oramai a portata di mano.
“Non muovetevi!” gridò l’ufficiale. Sentì lo scatto di un otturatore,
probabilmente era stato l’altro soldato che non riusciva a vedere. Non
riusciva a capire se l’arma del piantone che aveva davanti avesse il colpo in
canna o meno, decise che si sarebbe comportato prendendo per vera la
prima.
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“Non siate così animoso, sai, e dite ai vostri uomini di controllare i loro
nervi: non vogliamo che qualcuno si faccia male, dico bene?”. La voce dello
sceriffo aveva ritrovato la sua abituale calma: Pollux seppe che l’uomo
aveva intenzione di risolvere la situazione a suo modo.
“Voi pensate soltanto ad ubbidire e tutto andrà per il meglio”.
Sentì l’accenno di alcuni passi.
“Soldati, disarmate ed ammanettate questi uomini”. Il miliziano davanti
all’ingresso tornò a degnarlo completamente della sua considerazione, e
rialzò la canna del fucile venendo avanti seppure in modo piuttosto esitante.
Lo sceriffo parlò ancora in tono fintamente remissivo.
“Ufficiale, non so di cosa ci stiate accusando, ma di certo vi sbagliate.
Qualsiasi cosa accada, noi siamo Innocenti”.
Era il segnale che aspettava e non ebbe esitazione ad agire.
Fece scattare in avanti la mano che reggeva la tazza: il liquido bollente
investì il volto del soldato che, colto totalmente di sorpresa, si portò le mani
al volto cacciando un urlo; approfittandone sguainò il coltello di sinistro e lo
lanciò a braccio teso: un attimo dopo l’elsa sporgeva ben conficcata nel collo
del soldato. Il ragazzo gorgogliò artigliando l’aria nel tentativo di
strapparsela, poi cadde morente. Partì un colpo.
“Prendetelo!”.
Il vigilante si mosse verso l’arma abbandonata a terra ma esitò un attimo
di troppo: scorse un’ombra muoversi alle sue spalle mentre si lanciava verso
il fucile, ed un momento dopo il braccio ossuto dell’ufficiale lo intercettava
serrandolo saldamente alla gola e la canna di una pistola gli si piantava a
metà della schiena. Altri colpi partirono in rapida successione nel suo angolo
cieco seguiti da un grido acuto: riconobbe la voce della pistola dello sceriffo
e del fucile miliziano, e giudicò che fosse quest’ultimo ad avere avuto la
peggio perché subito dopo sentì Trenton parlare nuovamente.
“Va bene vecchio, ora mollalo”.
La stretta al collo rimase salda.
“Non vi servirà resistere, i nostri vi prenderanno appena uscirete”.
“Questo è un problema nostro; ora lascia il mio compare o parola mia ti
pianto una palla nella zucca”. Un attimo ancora di esitazione, poi finalmente
la stretta si allentò; subito dopo, colpito alla testa dal calcio della pistola,
l’ufficiale stramazzava tramortito a terra.
Pollux si sentiva le gambe tremanti e le palle schiacciate al ventre, strette
e piccole come due noci. Si girò e vide lo sceriffo barcollare verso la
scrivania, gli occhi sbarrati, stringendosi un fianco da cui gocciolava sangue;
vide l’uomo sostenersi al bordo, abbassarsi a fatica verso il nascondiglio del
registro. Accorse.
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Lo sceriffo raspò il pavimento per aprire il vano segreto, quando si chinò
ad aiutarlo lo vide farsi indietro con gratitudine e caracollare verso lo
sparasvelto nella rastrelliera. Il vigilante prese il registro e se lo infilò nelle
tasche dello spolverino, poi estrasse la pistola.
“Cosa facciamo Otis?”.
Per tutta risposta l’uomo inserì con un colpo secco un caricatore
nell’alloggiamento.
“Apri quella porta!” gridò, e Pollux, frastornato, ubbidì.
La luce del mattino lo accecò per un attimo; sentì il rumore di diversi colpi
che venivano messi in canna con scatti sommessi, ed istintivamente alzò la
mano armata al cielo.
“Giù le armi!” gridò una voce giovane.
“Non sparate…vi prego…”.
Quando la visione del vigilante si schiarì ne vide almeno sei o sette
piazzati a semicerchio davanti all’ufficio, i fucili spianati e le dita nervose;
poi, abbassando lo sguardo, scorse alle sue spalle l’ombra dello sceriffo e
seppe che, preghiera o no, la sua vita sarebbe finita di lì a pochi attimi.
Era logico che non si sarebbe fatto prendere vivo: lo sceriffo preferiva
morire così, piuttosto che torturato ed impiccato pietosamente quando
avessero finito di farlo parlare; e anche se Gilead si fosse limitata a
prendersela con lui, avendo avuto pietà di un semplice esecutore come lo
era il vigilante, lo sceriffo aveva deciso il gran passo per entrambi.
Il crepitio violento della raffica lo fece sussultare; un altro miliziano cadde
a terra falciato dalla sventagliata, i suoi compagni ancora in piedi non
attesero altro per aprire il fuoco a loro volta.
Tutto sommato, pensò un’ultima volta, l’idea di trasformarsi in cantastorie
era davvero stupida.
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“Mi portate notizie molto gravi, sai Deschain; ed anche il vostro gesto non
è stato certo leggero malgrado il prestigio di cui godete in patria”. Henry
annuì sotto gli occhi severi di Warren Bishop, podestà di Galloway, e rifletté
che a parti invertite lui sarebbe stato certamente meno calmo.
Il pistolero si era ricongiunto alle forze del capitano di compagnia tre
giorni dopo il superamento del valico; l’ufficiale, che era arrivato con poco
anticipo su di lui, aveva attestato i suoi uomini senza procedere col blocco e
lasciato una staffetta sulla pista che entrava in città dalle paludi; voleva che
fosse il suo superiore a prendersi fino in fondo l’onere di un gesto come
quello, ed il pistolero non aveva avuto esitazioni. I soldati erano stati piazzati
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a piccoli gruppi tutto intorno all’abitato, a portata di udito, e sulle due strade
che ne uscivano erano stati allestiti posti di blocco più consistenti che
fortunatamente, dato lo scarso transito di uomini e merci, avevano avuto ben
poco cruccio nel respingere o trattenere i viaggiatori.
Ciò comunque non alleviava minimamente la gravità dell’atto e le sue
responsabilità, e le facce del podestà e del capitano di milizia di Galloway ci
tenevano a ricordarglielo insieme alle guardie armate che ora presidiavano
l’ingresso alla sala del consiglio cittadino, nel municipio, dove si era diretto
subito dopo aver dato ai suoi l’incarico di prelevare lo sceriffo e metterlo
sottochiave.
In passato guerre erano state dichiarate ed uomini erano morti per molto
meno.
“Non desidero attenuare i miei oneri in questa faccenda, podestà, ma i
motivi che mi hanno spinto…” si corresse, “…che hanno spinto Gilead fino a
qui sono gravi e ben giustificati; se voi mi darete modo di spiegarmi…”.
“Aye, non attendiamo altro” tagliò corto il capitano della milizia, che
nemmeno mezzora prima era stato spodestato dal suo comando per fare
posto suo malgrado a quei nuovi giunti inattesi e indesiderati.
“E io spero che le vostre spiegazioni siano convincenti, pistolero, al punto da
giustificare appieno l’arresto del nostro sceriffo”.
Henry contrasse le labbra in una smorfia.
“Abbiamo motivo di credere che egli sia implicato in un traffico di armi e
reliquie dell’Antico Popolo, e con lui i suoi uomini”.
Il pistolero credette di scorgere un bagliore negli occhi grigi del podestà,
che tuttavia non fece commenti.
“Voi certo comprendete che non potevamo lasciare impunita una cosa
simile, e che era nostro preciso dovere agire con ogni mezzo per stroncare
un così empio commercio”.
“E voi certo comprendete che mi sono affrettato ad inviare messaggi alla
nostra capitale, proprio mentre voi arrivavate, e che nel giro di pochi giorni
metà del nostro esercito sarà qui a bloccare i confini. Lo sapete cosa
significa questo, sai Deschain?”.
“Noi non avremmo agito diversamente, in ogni caso…”.
“In ogni caso” si impose di nuovo l’altro, “Mi auguro che tutte queste
vostre parole trovino un rapido riscontro, altrimenti sarete voi a venire
processato e condannato dalla giustizia di Aradia”.
Henry si lasciò ricadere sulla sedia, che mandò uno scricchiolio
sommesso.
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“Potete trattenermi in stato d’arresto se la cosa vi fa sentire meglio!”
sbottò incapace di trattenersi, “Ma sul mio onore, in questa faccenda
abbiamo agito come le circostanze obbligavano”.
L’altro sorrise beffardo; fece per parlare ma venne bloccato sul nascere
da un insistente picchiare alla porta della sala. Il sorriso svanì dal suo volto.
Senza nemmeno attendere il permesso di farsi avanti, dal battente
emerse una guardia dall’aria imbarazzata subito spostata di lato dal capitano
di milizia che rapido si insinuò all’interno.
“Vi ho detto di farmi passare, porto notizie al mio superiore!”.
Il podestà li guardò con occhi stizziti.
“E questa intrusione cosa significa?” chiese; Henry, che invece aveva
subito capito, poté finalmente concedersi un respiro profondo.
“Significa che sono giunte le prove che chiedete, podestà”. L’uomo fece
cenno al capitano di venire avanti, preparandosi ad ascoltare il suo
resoconto.
Il comandante di compagnia mise rapidamente al corrente gli uomini
nella stanza: uno dei suoi ufficiali era stato mandato a prelevare lo sceriffo,
trovandolo in compagnia di uno dei suoi vigilantes; a quanto pareva avevano
opposto resistenza e tre soldati erano morti, ma il tirapiedi era andato a fare
loro compagnia. Lo sceriffo invece, pur essendosi beccato almeno tre palle
in corpo, era sopravvissuto: il medico militare gli aveva levato il piombo
tappandolo a dovere ed ora l’uomo si trovava chiuso in una delle sue stesse
celle guardato a vista da soldati armati.
“Se questa non è un’ammissione di colpevolezza in piena regola,
podestà Bishop, allora io non so proprio come interpretarla” commentò a
quel punto il pistolero; a malincuore il podestà si costrinse ad annuire.
“Non vi nascondo un fatto: lo sceriffo ed i suoi cani da caccia non mi sono
mai piaciuti” ammise. “Ma ciò non toglie che potevate informarmi
privatamente, invece di piombare in città con una forza militare come se
aveste intenzione di occuparci”.
“Invoco il vostro perdono, podestà, ma abbiamo ritenuto opportuno agire
in questo modo per evitare di porre in mezzo le lungaggini della diplomazia e
dare forse modo a costoro di fiutare per tempo il fumo dell’incendio; aye, io
penso che eventi disperati richiedano contromisure altrettanto disperate”.
“Siete un bel tipo, sai Deschain”. Il podestà sorrise, ma il suo era un
sorriso tirato e decisamente poco spontaneo.
“Immagino che vogliate mantenere ancora la presenza militare in città,
tanto per sorvegliare meglio il vostro prezioso ostaggio, dico bene?”. Il
capitano di milizia lo squadrò con fare arrogante, lui si strinse nelle spalle.
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“Voi cosa ne pensate, podestà?”. Bishop accennò brevemente col capo.
“Se effettivamente, come ora sembra chiaro, anche i vigilanti erano nel
gioco dello sceriffo quelli che attualmente si trovano fuori città potrebbero
tentare di liberarlo; sono uomini duri e penso che se venissero a conoscenza
di questo fatto potrebbero tornare, spazzare via il pugno di soldati che
presidia la guarnigione e riprendersi il loro capo. Ve ne andrete quando
arriveranno i nostri contingenti” concluse, “Poiché non voglio che da questo
vostro atto si scatenino altre conseguenze per i miei cittadini”.
Henry sorrise compiaciuto, chinando il capo con fare fintamente
remissivo.
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Piombo (ovvero: dove eravamo rimasti?)
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1
“Sono un pistolero e chiedo di passare!”.
Jonas guardò nell’oscurità reggendo ben alta la torcia; vide alcune forme
muoversi più avanti, presso il posto di blocco nel cerchio di luce delle
lanterne. Un cavallo nitrì ed il suo si sentì in dovere di rispondergli.
“Vieni avanti, sai, se sei chi dici di essere!”.
Il tono dell’uomo che aveva parlato da più avanti era teso ed insofferente;
Jonas fece avanzare il baio al passo, mentre si avvicinava la sua torcia
trasse altri bagliori dai fucili che mani pericolosamente nervose gli
puntavano contro.
Si sentiva troppo vulnerabile.
L’ufficiale di controllo lo aspettava piantato in mezzo alla pista, impettito,
le braccia giunte dietro la schiena, attorniato da tre o quattro dei suoi.
L’uomo inclinò la testa di lato scoccandogli una lunga occhiata.
“Dunque?” interrogò.
Senza dire nulla Jonas gli porse il salvacondotto, l’altro lo scrutò con
poco interesse soffermandosi soltanto sulla firma in calce.
“Sicuro di non aver sbagliato strada?” chiese restituendogli la lettera e
fissandolo con occhi indagatori. Il ragazzo avvertì un improvviso, debole
calore all’altezza del collo dove sotto la casacca aveva allacciato il ciondolo
dissimulante. La sensazione fu così improvvisa ed inaspettata che dovette
mordersi la lingua per non urlare; lo scatto delle gambe fu subito avvertito
dal baio, che infastidito diede uno sbuffo ed uno strattone alle redini.
“Io devo andare in città” balbettò sentendosi già spiazzato, guardando in
basso mentre riponeva il documento nelle tasche della sella.
“Aye, apprendista, ed immagino non siano affari miei ciò che devi fare,
si?”. Jonas tacque.
“Sta bene, passa” concesse l’ufficiale un attimo dopo. “Deschain è alla
guarnigione, se devi incontrarlo cercalo laggiù”.
Jonas allargò gli occhi, e fu un bene che l’ombra nascondesse
l’espressione del suo volto: Henry Deschain in città! Questo non se lo
sarebbe mai e poi mai immaginato, né tantomeno augurato, ma ormai era
tardi per riconsiderare. A passo forse un po’ troppo rapido il ragazzo
oltrepassò il posto di blocco seguito dagli occhi appena un po’ curiosi
dell’ufficiale.
Jonas lanciò il baio al piccolo trotto non appena fuori vista; qualche
minuto dopo arrivò alle prime baracche della periferia, in una strada deserta
ed ancora più miserevole del solito. Il ragazzo trattenne l’animale
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costringendosi a procedere al passo: incrociò alcune pattuglie di militari in
casacca blu, che tuttavia non gli riservarono più che occhiate distratte prima
di volgersi e proseguire per la loro strada; benedetta l’ottusità dei coscritti di
Gilead, pensò, ma non voleva nemmeno pensare a cosa potesse succedere
se per sventura avesse incontrato qualche ufficiale più invadente, per non
dire Henry Deschain in persona.
Il saloon emerse dall’oscurità con le assi schiodate della sua facciata
squadrata, le sue finestre illuminate ed i suoi rumori: ma l’atmosfera era ben
diversa da quando vi era capitato la prima volta; forse non era sabato, più
probabilmente una città occupata non ha poi così tanta voglia di fare
baldoria. Il ragazzo smontò di sella e legò la briglia alla stanga presso
l’abbeveratoio: c’erano altre bestie, ma con un certo sollievo non riconobbe i
marchi delle cavalcature militari. Si aggiustò il mantello coprendo col
cappuccio la parte superiore della canna dello sparasvelto che sporgeva di
un palmo oltre le spalle.
C’era tempo per tastare qualche polso e farsi un’idea di quello che stava
succedendo prima di andare a prendere d’assalto il fortino nemico.
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L’ufficiale al posto di blocco si era rapidamente dimenticato di
quell’apprendista pistolero e dei suoi scartafacci; la notte era troppo fredda
per fare altro che non fosse starsene rintanati in una bettola, e non si
sentiva ben disposto ad indagini di alcun tipo. Tanto più che il suo
documento era firmato nientemeno che da sai Scannatore – come alcuni
degli uomini più insofferenti chiamavano il comandante nei loro discorsi
(naturalmente quando erano ben sicuri che non fosse a portata di udito).
Pertanto quando una ventina di minuti più tardi saltò sul cavallo e si avviò
verso la città, a sollecitare il cambio per sé ed i suoi uomini, non ci pensava
quasi più.
Jonas chiese una birra preparandosi mentalmente ad ingollare nulla più
che piscio schiumoso; nell’attesa si appoggiò con schiena e gomiti al banco
osservando il saloon semideserto, occupato solo da pochi uomini ciondolanti
tra i tavoli: alcuni bevevano, altri giocavano, nessuno che avesse l’aria di
voler tenere conciliabolo con un forestiero curioso.
Un boccale scheggiato e dal bordo unto sbatté con malagrazia sul piano
lercio, il ragazzo si girò e lo guardò poco convinto. Era una mosca quella
che galleggiava nella schiuma?
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Lo prese, tirò in secca l’insetto e si arrischiò a bere. Il sapore era anche
peggio di come se lo era immaginato.
“Cerchi compagnia, bel sai?”.
Si era preparato ad attaccare bottone col barista quando la potente
mescolanza di alcool, sporco e profumo dozzinale aveva assaltato i suoi
sensi; la vecchia prostituta, esposizione economica di rughe, ombretto color
cimice e tette flosce si affiancò ammiccante in un vestito a balze che al pari
della sua padrona sembrava non vedere da parecchio l’acqua di un
mastello.
Jonas bevve un secondo sorso. Tanto valeva provare a spremerla.
“Aye, prima desidero bere: unisciti a me e vedremo”.
Lei non si fece pregare.
“Monky, una anche per me!” gracchiò con voce roca. “Paga questo bel
cavaliere, dico bene signore?”. Lui annuì sforzandosi di sorridere in risposta
al suo ghigno marcio.
Ci vollero solo poche domande, nel giro delle quali la puttana gli disse cose
che in massima parte già sapeva, per confermare appieno la versione di
Castor. Pochi giorni prima una forza militare di Gilead era arrivata in città
lungo le due piste, quella che dai Calvi costeggia il Lys e quella che aggira le
paludi; i militari avevano messo il blocco alla città e presidiato la
guarnigione, poi erano andati per arrestare lo sceriffo ma questi non era
stato troppo collaborativo: aveva fatto in tempo ad ammazzare qualche
soldato, prima di venire ferito gravemente, ed ora si trovava sotto
sorveglianza chiuso nel suo ufficio. Guardato a vista da molti uomini, sicuro,
perché aveva dato prova di essere svelto e pericoloso con la pistola.
Jonas non ritenne opportuno indagare più di così: declinò gentilmente
l’invito per una commala appassionata nelle stanze al primo piano, poi uscì
rapidamente dal saloon e si avviò lungo la Main Street conducendo il baio
per la briglia.
Decise subito di puntare verso l’ufficio dello sceriffo; quando vi passò
davanti, sul lato opposto della strada, vide due uomini di piantone davanti
all’uscio: le luci accese all’interno rivelavano però la presenza di altri soldati.
Si fermò ad osservare qualche momento ancora, fingendo di armeggiare
con la cinghia del sottopancia, poi si allontanò . Aveva bisogno di un
diversivo, e la pensata giusta gli arrivò quasi all’istante.
Poco più avanti scantonò in una viuzza secondaria e la percorse a passo
svelto tornando indietro; rallentò solo quando riconobbe il retro della
prigione, la sorpassò e poco dopo legò il cavallo alla staccionata di un orto.
Sarebbe stato il colmo della sfortuna se qualcuno fosse passato di lì e se lo
105
fosse preso, ma riteneva l’eventualità un rischio calcolato. In ogni caso non
poteva fare altrimenti.
Il ragazzo si servì rapidamente del contenuto delle selle: prese una
candela, l’acciarino e tanto per essere sicuri qualcuno di quei legnetti che,
quando vengono sfregati, sprigionano all’istante fumo e fuoco; poi riprese a
correre e si lasciò alle spalle anche il saloon mentre si dirigeva rapido verso
lo stallaggio.
3
Il sergente uscì dalla guarnigione ed il brusco cambio di temperatura lo
fece rabbrividire; si sfregò le mani tra loro alitandoci sopra per scaldarsele.
Per quella notte il loro turno era finito; il furiere aveva assicurato che il
cambio sarebbe arrivato al più presto, dunque era ufficialmente in libertà.
Certo, avrebbe dovuto tornare al posto di blocco per aspettare il nuovo
ufficiale di controllo…ma riteneva che ci sarebbe stato il tempo per una
bevuta, e magari anche una sveltina se fosse stata serata.
Con aria soddisfatta l’uomo accelerò il passo puntando verso il saloon
come un cane da fiuto che abbia finalmente trovato una pista sicura.
Jonas non perse tempo; sapeva che il garzone dello stalliere dormiva
nella scuderia, dunque iniziò a picchiare sul portone chiuso per svegliarlo.
Non dovette insistere molto: pochi minuti e la larga faccia da ritardato
dell’inserviente fece capolino dal battenti dischiusi. Appena la vide spuntare
Jonas sferrò un pugno deciso ed il demente volò all’indietro ricadendo con
un tonfo sordo, e senza un grido, sulla paglia. Il ragazzo scivolò subito
all’interno chiudendosi il portone alle spalle: dopo essere rimasto in ascolto
per qualche attimo, rassicurato, accese la lanterna e si diede da fare per
legare ed imbavagliare l’idiota riverso al suolo.
Dopodiché pensò a mettere in atto il suo piano; la scuderia sarebbe
dovuta bruciare come una torcia, per fornirgli il suo diversivo, ma questo non
doveva accadere troppo rapidamente. Il ragazzo sistemò un piccolo
monticello di paglia intorno ad una candela piantata in mezzo alle balle di
fieno, in modo che la punta sporgesse di appena un dito, poi si infilò un
fiammifero tra i denti e diede uno strappo.
Accesa la candela corse fuori trascinandosi appresso il garzone svenuto
ed abbandonandolo nell’ombra di una baracca attigua. Nel ripercorrere a
passo svelto la viuzza verso la prigione aveva già tirato fuori il coltello: di lì a
poco avrebbe dovuto usarlo presto e bene.
106
Era proprio ora di andare: il boccale era vuoto, ma di ragazze scopabili
nemmeno l’ombra. Solo puttane troppo vecchie per essere sbattute senza
almeno un gallone di birra nello stomaco ed una fame arretrata di qualche
mese. Sicuro come la morte.
L’ufficiale mandò giù l’ultimo sorso ed uscì.
In strada, montando a cavallo per tornare al posto di blocco, gli tornò in
mente il ragazzo che aveva fermato neanche un’ora prima. L’uomo si bloccò
a mezz’aria col piede nella staffa.
Un attimo di esitazione, poi si tirò in sella e diede un piccolo scossone
alle briglie.
Percorsi pochi metri, tuttavia, si fermò nuovamente.
Non aveva indugiato in verità sul contenuto del lasciapassare, nemmeno
ricordava ciò che c’era scritto, ma il ripensarvi gli suscitò una sensazione di
curiosità frammista ad un accenno di vergogna per averlo liquidato forse
troppo rapidamente.
Oh, al diavolo!
Dopo un’ultima esitazione l’ufficiale fece girare il cavallo con un deciso
strattone delle briglie e lo spronò al trotto verso il municipio.
Jonas si appostò nell’ombra del vicolo a fianco della prigione, dopo aver
fatto ritorno correndo ed essersi sincerato che il cavallo fosse ancora dove lo
aveva lasciato. Da lì poteva tener d’occhio i due piantoni e gli arrivava
persino l’eco soffusa delle voci all’interno; non dovevano esserci più di due o
tre uomini nell’ufficio, e si augurava che l’incendio creasse sufficiente
disturbo da permettergli di coglierli di sorpresa.
Non dovette attendere molto: dopo nemmeno cinque minuti qualcuno
gridò dalla direzione dello stallaggio; alla voce se ne unirono rapidamente
altre, luci si accesero nelle finestre delle case e delle baracche. Jonas si girò
e credette di scorgere un pennacchio di fumo che saliva verso l’alto.
I giochi erano fatti, dunque.
Il piantone ancora sveglio all’ingresso fece qualche passo in strada, poi
scosse bruscamente il compare assopito.
Si sentì sbraitare al fuoco. Il soldato picchiò col pugno sull’uscio che si
schiuse lasciando sporgere una testa ed un paio di spalle in uniforme.
Jonas iniziò a sentire odore di fumo, altre voci gridarono più forti; dalle
case prima silenziose , dall’altra parte della Main Street, uscirono in strada
uomini in brache di pigiama che reggevano torce e si guardavano attorno
confusi.
“Qualcosa brucia!” gridò il soldato; dall’interno Jonas vide uscire un uomo
che reggeva un fucile per la canna.
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“Andiamo” rispose quello; i due corsero lungo la strada scomparendo
presto nel buio.
Jonas aprì e chiuse le dita intorno all’impugnatura del coltello.
4
“Dov’è sai Deschain?”.
L’ufficiale smontò dal cavallo strattonandolo con malagrazia; la curiosità
di poco prima si era trasformata in pericolosa urgenza: come un presagio,
aveva la sensazione che qualcosa non quadrasse. Il soldato di guardia,
stupito per vederlo tornare così presto, accennò verso l’interno della
caserma.
“Signore, lo troverete negli alloggi del comandante; è successo
qualcosa?”.
L’ufficiale non badò alla domanda del soldato, semplicemente lo scansò
e si avviò a larghe falcate nel corridoio della guarnigione.
Henry Deschain, negli alloggi del luogotenente, stava discutendo con
quest’ultimo alla sua scrivania quando l’ufficiale bussò impaziente alla sua
porta.
“È aperto” disse, e l’uomo quasi si precipitò all’interno; il pistolero lo
squadrò sollevando un sopracciglio.
“Caporale?”.
La sua frenesia svanì di colpo. L’ufficiale si sentì un perfetto idiota.
“Io…avevo necessità di parlarvi, signore”.
“Parlate dunque, vi ascolto”.
Una pausa.
“Prima al blocco abbiamo fatto passare un apprendista pistolero; aveva
un salvacondotto con la vostra firma, ha chiesto di vedervi. È già stato qui, io
chiedo?”.
Deschain posò sul tavolo alcuni fogli.
“Caporale, cosa state dicendo? Siete ubriaco?”.
L’uomo deglutì
“Qui non è venuto nessun…”. Il pistolero si blocco spalancando gli occhi,
la mano si contrasse lievemente sui fogli.
Un attimo dopo l’uomo infilava correndo l’uscio seguito dagli occhi attoniti
dei due ufficiali.
Jonas attese che in strada non passasse nessuno, poi saltò in avanti e
ghermì il piantone rimasto di guardia tappandogli la bocca con la mano ed
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affondandogli il coltello in gola; il povero ragazzo morì con pochi sussulti e,
cosa molto più importante, senza clamore. Trascinò il cadavere nell’ombra,
poi imbracciò lo sparasvelto ed avvicinatosi alla porta la scostò con la punta
dello stivale.
Il caldo all’interno dell’ufficio era una cappa soffocante dopo il freddo
della notte, permeata dall’odore untuoso di una zuppa di carne che
sobbolliva in una piccola marmitta sulla stufa arroventata. Un ragazzo in
casacca blu con lo schioppo allacciato alla schiena la stava rimescolando
proprio nel momento in cui Jonas era entrato. Sentendo il rumore della porta
che si apriva si era girato con un’espressione tranquilla sul volto: il suo
sorriso aveva tuttavia lasciato il posto ad una espressione di confuso
smarrimento nell’inquadrare lo sconosciuto e, soprattutto, la grossa bocca
da fuoco che questi gli puntava contro.
“Girati e mettiti contro il muro” disse. Quello lo squadrò con aria ebete.
“Avanti dannazione!”
“Michael? Che succede?”.
Un’altra voce, questa proveniva dal retro. Jonas scattò in avanti e colpì il
soldato all’altezza del mento col calcio dell’arma: lo schiocco fu sonoro,
come di un ramo secco che si spezza.
Sentì passi affrettati alle sue spalle.
“Fermo!”.
Il rumore del fucile che veniva armato fu quasi contemporaneo al suo
movimento: si girò spianando il mitragliatore mentre il miliziano, appena un
po’ più grandicello di quello che aveva appena tramortito, aveva già fatto
scattare il colpo in canna e gli stava puntando addosso il suo ingombrante
archibugio. Senza sapere bene cosa aspettarsi premette il grilletto.
Il sussultare dell’arma lo colse totalmente di sorpresa: nelle sue mani lo
sparasvelto si impennò verso l’alto in un assordante rumore di trivella
mandando fiamme arancioni dai buchi della canna e vomitando una
grandine di proiettili che investirono il povero soldato uccidendolo all’istante,
aprendolo in due dall’anca fino al cranio che si spaccò come un frutto
maturo. Jonas urlò terrorizzato mentre il dito rimaneva incollato sul grilletto
ed il piombo devastava l’ufficio crivellando i muri ed il soffitto e svellendo
mensole e rastrelliere; quando alla fine riuscì a dominare di nuovo l’arma ed
a farla smettere non poté non osservare incredulo, per alcuni preziosi
secondi, la devastazione che aveva appena causato.
Non aveva mai sparato con un mitragliatore, né Fardo si era mai
addentrato troppo in spiegazioni al riguardo di queste armi salvo dichiarare
che erano proibite a qualsiasi titolo dalla legge di Eld. Ora credeva di capire
il perché: le armi che uccidono in modo troppo rapido e facile non possono
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essere accettate dai pistoleri; semplicemente non fanno parte del loro credo.
Con esse si uccide con la mano, non col cuore, e questo secondo loro è
profondamente sbagliato.
Molto probabilmente l’Affiliazione aveva resistito ad usare gli sparasvelto
per i suoi fini, fossero anche di bene, per evitare che a qualcuno venisse la
tentazione di impiegarli a sproposito. E visti i risultati di una sola raffica,
Jonas non si sentiva di dare troppo torto a quel credo.
“Biondo, sono qui!”.
Il ragazzo si riscosse al suono della voce dello sceriffo: si passò lo
sparasvelto ad armacollo fiondandosi nel corridoio delle celle per andare a
liberarlo. Nel passaggio l’aria sapeva di sangue e urina ed era illuminata
dalla luce fioca di una lanterna appesa vicino al vano della porta. La prese.
“Nell’ultima, dannazione, muoviti!”.
Quella che lo incitava era la voce roca di un uomo debole, e Jonas si
augurò per lui che avesse ancora abbastanza forza per reggersi in sella.
Si accostò all’ultima cella del corridoio: lo sceriffo era riverso sulla
branda, vistose fasciature intrise di sangue si incrociavano sul suo ventre ed
avvolgevano la spalla destra. Il volto era pallido, di un malsano colore
giallognolo: l’aspetto chi si era fatto troppo vicino al gran passo e non si
trovava certo sulla via della guarigione.
“Dannazione biondo, non sai quanto sono felice di…”.
L’uomo si girò su un fianco, sostenendosi col braccio sano, e dopo un
attimo i suoi occhi si accesero di incredulità.
“Tu non sei Calavera, tu…tu sei il ragazzo…”.
“Hai vinto un’oca di fiera, sceriffo”.
Jonas estrasse la pistola e sparò nella serratura: il boato, assordante ma
consueto, servì egregiamente a snebbiargli la testa dal caos di poco prima.
Spalancò la grata con un calcio: l’uomo si tirò subito in piedi reggendosi al
muro, ma sembrava sempre sul punto di collassare.
“Spero per te che tu sia in grado di cavalcare” gli disse, l’altro annuì.
“Basta che mi porti via di qui, poi ti seguirei fino all’inferno se necessario”.
“Allora muoviamo il culo: la situazione invecchia in fretta”.
Jonas tornò di corsa nell’ufficio; non era arrivato nessuno all’eco degli
spari, il soldato tramortito era là dove l’aveva lasciato, riverso a terra con la
mascella scardinata e gli occhi chiusi.
“Un buon lavoro” considerò lo sceriffo, soffermandosi sul morto e sulle
pareti crivellate di proiettili: Jonas non seppe capire se era ironia o
ammirazione.
“Questo però è ancora vivo”.
Il ragazzo fece spallucce.
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“Non spreco colpi quando posso evitarlo. Ora andiamo”.
L’uomo non rispose, invece caracollò verso la scrivania per afferrare un
piccolo quaderno dalla copertina macchiata di sangue, abbandonato su una
pila di scartoffie.
“Non l’hanno nemmeno portato al sicuro, stupidi indolenti figli di
puttana…”.
“Vogliamo muoverci?”. Jonas sbottò esasperato, temendo che la
situazione potesse sfuggirgli di mano; se ne fossero arrivati altri…
Fuori dalla prigione l’odore di fumo nell’aria era ormai ben più che un
sospetto; uomini correvano per strada portando secchi, c’erano perfino
alcuni soldati tra loro, ma nessuno notò i due uomini che sgattaiolavano nel
vicolo. Una volta al cavallo, Jonas issò lo sceriffo e si sedette davanti a lui.
“Non hai pensato a portare due cavalli?”.
Il ragazzo si bloccò improvvisamente col piede nella staffa. No, non ci
aveva pensato.
“Per l’Uomo - Gesù, quanta ingratitudine!” sbottò dando di sproni e di
briglia; pur con carico doppio il baio schizzò via con un nitrito dalle ombre del
vicolo gettandosi al galoppo tra la folla sciamante.
Qualcuno urlò di sorpresa scansandosi in tempo, un uomo urtato dal
cavallo ruotò su sé stesso e cadde travolto sotto gli zoccoli, in ogni caso il
ragazzo non si fermò; era raggiante e stava sorridendo da solo come un
idiota: avrebbe salvato lo sceriffo, dopo tutto, e gli avrebbe fatto sputare tutto
ciò che voleva sapere per mettersi al servizio della causa dei nemici di
Gilead.
Era andato e stava andando tutto alla grande!
Poi da una svolta della strada poco più a valle apparve un piccolo gruppo
di cavalieri in uniforme blu sparati come una fucilata nella loro direzione,
capeggiati da un uomo baffuto che li incitava urlando come un indemoniato.
Jonas seppe, senza bisogno delle presentazioni ufficiali, di trovarsi
finalmente di fronte Henry Deschain: ma fosse anche stato Eld in persona,
era arrivato troppo tardi per fermarlo.
5
Come prima seppe esattamente cosa fare.
Ormai non provava più paura, solo determinazione nel portare
quell’uomo in salvo: perché lui odiava Gilead e non aveva fatto tutta quella
strada solo per farsi impallinare o cadere prigioniero ed essere ucciso
lentamente a loro piacimento.
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Si abbandonò al Tocco, che vibrò in lui nell’imminenza dello scontro.
Estrasse le pistole ed il tempo parve rallentare, le puntò inclinandole
lievemente verso l’interno nel gesto che Fardo aveva cercato per anni,
inutilmente, di correggere a suon di bastonate ed insulti.
Sparò e le sue mani furono piene di fuoco e di tuono.
Uccise, non con le armi ma col cuore.
I primi due colpi furono dedicati alla montatura del capo della posse, e fu
con soddisfazione che Jonas vide sai Deschain ruzzolare nella polvere
prima ancora di poter fare fuoco una sola volta. Gli altri proiettili fulminarono
almeno tre bestie, sulle cui carcasse gli altri cavalieri s’inciamparono
cadendo a loro volta in un guazzabuglio di polvere, nitriti ed imprecazioni.
Alcuni colpi vennero sparati alle loro spalle mentre li sorpassavano, ma la
mira era alta e le pallottole fischiarono senza danno sopra le loro teste.
“Guida il cavallo, sceriffo!” gridò Jonas mentre altri scoppi esplodevano
alle sue spalle; le mani dello sceriffo ubbidirono afferrando le briglie mentre
lui ricaricava conducendo il baio con le ginocchia. Ricordava il bivio nella
piazza polverosa con il cartello che indicava la pista del Lys, e lì si diresse
attraversando la città che brulicava come un formicaio impazzito in quella
notte di incendi e sparatorie. Quando fu fuori dall’abitato, nemmeno cinque
minuti più tardi, e giunse in prossimità del blocco sulla pista sparò ed uccise
ancora: passò tra loro come una lama arroventata attraverso il burro,
cogliendoli totalmente impreparati, lasciandosi almeno tre morti alle loro
spalle. E quando i superstiti si gettarono al loro inseguimento avevano già
accumulato un discreto vantaggio.
Se più avanti ce ne fossero stati altri li avrebbe trattati come meritavano e
come aveva fatto finora. Con piombo e fuoco, perché quella notte Gilead
non avrebbe vinto.
Ad Est il cielo iniziò a tingersi dei colori dell’alba.
112
6
Henry si era fatto mettere sotto come un qualsiasi soldatino inesperto, e
la cosa gli bruciava come se si fosse preso una palla in pieno stomaco.
Spinse via la carcassa del cavallo e dalla bocca dell’animale gli colò in
grembo un fiotto di sangue caldo e appiccicoso; a terra, tutto intorno a lui, la
prima squadriglia di miliziani appiedati guardava con occhi smarriti il
cavaliere che li aveva sbaragliati, da solo e con un’unica scarica di
pistolettate, mentre se la filava verso la città bassa rischiarata dai bagliori
dell’incendio allo stallaggio. Certamente anche questa era opera sua:
sapeva riconoscere un diversivo ben congegnato, specie quando lo usavano
contro di lui.
Qualcuno sparò e per un momento il pistolero, paonazzo in volto e dal
respiro rotto, sperò che il marmittone riuscisse a centrarlo con un colpo
fortunato. Naturalmente non fu così, ma il rumore secco dello sparo ebbe
almeno il merito di scuoterlo.
“In piedi, luridi bastardi, figli del ventre di una cagna!”.
L’uomo colpì con un calcio alle reni un giovane fante che aveva battuto la
testa cadendo e stava cercando di rimettersi in piedi, con l’unico risultato di
farlo stramazzare definitivamente. Poi vide la seconda ondata di cavalieri
che sopraggiungeva, così estrasse la pistola e sparò in aria.
“A valle, pezzi di merda, a valle!” ringhiò, “Andate a prenderlo!”. La
formazione scartò rapida e qualcuno sbandò sull’acciottolato viscido; altri
cavalli nitrirono ed altri soldati rotolarono a terra prima che un piccolo gruppo
di appena sette cavalieri potesse rimettersi in carreggiata.
Decise che avrebbe corso anche lui con loro.
Vedere un cavallo sopravvissuto alla caduta, poco più in là, e saltargli in
groppa stringendo il fucile fu affare di pochi secondi: piantargli gli speroni nei
fianchi per farlo partire ventre a terra richiese ancora meno tempo.
L’avrebbe preso, quel masnadiero che gli aveva fatto fare una così brutta
figura, poi l’avrebbe torturato e ci avrebbe provato gusto nell’apprendere tra
un grido e l’altro chi fosse, da dove venisse e cosa cercasse di ottenere
infilandosi da solo nella tana del lupo.
Rimontò alla retroguardia del drappello nel giro di pochi attimi: c’era folla
radunata al bivio del Lys, e furono loro ad indicare che era fuggito in quella
direzione; pochi minuti dopo passavano per il blocco sulla pista del fiume,
anche quello sbaragliato.
Henry non fece fermare i suoi uomini per prestare soccorso ai feriti
spingendoli invece avanti senza fermarsi, calpestando sotto gli zoccoli del
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suo stesso cavallo i corpi degli uomini abbattuti; se avesse raggiunto il
ponte…
Il pistolero spronò senza pietà fino a portarsi in seconda linea: no,
l’avrebbero riagguantato, mancavano ancora alcune ruote al passaggio ed il
loro cavallo portava un peso doppio, per cui non potevano sfuggirgli. Non
avrebbe cavalcato alla loro testa comunque: era troppo pericoloso esporsi al
tiro di quel demonio, e per una volta mise da parte le sue volontà suicide:
voleva prenderlo, e voleva essere ancora vivo ed in buona salute per poterlo
strapazzare come si deve.
7
Mandy di Calla Terminalis aspettava sul crinale di una collina boscosa a
meno di una ruota dal ponte sul Lys, e mentre il sole sorgeva chiuse gli
occhi e respirò odore di nebbia e di terra.
Non avrebbe invocato il nome di Riza, sarebbe stato fuori luogo, né in
quell’occasione avrebbe lanciato piatti dai bordi affilati per decapitare i suoi
nemici; ma avrebbe fatto del suo meglio per permettere a quel ragazzino di
portare a compimento il suo proposito, se l’avesse visto tornare con lo
sceriffo. Perché era con lui da almeno sette anni e lui era uno dei pochi che
non aveva mai cercato di prendersi a forza quello che lei non voleva dare a
nessun uomo; si sentiva legata, e quali che fossero le motivazioni del
novellino a lei interessava che sai Otis Trenton si tenesse l’anima ben cucita
alla pelle. E nel caso Jonas fosse stato da solo, beh, avrebbe premiato in
ogni caso il suo coraggio perché così voleva la dea.
Mandy aveva due pistole nelle sue fondine, ciascuna con un caricatore di
quindici colpi, molto più precise, potenti e veloci dei catenacci della milizia di
Gilead; avrebbe abbattuto i primi soldati e contava che il trambusto avrebbe
dato loro il tempo per svignarsela. Dopo la palla sarebbe passata al biondo,
che attendeva sull’altra sponda del ponte per tagliare definitivamente
l’avanzata ai soldati.
Passarono pochi minuti, poi sulla strada oltre la base del poggio vide
finalmente sbucare un cavallo con due cavalieri tallonato da una posse di
almeno quindici uomini che guadagnava rapidamente terreno; i fuggitivi
avanzavano scartando a zig-zag sulla pista per offrire meno bersaglio alle
pallottole, ma era comunque un miracolo che non li avessero ancora
abbattuti.
Per lei era ora di andare.
No, non avrebbe chiamato la sua strana dea di risaie e bambini: lì non
era Calla Terminalis e non c’era ragione di farlo. Ma avrebbe cercato lo
114
stesso di uccidere con efficacia, come aveva saputo fare in un altro tempo
ed in un’altra vita.
Mandy spronò ed il cavallo scattò in avanti senza un nitrito; si fiondò giù
dal crinale veloce come una pallottola ed uscì rapidamente allo scoperto
frapponendosi tra il gruppo dei soldati ed i fuggitivi. Non perse tempo a
sparare mentre il cavallo si rimetteva in carreggiata, e il suo non fu
nient’altro che un sanguinoso tiro al bersaglio.
Sembrava li avessero scoraggiati, ma era troppo bello per essere vero;
nemmeno cinque minuti dopo essersi lasciato alle spalle il blocco Jonas
sentì l’eco di nuovi spari ed il piombo miagolò ad una distanza poco salutare
dalla sua testa. Cercando di sostenere lo sceriffo, una montagna di lardo
febbricitante che gli gravava addosso bloccandogli respiro e movimenti,
diede di sproni e il baio sembrò volare sulla pista facendo appello a chissà
quali energie nascoste.
Poi sentì che le mani dello sceriffo abbandonavano la presa intorno al
suo stomaco per portarsi sulle briglie.
“Spara, davanti a Dio…” gli mormorò all’orecchio. “Spara o siamo
finiti…per l’amore di tuo padre, falli fuori tutti…”.
Aye, parli di quello vero o di quello putativo, uomo?
Jonas si girò pistola in pugno ed una pallottola gli scavò un solco
nell’avambraccio sinistro; non sentì nemmeno dolore, rispose al fuoco e
basta ed il cavaliere che lo aveva ferito cadde all’indietro con le braccia
allargate subito travolto dall’impeto dei compagni che lo precedevano. Sparò
ancora due volte, e se non abbatté altri uomini ebbe almeno il risultato di
convincerli a farsi meno sotto.
Ma sai Deschain, che evidentemente sembrava essersi ripreso dalla
batosta facendosi al contempo più prudente, continuava ad aizzarli dalla
seconda linea; Jonas sparò i due colpi che gli rimanevano nel tamburo in
quella direzione uccidendo un altro soldato, ma non ebbe la soddisfazione di
colpire il pezzo grosso.
Poi il cavallo scartò a destra e di nuovo a sinistra e lui dovette afferrarsi
alla criniera con la mano libera per evitare di venire sbalzato di sella; lo
sceriffo lo stava facendo zigzagare, ma aveva idea che sarebbe servito solo
a sfiancarlo prima del tempo o a rompergli una zampa. In ogni caso non era
quello che li avrebbe salvati.
Un’altra pallottola gli fischiò vicina all’orecchio come un calabrone
impazzito e subito dopo sentì un colpo più deciso all’altezza della coscia
destra; se lo stavano sbocconcellando un pezzo alla volta, quei figli di
puttana, e quel che era peggio non aveva idea di dove fossero finiti gli altri.
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Quando la terza pallottola gli scavò una galleria nella spalla, trapassando
il corpo dello sceriffo prima di farsi strada nel suo, insieme al dolore
cominciò a farsi strada il sospetto che li avessero piantati in asso.
Beh, se è così la nostra radura non è mai stata così vicina: ma davanti a
Dio è un fottuto peccato che finisca così.
Jonas pensò a Cindy, e considerò con amarezza che sarebbe stato bello
rivederla…poi, proprio mentre stavano correndo alla base di una collina
boscosa, vide improvvisamente la figura di un secondo cavaliere uscire al
galoppo dalla boscaglia per infilarsi tra lui ed il gruppo della milizia; lo sentì
sparare ed urlare con una voce che conosceva, ed agli spari ed alle urla si
unirono subito altre fucilate, altre grida ed altri nitriti.
Mandy era venuta a salvarli, ed a giudicare dal numero di soldati che
cadevano senza nemmeno rispondere al fuoco era evidente che la sua
comparsa non era stata inaspettata solo per lui.
Questo è Ka, per gli dei pensò, impugnando la pistola ancora carica e
sparando a sua volta di destro: nonostante il dolore la sua mira fu precisa e
pochi colpi vennero sprecati tra uomini e cavalli.
Era Ka, e molto probabilmente lui non sarebbe morto quel mattino;
scaricata che fu l’arma rinfoderò per avere entrambe le mani libere, e spronò
il baio ormai al collasso mentre dopo una piccola salita appariva finalmente il
ponte sul Lys.
Mandy li raggiunse, gli sfilò accanto e gli sorrise trionfante; poi
all’improvviso strabuzzò gli occhi e Jonas vide con orrore che un grande
fiore rosso scuro era sbocciato al centro della sua schiena.
8
Il pistolero pregustava già il momento in cui l’avrebbe preso ed arrostito,
oh si, lo pregustava con gioia ed incitò al parossismo i soldati incurante del
fatto che quel demonio li stesse tenendo a distanza con colpi sicuri; gli sparò
a sua volta qualche colpo ma la visibilità non era buona, tra la polvere ed il
fumo dei fucili, perciò attese che fosse l’avanguardia a fermarlo.
“Mirate al cavallo, cani rognosi!” gridò, “Chi lo uccide dovrà vedersela con
me!”.
Altri soldati spararono proprio mentre il loro animale riprendeva ad
accelerare scartando a zig-zag; il pistolero fece stridere i denti e diede di
sproni rimontando alle prime file, ed aveva già il fuggiasco nel mirino quando
un nuovo aggressore sbucò dal bosco che stavano fiancheggiando calando
su di loro come un uccello da preda.
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Vedendo apparire la nuova minaccia Henry Deschain strattonò la briglia
ed il cavallo scartò bruscamente; i soldati che cavalcavano alla sua destra
ed alla sua sinistra vennero sbalzati di sella come due birilli sotto i suoi
occhi, mentre altre pallottole gli fischiavano intorno cogliendolo allo scoperto,
disorientato e fermo come un bersaglio. Altri due uomini stramazzarono giù,
poi qualcosa lo colpì alla gamba strappandogli un grugnito di dolore che
servì a farlo riscuotere; un ultimo soldato venne abbattuto e cadde con una
giravolta rimanendo impigliato con lo stivale nella staffa, il suo cavallo
imbizzarrito travolse un commilitone in un groviglio di colli e zampe.
Il cavaliere li fronteggiò ancora un momento prima di voltare il cavallo e
ripartire a spron battuto per unirsi al fuggiasco che aveva ripreso vantaggio,
ed Henry vide, per colmo di beffa, che si trattava di una donna. Pieno di
rabbia l’uomo strinse il cavallo con le ginocchia ed estrasse la rivoltella
appoggiandola sull’avambraccio sinistro per mirare con precisione. Attese
ancora un attimo poi premette con calma il grilletto e vide la sagoma che
stava trottando via inarcare la schiena in avanti e lasciarsi poi ricadere sulla
sella.
“Segno un colpo” chiosò mentre i superstiti del gruppo, riorganizzati alla
meglio, gli sfilavano intorno incapaci di fermarsi, ancora urlando e sparando;
e subito dopo il pistolero si gettò nuovamente in mezzo a loro insultandoli ed
aizzandoli, perché anche se il ponte era prossimo non avrebbe lasciato che
gli sgusciassero tutti quanti tra le dita.
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“Mandy!”.
Per un attimo ebbe l’impressione che la ragazza stesse per cadere, e
questa sarebbe stata la sua fine senza che lui potesse farci niente; invece lei
riuscì a raggomitolarsi in sella stringendo disperatamente la criniera del
cavallo, che lo superò e filò dritto verso la corta passerella infilandosi
nell’incastellatura traballante di ferro e legno; a sua volta incitò il baio, poi lo
sceriffo mandò un urlo strozzato e la sua presa sulle briglie venne meno.
Lo sentì scivolare all’indietro e quando si girò, strattonando il cavallo per
farlo fermare, l’uomo giaceva in mezzo alla polvere senza dare segni di vita.
Per un attimo non seppe cosa fare mentre altre pallottole gli fischiavano
intorno: il suo sguardo rimbalzò dal corpo dello sceriffo al ponte a poca
distanza; poi sentì la sua voce nella mente con la stessa chiarezza con cui
l’avrebbe udita se fossero stati a parlare tranquillamente seduti uno di fianco
all’altro.
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<Ci hai provato, ragazzo, ed è questo quel che conta. Ora fila via, non
serve che tu muoia>
Mordendosi il labbro Jonas fece voltare il cavallo ormai esausto e lo
spronò verso gli ultimi metri che lo separavano dalla salvezza.
Henry sentì un soldato acclamare e vide scivolare giù di sella uno dei due
cavalieri: doveva essere lo sceriffo, a giudicare dalla stazza del corpaccione;
l’altro, il ragazzo, quel demonio che gli aveva ammazzato così tanti soldati,
sembrò finalmente spiazzato ed esitò per alcuni preziosi secondi prima di
girare il cavallo ed abbandonare il compare al suo destino.
“È nostro uomini! Avanti, per Gilead!”.
Il pistolero si lanciò nuovamente in prima linea: oh si, l’avrebbe preso.
Torturato. Ammazzato. Non c’era altra cosa per cui valesse vivere in quel
momento, se non condurre quel farabutto davanti alla sua giustizia.
L’uomo estrasse un’ultima volta la rivoltella e sparò in rapida successione
proprio mentre il cavallo sfiancato del fuggiasco si stava infilando
nell’imboccatura del ponte; quando lo vide stramazzare a terra colpito ai
quarti posteriori seppe che la caccia si era finalmente conclusa.
“Uomini, cessate il fuoco e andate a prenderlo!”.
Il pistolero fece finalmente rallentare il cavallo mentre i soldati si
allargavano a ventaglio intorno a lui, lo superavano e convergevano sul
fuggiasco che ora, ed era tutta da ridere, si era rialzato e stava scappando a
piedi.
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Sembrava quasi fatta e quando il cavallo gli stramazzò sotto il culo non
gli sembrò vero che dovesse finire così. L’urto col metallo arrugginito gli
scorticò le mani lacerandogli la camicia ed il mantello, risucchiandogli l’aria
dai polmoni come un colpo di maglio; grazie al cielo non aveva battuto la
testa, altrimenti davvero non ci sarebbe più stata speranza.
Invece perse solo alcuni secondi nel riaversi e, dopo aver tastato i fianchi
per sincerarsi che le pistole fossero ancora al loro posto si lanciò in un
affannoso zoppicare disperato. Il rombo degli zoccoli alle sue spalle si era
fatto più vicino che mai, ma non sentiva più gli spari; sai Deschain aveva
gridato qualcosa, probabilmente volevano prenderlo vivo ed il pensiero di ciò
che gli avrebbero fatto gli mise le ali ai piedi.
Si era quasi dimenticato che c’era ancora il biondo che doveva dire la
sua, ed il suo punto di vista arrivò tempestivo pochi attimi dopo sottoforma di
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un proiettile che stroncò con un colpo preciso un cavaliere che stava per
raggiungerlo.
Altri colpi partirono in rapida successione da dietro alcune rocce sulla
sponda opposta ed i pochi soldati rimasti sbandarono nello spazio ristretto
del ponte facendolo dondolare pericolosamente. Poi Jonas vide il cacciatore
di taglie uscire allo scoperto, approfittando della pausa di fuoco per scagliare
qualcosa nella sua direzione; un attimo dopo era già scomparso mentre
qualcuno gli sparava addosso.
Un oggetto di colore verde scuro, vagamente sferico e delle dimensioni di
un pugno chiuso, atterrò proprio davanti a Jonas e gli rotolò tra le gambe.
In quel momento il ragazzo seppe che avrebbe dovuto correre, e pure se
gli costò un dolore lancinante mise in moto le gambe con tutta la velocità di
cui era capace.
Dal punto in cui si era fermato il pistolero sentì un altro sparo ed il suo
primo pensiero fu che qualcuno di quegli idioti avesse accoppato il fuggitivo;
e non sarebbe stato nemmeno un male, se non avesse esplicitamente
ordinato il contrario. Poi vide un cavaliere stramazzare al suolo e capì che
non era ancora finita.
“Maledizione a Gan!” imprecò. Ce n’era ancora uno ed era stato un idiota
a non preventivarlo: li avevano lasciati alla spicciolata sul percorso per
coprirsi la ritirata ed era più che logico che ne avessero piazzato uno proprio
all’altra estremità del ponte, magari armato di un fucile a canna lunga per
tenere inchiodati i suoi uomini all’imbocco. Aveva infilato una batosta dietro
l’altra in nemmeno un’ora di inseguimento, e l’amarezza era appena mitigata
dall’aver ucciso almeno lo sceriffo. Frustrato l’uomo sferrò un pugno al collo
del cavallo maledicendo la sua avventatezza.
Attimi dopo l’aria venne scossa da un boato ed il pistolero vide una
grossa palla di fuoco giallastro avviluppare l’imboccatura del ponte proprio
dove si erano ammassati i suoi uomini che, colti di sorpresa, stavano
cercando di tornare indietro per mettersi al coperto.
L’uomo diede di sproni per avvicinarsi mentre i soldati gridavano, arsi vivi
da fiamme chiarissime che dovevano certamente essere frutto di qualche
blasfema stregoneria. Poi le travature del ponte scricchiolarono con un cupo
ruggito metallico, i cavi di sostegno si tesero e si spezzarono e subito dopo
la passerella rovinò in basso come trascinata dalle mani di un gigante.
Quando il fumo dello scoppio si diradò, l’uomo poté vedere che le due
estremità della passerella erano cadute nella gola rimanendo penzoloni alle
opposte estremità; e come perfetta ciliegina sulla torta della beffa, dall’altra
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parte del baratro il fuggitivo si stava arrampicando come un ragno sul
troncone ancora appeso.
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Le granate al fosforo bianco erano state un’arma di indubbia efficacia
prima che il mondo andasse avanti: esplosivi ad alto potenziale che
sviluppavano temperature elevatissime, in grado di fondere con facilità le
corazze dei veicoli blindati, il loro vero punto debole era il raggio d’azione più
ridotto rispetto alle cariche ordinarie di dinamite granulare. Ma anche così
trovarsi nel bel mezzo di una nuvola di fosforo in combustione aveva
conseguenze letali per i soldati appiedati, già in mondi dove la scienza
bellica aveva fornito loro protezioni molto migliori delle semplici camicie di
stoffa.
Quella lanciata da Calavera era una Willy Pete prodotta qualche migliaio
di anni prima: anche se era trascorsa quasi un’era il composto chimico
all’interno non ne aveva minimamente risentito; solo l’innesco a tempo era
difettoso, certo anche lui aveva risentito dell’avanzata del mondo, ma
probabilmente fu proprio questo a salvare la vita di Jonas.
La granata rotolò lungo la pendenza del ponte mentre il detonatore
correva come un orologio in ritardo e Jonas cercava di mettere in mezzo più
spazio possibile prima che succedesse ciò che doveva succedere (ed anche
se non aveva idea di cosa sarebbe accaduto, aveva il sospetto che non
fosse nulla di piacevole). Poi l’invisibile conto alla rovescia ebbe termine e la
microcarica interna spezzò l’involucro liberando nell’aria fosforo ionizzato
che saturò subito l’atmosfera nelle immediate vicinanze.
Il povero miliziano che per sua sventura incespicò sulla bomba proprio
mentre esplodeva venne istantaneamente immolato ad una temperatura di
duemilaottocento gradi e di lui non rimasero che ossa carbonizzate; metri
più avanti Jonas venne investito dalla vampa bollente che lo colpì come una
bastonata e gli soffocò il respiro in gola: raggiunto da vapori tossici con la
temperatura di un altoforno il suo mantello e le punte dei capelli presero
istantaneamente fuoco e lui si smanacciò disperatamente la testa
slacciandosi l’abito dal collo prima che le particelle di fosforo raggiungessero
i vestiti sottostanti. Poi arrancò ancora e fu salvo mentre più indietro la
vampa di combustione si espandeva rapidamente come un piccolo sole dai
colori paglierini investendo con la forza di un uragano il gruppo di soldati allo
sbando.
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Altri quattro uomini morirono all’istante con le loro cavalcature, bruciando
come foglie secche, e l’onda termica si propagò attraverso i loro corpi
investendo già smorzata gli ultimi soldati della retroguardia, scarnificando
fino alle ossa i loro volti e le loro braccia con ustioni che anche la medicina
di mondi molto più progrediti avrebbe avuto difficoltà a guarire.
E poi la sottile travatura arrugginita del ponte si spezzò come una corda
di chitarra pizzicata con troppa foga, ed i due monconi caddero verso il
basso trascinando con loro altri poveri disgraziati che ancora urlavano
mentre il fuoco li consumava; con la salvezza quasi a portata di mano Jonas
sentì un’ultima volta il terreno cedergli sotto i piedi ed artigliò disperatamente
le traversine di ferro mentre la passerella si sgretolava evitando per un soffio
di piombare tra le rocce del torrente una ventina di metri più in basso. Il
troncone a cui si era abbarbicato sbatté con violenza contro la parete
rocciosa e le sue dita urlarono di sofferenza mentre strisciava contro la
pietra rimanendo appeso come un pesce all’amo.
Tutto era durato solo pochi secondi.
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Era sopravvissuto a tutto quanto, ma sentiva che non ce l’avrebbe fatta
comunque; era stanco, aveva almeno una pallottola in corpo, voleva solo
dormire. Una mano perse la presa ed i piedi slittarono: rimase appeso solo
con la sinistra dondolando sopra un precipizio di rocce ed acqua. Da sopra
Calavera sparò ancora e la detonazione gli giunse distante ed ovattata:
realizzò che stava perdendo conoscenza e tra un attimo sarebbe precipitato;
poi sentì che il cacciatore di taglie lo chiamava, gli diceva di venire, di
salvarsi, per Dio, ed un attimo dopo anche Mandy gridò il suo nome da
sopra il ciglio della gola. Jonas ricordò che si era condannata a morte
perché lui potesse portare in salvo lo sceriffo; non ci era riuscito, era vero,
ma se avesse mollato la presa avrebbe vanificato del tutto la sua cavalcata
ed i colpi che aveva esploso.
Mentre tirava su il braccio destro e la spalla urlava per la ferita di fucile
decise che avrebbe voluto, avrebbe dovuto esserci, per sostenerle la testa
mentre entrava nella radura alla fine del suo sentiero.
Nemmeno un minuto dopo Eldred Jonas si issava lacero e sfinito oltre la
sommità del precipizio.
Henry riconobbe finalmente la sconfitta; dall’altra parte il cecchino gli
sparò addosso ancora qualche colpo senza colpirlo, poi lo sentì mentre
incitava il ragazzo ad arrampicarsi.
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L’uomo sospirò guardando i corpi anneriti e calcinati dei suoi soldati
sparsi tutto intorno all’imboccatura della passerella.
“Hai combinato proprio un bel disastro” commentò scuotendo il capo, poi
fece girare il cavallo e si avvicinò al corpo dello sceriffo; scese e lo rivoltò
con un calcio, ed il quaderno scritto con quello strano codice cuneiforme
scivolò via dall’interno della camicia con la copertina zuppa di sangue.
Lo raccolse stupito mentre l’amarezza per la sconfitta passava
rapidamente in secondo piano: non gli era stato riferito del sequestro del
registro cifrato, o forse lo sceriffo l’aveva preso da un nascondiglio prima di
fuggire dalla città. Non aveva importanza, la cosa fondamentale era che
adesso ce l’aveva lui.
Il pistolero rimontò in sella e diede una scossa di sproni girandosi a
guardare un’ultima volta il fuggitivo che, dall’altra parte del precipizio, si
metteva finalmente in salvo.
Calavera aiutò Jonas a rialzarsi afferrandolo e tirandolo su di peso,
finalmente al sicuro; il ragazzo lo afferrò per le spalle guardandolo stravolto.
“Mandy…dove…” ansimò, l’uomo indicò più indietro oltre la pila di rocce
dietro cui si era riparato; c’era il suo cavallo vicino a quello del rinnegato e lei
era a terra, raggomitolata nel suo sangue come una bambola di pezza.
Arrancò verso di lei, l’uomo lo aiutò a reggersi, e le crollò praticamente
accanto temendo di essere in tragico ritardo; ma lei girò la testa e gli sorrise.
“Ne ha per poco” commentò Calavera chinandosi sui talloni. “Aye, e non
avrei mai pensato di dirlo, ma mi dispiace che sia finita così; io però lo
sapevo che era troppo pericoloso…”.
Jonas liberò le mani della giovane donna dalle pistole che ancora
stringeva in pugno, le congiunse nelle sue e le sostenne la testa col suo
corpo.
“L’hai salvato?” chiese e lui pensò davvero per un attimo di mentire, di
dirle che lo sceriffo era vivo, vegeto e puzzolente come al solito, proprio là,
dietro quelle rocce a riprendere fiato….
“Non ce l’ho fatta, guerriera” disse invece.
“Non è colpa tua…”. La ragazza tossì spruzzandogli il dorso della mano
di goccioline rosse.
“È bello come mi hai chiamata”.
“È quello che sei, hai combattuto con ferocia e…” Jonas esitò. “Io non
credevo che una donna potesse fare qualcosa del genere”.
Mandy accennò una risata, ma subito inarcò la schiena in avanti
deglutendo e respirando avidamente con un sibilo di sofferenza. Jonas si
sentì malissimo.
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“Scusami se mi sono fatta colpire…” gli disse quando riuscì a calmarsi,
lui scosse il capo sorridendo nell’accarezzargli la fronte. Calavera unì al
gesto una mano guantata ed annerita di polvere da sparo, e la strinse ed
accarezzò a sua volta.
“Ragazzo, Riza dice che ci sono altri mondi oltre a questo…”. Mandy
chiuse gli occhi ed espirò lentamente, e la sua espressione sembrò
rasserenarsi mentre viveva i suoi ultimi attimi.
“…e la vita trova sempre una strada…”.
Jonas sentì lacrime uscire silenziose mentre Mandy di Calla Terminalis
moriva e contemporaneamente, altrove e non certo per caso, una bambina
che portava la morte nel nome ed aveva occhi candidi come un’alba
nasceva gridando.
Ma lui questo non poteva proprio saperlo.
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13
Forse non è necessario, ora, parlare di ciò che fecero i compagni di
Henry mentre questi si dava da fare per far precipitare Nuova Canaan in una
nuova guerra; ma il Bardo ha tempo e fiato da sprecare, lo ascolterete?
Prometto che la storia sarà breve.
Fergus Allgood e Daniel Johns avevano lasciato le mura fortificate di
Gilead il giorno dopo la partenza di Henry alla testa di un piccolo drappello di
uomini della milizia, diretti verso le paludi meridionali della Baronia. La prima
sera di viaggio li trovò accampati poche ruote dopo il Saroni, ai margini di
una grossa tenuta il padrone della quale era stato ben felice di averli sulle
proprie terre; aveva persino offerto loro di passare la notte nella casa
padronale ma sia Fergus che Daniel avevano rifiutato: le comodità li
avrebbero fatti rilassare e non era davvero ciò che volevano, quando erano
in caccia, anche se la preda era ancora in là da avvistare. E non sarebbe
stato un bel gesto godersi la morbidezza di un buon letto quando i loro
uomini si sarebbero dovuti accontentare del sacco a pelo e della terra.
Non poterono fare a meno di parlare quando la cena fu consumata e i
soldati si ritirarono presso il loro fuoco per fumare e giocare ai dadi, e
l’argomento del discorso non poté che essere uno solo: pur essendo
qualcosa che entrambi già sapevano, riconoscere in sua assenza che Henry
Deschain non era più l’uomo con cui erano cresciuti, e che da ragazzo
voleva cambiare il Medio-Mondo portando la giustizia del Bianco fin nei suoi
angoli più remoti, fu qualcosa di simile al trauma di un’amputazione.
“Ha sofferto molto, più di tutti noi, ma giustificarlo sarebbe rendersi
complici” aveva detto Daniel. Fergus non aveva risposto subito: aveva preso
il tabacco, si era preparato una sigaretta e se l’era accesa cercando tempo e
parole da dire.
“Non possiamo capire fino in fondo, non abbiamo vissuto quello che ha
vissuto lui, rendendo grazie a Gan; non so come ci si possa sentire dopo
una cosa del genere…che la tua mente ceda è quasi una conseguenza
obbligata. Lui si ritiene responsabile di quel che è successo” aveva concluso
soffiando fumo, sperando di troncare sul nascere una discussione che
sapeva già sarebbe diventata antipatica, ma l’altro non si era arreso.
“Non lo è, e sappiamo entrambi che non è così; questa non è Mejis,
questo è un paese civile, nessuna banda di masnadieri aveva mai cavalcato
sulle nostre piste e non potevamo immaginarlo. Nessuno poteva, e se colpa
esiste è insieme del governo e della milizia per non aver messo in conto una
eventualità come questa. Non sua”.
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“Sono parole”. La sigaretta di Fergus si accese di rosso mentre l’uomo
tirava, scintillando piano come un occhio di gatto.
“Le parole non servono in questi casi. Tu ed io abbiamo ancora le nostre
mogli e le nostre famiglie: lui no, ed il modo in cui l’ha persa farebbe uscire
di senno anche il più savio degli uomini”.
“Quindi lo giustifichi?” incalzò Daniel alzando lievemente il tono della
voce, “Perdere tutto quello che hai ti autorizza a calpestare i principi del tuo
essere e della tua legge? Quello per cui hai dedicato la vita?”.
Di nuovo Fergus tacque, ma il pistolero colse un movimento della
sigaretta a sottolineare un serrarsi delle labbra; oh no, non andava bene se
anche quando era lontano Henry riusciva a portarli sull’orlo del litigio.
“Amico mio” riprese, rendendo il tono questa volta più conciliante, “Io gli
voglio bene proprio come tu gliene vuoi, ma non posso sopportare questo;
mi sono illuso che in questi anni fosse cambiato, ma mi è bastato cavalcare
con lui per tre giorni per capire che non è così e non lo sarà mai…”.
“E allora cosa vuoi fare?” sbottò Fergus, le mani dell’uomo si sollevarono
ai lati del corpo come due rami scuri per poi ricadere nell’oscurità.
“Sentiamo, cosa vuoi fare per il suo bene, perché è per questo che ti muove,
si?”. Daniel sospirò mentre l’altro tirava con nervosismo dalla sigaretta
facendo luccicare nuovamente la brace.
“Pensavo…” disse bloccandosi quasi subito; per riprendere dovette farsi
forza.
“Pensavo di sfiduciarlo davanti al consiglio, e mi chiedevo se tu fossi
d’accordo nel sostenermi; deve restituire le sue armi, è evidente che non
può più essere un pistolero” si affrettò ad aggiungere parlando rapido, ma di
nuovo si fermò nel vedere il compagno che si alzava in piedi davanti a lui, le
braccia distese lungo il corpo ed i pugni serrati.
Per un attimo temette che gli si sarebbe avventato addosso e che avrebbero
dovuto risolverla a cazzotti; invece Fergus si limitò a parlare, ma lo fece con
voce tanto fredda che gli causò un dolore ben peggiore di quello di una
percossa.
“Fallo e non avrai più la mia amicizia, signor Daniel Johns” disse prima di
girargli le spalle; la sigaretta disegnò un breve arco di luce rossastra nel buio
prima di ricadere nel fuoco ormai quasi spento.
“Vorrei non dover essere costretto a scegliere tra te ed Henry…”
mormorò, ma l’altro se pure aveva sentito non si voltò nemmeno a
guardarlo; vide soltanto la sagoma dell’uomo allontanarsi e coricarsi nel
giaciglio in un fruscio sommesso di coperte.
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“Aye, vorrei davvero non essere costretto a scegliere” ripeté scuotendo il
capo; ma probabilmente avrebbe dovuto farlo, una volta sbrigato quell’ultimo
incarico.
Il mattino dopo i due uomini non parlarono di quella conversazione, era
come se non ci fosse mai stata: decisero entrambi, tacitamente, di pensare
solo al lavoro perché era così che un vero pistolero doveva fare.
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Nel loro spostamento verso Ovest i pistoleri si mossero speditamente
lungo la Grande Via, ben sapendo che i trafficanti non avrebbero avuto dalla
loro una tale rapidità; Fergus propose di bloccarli prima che si addentrassero
nelle foreste meridionali scartando sia l’idea di aspettarli sui Colli della
Forca, perché ciò avrebbe significato concedere loro troppo vantaggio, sia di
attaccarli mentre erano in marcia perché espugnare un cerchio di carri con i
pochi uomini che avevano sarebbe stata impresa difficoltosa.
Decisero dunque di attenderli in un punto dove con ogni probabilità
sarebbero stati obbligati a fare tappa, e il villaggio più prossimo all’itinerario,
che li avrebbe portati vicino all’imbocco della Strada degli Antichi, era un
posto che si chiamava Am’lis e che né l’uno né l’altro avevano mai avuto
modo di sentir nominare; l’eventualità che lo aggirassero c’era ma entrambi
la considerarono poco probabile, e fu soltanto per non averli tra i piedi che
decisero di inviare i soldati qualche ruota più avanti sulla Via, dove questa si
diramava in una lunga pista senza nome che costeggiava le foreste
piegando a Sud-Ovest verso Debaria, e che era l’unica direzione praticabile
da qualcosa di più grosso di un carretto.
Tre giorni dopo essere partiti da Gilead Fergus e Daniel entrarono nel
villaggio come due semplici viaggiatori di passaggio, le armi nascoste nelle
sacche delle selle e i cappellacci calati in testa, e forse soltanto i loro animali
avrebbero potuto attirare qualche attenzione se vi fosse stato qualcuno dal
cervello ancora lesto tra i perdigiorno e gli ubriachi ciondolanti ai margini di
una Main Street polverosa e miserevole.
No, quel buco sudicio non era certo uno dei villaggi in cui erano abituati a
passare, convennero silenziosamente: la zona di confine della Baronia era
povera, lontana dai latifondi nel cuore delle pianure fertili, dalle risaie e dai
frutteti; lì la terra era dura e dal colore giallastro, gli alberi secchi e stentati, e
il villaggio era poco più di un gruppo di catapecchie intorno alla pista, senza
emporio e con un solo, squallido saloon di cui presero nota passandovi
davanti con i cavalli condotti pigramente al passo; prima ancora di arrivare al
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fondo del paese scartarono dalla mente il progetto di chiedere aiuto allo
sceriffo o al borgomastro, perché a quanto pareva nel villaggio non c’era né
l’uno né l’altro .
Al termine della strada si lasciarono il paese alle spalle proprio come se
fossero stati due viandanti, per tornare indietro subito dopo tagliando
attraverso i boschi, e mettere il campo in una piccola macchia a poca
distanza dalla pista; fu Fergus ad avvistare la carovana, tre giorni dopo, ed a
contare nelle lenti del suo binocolo tre piccoli carri con cinque cavalieri di
scorta, e rimase a spiarla col binocolo dalla boscaglia fino a quando non
vide i carri fermarsi in un piccolo spiazzo appena prima del paese e gli
accompagnatori proseguire verso le baracche uscendo dal suo angolo di
visuale.
Diede loro qualche minuto di vantaggio prima di andare ad avvertire
Daniel che era finalmente ora di andare in scena.
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Il saloon di Am’lis non aveva neppure un nome ed a stento poteva
considerarsi tale: non era nulla più che una lercia osteria per bifolchi dalle
pareti annerite di fumo ed il pavimento chiazzato di sputi, segnalata
all’attenzione dei passanti dal cartello “cantina” appeso di sghembo sulla
porta a battenti. Papà Dwayne la teneva aperta soltanto perché a tutti, ma
proprio a tutti (davanti a Dio, anche agli zappaterra di quel villaggio di
quaranta anime) piace bruciarsi le viscere per dimenticare i propri guai; e se
le gole da servire sono tanto bruciate da non distinguere nemmeno più il
whisky dal macerato di erbe, corteccia di betulla e carburante da lampada,
allora il margine di guadagno che un onesto imprenditore poteva ritagliarsi
era tale da giustificare la fatica di tenere aperta l’attività.
Come sempre succedeva verso mezzogiorno Papà Dwayne era dietro al
banco mentre sua moglie, sul retro della casa, si dava da fare accudendo
galline e conigli; l’uomo si era svegliato da poco e si stava facendo un
solitario (che il diavolo se lo portasse, se riusciva a farlo venire!) quando
aveva sentito la porta a battenti cigolare ed i passi cadenzati degli avventori
rimbombare sul tavolato. Aveva alzato lo sguardo cisposo con un sorriso
d’accoglienza e compiacimento stampato sul viso grasso
(Di nuovo quell’ubriacone di Bert? Oppure è quel grosso porco di Owen
Slag, che puzza così tanto di cavalli e merda da sembrare lui stesso una
stalla?)
ma gli era bastato inquadrare le grinte dei quattro uomini appena entrati per
farselo subito passare; l’uomo fissò con la bocca semiaperta i nuovi arrivati,
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la carta che reggeva nella mano, bloccata a mezz’aria per lo stupore, gli
sfuggì e fluttuò lentamente oltre il banco soltanto per venire calpestata da
stivali incrostati di fango mentre la processione gli sfilava dinnanzi andando
ad occupare un tavolo in fondo alla piccola sala ancora deserta.
“Queremos beber” aveva sibilato nella sua direzione quello che
sembrava il capo, un uomo alto e magro dal viso rugoso color terraglia, per
metà in ombra sotto la tesa di un ampio cappello adorno di monete e lustrini;
Papà Dwayne si era riscosso e, pur non avendo capito un’acca di quello che
gli aveva detto quel brutto muso, si era affrettato a tirare fuori da sotto il
banco una bottiglia di whisky nuova direttamente dalla sua riserva
personale. Qualcosa gli diceva che quelli non erano i suoi clienti abituali, né
che erano disposti a trangugiare i suoi veleni.
L’uomo piazzò più in fretta che poteva la bottiglia e quattro bicchieri sul
vassoio, poi si affrettò a portarla al tavolo. Nell’accostarsi ai quattro uomini
l’odore di sporco e di bestie che emanavano lo colpì come un pugno al volto
serrandogli la gola: abbandonò il tutto sul piano di legno, poi deglutì e cercò
qualcosa da dire.
“Volete altro?”.
L’uomo sollevò lo sguardo piantandogli in viso due occhi giallastri venati
di rosso, che ebbero il potere di fargli ritrarre all’istante uccello e coglioni nel
ventre.
“Soltanto che ti togli dal cazzo, hombre” aveva detto: e se l’ultima parola
gli era nuovamente sconosciuta, malgrado il forte accento non poteva
dubitare sul significato delle prime sei. Papà Dwayne arretrò tornando a
rintanarsi dietro il suo bancone.
Davanti a dio, da dove erano usciti quelli? Li spiò mentre maneggiavano
la bottiglia, udì parole che non comprendeva scambiate in una lingua veloce
e sciolta mentre il vetro dei bicchieri tintinnava sommesso; poi l’uomo che gli
dava la schiena si era sporto a prendere una sigaretta da un compare, ed il
movimento aveva fatto scivolare di lato il lungo spolverino che portava: alla
vista della pistola allacciata al fianco il povero Papà Dwayne si sentì
avvampare, malgrado la giornata fosse tutto meno che calda. Am’lis era
sempre stato un posto tranquillo, e da quelle parti le uniche cosa che
assomigliavano vagamente ad armi erano i forconi dei contadini: non c’era
nemmeno uno sceriffo, in paese non si era mai visto un uomo con una
pistola…l’oste sbirciò di sottecchi quegli uomini che di momento in momento
assumevano sempre più le pericolose sembianze di masnadieri, venuti da
chissà dove, diretti chissà dove, con chissà quali affari da sbrigare in un
posto come quello, e pregò l’Uomo-Gesù che finissero di bere e girassero in
fretta i tacchi.
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Raggiunto in pochi minuti da Fergus all’estremità opposta del paese,
Daniel controllò un’ultima volta le armi per accertarsi che fosse tutto in
ordine; l’occasione che si era presentata era troppo propizia per lasciarsela
sfuggire, i rischi per i paesani tutto sommato ridotti dato che non si vedeva
un’anima viva circolare per il paese. Li avrebbero pizzicati al saloon, e se
tutto andava bene li avrebbero messi rapidamente in condizione di non
nuocere.
L’uomo chiuse con uno scatto deciso il tamburo della pistola; e senza
perdere altro tempo, i due compagni risalirono a passo spedito la Main
Street polverosa.
A quest’ora l’alcool avrebbe dovuto entrare loro in corpo, a giudicare da
come lo tracannavano: si sarebbero dovuti sentire come minimo degli
accenni di risate, le voci di quegli uomini avrebbero dovuto stemperarsi nella
cadenza un po’ impastata di chi si attacca alla bottiglia a stomaco vuoto.
Invece no. Rimanevano tranquille e veloci, senza una vena d’incertezza,
così come i loro movimenti che spiava con brevi occhiate mentre fingeva di
aver ripreso il suo solitario.
L’uomo che doveva essere il capo, quello con quei brutti occhiacci da
avvoltoio, aveva tirato fuori del pane e della carne dalla bisaccia ed i quattro
si erano messi a mangiare come le persone più tranquille del mondo. Papà
Dwayne si chiese, per la quarta volta almeno nel giro di cinque minuti, chi
diavolo fossero quelli che avevano tutta l’aria dei tagliagole di professione.
Cacciatori di taglie, forse? Più probabile che fossero fuggiaschi dalla
giustizia della capitale, o perché no, ricercati perfino dai governi di altre
Baronie venuti a far perdere le loro tracce nelle foreste di confine di Gilead…
Un nuovo rumore all’ingresso attirò la sua attenzione: e come a
confermare il detto che i guai non giungono mai soli il povero oste si trovò
con rinnovato sgomento a fissare la figura di Fergus Allgood, così
pericolosamente simile nell’abbigliamento ai quattro uomini entrati poco
prima, con le mani distese sui battenti della porta ed uno strano sorriso
malandrino stampato sul volto.
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I trafficanti inquadrarono il pistolero e nelle loro teste di canaglie allenate
scattò subito un vago campanello d’allarme; il pistolero inquadrò i trafficanti
ed il suo sorriso si allargò ancora di più arricciando i sottili baffetti che
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portava ben curati sotto il naso. Seguito da quattro sguardi incuriositi ed uno
desolatamente smarrito l’uomo puntò dritto verso il bancone misurando il
pavimento a larghe falcate; giunto a destinazione si appoggiò con il gomito
proprio in mezzo al solitario di Papà Dwayne, e quest’ultimo per tutta
risposta si ritrasse come un vampiro a cui venga mostrato un crocifisso.
“Da bere, mio buon amico!” disse in una presentazione eloquente di
gioviale bevitore, e il povero oste considerò che molto probabilmente
avrebbe fatto un migliore affare se quella mattina non avesse aperto il suo
spaccio di veleni.
Daniel vide Fergus entrare con passo sicuro dalla porta a battenti del
saloon, il cinturone nascosto sotto il soprabito cerato, e pregò in cuor suo
che l’amico non combinasse guai; dopo aver controllato che nessuno
passasse attraversò la Main Street ed aggirò il saloon portandosi sul retro:
dall’altra parte di un piccolo fazzoletto di terra recintato da una palizzata
c’era una piccola porticina che si apriva nel muro accanto ad una tettoia che
riparava alcune stie.
Ma proprio quando l’uomo stava per gettarsi allo scoperto attraverso l’
orto vide emergere dalla porta la figura di un donnone in foulard e grembiule;
si bloccò appena in tempo acquattandosi dietro la palizzata con la pistola in
pugno. Sbirciando dalle assi sconnesse inquadrò subito il culo sollevato
della matrona intenta a strappare mazzi di erbacce secche da alcuni solchi
scavati nella terra, con l’aria di chi si è messo a fare quel lavoro e nay, non
se ne andrà fino a quando anche l’ultima malerba non sarà stata stanata.
“Davanti a Dio, anche il giardiniere fuori misura!” sbottò mentre perdeva
attimi preziosi decidendo come sbarazzarsene.
“Allora?” chiese nuovamente Fergus, piantando in volto all’oste due occhi
mobili. “Dov’è la mia bi-bi-birra, uomo? La faccenda invecchia rapidamente
qui!”.
“Io..:” borbottò l’uomo, al ché Fergus decise di svegliarlo sbattendo una
manata sul banco e sollevando una nuvola di carte da gioco.
“Sveglia! Questo è un posto dove si beve, no? Tira fuori il tuo veleno ed
io farò lo stesso col mio denaro! Muoviti che il giorno muore!”.
Il pistolero non aveva perso di vista un istante il gruppo dei trafficanti, ed
aveva notato un rapido succedersi di espressioni sulle loro brutte facce:
prima la sorpresa, ora il disinteresse, e forse sarebbe anche venuto il
fastidio perché le canaglie perdono la pazienza facilmente, oh si; forse
avrebbero anche avuto la pensata di venire lì a stuzzicarlo, nel qual caso gli
avrebbero risparmiato la fatica di improvvisarsi provocatore, o forse se ne
130
sarebbero rimasti nel loro angolino a malapena disturbati dal suo vociare; in
ogni caso lui non aveva proprio idea di lasciarli stare.
Vide l’oste prendere un boccale e saettare verso un barile dal coperchio
incrostato di sudiciume: lo immerse e lo tirò fuori gocciolante di una broda
paglierina che non avrebbe bevuto nemmeno sotto tortura; quando gliela
mise davanti, titubante come se stesse portando il cibo ad una belva, il
pistolero bevve un piccolo sorso dopodiché sputò di lato con tutte le forze
che aveva.
“In fede mia, ci hai pisciato dentro?!” strepitò, l’altro alzò le braccia al
volto come a voler proteggersi.
“Dannazione, mai assaggiato nulla di così schifoso!” rincarò spazzando
via il boccale con un colpo della mano: cadendo non si spaccò nemmeno,
rimbalzò invece sulle assi lerce rotolando sotto un tavolo mentre tutto intorno
si spandeva liquido e schiuma. Non mancò di notare come a quel gesto uno
dei trafficanti avesse accennato un guizzo di movimento, subito riportato
all’ovile dalla mano di uno dei suoi compari piombata a redarguirlo sulla
spalla.
Ora, ne era certo, aveva tutta la loro attenzione
L’oste seguì con lo sguardo il boccale che volava via, poi fissò l’uomo
con occhi imploranti e fece per parlare ma questi lo bloccò subito levando un
dito e spianandoglielo davanti agli occhi.
“Non lo conosci il de-de-detto? Il cliente ha sempre ragione, e se io non
l’avessi sarei proprio un coglione!”.
L’uomo abbrancò una bottiglia appoggiata vicino alle carte sparpagliate,
piena per metà da un liquido denso color marrone scuro, ed ignorando il
gesto allarmato del locandiere la sturò e ne fiutò il contenuto: dalle
profondità vetrose del recipiente salì un afrore tanto potente da fargli
lacrimare gli occhi, così la allontanò rapidamente e la tappò con sollievo.
“Ma non c’è qualcosa che valga la pena di essere bevuto, qui dentro?”.
L’uomo sbatté i palmi sul banco, poi si girò appoggiandosi di schiena ed
incrociò gli sguardi dei trafficanti; di certo Daniel era già andato ad
appostarsi, gli aveva dato tutto il tempo necessario a prendere posizione.
Era tempo di dare fuoco alle polveri.
“Ehi voi, pellegrini, che c’è là dentro?”.
Dietro al banco Papà Dwayne innalzò una preghiera silenziosa all’UomoGesù ed a tutti i suoi santi.
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Daniel tormentò il grilletto della pistola, la rinfoderò, la estrasse
nuovamente; non poteva spararle e non poteva romperle la testa col calcio
dell’arma, se non altro perché non sarebbe stato carino comportarsi così
verso chi era pur sempre una signora. Poi udì provenire dal locale la voce
squillante di Fergus, e fu come se avesse ricevuto una sferzata di pungolo:
attese che il donnone si fosse girato un’altra volta e si fiondò verso di lei
macinando la terra gelata con passi ben distesi e quasi del tutto silenziosi;
quando fu prossimo la vide accennare un movimento, ma fu più rapido e le
scivolò alle spalle premendogli la mano sulla bocca e piazzandole la canna
della pistola tra le scapole.
“Non un fiato, donna, o ti uccido” sussurrò; anche se non aveva certo in
animo di tener fede all’avvertimento quella inarcò la schiena in avanti e si
lasciò scappare un gemito strozzato, seguito quasi subito da uno più
rumoroso localizzato maggiormente in basso. Poi si afflosciò come un sacco
di patate e Daniel barcollò all’indietro nel tentativo di sostenerla, scegliendo
poi di lasciarla cadere nel solco senza troppi riguardi.
“Spiacente sorella” si scusò, toccandosi la fronte con la canna dell’arma,
per poi gettarsi con un solo balzo attraverso la porta posteriore del saloon
mentre le galline strepitavano ed il compagno proseguiva il suo gioco
pericoloso.
“Sai, davvero…” protestò l’oste con voce flebile, ma Fergus lo zittì
nuovamente sollevando la mano senza nemmeno girarsi.
“Ehi, amici, non vorreste darmi un goccetto?”.
I trafficanti si guardarono tra loro, poi, quando tornarono a dedicargli la
loro attenzione, vide chiaramente che la ‘fase fastidio’ era bella che
sopraggiunta.
“Avanti, ce n’è ancora tanto lì dentro, non volete darne un goccio ad un
viaggiatore assetato quanto voi?”.
“Fancullo” biascicò per tutta risposta un uomo con un largo sombrero
piantato in testa.
Fancullo, con due ‘L’! Questa è tutta da ridere!
“Vai fuera de aquì, idiota figlio di puttana” aggiunse scandendo bene le
parole e farcendo l’ingiuria con uno sputo catarroso che si appiccicò al
pavimento come un grumo di caramello.
Fergus udì tramestio dietro il banco, e ne dedusse che il taverniere era
andato a rintanarsi; un uomo saggio, dopotutto, anche se spacciava veleni
infami.
“Oh dei, sboccato e per di più ignorante” chiosò, “E se tanto mi da tanto
devi avere le mie stesse origini, amico mio: ma dal tanto brutto che sei,
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prendendo per buono ciò che dicono i saggi, e cioè che i tratti dei genitori
passano ai figli, mi riesce difficile credere che qualcuno si sia scopato tua
madre sborsando denari, senza invece avere un incentivo potente come,
chessò io, l’alternativa della forca”.
Fergus sentì il sorriso distendersi sul volto e contemporaneamente i suoi
sensi farsi vigili ed attenti: avvertì nitido lo scricchiolio delle assi dietro il
bancone, colse il guizzo del muscolo sulla guancia del trafficante che aveva
rimbeccato ed il lieve spostarsi della mano del compare alla sua sinistra,
probabilmente ad accarezzare il calcio di una pistola; nel momento della
tensione lo divertivano quelle idiozie infantili, Dio solo sa quanto, ma anche
nell’indulgervi non si concedeva comunque il pericoloso lusso della
sventatezza. Anzi, era quasi un modo per distendere la mente e mantenere
la concentrazione: c’è chi medita e chi beve il the considerò, ed io per
rilassarmi sparo cazzate.
“Cos’è questa puzza di merda che sento?” rincarò arricciando il naso
come un coniglio. “Siete voi stronzi o è scoppiata la latrina?”.
L’uomo col sombrero, ora l’espressione più confusa che irata
(evidentemente doveva essersi perso qualche passaggio fondamentale del
discorso) si girò verso uno dei due tirapiedi, e Fergus ne approfittò per far
scendere impercettibilmente le mani all’altezza del fianchi.
“Yo no comprendo lo que dice...”
“Dice que tu madre es una perra repugnante, jefe...”. Il tono del compare
si fece incerto, “...y que hemos el olor de la mierda...”.
L’uomo inspirò rumorosamente con un fischio minaccioso. Ora che la
faccenda gli era stata spiegata per benino, non avrebbe più avuto scuse per
fare qualcosa di veramente stupido.
“Realmente?”
Fergus lo vide chiaramente anche se il gesto fu estremamente rapido; nel
momento stesso in cui la pistola gli veniva puntata contro si era scansato di
lato, ed aveva estratto a sua volta per fare fuoco quando il rumore di una
detonazione, che non proveniva da nessuna delle armi in vista, l’aveva colto
di sorpresa. La pistola volò via dalla mano tesa del trafficante.
“Rayos!”.
Nella porta del retrobottega, prima chiusa ora spalancata, c’era Daniel
con le pistole in pugno spianate all’altezza delle reni.
Il trafficante ferito si strinse la mano al petto; i suoi compari esitarono un
momento, poi fecero per scartare di lato ma Fergus sparò rapidamente
mandando qualche pallottola a conficcarsi nel legno dell’impiantito proprio
davanti ai loro piedi.
“Che cazzo aspettavi a disarmarlo?”.
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La voce di Daniel suonò stizzosa. “Tu e i tuoi giochi da bambini”. Fergus
si strinse nelle spalle.
“Era lento, l’hai visto anche tu. Su piccoli, da bravi” continuò, “Avete
sentito paparino? Buttate le armi a terra”.
In quel momento i due uomini sentirono un rumore di passi affrettati nella
direzione dell’ingresso e la situazione precipitò rapidamente.
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“Jefe! Que pasò?”
Fergus colse il movimento della porta a battenti con la coda dell’occhio, e
continuò a tenere sotto tiro i quattro uomini mentre Daniel sollevava il cane
col pollice.
In quel momento il capataz del gruppo, malgrado ferito e sotto tiro, gridò
un avvertimento al compare in arrivo: Fergus fece scattare il braccio
colpendolo al volto con la canna del revolver, di certo fracassandogli
qualche dente senza tuttavia impedirgli di metterloe in definitivo allerta.
Partì un colpo (la voce sembrava quella di un fucile) ed il cappello di
Daniel volò via. L’uomo gridò di sorpresa e fece fuoco a sua volta, e subito si
sentì un altro grido di tono molto più acuto seguito da un frenetico scalpiccio.
Qualcosa di puzzolente afferrò Fergus alle reni facendolo franare a terra, la
punta di uno stivale ferrato lo colpì al ventre una, due volte in rapida
successione mentre il trafficante ferito si vendicava degli affronti appena
subiti, per poi sfoderare e brandire minaccioso una lunga navaja.
Daniel sparò nuovamente
“Figlio di puttana!”.
Fergus cadde, il trafficante gli sferrò un calcio allo stomaco mentre il suo
compare lo teneva stretto, e mise mano al coltello con una rapidità che non
si sarebbe detta possibile in un uomo già ferito: morì tuttavia fulminato da
una pallottola della pistola di Daniel, che lo trapassò alla gola prima che
avesse realmente tempo di nuocere. Un attimo dopo il pistolero a terra si
divincolava e spianava sotto il naso del suo aggressore la rivoltella armata, e
non c’era più traccia di gioco nella sua espressione. L’uomo si ritrasse di
scatto lasciandolo andare ed alzando le mani, lui lo colpì violentemente alla
tempia facendolo stramazzare per poi rialzare la canna e rimettere sotto tiro
i due superstiti che a differenza dei loro compari più coraggiosi non avevano
osato giocare il tutto per tutto.
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Una bottiglia rotolò giù dallo scaffale dietro il banco, accompagnata
dall’ansimare sconvolto del povero papà Dwayne che quel giorno aveva
fatto il pieno d’emozioni per tutti gli anni che gli restavano da vivere.
Fergus si scrollò di dosso il corpo riverso dell’uomo tramortito.
“Vai a prenderlo” disse soltanto, il dolore allo stomaco rapidamente in
secondo piano rispetto al pensiero dell’uomo ferito che se la dava a gambe.
Daniel non ebbe bisogno di quell’incitamento: si gettò fuori dalla porta a
battenti mentre l’uomo arrancava zoppicando verso i carri e la gente iniziava
a mettere fuori il naso da dietro gli usci e le imposte; gridò un avvertimento e
quello per tutta risposta si girò e sparò ancora mancandolo di misura. Il
pistolero decise che ne aveva abbastanza e questa volta mirò alla testa: un
attimo dopo le pozzanghere nel fango della Main Street venivano inondate
da una considerevole pioggia di sangue e rigaglie.
Non si fermò nemmeno: scavalcò il cadavere decapitato con un salto
giusto in tempo per vedere i carrettieri che avevano già fatto voltare i tiri di
buoi, ancora tuttavia indecisi sul da farsi. Gli bastò sparare in aria per
sciogliere immediatamente le loro indecisioni: li vide gettare a terra redini e
pungoli, ed alzare le mani al cielo con i palmi bene in vista.
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“E qui non avete nemmeno uno sceriffo?”.
Papà Dwayne si strinse nelle spalle, sbirciando dal basso in alto il cipiglio
sporgente di Fergus nella sala comune del saloon, temporaneamente adibita
a prigione. L’uomo si versò una dose di torcibudella con mani tremanti, ed
anche se buona parte del liquido si riversò fuori dal bicchiere non se ne
ebbe a male: tracannò d’un sorso quello che c’era e se ne versò ancora.
“Nessuno dei villaggi al confine ha uno sceriffo” disse timidamente,
“Siamo troppo poveri per stipendiarne uno”.
“E loro di certo ci contavano” sottolineò Daniel.
Fuori dal saloon il cielo si era rannuvolato ed il pomeriggio minacciava di
finire in acqua, ma questo non sembrava scoraggiare la piccola folla di
curiosi rumoreggianti che si era lentamente radunata per sbirciare all’interno
senza tuttavia avere il coraggio di mandare alcun rappresentante ad
informarsi su ciò che era successo.
“È la prima volta che passa di qui gente come questa?”. Il taverniere
annuì.
“Per l’Uomo-Gesù, si! Questo è sempre stato un posto tranquillo,
nessuno era mai morto di piombo fino…fino ad oggi” si corresse,
concludendo in un bisbiglio.
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“Aye, è la sorte destinata a chi si mette contro Gilead” scherzò Fergus,
col solo risultato di far diventare l’oste piccolo piccolo.
“Ok, come non detto” ritrattò con un sospiro versandosene uno anche lui.
Daniel squadrò i carrettieri ed i trafficanti legati in un angolo; anche i
secondi, ora, avevano perso molto della loro grinta: è innegabile come una
corda intorno ai polsi possa ridurre a più miti consigli anche l’uomo più
risoluto, considerò. Gli venne da sorridere.
Se mi metto anch’io a pensare stronzate nel tuo stile, Fergus-sai, c’è
davvero di che preoccuparsi…
“Sarà stata la prima volta che battevano questa pista, in fondo anche da
Brea si arriva alle paludi; se il nostro comune amico fosse qui” aggiunse “Mi
sento di scommettere che li avrebbe fatti parlare a modo suo”.
Fergus annuì, ma l’osservazione ebbe il potere di fargli sparire il
sorrisetto dal volto.
“Ora che si fa?”.
“Torniamo alla capitale con tutto il carico, che altro?”. Fergus bevve.
“Che se la sbrighino saggi e sapienti a catalogare quel ciarpame, io non
voglio nemmeno toccarlo”.
“Non raggiungiamo Henry?”.
“Se la caverà a meraviglia, e ho come l’impressione che senza noi due
tra i piedi si senza più libero di condurre le investigazioni in qualsiasi modo
ritenga opportuno”. L’uomo se ne versò un terzo, e l’espressione di Daniel
gli fece capire perché aveva deciso di attaccarsi così alla prima bottiglia
bevibile che aveva trovato, quasi si trattasse della sigaretta dopo la scopata:
il loro compagno si sarebbe mosso in qualsiasi modo ritenesse opportuno,
ed entrambi sapevano cosa volesse dire.
20
Daniel partì per andare ad avvertire i soldati, Fergus si rimise sulla strada
del ritorno da solo dopo aver messo al sicuro il trafficante superstite, ben
legato nel carro di testa, ed aver fatto presente ai carrettieri che se avessero
creato problemi avrebbe schiarito le loro idee a pistolettate; fu comunque più
tranquillo quando gli altri lo raggiunsero poco prima dell’imbrunire.
Tre giorni dopo erano già rientrati alla capitale, tuttavia Henry non era lì
ad attenderli ed entrambi avrebbero presto appreso la fine che aveva fatto.
Ma questa è un'altra storia, e si dovrà raccontare un'altra volta.
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Il rito del passaggio
137
138
1
Mandy venne seppellita in una radura di betulle, in un boschetto a
margine della pista cinque ruote dopo il ponte sul Lys, sotto un cumulo di
sassi com’era usanza fare quando non ci si poteva fermare a scavare una
fossa.
I due uomini rimasero in silenzio ad osservare la sepoltura, poi si rimisero
in cammino perché c’era ancora molta strada da fare.
2
La sera arrivò rapida portando nebbia e gelo, sorprendendo i fuggitivi
accampati lontano dalla pista presso le propaggini della macchia; c’era un
fuoco nel campo, anche se era un rischio, ma nessuno dei due se l’era
sentita di rinunciarvi perché c’erano pallottole da togliere e ferite da
cauterizzare.
Accovacciato sulla coperta davanti al compare che aveva medicato,
discretamente e senza troppa sofferenza, le ferite alla gamba ed alla spalla
Jonas mangiò in silenzio carne secca della consistenza del cuoio conciato e
subito dopo iniziò a smontare e pulire le sue pistole come era opportuno fare
dopo che avevano sparato a lungo; Calavera l’aveva guardato in silenzio
sorridendo alla sua diligenza e si era messo a fare lo stesso col fucile,
rompendo il silenzio solo quando fu certo che l’altro non l’avrebbe fatto di
sua spontanea volontà.
“Non è colpa tua se è morta; è lei che ha scelto, e nel nostro lavoro la
morte è una compagna di viaggio che non ti lascia mai”.
Jonas aveva fatto scattare il tamburo della rivoltella sinistra con un colpo
secco del polso; avrebbe dovuto fare economia di lì in avanti, sicuro, perché
le sue munizioni (insieme a gran parte delle provviste e
dell’equipaggiamento) erano rimaste sull’altra sponda del Lys e gli unici
bossoli che gli rimanevano erano quelli infilati nei passanti del cinturone.
Quanti colpi erano? Forse cinquanta, probabilmente meno: decise che non li
avrebbe contati perché non aveva voglia di aggiungere tinte fosche ad un
quadro che vedeva già abbastanza desolante.
“Non è servito ad un cazzo che sia morta, è questo che non va bene;
voleva che salvassi lo sceriffo e non ci sono riuscito. Affanculo, doveva
toccare a me”.
“Non chiamare la morte, chissà mai che non ti stia ascoltando”. L’uomo
sputò nel fuoco.
“Perché hai voluto tornare da Otis?”.
139
Jonas riaprì il tamburo e cominciò a ricaricare lentamente mentre il suo
sguardo si perdeva nelle ombre del bosco. Scelse di non parlare all’uomo di
quello che gli covava dentro: ci sarebbe stato tempo per farlo se l’avesse
ritenuto opportuno, ma prima ancora avrebbe dovuto venirne a patti lui
stesso.
“Volevo mettermi in affari con quelli per cui lavorava” disse invece, e
quelle parole non erano nemmeno troppo dissimili dal vero. Calavera
sorrise.
“Salvarlo sarebbe stata la prima cosa, poi mi sarei fatto dire da chi prendeva
ordini e mi sarei messo al loro servizio”.
“Da solo?”.
“Ho amici che mi sono lasciato lungo la strada: uno era ferito, l’altro mi ha
dato ospitalità mentre scappavo, prima del confine. Sarei passato a
prenderli”.
Anche quello gli venne spontaneo da dire, e mentre parlava ebbe la
sensazione di stare condividendo con l’uomo il risultato di una lunga
elucubrazione che non aveva nemmeno realizzato di compiere.
“Ti fanno gola i soldi e le armi?”.
“Non l’avrei fatto per questo”.
Jonas ripensò a quel pomeriggio di Tardestate, quasi due mesi prima,
quando era caduto nel sangue e nella polvere e le sue dita mancarono
l’ultimo foro nel tamburo. La cartuccia cadde nel fango mentre il pollice e
l’indice si bloccavano a mezz’aria; aye, c’erano profezie, sogni
incomprensibili e forse doveri già decisi da altri, ma sopra ogni cosa c’era
anche una vendetta da cogliere a cui tutto sarebbe stato funzionale.
“Io voglio vedere Nuova Canaan bruciare” dichiarò lentamente. “Voglio
pisciare sulle rovine di Gilead, voglio che quella gente muoia dal primo
all’ultimo uomo, donna e bambino per lasciare il posto ad altri migliori di loro.
I soldi non c’entrano un cazzo, la questione è molto più semplice”.
Un secondo dopo le dita ritrovavano la cartuccia e la pulivano sul cuoio dei
pantaloni prima di inserirla. Calavera annuì.
“A ciascuno il suo” rispose. “Cavalcherai da solo?”.
“Non guadagnerai molto denaro venendo con me, se è questo che mi stai
chiedendo”.
“Forse si, forse no”. Calavera fece spallucce.
“Anche a me interessa continuare a lavorare per loro, pure se cerco cose
diverse dalle tue e non me ne frega un cazzo del destino di Gilead e di
Nuova Canaan. Però se vogliamo trovarli” concluse, “Dobbiamo andare
lontano, oltre Brea, a Sud e poi ad Est. Otis diceva che il traffico passa di lì”.
140
Jonas ripose la pistola, poi gettò un ramoscello nel fuoco e si preparò a
smontare ed a pulire anche la sua gemella.
“Garland e la Cressia?”. Il rinnegato annuì.
“E il Mar Lindo, più ad Ovest”.
“Cosa c’è in quelle terre?”.
“Non lo so, lo sceriffo me ne ha parlato solo una o due volte; un
movimento, aveva detto, gente che vuole fare una secessione, governi da
rovesciare…è politica, non mi interessano queste cose” tagliò corto.
“Lo scopriremo quando ci saremo” assecondò Jonas; neppure lui aveva
più molta voglia di parlare. “Posso tenere le armi di Mandy?”.
“Che te ne vuoi fare?”.
“Devo armare uno dei miei compagni quando lo raggiungerò” rispose
tenendosi sul vago, l’altro annuì con uno sbadiglio e si sistemò meglio tra le
coperte.
“Non ti ho ancora ringraziato per come mi hai salvato il culo, prima”.
“I compagni sono preziosi”. Il rinnegato si sistemò il cappello sugli occhi
ed incrociò le mani dietro la testa. “Non sempre c’è un rimpiazzo a
disposizione”
Jonas annuì; per un attimo aveva quasi creduto che l’avesse fatto perché
erano compagni e basta.
“Sta bene allora. Rimango di guardia io per primo”. L’altro accennò col
capo facendo dondolare il cappello, e nel giro di pochi minuti lo sentiva già
russare.
Lui dal canto suo aveva tutto meno che desiderio di dormire.
3
Ripartirono poco prima dell’alba ma non incrociarono né avvistarono le
pattuglie di militari in cui si aspettavano di imbattersi, mentre seguivano dalle
foreste il restringersi della gola del Lys oltre il ponte crollato fino al primo
punto che l’occhio di Calavera giudicò adatto per guadare; era una fortuna
strana ed inaspettata di cui entrambi resero grazie ma almeno in quel caso
non c’entrava lo sguardo benevolo di nessun Dio, perché (e nessuno dei
due poteva saperlo) entrambe le Baronie avevano problemi ben più gravi a
cui pensare che non dare la caccia a due fuggitivi. Si accamparono al riparo
delle sponde rocciose del Lys ed attesero la notte, poi uscirono nuovamente
allo scoperto e tennero la città alla loro sinistra mentre risalivano la pista
verso le paludi; ritrovarono la strada asfaltata, che tuttavia attraversarono e
seguirono con i cavalli al passo a mezza ruota di distanza.
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Presto le sagome degli edifici diroccati della stazione di cambio iniziarono
a venire loro incontro, blocchi scuri sotto la luce flebile dell’Ambulante oltre il
terzo quarto. Oltrepassarono il grande ponte di vetro e ferro su cui si
inerpicava la monorotaia, tenendosi a portata di vista del cilindro di ferro che
correva nel suo pozzetto di cemento; e le ombre dei fabbricati distrutti, pure
se inquietanti e certamente di cattivo augurio, li protessero con facilità dagli
sguardi degli uomini di un piccolo posto di blocco piazzato in mezzo alla
strada poco oltre il cavalcavia.
“Non mi dire che l’hai lasciato dal sai della ferrovia, questo tuo amico”
indagò Calavera quando la luce della stazione iniziò a mostrarsi in
lontananza. Jonas annuì.
“Gli avevo tolto una freccia dalla gamba, aveva il sangue concio e mi
serviva aiuto per curarlo. Sai Red è stato gentile, ha detto che se ne sarebbe
occupato”.
“Aye, certamente lo è stato, anche Mandy una volta è venuta da lui per
farsi cavare un dente e io l’ho accompagnata”. L’uomo abbassò il tono
mentre la luce si faceva più vicina, iniziando a mostrare i dettagli del
porticato ed i blocchi scuri dei vagoni fermi sulla monorotaia.
“Gentile ed affabile come una vecchia signora, sicuro, è sempre così; ma
quello è un brujo, dico io, uno che fa la magia ed ha tante cose strane nella
sua casa. Non bisogna fidarsi di quelli come lui”.
“La magia può essere utile” gli rispose toccando appena il rigonfiamento
duro del ciondolo dissimulante sotto la stoffa della camicia.
“Non ne discuto ragazzo; ma io non mi fido lo stesso di questa gente”.
Jonas annuì e l’altro non disse più nulla; pochi minuti dopo i cavalli si
accostavano alla pensilina della stazione.
142
4
Quanto a Red Aspen, realmente trovare mani peggiori in cui mettere un
infermo sarebbe stata una vera impresa. Perché il segreto inconfessabile
dello strano vecchio, così gentile ed affabile con tutti, si chiamava
vampirismo (ed il fatto che egli si nutrisse di emozioni invece che di sangue
non lo rendeva meno pericoloso) ma Jonas non poteva certo saperlo
quando gli aveva chiesto di prendersi cura del suo compagno ferito.
Il vecchio aveva contratto la sua malattia in uno strano mondo ai livelli più
bassi della Torre, dove coloro che si definivano “pastori di uomini”
camminavano da sempre tra la gente normale controllandone le vite ed i
destini. Anche quel mondo era andato avanti, come del resto tutti gli altri, ma
questa è una storia che non è davvero necessario raccontare.
Dopo il contagio il vampiro viaggiatore aveva continuato a fuggire cercando
di tenere sotto controllo la sua sete qualunque luogo attraversasse: era
scappato ed aveva lottato, di questo è necessario dargli atto, aggrappandosi
alle vestigia residue della sua umanità e cercando di conciliarle con
l’imprescindibile nuovo bisogno di sopravvivere nutrendosi delle menti degli
altri. Ma gli anni erano passati in fretta e con il sopraggiungere della
vecchiaia i suoi propositi si erano gradatamente indeboliti; ed ora, in quel
mondo periferico in bilico tra la desolazione e la guerra, avere a portata di
mano una riserva di cibo fresco era una lusinga davvero irresistibile.
Il vampiro non aveva nemmeno cercato di scalfire le emozioni del
ragazzo quando questi era venuto nella sua casa, a differenza di quanto
faceva con i bravi cittadini di Galloway allorché si rivolgevano a lui per farsi
curare una febbre o una ferita infetta, o strappare un dente marcio che non
voleva saperne di cadere per i fatti suoi. La prudenza l’aveva indotto a non
esigere il suo tributo psichico: aveva immediatamente percepito la forza
della mente del giovane, quello che i superstiziosi bifolchi di quel mondo
chiamavano Tocco e che i medici di altri, più evoluti, classificavano come
‘capacità psionica sopra la media’. Tagliando fuori i paroloni quel ragazzo
era semplicemente cattiva medicina: se avesse tentato di nutrirsi lui se ne
sarebbe subito accorto e l’avrebbe respinto con facilità perché era un
vampiro vecchio e debole. Avrebbe anche potuto sparargli, ferirlo, ucciderlo
se avesse realizzato con piena coscienza il tentativo e questa era una cosa
che voleva proprio evitare.
Ma il suo amico non poteva fargli niente, oh no, non poteva fargli proprio
un cazzo, prostrato com’era da quella brutta infezione che correva rapida nel
suo sangue.
143
Non aveva tuttavia ceduto immediatamente alla fame; all’inizio, anzi,
aveva curato come un bravo medico la setticemia del povero sai con i
medicinali portati dai mondi che aveva attraversato. Forse perché gli
sembrava troppo abietto anche per lui approfittarsi di chi, davvero, non
poteva opporsi aveva cercato di far stare zitta la bestia, di non ascoltare la
sua voce (così suadente, così suadente!) che gli ricordava quanto fosse
bello addormentarsi dopo aver fatto il pieno, che lo esortava a seguire la sua
vera natura perché era giusto così e non poteva fare altrimenti. L’aveva
tenuta a bada per un po’, ma si era sorpreso più di una volta a spiare con la
coda dell’occhio la stanza da letto dove il giovane uomo dormiva indifeso.
Poi una sera, mentre il sai riposava nel sonno dei farmaci e lui lo
guardava dal vano della porta, il suo desiderio si era fatto d’improvviso
insostenibile; perché lui aveva davvero tanta fame ed un assaggino piccolo
piccolo non avrebbe fatto male a nessuno, giusto? E così dopo un’ultima
esitazione, come un bambino davanti ad un dolce proibito, in bilico tra
desiderio e paura aveva esteso un poco la sua mente a captare quella del
dormiente.
Immediatamente il parassita era stato assalito da un tale turbinio di
emozioni contrastanti – smarrimento, paura, dolore, nostalgia, incertezza,
rabbia, e negli strati più profondi un inspiegabile, stretto nodo che stillava
ricordi bloccati come miele da un favo – e solo il senso di colpa
immediatamente sopraggiunto l’aveva indotto ad interrompere il contatto. Si
era ritrovato lungo e disteso per terra, tremante nell’oscurità, col cuore che
rimbombava nelle orecchie ed una sensazione di umidità presso il cavallo
dei pantaloni a testimoniare il potente orgasmo che aveva accompagnato
quel nutrimento esaltante. Dopo qualche istante si era alzato puntellandosi
allo stipite della porta e, ridacchiando di godimento, aveva squadrato con
occhi luccicanti il dormiente che ora aveva stretto le labbra e corrugato la
fronte come lottando contro qualche brutto incubo.
L’esitazione di poco prima era ora totalmente dimenticata davanti alla
calda sensazione di piacere che pervadeva in ogni sua fibra il suo vecchio
corpo malandato. Oh si, le cose si sarebbero fatte davvero più facili d’ora in
poi: non l’avrebbe prosciugato tutto e subito, anzi. Se lo sarebbe fatto durare
e per lungo tempo non avrebbe più sofferto la fame.
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Nei giorni successivi l’infezione era scemata rapidamente ed il gonfiore
alla gamba si ridusse ad un innocuo monticello rosato intorno alla cicatrice
della ferita cauterizzata, mentre il sangue del giovane veniva ripulito da
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antibiotici e soluzioni di nanomacchine medicali che gli anni ed i passaggi tra
i mondi non avevano privato della loro efficacia; ma la convalescenza era
lungi dall’essere terminata, ed ora che il ghiaccio era stato rotto il parassita
aveva sempre meno freni nel nutrirsi.
Il vampiro era andato avanti per quasi una settimana, facilitato dal fatto
che la debolezza della gamba costringesse ancora a letto il giovane sai per
gran parte della giornata, vivendo in un sogno di cibo ammaliante e laceranti
sensi di colpa: si nutriva nelle ore più buie della notte puntando direttamente
al nodo dei ricordi, perché sapeva che la vera ricchezza era lì dietro,
erodendolo a poco a poco come una pianta che si incunea tra le pietre di
una diga cercando l’acqua. E la mente di Louis Depape si spegneva piano
piano mentre lui prolungava, ogni volta un po’ di più, il suo pasto drogato
malgrado i propositi di morigeratezza; poi quando il piacere lo abbandonava
subentravano la consapevolezza ed il rimorso, che tuttavia non erano mai
abbastanza forti da frenarlo totalmente. Doveva nutrirsi, questo era il
nocciolo della questione, perché per ogni parassita la fame è brutta.
Poi una sera il garzone dello stalliere era venuto a recargli un messaggio
confuso, che tuttavia ebbe il potere di ricondurlo alla realtà; il compare del
sai ferito a quanto pare non si era dimenticato di lui, e si raccomandava
invece per bocca del demente di fare quanto in suo potere per curarlo.
“Puoi giurarci che lo faccio, giovane amico mio” aveva sibilato fissando
dalla pensilina con occhi torvi il garzone che se ne tornava al villaggio.
Quella stessa notte il vampiro aveva fatto il pieno del suo nettare e poi
rimase a vegliare alla finestra della cucina con il fucile del sai in mano e gli
occhi fissi sulla pista per il borgo. La mattina dopo un posto di blocco era
apparso sulla pista; due giorni più tardi il ragazzo era tornato a presentarsi
alla sua porta, e lui era stato pronto a riceverlo.
6
Jonas smontò dal cavallo che sbuffò e roteò le orecchie; sentì rumore di
passi affrettati nella piccola casa illuminata, e pochi attimi dopo la porta si
apriva lasciando intravvedere un braccio ossuto che reggeva una lanterna,
subito seguito da un ventre pingue e da una gamba da trampoliere.
“Chi viene?” indagò una voce querula; la porta finì di scostarsi spinta di
lato dalla canna di un fucile, e subito dopo nel rettangolo di luce era apparsa
la sagoma secca e grassa allo stesso tempo del vecchio della ferrovia che
non tardò ad inquadrarlo ed a spianargli addosso la sua arma. In risposta
Jonas sentì lo scatto della pistola del compare; si girò di scatto e vide
Calavera col braccio disteso e la pistola puntata a sua volta.
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“Ehi, ehi, ehi! Calma tutti quanti” sbottò girandosi nuovamente verso il
vecchio. “Sono io, non mi riconosci? Sono il compagno del sai ferito, quello
che parla in modo strano”.
Il fucile si abbassò di un pelo, rialzandosi tuttavia subito dopo; il vecchio
protese in avanti la lanterna per illuminarlo meglio.
“Io non ti conosco sai, non ti ho mai visto prima. Cosa vuoi da me? Come
sai che ho un ferito in casa?”.
Jonas spostò lentamente le mani intorno al collo e si sfilò il ciondolo:
come quando l’aveva messo provò vertigini e senso di nausea, anche se
non più così forti.
“Oh, per la puttana…”.
Il vecchio abbassò di scatto il suo archibugio arretrando di un mezzo
passo. Jonas rialzò lo sguardo ed incrociò un volto disorientato ed una
bocca dai pochi denti aperta di stupore. Senza dire altro legò il cavallo alla
ringhiera del portico e salì i gradini verso la pensilina mentre l’altro, nel
vederlo venire, si riscuoteva improvvisamente dallo stupore.
“Ragazzo, hai cambiato la tua faccia…porti della magia intorno al collo?”.
Annuì riflettendo che forse Calavera si era sbagliato nel ritenerlo uno
stregone: se davvero lo fosse stato, non si sarebbe di certo stupito così
tanto per un trucco come quello.
“Il mio amico come sta?”.
Il vecchio si avvicinò scrutandolo con diffidenza, il fucile appoggiato sulla
spalla e la mano libera a tenersi l’anca.
“È sopravissuto alla malattia ma la febbre l’ha divorato fino a pochi giorni
fa; è debole, sicuro, e non può ancora cavalcare”. Jonas lo vide scoccare
un’occhiata preoccupata verso Calavera, che aveva rinfoderato la pistola
senza scendere di cavallo, intento ad arrotolarsi una sigaretta.
“Quello è uno dei compari dello sceriffo!” bisbigliò, lui annuì di nuovo con
indifferenza oltrepassando la porta socchiusa. Dentro faceva caldo e l’odore
di cibo, non necessariamente sgradevole, permeava il piccolo locale dalle
mensole adorne di chincaglieria proprio come quando era passato di lì la
prima volta; nel camino scoppiettava un piccolo fuoco, e mentre si
avvicinava attraverso il vestibolo sentì il rumore della porta che si chiudeva.
Il vecchio trotterellò alle sue spalle fermandosi prudentemente poco più
indietro mentre lui distendeva le mani per catturare un po’ di calore.
Aye, il sai della ferrovia ha paura di me: non una fifa blu, ma è sufficiente.
Sentì rumori provenire dal corridoio che dava al retro della casa.
“Ragazzo, se mi è permesso” abbozzò titubante, “Con tutto il rispetto…ti
sei scelto delle brutte compagnie…”.
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Jonas sorrise sbirciando con la coda dell’occhio: lo vide tormentare il
calcio del fucile, ora non più puntato del tutto a terra, e lo riconobbe come
l’arma del suo sai; per un attimo meditò di farglielo posare, poi considerò
che sarebbe stato un gesto troppo prepotente verso qualcuno che, in fondo,
si era occupato di un compagno ferito. E poi era sicuro che non avrebbe mai
trovato il coraggio di sparargli addosso.
Perché poi avrebbe dovuto?
“Lui non sta più con lo sceriffo, ora cavalca con me” tentò di rassicurarlo,
“Tu non mi conosci, ma credimi se ti dico che posso gestirlo”.
L’altro non rispose, Jonas attese. Pochi minuti dopo dal vano della porta
della camera da letto fece capolino il volto del giovane uomo che aveva
portato con sé attraverso la sottilità: ancora pallido, la sua cera era tuttavia
molto migliore di quanto si ricordava.
Gli sorrise e l’altro lo guardò disorientato.
“Camerata, come stai?”.
Si avvicinò di qualche passo, l’altro si ritrasse e lui si bloccò a mezza
strada mentre il sorriso gli scivolava via dal volto.
“Che c’è? Sono io, non mi riconosci più?”.
“Oui, certo che ti riconosco. Che cosa vuoi?”. Il tono non era certo
amichevole, come l’espressione che gli rivolgeva: dopo il disorientamento
dei primi attimi era subentrata ostilità, i suoi occhi si erano induriti…ma c’era
dell’altro in quello sguardo, qualcosa di indefinito che non riusciva ad
identificare ma che comunque lo metteva a disagio.
Jonas lo squadrò. Notò che non aveva più quella strana uniforme grigia
da miliziano, sostituita da una camicia di flanella e pantaloni di denim scuro;
ma portava il cinturone, con la pistola nella fondina, e la sua mano si era
abbassata fino a sfiorarne il calcio
“Sono tornato a prenderti, dobbiamo andare, io…”.
Dietro le spalle Jonas colse un movimento ed avvertì una stretta di
panico; si girò di scatto, le mani repentinamente abbassate alle armi, ma il
vecchio era stato più rapido e la vista del fucile nuovamente spianato ebbe il
potere di bloccare a metà strada il suo movimento.
“Sai…cosa stai facendo, io non sono un nemico…”.
“Di questo non sono del tutto sicuro, giovane; le brave persone non si
accompagnano alle canaglie tanto per cominciare. Ora alza quelle mani”.
Jonas si morse il labbro e sollevò le braccia fin sopra la testa.
“Se ti fa paura il mio compagno, ti ho detto che non è un pericolo, non sta
più con lo sceriffo; Gilead è venuta ed ha occupato la città, l’hanno
ucciso…”.
“Sono venuti a cercare te?”.
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Non rispose.
“Aye, uomini blu che hanno messo i loro blocchi alle strade e sono venuti
a ficcare il naso dappertutto; ho come il sospetto che tu c’entri qualcosa con
questo casino; non so in quale parte, ma sono sicuro che ci sei dentro”.
“Non sono venuti per me, ma io sono ricercato dalla loro legge” ammise,
“E c’è la morte che pende sulla mia testa”.
Jonas lo fissò con aria supplicante.
“Lasciami riprendere con me il mio compagno e ti ricompenserò per
quanto hai fatto finora, poi ce ne andremo togliendo il nostro disturbo…”.
Il vecchio lo squadrava con le labbra tirate e l’aria di qualcuno che stia
trovando il discorso estremamente seccante; nell’angolo cieco Louis si
mosse strascicando i piedi, lo vide emergere alla sinistra del campo visivo:
anche lui aveva messo mano alle armi e lo teneva sotto tiro. E quella luce
strana ora era più vivida nei suoi occhi.
“Non voglio venire con te” disse, scandendo le parole con tono
meccanico. “Non voglio seguirti, e tu non puoi pretenderlo”.
“Abbiamo tenuto parecchi conciliaboli mentre non c’eri, ragazzo” tornò a
farsi sentire il vecchio. “E questo giovane sai non intende seguirti; preferisce
rimanere qui con me, ritiene sia meglio per lui. Dico bene?”.
“Oui, è meglio per me”.
Jonas lo guardò stranito, Louis Depape rispose con uno sguardo ostile.
“Cosa gli hai fatto?” sibilò e il vampiro spalancò la bocca in una breve
risata rantolante mostrando i denti superstiti che, ed era strano a dirsi,
parevano essersi fatti più aguzzi e ricurvi verso l’interno.
“L’ho aiutato, ben più di quanto abbia fatto tu; e lo aiuterò a stare bene,
sicuro…”.
“Se non fosse stato per me sarebbe morto!” gridò, l’altro scosse la testa.
“Forse si, forse no; comunque l’hai sentito, non vuole più seguirti. E tu
non sei più gradito nella mia casa”.
Il vecchio si avvicinò e lo pungolò alle reni; demoralizzato Jonas non si
oppose mentre lo spingeva attraverso il vestibolo fin sul portico.
Fuori Calavera lo sentì arrivare, scrutò da sotto il cappellaccio e vide che
aveva le mani in alto. Esitò un attimo solo, ma fu comunque un attimo di
troppo.
“Metti mano alle armi e lui muore!” scandì il vecchio, e sorpreso allo
stesso modo di Jonas il rinnegato si bloccò con le dita già strette intorno alle
rivoltelle.
“Sali” intimò, pungolandolo con la canna; Jonas mandò giù il rospo e si
issò sul cavallo dopo averne sciolto le briglie. Sul vano della porta era
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comparso anche Louis, il braccio armato era disteso lungo il fianco. Li
guardava senza dire nulla.
“Muovetevi adesso, o sparo!” sbraitò il vecchio agitando il fucile; Jonas
strinse le briglie ma non si mosse ancora.
“Uomo, che cosa ti ha fatto?” chiese alla figura che si stagliava nel
rettangolo di luce della porta; per tutta risposta Louis alzò con gesto
meccanico la pistola puntandola nella sua direzione.
Poi Calavera sparò cogliendo tutti di sorpresa.
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Il fucile volò via dalle mani del vecchio in uno scoppio di sangue scuro
quando il proiettile gli trapassò il polso da parte a parte. Il vampiro si bloccò
con le gambe ossute piegate ed il volto tirato in un’espressione di ira stupita;
un secondo dopo Jonas avvertì una fitta di dolore lancinante al capo, e
l’attimo successivo franò giù di sella con un paio di mani ricurve strette
intorno al mento ed una bocca soffiante pericolosamente vicina alla gola.
“Spara!” sbraitò il vampiro mentre trascinava giù di sella Jonas,
momentaneamente stordito dalla debole sferzata mentale, e lo stringeva tra
le ginocchia sotto di se per tenerlo fermo. Sentì il giovane sai sparare
appena due colpi nella sua direzione, che fischiarono intorno alla sua testa e
si piantarono a terra senza danno. Il vampiro soffiò e fece scattare il collo in
avanti mirando alla gola, conscio che da quel vegetale con la pistola non
avrebbe potuto aspettarsi grande aiuto; probabilmente l’aveva spremuto più
del dovuto, oppure l’aveva soggiogato troppo perché potesse ancora
ragionare con il suo arbitrio.
Sotto di lui il ragazzo lo colpì all’improvviso con una testata respingendo
le sue fauci all’indietro. Presso la casa il sai urlò, forse aveva percepito il suo
dolore, molto più probabilmente era stato imbottito di piombo dal compare
dello sceriffo; poi qualcosa di freddo e duro gli puntò nel ventre facendo
passare tutto il resto in secondo piano.
Il vampiro allontanò di scatto le mani dalla gola del giovane uomo mentre
il suo furore svaniva di colpo sotto la minaccia della canna della pistola.
“Ehi andiamo…questo non è necessario…”.
Jonas sorrise premendo il grilletto, ed il corpo del vecchio si inarcò
all’indietro con uno strillo sorprendentemente acuto; lo scansò con uno
spintone e si rialzò di scatto: sotto la veranda, vicino alla porta, Calavera era
accovacciato vicino ad un’altra forma riversa.
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Jonas accorse mentre più indietro il vampiro moriva in un ultimo tremito.
Riverso a terra contro lo stipite della porta Louis era pallido ed aveva gli
occhi sbarrati; sotto l’avambraccio destro c’era una striscia rossastra ed il
tessuto della camicia si andava impregnando rapidamente. La mano
stringeva ancora la pistola
“Ho sparato per disarmarlo” si giustificò il rinnegato, “Ma non ha mollato il
ferro; ti ha tenuto sotto tiro mentre lottavi, poi quando hai fatto secco il nonno
è andato giù anche lui”. L’uomo era disorientato.
“Guarda i suoi occhi occhi, non ho mai visto una faccia così…”.
“Non c’è tempo!”. Jonas guardò con apprensione verso la pista di
Galloway ancora immersa nell’oscurità. “Caricalo sul tuo cavallo perché
dobbiamo filarcela in fretta”. Il compagno annuì disarmando il giovane
svenuto e sollevandolo di peso, per poi metterlo di traverso sulla sella del
cavallo senza che provasse minimamente ad opporsi; nel mentre Jonas
raccolse da terra il fucile che era caduto quando il vecchio lo aveva assalito
e se lo passò ad armacollo, poi saltò in groppa al cavallo e scrutò di nuovo,
e con ansia crescente, la distesa buia della pista.
L’eco dei colpi era certamente arrivata fino al posto di blocco e sarebbe
stato chiedere troppo alla loro buona stella sperare che non mandassero
nessuno a vedere cos’era successo. Fuggire verso le paludi non sarebbe
stato possibile, non con quel peso morto al traino; avrebbero potuto
nascondersi tra le costruzioni in rovina, pure se un gesto del genere avrebbe
sicuramente portato sfortuna, e sperare che i miliziani non battessero l’area
a tappeto. Per un momento considerò persino di aspettarli nella casa del
vecchio e dare battaglia poi il compare, che sembrò leggergli nei pensieri,
fece girare il cavallo ed iniziò a condurlo al passo fuori dal cerchio di luce
della casa. Jonas si affrettò ad affiancarsi e tenne dietro senza esitare, lieto
che l’uomo avesse deciso per lui.
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I miliziani non si fecero attendere: attimi dopo, mentre si allontanavano,
Jonas vide i punti di luce delle fiaccole fare capolino sulla pista e scartò
mentalmente la residua speranza che gli spari non fossero stati uditi. Poi il
rinnegato lo guidò oltre l‘angolo di un edificio grande come un castello, uno
di quei fabbricati bassi e lunghi che aveva avvistato venendo dalle paludi la
prima volta, e insieme alle luci delle fiaccole vide scomparire alle sue spalle
anche la bolla luminosa della casa del ferroviere.
Si inoltrarono ancora tra le costruzioni in un’oscurità quasi totale, appena
rischiarata dalla luce pallida della luna all’ultimo quarto: il terreno si fece
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sconnesso allorché superarono piccoli cumuli di detriti, poi tornò a farsi
pianeggiante mentre il rinnegato si guardava attorno nel tentativo di
orizzontarsi e riprendeva poi la marcia puntando verso una sagoma
squadrata all’altra estremità di quello che appariva essere un grande
spiazzo di cemento; Jonas sentì grida concitate e l’eco di alcuni spari e
prima che potesse bloccarsi si ritrovò la mano stretta intorno alla pistola.
“Ci prenderanno” sibilò ed il compagno, per tutta risposta pungolò il
cavallo distanziandolo; a sua volta diede di sproni ed un attimo dopo il
terreno iniziò a declinare in una ripida discesa.
“Cazzo!”.
Jonas si aggrappò alla criniera del cavallo mentre gli zoccoli slittavano
sull’asfalto ed uno sgradevole fremito di vertigine gli si avvitava nei testicoli.
Alzando gli occhi al cielo vide la luna scomparire a poco a poco dietro la
sagoma squadrata che si faceva incombente, e capì che si stavano infilando
nelle fondamenta di una di quelle costruzioni diroccate.
Non si sentiva per nulla tranquillo; fece fermare il cavallo dando uno
strattone alle briglie: la discesa continuava ancora per qualche decina di
metri e poi sboccava in quello che sembrava un largo androne punteggiato
di forme scure. Vide Calavera sparire completamente alla vista, i suoi rumori
attutirsi mentre veniva preso dal panico.
“Uomo, dove stiamo andando…”.
Come in risposta alle sue parole, un attimo dopo vide guizzare in avanti
un rassicurante fascio di luce bianca che saettò su muri crollati e superfici
metalliche prima di andargli a puntare il mezzo al petto. All’altra estremità
c’era il viso corrucciato del cacciatore di taglie che lo squadrava con il piglio
che si riserverebbe ad una bestia stupida e recalcitrante.
L’uomo lo incitò con la mano e Jonas si sentì un perfetto idiota; diede un
tocco di sproni mentre l’uomo spostava la torcia elettrica illuminando
l’androne, ancora occupato da sparute file di veicoli di metallo ormai ridotti
ad ammassi di ruggine, per poi fermarsi ad illuminare un ampio vano
squadrato qualche metro dopo la prima discesa. Calavera indicò in quella
direzione
“Cos’è questo posto?”.
“Un magazzino, oppure un deposito io dico. Ci abbiamo dormito una volta
tornando dalle paludi l’anno scorso: scende sottoterra e diventa caldo ed
asciutto, e tanto mi basta se vuoi saperlo”.
“C’è pericolo?” indagò; messo di traverso sulla sella, il corpo di Louis era
rigido come un cadavere. L’uomo scosse il capo e diede un tocco di briglia
puntando verso l’apertura nel muro.
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“Le bestie avevano fatto delle tane prima che il sindaco ordinasse allo
sceriffo di scacciarle; abbiamo fatto battute per tre anni, non so quanti
mutanti abbiamo ammazzato ma da allora l’hanno capita”.
Oltre l’imboccatura del passaggio la discesa scendeva nell’oscurità come
un ampio tornante, protetta nella parte interna da un piccolo muretto di
cemento; Calavera iniziò a scendere senza esitare e Jonas dopo un’ultima
indecisione tenne dietro.
9
Si accamparono al piano di sotto, riparati nello spazio tra il muro di fondo
ed un cumulo di detriti franato dal piano superiore che Jonas ritenne li
nascondesse abbastanza bene.
Per tutta la durata di quella piccola fuga Louis non aveva dato segni di
vita: era rimasto rigido come un cadavere nella sua scomoda posizione di
traverso sulla sella; solo gli occhi, prima sbarrati, si erano chiusi ma li
vedevano fremere sotto le palpebre come talvolta accade a chi dorme e
sogna.
Non potendo fare altro l’avevano disteso ed avvolto nelle coperte di
riserva mettendolo al riparo come meglio potevano, poi si erano imbacuccati
a loro volta preparandosi alla notte.
Avevano spento la torcia e l’oscurità li aveva avvolti, nera come pece e
solida quanto un muro; l’aria dell’enorme sala, che gli sembrava così simile
ad un sepolcro, era secca ed immobile, pervasa da quell’inspiegabile,
appena percettibile tepore che sembrava salire dal basso ed inevitabilmente
spingeva Jonas a chiedersi quali macchinari (se di macchine dovevano
trattarsi) erano ancora in funzione sotto di loro.
“Ora ne sei convinto?” aveva detto il rinnegato, e Jonas aveva guardato
nella direzione della voce senza vedere nulla.
“Non ci si deve fidare di chi fa la magia, io dico; non ho mai visto qualcuno
messo come il tuo amico, gli avrà fatto qualche incantesimo per ridurlo così”.
“Non credo fosse uno stregone: ha mostrato sorpresa quando mi sono
sfilato il mio pendaglio”. Jonas scosse il capo sentendo il rumore di una
fiasca che veniva aperta, immediatamente seguito dall’odore pungente del
graf.
“Era qualcosa di diverso, ma non credo ci fosse magia in quello che
faceva”.
“Allora cosa è successo al tuo compagno?”.
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Jonas tacque. Poco più in là Louis non faceva alcun rumore, eccetto per
il sommesso brulicare del respiro, spia se non altro del fatto che fosse
ancora vivo.
“Penso che lo abbia soggiogato in qualche modo; gli ha fatto qualcosa,
me l’ha messo contro, ma senza usare la magia io penso”.
Jonas si sistemò meglio nel giaciglio appoggiando la testa contro la sella
ed avvolgendosi nelle coperte.
“Ora dove hai intenzione di andare?”.
“Te l’ho già detto, devo tornare a prendere un compagno a Nuova
Canaan”.
“Azzardato”. Il rinnegato bevve ancora, poi lo sentì armeggiare a sua
volta con il sacco a pelo mentre si infilava dentro.
“Non devi venire con me se non vuoi. Posso cavalcare da solo”.
“Ma cavalcare in due è più sicuro per entrambi”.
Jonas sorrise nel buio.
“Aye, perché i compagni sono preziosi e non sempre si trova un
rimpiazzo, vero?”. L’altro non rispose ma era netta la sensazione che a sua
volta avesse sorriso.
Jonas si girò sul fianco rabbrividendo quando la guancia si appoggiò sul
cuoio gelido della sella; come sempre il sonno avrebbe tardato a venire, ed
infine sopraggiunto sarebbe stato scarso e pieno di incubi. Per ora
comunque c’erano i pensieri a tenergli compagnia, e nell’attesa che il sonno
giungesse Jonas pensò a lei.
Realizzò che probabilmente si era innamorato ed il pensiero lo fece
sorridere, perché da quando aveva scoperto quant’era bello spingerlo dentro
una fica per lui c’erano state solo ragazze di bordello, presso cui l’amore era
di casa soltanto se si aveva la scarsella piena di monete. Ma anche se cosi
fosse non sarebbe comunque stata quella la vera ragione della sua scelta:
piuttosto avvertiva semplicemente di non potersela lasciarsela alle spalle,
allo stesso modo in cui aveva sentito come necessario provare a salvare lo
sceriffo o tornare a prendere Louis.
Perché da quando aveva appreso che anche Calavera, Mandy e chissà
quanti altri danzavano nell’ombra di un Re sconosciuto era tornato di
frequente all’apparizione di sé stesso da vecchio, venuto a snocciolare una
profezia tanto nebulosa ed irreale che neppure se la ricordava per intero:
parlava di un soldato e di una giovane donna, e se il primo era Louis la
seconda poteva benissimo essere Cindy; e c’era ancora dell’altro, una terza
donna, che aveva l’oscurità negli occhi e la morte nel nome, qualsiasi cosa
ciò potesse significare (ma credeva, a ragione, che l’avrebbe scoperto
presto).
153
E come se non bastasse la seconda visione, di lui in compagnia di tre
cavalieri in quel deserto di cemento, non faceva altro che rinforzare una
sensazione già fin troppo netta: stavano camminando tutti quanti su un
sentiero già tracciato, lui tutti quelli che gli ruotavano intorno. Una via, un
percorso che qualcun altro aveva deciso a priori e da cui sentiva di non
poter deviare perché gli eventi all’orizzonte erano tali da non dare la
possibilità di comportarsi in modo diverso.
Ma anche se avesse avuto facoltà di scegliere non credeva che l’avrebbe
fatto: perché ugualmente, ed inspiegabilmente, aveva il sentore che al
termine di quella pista ci sarebbero stati lauti guadagni per i servitori
obbedienti.
Oh si, ci sarebbe stata la caduta di Gilead rifletté nell’addormentarsi.
Perché c’è una guerra da combattere e Gilead cadrà, ed io sarò lì a pisciare
sul cadavere di Fardo e sulle rovine della cittadella, quant’è vero Gan lo farò
succedesse anche tra cent’anni.
Addormentarsi con quel pensiero, cosa che successe pochi momenti più
tardi, gli fu caro e doloroso allo stesso tempo.
10
Il mattino arrivò senza che nessun soldato fosse venuto a prenderli e la
luce che pioveva dallo squarcio nel soffitto bastò a svegliarlo con un
sussulto dal sonno leggero in cui si era assopito. Calavera era già in piedi ed
aveva acceso il fuoco: l’odore pungente ed aromatico del caffè ebbe il
potere di snebbiargli la mente del tutto mentre si tirava su e sporgeva le
mani verso le braci.
Accennò verso i cavalli e Jonas vide che qualche metro più in là Louis
era sveglio e li stava guardando con un’espressione inerte, gli occhi fissi su
qualche punto imprecisato dietro di loro e le coperte di scorta che gli
ricadevano sulle spalle come una goffa mantiglia.
“Quando mi sono svegliato era già così” disse. “Non ha una bella cera,
proprio no”.
Jonas si avvicinò e quando quello se ne accorse, con qualche secondo di
ritardo, lo vide trasalire e piantargli in volto due occhi da animale spaventato.
“Come stai?”.
Il giovane uomo non disse nulla, e quando Jonas fece per appoggiargli la
mano sulla spalla quello lo scacciò agitando il braccio e farfugliando
qualcosa.
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“Il maleficio non l’ha abbandonato” chiosò Calavera a bassa voce
riempiendo tre scodelle del caffè che era venuto su. “E ventura sarà se mai
accadrà”.
Jonas non seppe cosa rispondere mentre prendeva una scodella e gliela
accostava alle labbra; di nuovo sembrò accorgersene dopo qualche
momento; la prese con un tocco privo di forze e bevve senza nemmeno
abbassare gli occhi, inghiottendo impercettibilmente mentre il resto del
liquido gli colava giù dal mento. Quando gli sfuggì di mano e cadde
spandendogli il contenuto sugli stivali ugualmente non sembrò
accorgersene, e mosse soltanto gli occhi di una frazione quando Jonas gli
asciugò il mento con l’orlo della sua manica.
“Non do un soldo per la sua pelle da qui a tre giorni, ragazzo, in tutta
franchezza. Credi che possa cavalcare?”.
“Lo farà, dovessi tenerlo su a forza di braccia” replicò Jonas ingollando
un sorso della sua razione e versando quel che rimaneva sulle braci del
fuoco. Quando provò a farlo alzare Louis cercò di scacciarlo nuovamente
ma la sua resistenza fu di breve durata, limitata ad una imprecazione
soffocata e ad un tentativo maldestro di graffiargli le braccia; si calmò quasi
immediatamente quando Jonas gli serrò le braccia lungo i fianchi, e di lì in
avanti fu come maneggiare una bambola di pezza.
Fuori dal parcheggio sotterraneo la stazione industriale in rovina era una
terra di nessuno imbiancata di neve e punteggiata da quegli enormi
fabbricati che, ora che ci era sotto, fecero sentire Jonas piccolo come una
formica e gli instillarono dentro un forte senso d’inquietudine. Non c’era da
stupirsi che i miliziani non avessero esplorato a fondo quel luogo, doveva
portare una maledetta sfortuna anche solo avvicinarsi a quegli scheletri di
leviatano, figuriamoci infilarsi dentro; solo il rinnegato non sembrava sentirsi
a disagio e spronò con calma il cavallo sullo spiazzo di cemento mentre
Jonas gli teneva dietro e Louis, in sella con lui, si teneva abbarbicato alla
sua cintura come un sacco di patate. L’uomo li guidò fuori dal labirinto di
edifici dalla parte opposta a quella da dove si erano inoltrati, senza più
passare vicino alla monorotaia o alla casa del sai pazzo.
Oltre l’ultima fila di macerie, dopo un grosso capannone franato che
protendeva al cielo artigli di vetro e ferro, si apriva una piana giallastra e
brumosa dove a mala pena si vedevano ancora i resti di varie strade
asfaltate che si allontanavano in altrettante direzioni.
“Quattrocento ruote per Nuova Canaan, tenendo sempre a destra il sole
all’alba” annunciò Calavera. “Terre Basse le chiamano, al di qua e al di là
del confine” e Jonas annuì. Conosceva quella pista, anche se non l’aveva
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percorsa venendo, perché Nebi aveva parlato a lungo della geografia
baronale e malgrado tutto lui aveva ascoltato: passando di lì invece che
dalle paludi sarebbero sbucati dietro le Gallow Hills e non avrebbero faticato
a ritrovare la Via, spostandosi verso l’interno una volta attraversate le foreste
delle regioni di confine. Una volta lì avrebbero sicuramente trovato la strada
per Am’lis, ma sarebbe stato un viaggio lungo attraverso terre che a detta
della stessa Nebi erano maledette; E non aveva idea di cosa sarebbe
successo dopo, perché se Nuova Canean era lontana, Garland e la Cressia
lo erano ancora di più ed oltre l’Arco Interno le regioni erano poco sicure per
i piccoli gruppi di viaggiatori.
“Dunque, andiamo a prendere questo tuo compagno” disse il rinnegato
come leggendogli nel pensiero.
“E scuotiamo dai nostri stivali la polvere di queste contrade, perché il cielo
mi è testimone se ne ho abbastanza di Cananei ed Aradiani”.
Calavera diede di sproni e di nuovo lui tenne dietro.
156
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“Chi sono io?”.
Al bivacco di mezzogiorno Louis parlò di nuovo, dopo una mattinata
passata a cavalcare in silenzio, cogliendo entrambi di sorpresa; si girarono a
guardarlo prima di scambiare tra loro un’occhiata altrettanto confusa, poi
Jonas gli rispose e forse fu in quel momento che colse lo spunto per ciò che
avrebbe fatto in seguito.
“Tu sei il mio pard, non te ne rammenti?”. Louis scosse il capo e lo
guardò con gli stessi occhi spenti e vacui di quando si era svegliato.
“Ti hanno fatto un maleficio” dichiarò Calavera addentando e biascicando
la sua razione di carne secca. Jonas annuì, e quando si alzò per sedersi
vicino a lui quello lo guardò con un lieve sbigottimento.
“Chi sono io?”.
“Non ricordi il tuo nome?”. Lui negò ed il pensiero di poco prima prese
forma più definita nella testa di Jonas.
“Ti chiami Louis Depape, vieni…da Gilead” dichiarò. “La stessa città da dove
vengo io, è la capitale di Nuova Canaan”.
“Noi andiamo lì?”. Lui sorrise e tese cautamente il braccio, come avrebbe
fatto per cercare di toccare un animale selvatico; lo vide ingobbirsi su sé
stesso, trasalire al suo tocco quando glielo poggiò sulle spalle come se si
fosse aspettato una percossa invece che un abbraccio.
“Non possiamo tornarci, compare; io e te siamo stati mandati via e se ci
facciamo vedere da quelle parti, loro ci appendono per il collo”.
Calavera rise a bocca aperta, tossendo subito dopo quando la carne
secca gli finì di traverso; Louis sollevò appena le sopracciglia in un lieve
guizzo di curiosità.
“Cosa abbiamo fatto?”.
“Non siamo stati pronti, per ciò che loro avevano in mente per noi”. Jonas
si alzò, lui lo seguì con lo sguardo ed anche se ciò che stava per fare
sembrava un azzardo decise di farlo lo stesso.
Sfilò la sua pistola dalla sacca della sella, quell’arma così simile a quella dei
veri pistoleri, caricata con le sue strane munizioni di carta e polvere nera:
anche se i suoi bossoli erano di calibro adatto per quel tamburo aveva
preferito rifornirla con quelle cartucce, perché ogni pistolero deve avere la
sua provvista di munizioni e tenerla con cura. Gliela porse tenendola per la
canna e lui rimase ancora un attimo a guardarla prima di decidersi a
prenderla con mani molli e spostarsela in grembo.
Jonas si tolse prudentemente dalla traiettoria; non gli sfuggì che Calavera
aveva appoggiato la mano sul calcio della sua cesellatrice, così ritenne
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opportuno ammonirlo con un’occhiata di cui l’altro sembrò non curarsi
particolarmente.
“Questa è mia?”. Annuì con un sorriso.
“L’hai rubata ad un pistolero che hai ammazzato; tu la volevi così tanto,
una pistola, che anche se non te l’hanno data te la sei presa lo stesso.
Io ho fatto lo stesso ed è giusto così”.
Come se una memoria improvvisa l’avesse colto le dita si strinsero in
modo più convinto intorno al calcio di legno. Louis sollevò l’arma e la puntò
col braccio disteso verso un piccolo albero stentato a qualche decina di
passi e Jonas vide il dito che si contraeva di una frazione sul grilletto per poi
fermarsi. Il tronco era sottile: un bersaglio facile, ma non così facile.
“Posso…”.
“Fallo, io prego. Eri un asso a sparare e mi hai insegnato molto, la mia
parola in pegno”.
Anche se erano bugie (e delle più spudorate) sembrarono avere l’effetto
che si proponeva: Louis prese la mira e lo scoppio fu un tuono sonoro che
impattò a mezza altezza sul tronco rinsecchito trapassandolo da parte a
parte; quando si girò nuovamente a guardarlo c’era meraviglia nei suoi
occhi, ed era una luce che preferiva a quella vuota e grigia di poco prima.
Qualcosa nel nodo corroso di ricordi si smollò ed una parte dell’uomo che
era stato, prima di essere un soldato confederato, riaffiorò all’improvviso.
Jonas lo guardò compiaciuto.
“Vedo che non hai dimenticato chi sei veramente” disse; Louis sorrise
prima di rinfoderare.
“Non è cosa di cui un uomo possa dimenticarsi, la sua vera natura”.
“Cosa mi è successo?”.
“Un maleficio” ripeté Calavera e Jonas notò che aveva allontanato del
tutto la mano dalla sua pistola per riportarla al lembo di carne secca.
“Lui chi è?”.
“Un mio compagno” rispose. “Almeno per ora” puntualizzò ed il rinnegato
sogghignò annuendo e masticando.
“Stiamo andando…”.
“Da un altro compagno” lo prevenne. “Lui mi è caro quanto lo sei tu, fa
parte del mio ka-tet. Ricordi cosa significa essere ka-tet?”.
Louis scosse il capo.
“Io non ricordo nulla, non so nemmeno come ti chiami…”.
“Oh, questo è di facile rimedio”.
Jonas gli appoggiò entrambe le mani sulle spalle.
“Io sono Eldred Jonas, camerata, e puoi star certo che mi occuperò di te
fino a quando la tua mente non sarà tornata a casa”.
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Si rimisero in marcia dopo la breve pausa, e Jonas questa volta lo fece
montare dietro di lui; pochi passi più avanti il soldato ruppe nuovamente il
silenzio.
“Tu sei il mio frère” disse: era un’altra parola della sua strana lingua, che
naturalmente non capì, ma che gli suonò calda ed amichevole. Ritenne
opportuno di dover annuire e sorridere mentre rimuginava su quell’idea che
era tornata ad affacciarsi alla mente, e che di secondo in secondo si faceva
più nitida e fondata.
12
Passati gli ultimi accenni di foreste, stentate e rade come capelli su un
cranio vecchio, il panorama si ridusse ad una distesa monotona ed
ininterrotta di terreno giallastro, brullo e debolmente ondulato dove l’unica
cosa che cresceva erano cespugli di erba diavola rinsecchita, ed i soli
animali ad aggirarsi uccellacci deformi e cani della prateria mutanti.
Dopo quel breve conciliabolo Louis sembrò risollevarsi un po’, rimanendo
comunque in uno stato di profonda apatia mentre la sua mente tentava di
riprendersi dai danni che il vampiro gli aveva causato; Jonas scoprì
immediatamente che il giovane uomo aveva dimenticato quasi tutto, le
uniche eccezioni erano le strane parole che metteva nel suo parlare, e
dunque non ricordava nulla né del posto da cui proveniva né del modo in cui
vi era stato brutalmente strappato.
Poteva essere un bastone tra le ruote, questa improvvisa amnesia, ma dal
canto suo lui preferì ritenerla un mutamento interessante e vantaggioso che
gli permise di riplasmare l’uomo con l’indottrinamento creandogli una nuova
identità, ed utilizzando come modello quella di Douglas forse nel tentativo di
far rivivere al suo fianco l’amico che lui stesso aveva ucciso.
Per Louis Depape fu una specie di nuova nascita, mentre per Eldred
Jonas fu come scrivere con lo stilo su un foglio di carta bianca: durante le
sere di bivacco o le lunghe ore di marcia gli raccontava di Gilead e di Nuova
Canaan, del Medio-Mondo e di quello che c’era stato prima,
dell’addestramento da pistoleri che avevano sostenuto e di come entrambi
avessero fallito nel conquistare le loro armi e fossero stati spediti ad Ovest
non più tardi di quell’estate. Cogliendo la palla al balzo creò in lui l’odio per
Gilead e la mente prosciugata del giovane uomo assorbì come una spugna
quella nuova accozzaglia di informazioni, così che, pur senza parlargli mai
chiaramente del loro viaggio o del loro compito, il giovane non ebbe
esitazioni nel riconoscersi nel ruolo che gli aveva creato: quello di un
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gregario fedele, un compare, un amico che si sarebbe sacrificato per lui
senza batter ciglio e lo avrebbe seguito fino agli estremi confini del mondo.
Eldred Jonas si era costruito su misura un membro del suo nuovo ka-tet,
e la prima parte della profezia era giunta a compimento.
13
In tre giorni di viaggio la pista non era stata altro che un nastro deserto e
polveroso, biancheggiante di neve grigia che copriva uno strato di ghiaccio
precoce; sul finire del quarto passarono vicino ad un villaggio che per il
cacciatore di taglie si chiamava Stall e che li salutò con bagliori opachi di
tetti di lamiera e puzza portata dal vento. Jonas se lo sarebbe
tranquillamente lasciato alle spalle ma l’ultima volta che avevano sfamato i
cavalli era stato due giorni prima, così il passaggio era quasi obbligato; lo
dirozzò con un colpo di talloni e Calavera si affiancò alla sua sinistra, poi
sentì Louis che lo scuoteva per la cintura indicando un avviso di taglia
inchiodato su un palo solitario e mezzo marcito là dove la pista piegava
verso le prime baracche.
‘Eldred Jonas lo scartato’ titolava, Jonas strinse le labbra e fermò il
cavallo a poca distanza. L’avviso proseguiva con ‘ricercato vivo o morto per
omicidio e tradimento’ ed aveva l’aria di essere stato appeso non da molto, a
giudicare da come la carta non avesse ancora avuto il tempo di venire
rovinata. Gan gli era testimone, non pensava che la legge di Gilead si
premurasse di arrivare fino a lì.
“Sei tu?” indagò Louis, lui accennò. “Con la faccia che portavo prima”.
“Cosa significa?”.
“Significa che con noi non tutto è ciò che sembra”.
Jonas smontò di sella e decise immediatamente che voleva andare in
cerca di guai; strappò l’avviso di taglia, se lo ficcò tra il corpetto e la cintura
stabilendo che di lì a poco avrebbe trovato qualcuno a cui far capire chi era
per davvero lo scartato: magari lo stesso sceriffo, se ce ne fosse stato uno in
giro, ma dalle premesse che il posto offriva era difficile. Risalì in sella e si
sfilò il ciondolo dal collo al prezzo di una leggera vertigine, e Louis sgranò gli
occhi mentre la sua faccia cambiava in una sfocatura di miraggio senza
tuttavia dire niente.
Calavera sembrò leggergli nel pensiero.
“Potrebbero esserci degli sbirri in giro”.
“Ho piombo con cui pagarli, se ci fossero” rispose cupo prima di dare un
tocco di sproni.
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Il segno indicatore era appeso su un altro palo, di ferro questa volta, poco
più avanti, e qualche mano spiritosa aveva scarabocchiato sotto alle lettere
qualcosa che Jonas lesse pressappoco come ‘buco di culo’, con
qualcos’altro che sembrava sangue oramai secco; transitarono a fianco di
una carcassa di vacca con le ossa del ventre che affioravano dalla neve, poi
una ventata improvvisa gli sbatté in faccia odore di escrementi.
“Proprio un buco di culo, sono d’accordo” commentò Calavera mentre
dalla veranda di una baracca sgangherata un vecchio su una sedia a
dondolo sollevava appena il cappello al loro passaggio, e poi si alzava di
una frazione sporgendosi in avanti con gli occhi larghi di curiosità.
Lampade a petrolio erano appese ad altri pali piantati ad intervalli più o
meno regolari lungo la Main Street illuminando ruderi e gente male in arnese
di cui si sentì immediatamente gli sguardi puntati mentre procedevano al
passo in cerca di uno stallaggio, o di un saloon; non avvistarono né l’uno né
l’altro, in compenso come Calavera aveva pronosticato l’insegna di
dell’ufficio di uno sceriffo era appesa qualche iarda più avanti sopra quella
che aveva l’aria di essere l’unica costruzione di mattoni del villaggio. La
porta sprangata da due assi, che avevano l’aria di essere inchiodate lì da
molto tempo, rassicurò Jonas di una frazione e quando furono più vicini
scese nuovamente e andò ad appendervi sopra l’annuncio che aveva
strappato dal palo sulla via, ribattendo il chiodo col calcio della pistola
mentre un terzetto di uomini macilenti sotto una lampada a petrolio aveva
smesso di parlare e fumare e lo stava guardando.
“Che coglione” commentò Calavera scuotendo il capo; quando Jonas
terminò l’opera si avvicinò al primo dei tre pezzenti e quello si scostò di un
passo, con un guizzo di paura negli occhi quando vide le pistole allacciate
nelle fondine.
“Dove si può bere in questo posto di merda?” indagò, l’altro lo guardò
imbambolato e Jonas lo afferrò per il bavero della camicia dandogli una
scrollata; fu come sbatacchiare un sacco di carne rancida, l’uomo allargò gli
occhi ed il pozzo di marciume che aveva al posto della bocca mandandogli
addosso fiato pestilenziale. Gli altri due se l’erano già filata quando lo sbatté
contro il muro dell’ufficio dello sceriffo e quello si afflosciò come un sacco
vuoto.
“Ti devo spolverare per sapere dove sta il saloon, compare?”. L’uomo si
raggomitolò ed alzò le braccia davanti al volto con un gemito mentre altra
gente si fermava a guardare. Decise di lasciarlo perdere e mimò il gesto di
sferrargli un calcio soltanto per farlo rannicchiare ancora di più, prima di
girarsi verso il capannello che si era radunato a debita distanza.
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“Gente! Io sono Eldred Jonas, lo scartato e l’assassino che viene da
Gilead!”. Indicò l’avviso di taglia alle sue spalle e vide quelli di prima fila
ritrarsi all’indietro.
“Se c’è qualcuno che vuole guadagnarsi la mia taglia, che venga! Altrimenti
voglio che qualcuno mi dica dove io e i miei compari possiamo bere”.
“Stiamo perdendo tempo”. Calavera scosse il capo con un leggero
sorriso.
“Non avete nemmeno una cazzo di stalla, in questo buco di merda?”.
Fece per avvicinarsi e il crocchio si ritrasse, poi una donna sembrò prendere
coraggio ed uscì dal mucchio che fece immediatamente il vuoto intorno a lei.
Jonas giudicò che avrebbe potuto essere persino carina, con una buona
ripulita ed un taglio di capelli decente.
“Verde il colono, lui coltiva foraggio” disse con gli occhi bassi.
“E io dove lo trovo questo colono, zuccherino?”. La fronteggiò e lei
sembrò farsi ancora più piccola; indicò con un gesto rapido del capo verso la
strada che proseguiva nell’oscurità intervallata dalle pozze di luce oleosa dei
lampioni.
Jonas annuì con un sorriso, poi rimontò in sella e Louis lo guardò con
aria confusa mentre prendeva la pistola; quando sparò verso l’alto il primo
colpo la gente si acquattò sulle ginocchia, all’unisono, come dopo il tuono
particolarmente forte di un temporale. Al tempo del secondo si erano già tutti
dileguati dietro le porte traballanti delle loro stamberghe.
“Banda di conigli” chiosò aprendo il tamburo e sostituendo i due bossoli.
“Ce n’era bisogno di quello spettacolo?”. Calavera diede un tocco e il
cavallo lo superò.
“Volevo solo divertirmi un po’ camerata. Mi era caro, dopo che ho letto
come si permettono di apostrofarmi a Gilead”.
“Voi giovani siete tutti uguali”. L’uomo scosse il capo.
“Da coglioni è fare come hai fatto, sicuro; paga di più volare basso che fare il
gradasso, specie quando hai la legge sulla tua pista”.
“Aye paparino, come dici tu”.
Calavera sospirò senza più dire nulla, accontentandosi di tirare fuori una
sigaretta già pronta ed accendersela.
Trovarono la baracca del colono a nemmeno mezza ruota dopo le ultime
casupole, seminterrata come era nel loro uso, accanto ad un pozzo e ad una
costruzione più bassa ed ugualmente sgangherata che aveva tutta l’aria di
un misero magazzino. L’uomo se ne stava seduto davanti alla scaletta che
portava all’uscio, ai margini di un piccolo campo sassoso su cui resistevano
ancora gli ultimi steli rinsecchiti del granturco; quando smontò lo guardò con
162
diffidenza e Jonas gli mostrò con un sorrisetto le palme alzate delle mani.
L’attimo successivo individuò il fucile dell’uomo, retto di traverso in grembo,
che si spostò decisamente verso di lui mentre si avvicinava.
“Vita alle tue messi, se sei Verde il colono” dichiarò senza ricevere altra
risposta che uno sguardo migrato improvvisamente dallo scorbutico
all’ostile.
“Dicono che hai foraggio da vendere”.
“Chi lo dice?”.
“Il borgo”. Indicò con il pollice alle loro spalle, verso le poche luci delle
lampade quasi perse nella foschia della sera. L’uomo sputò di lato.
“Yar, gente che non si fa mai i suoi cazzi” dichiarò e Jonas annuì.
“Non ti piace molto la gente, nevvero?”.
“Né piace a te, se ti trovi a passare da queste parti. Cresco il foraggio”
continuò. “E il granturco, quel poco che viene: me li compera l’uomo di
Patrick, anche se quest’anno non è ancora venuto a prenderseli. Che Dio
l’inchiodi, dico io!”.
Jonas non sapeva se questo Patrick fosse un uomo o piuttosto una città;
aprì la bisaccia e prese la sacchetta del tabacco, e come per magia
l’espressione del vecchio colono si stemperò un poco mentre lo seguiva con
uno sguardo fattosi improvvisamente interessato.
Non disse nulla mentre se ne girava una ed alla fine fu l’altro a rompere il
silenzio.
“Volete comprare?”.
“Se tu hai da vendere”. L’uomo si alzò e si accostò al suo magazzino, e
Jonas notò che vicino alla porta era appoggiato un altro fucile.
“All’uomo di Patrick faccio un prezzo di cinquanta monete di rame” disse
socchiudendo una porticina da cui uscì odore di erba secca.
“Noi te ne paghiamo il doppio se ci lasci dormire da te” si intromise
Calavera.
“E se hai del graf ti comperiamo anche quello” puntualizzò Jonas.
Aa quel punto l’espressione del colono si era decisamente trasformata in
quella di un uomo che si fosse appena visto apparire l’Uomo-Gesù sulla
testa: offrì loro tutto ciò che avevano chiesto, e Jonas trovò la piccola casa
seminterrata sorprendentemente comoda e calda dopo i molti bivacchi
all’addiaccio, e la brodaglia di cipolle e barba becco che versò nelle loro
scodelle perfino passabile.
Si congedarono dal colono il mattino dopo e quello fu decisamente più
cortese nel salutarli di quanto lo era stato vedendoli arrivare; riempì loro le
borracce di liquore e rimase a guardarli sulla soglia della sua casa fino a
163
quando non furono scomparsi, seguendo una pista di asfalto che piegava
lieve verso Est.
Andarono avanti fino a sera, quando il terreno iniziò a farsi digradante e
punteggiato di canneti e gli zoccoli dei cavalli iniziarono a slittare nell’acqua
che affiorava copiosa dalla terra. Durante tutto il giorno successivo si
inoltrarono in quella depressione fangosa, che sembrava farsi più ampia ed
impraticabile mano a mano che vi penetravano; poi a tratti il suolo tornò a
farsi compatto mentre un’altra strada semiaffondata nel fango aveva
catturato i loro passi portandoli in vista di una serie di basse colline che non
potevano che essere le ultime propaggini dei Piccoli Calvi.
Quella sera, la seconda da quando avevano lasciato la baracca di Verde il
colono, Calavera disse che la traversata era quasi finita e che nel giro di al
massimo due giorni si sarebbero lasciati le Terre Basse alle spalle.
C’era soltanto un ultimo ostacolo da superare, ma questo era soltanto un
dettaglio e l’uomo ritenne inutile parlarne, dato che di lì a poche ore i suoi
compari avrebbero visto con i loro occhi.
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14
Nel mondo di un tempo, ridotto ad un guscio semivuoto per il dissennato
sfruttamento che aveva dovuto subire, più di venti miliardi di persone
potevano continuare a muoversi e a dissetarsi soltanto grazie ai prodotti
della ricombinazione molecolare di rocce e polveri strappate al suolo di un
pianeta morto e delle sue due lune, dai nomi di dei ed eroi già antichi prima
ancora che il mondo andasse avanti.
Né la caduta o l’avanzata delle cose, né lo scorrere del tempo, né la
morte dei loro artefici erano riusciti a fermarle: le macchine erano ancora al
lavoro nelle stazioni di terraformazione abbandonate, oltre il vuoto spaziale,
dedite da millenni a scindere ossidi di ferro nelle loro molecole fondamentali
ed a ricombinarle per produrre acqua e carburante all’idrogeno, inviati
esattamente là dove ce n’era bisogno tramite portali non del tutto dissimili da
quelli alle estremità opposte dei Sentieri del Vettore. Come vermi operosi e
instancabili continuavano a rosicchiare le loro mele scavando voragini ogni
secolo più profonde, rubando risorse a pianeti morti in favore di uno che
presto sarebbe stato tale; e se ogni tanto qualcuna si rompeva, se qualche
nastro trasportatore si inceppava, o una pressa si bloccava a metà della sua
corsa, o un generatore nucleare esauriva il suo combustibile il fatto altro non
era che una seccatura momentanea, un incidente di percorso e nulla più: la
maggior parte dei guasti veniva riparata da altre macchine preposte allo
scopo, i pezzi rotti venivano sostituiti celermente, le fonti di energia esauste
soppiantate dal sole o dallo stesso carburante autoprodotto al prezzo di una
variazione solo trascurabile nel flusso di materie prime (e certo non c’era più
alcun consiglio d’amministrazione ad incazzarsi sulle flessioni di
produttività!). Molto probabilmente il lavoro sarebbe ancora andato avanti
per ere, nella polvere e nel silenzio delle cattedrali siderali, e il genere
umano del nuovo medioevo si sarebbe estinto, se così doveva avvenire,
molto prima di finire l’acqua o il carburante a sua disposizione.
15
Jonas fermò il cavallo sulla cresta del colle lungo cui era andata
inerpicandosi la strada in quell’ultimo scampolo del giorno; guardò giù tra le
nuvole base che si sfrangiavano come bambagia, e provò un senso di pieno
totale smarrimento davanti a quella visione inattesa ed irreale che si era
appena materializzata, troppo grande ed irreale per essere realmente vera.
Erano arrivati alla base della collina a pomeriggio inoltrato, e mentre
salivano lui si sentiva decisamente di buon animo: credeva che oltre i Piccoli
165
Calvi li attendessero soltanto altri stagni ed altri acquitrini, che dopo qualche
ultimo giorno di pena sarebbero tornati ad essere il terreno solido e
compatto delle foreste di confine di Nuova Canaan oltre le quali avrebbero
ritrovato, come era nei loro piani, le piste per la Grande Via ed Am’lis.
Invece non era proprio preparato a ciò che vide quando la pista svoltò
sull’altro versante; perché a valle delle alture, là dove avrebbero dovuto
esserci soltanto i canneti ed i pantani che si aspettava, era improvvisamente
apparso il buco rotondo ed immenso di uno degli ultimi invasi per la raccolta
di acque di sintesi del mondo antico: perché le cose di una volta sono fatte
per durare e nemmeno l’avanzata del mondo aveva potuto cancellare opere
che sembravano realmente essere state erette con l’aiuto di dei e magia.
“Gesù Cristo…”.
Jonas chiamò in causa il più antico dei nomi dell’Uomo-Gesù mentre le
redini gli sfuggivano di mano e gli occhi si allargavano di meraviglia; un
miraggio, la sua mente si rifiutava di considerarlo in altro modo ed altri
termini. Un miraggio di metallo e cemento, di parapetti, camminamenti, tubi
e ballatoi scintillanti, piccoli e sottili come i fili di una ragnatela, sospesi sopra
un abisso di pareti grigie quasi a picco, fessurate e chiazzate, che
sembravano dilatarsi sotto i suoi occhi nel momento stesso in cui le
guardava e che racchiudevano al loro interno, ultimo dettaglio che colse
mentre la foschia si alzava turbinando, la massa scura di un mare
imprigionato.
“Era da tanto che non sentivo qualcuno che Lo chiamava così”. Jonas
sussultò colto alla sprovvista dalla voce di Calavera, ed inghiottì sentendosi
la bocca asciutta.
“Ci sono passato una volta soltanto cinque anni fa, e credo di avere fatto
la tua stessa faccia. Davanti a Dio, impressionante è dire poco”.
“Io non credevo esistessero cose del genere…non così vicine a Gilead”.
L’uomo annuì.
“Aye, e ti dirò di più; guarda dentro, cosa vedi?”. Il rinnegato indicò con
due dita e solo ora Jonas notò, malgrado la distanza, che l’acqua nel bacino
non sembrava gelata: anzi, riuscì a cogliere il movimento di onde contro le
pareti della scodella, e per qualche motivo notarlo gli fece scendere un
brivido giù per la schiena. In sella dietro Calavera, Louis guardava con
meraviglia forse ancora maggiore della sua.
“Anche l’altra volta era inverno ma non era ghiacciata; non ghiaccia mai,
ma si muove sempre, batte contro la terra con la forza di un maglio e io
credo che ci siano dei demoni intrappolati lì dentro”.
“Non è un buon posto questo”. Louis sputò di lato facendogli eco. “Per
mio padre e mia madre, non ho mai visto niente di simile e ne avrei fatto
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volentieri a meno”. L’uomo toccò il ferro del fucile nella fonda della sella, poi
il vento si alzò e come a sottolineare le parole del rinnegato portò fino a loro
un rimbombo cupo ed echeggiante. Jonas sentì i testicoli ritrarsi
istantaneamente contro l’addome e lo stomaco serrarsi in un fremito di
nausea; il rinnegato sembrò accorgersene subito e lo squadrò con aria
insolente.
“Scommetto che sei lì lì per riempire i pantaloni dalla strizza, si?”.
“I miei istitutori non avevano mai parlato di cose del genere, così vicine
alla capitale…”.
“I tuoi istitutori!” lo scimmiottò in falsetto con un ghigno. “Mentecatti e
tiraseghe, gli istitutori dei nobili pollastri; o forse non volevano che a
qualcuno di voi, giovani fulmini di guerra, venisse in mente di ficcanasare qui
in giro”.
“Fottiti”.
Calavera rise a bocca aperta e diede un lieve tocco di sproni
sorpassandolo.
“Dove vai ora?”.
“Scendiamo. Conosco dei ripari”.
Jonas deglutì e guardò l’uomo che, sbrigativo ed arrogante come
sempre, si avviava al passo lungo la discesa. Indeciso spostò lo sguardo
sulla scodella e sulle sue acque frementi, tormentando le briglie con le dita,
prima di tornare sui compagni senza essersi ancora deciso a muoversi.
Poi vide che Louis lo stava fissando e fu quello alla fin fine a sciogliere gli
indugi; perché un dinh, e per almeno una delle due persone che lo
accompagnavano questo era, non può certo comportarsi da codardo.
Si decise alla fine a muoversi, ma per tutta la durata della discesa non riuscì
a staccare gli occhi dalla valle nebbiosa e dal suo impossibile, inquietante
monumento.
16
Alla base del poggio, poche ruote più avanti, la strada si biforcava:
mentre uno dei due rami piegava a Nord attraverso la pianura l’altro si
inerpicava sul fianco di un argine incurvato alto almeno quattrocento piedi,
perdendosi ben presto fra i tronchi neri ed incurvati degli alberi che
punteggiavano il declivio. Pini, betulle e larici crescevano disordinati ed
addossati gli uni agli altri su entrambi i lati della strada, spelacchiati e miseri,
appena spolverati di neve sui rami più alti; piegati verso l’esterno come fili
d’erba schiacciati, trascinati dalla terra che si lasciava andare molti erano
franati di traverso sull’erta e sulla strada mentre altri resistevano ancora
167
aggrappati in modo precario ad un terreno putrido da cui l’acqua affiorava
spontanea scorrendo in rivoli copiosi appena sotto il tappeto marrone di aghi
e foglie cadute.
Jonas fermò il cavallo con un leggero strappo alle redini e guardò su
mentre Calavera e Louis lo superavano iniziando ad affrontare la salita:
respirò il puzzo di marcio e ferro arrugginito che saliva potente dal suolo e
colse ancora una volta un baluginare sporco dalla sommità della collina,
prima che l’acqua rimbombasse di nuovo mandando attraverso la terra un
tremito cupo e prolungato che gli fece spiacevolmente eco nel torace.
Oh si, quello era un posto sbagliato, più sbagliato ancora delle rovine degli
Antichi e dei loro carri di metallo fermi ad arrugginire sulle strade dell’EntroMondo, e lo realizzò serenamente come il fatto ovvio che era: perché se
carri e rovine erano cose morte, cose che potevano portare sfortuna ma che
avevano cessato di ergersi e muoversi da secoli, qualcosa gli diceva che in
quel luogo c’era qualcosa che viveva ancora…e loro stavano andando dritti
dritti a stuzzicarlo.
Il cavallo si rimise in movimento da solo accodandosi ai due cavalieri
poco più avanti mentre l’acqua tuonava sommessa una seconda volta;
Jonas scostò i rami più bassi dei pini e questi gli si disfecero in mano in una
poltiglia grigiastra ed umida che sapeva di marcio. Strattonò le redini.
“Dove ci stai portando biondo?”. Calavera si girò e si strinse nelle spalle.
“Cerchiamo un posto per la notte, l’ho già detto prima; ci sono delle
rovine più in alto, case di pietra ancora intere per trovare riparo dal vento”.
“E poi?”. L’uomo sorrise, per tutta risposta gli voltò le spalle e diede un
tocco di redini.
“Poi vediamo, ragazzo, quello che c’è da fare”.
Jonas piantò gli sproni nei quarti del cavallo e questi schizzò in avanti
con un nitrito deciso slittando sull’asfalto bagnato; lo fece fermare
strattonandolo nuovamente, a fianco del rinnegato, e quando questi si girò
col suo onnipresente sorrisetto aveva già portato la mano sul calcio della
pistola.
“Dove cazzo vuoi portarci uomo?”. Il rinnegato sospirò fermandosi una
seconda volta.
“Io non voglio portarti da nessuna parte. Sto solo cercando un riparo per
il mio culo, e tu sei libero di seguirmi o di andare per la tua strada. E lo
stesso vale per il tuo amico qui dietro”.
Jonas avvampò sulle guance, l’altro se ne accorse ed il suo sorriso si
fece più ampio. Abbassò gli occhi per rialzarli quasi subito, dando mostra di
aver notato solo in quel momento un particolare estremamente interessante
della situazione.
168
“Intendi usarla, quella pistola? Perché se vuoi solo cincischiare, come
fate voi giovani cazzoni, forse dovresti allontanare la mano. Certe cose tra
compari non si fanno, io dico”.
Jonas staccò lievemente il palmo dal calcio, ma senza scostarlo del tutto.
Dietro il rinnegato Louis lo squadrava confuso.
“Nemmeno tra compari si cammina senza sapere dove si vuole andare;
te lo chiedo di nuovo, cos’hai in mente?”.
Calavera diede un altro sospiro d’impazienza. “Dobbiamo attraversarlo se
vogliamo toglierci di qui in fretta. Ma il conciliabolo lo terremo al caldo e
davanti al fuoco” concluse, voltandogli di nuovo le spalle e rimettendo il
cavallo al passo.
“E ora se vuoi spararmi puoi anche provare a farlo, mentre se vuoi andare
per conto tuo puoi andartene via quando vuoi. Altrimenti chiudi quella cazzo
di bocca e seguimi, perché so quello che faccio”.
Per un momento Jonas provò davvero l’impulso di sparare al compagno
(perché in fondo lui non faceva parte della profezia, e cosa più importante
non era sua abitudine permettere a qualcuno di trattarlo così); ma non lo
fece, e si convinse che era solo perché c’era Louis in mezzo, limitandosi a
guardarlo mentre riprendeva la salita. Qualche momento dopo allontanò
definitivamente la mano dall’arma posandola nuovamente sul pomolo della
sella, dando a sua volta di sproni per non essere lasciato troppo indietro.
17
Appena prima del secondo tornante gli alberi erano franati sulla strada
insieme ad una buona parte della montagna: al loro posto c’era uno squarcio
nella terra da cui fluiva un piccolo fiume nerastro. Erano dovuti scendere di
sella per tagliare attraverso il costone, conducendo i cavalli alla briglia in
quell’intrico di aghi e muffa dove gli stivali sprofondavano fin quasi alla
caviglia; avevano poi ripreso la strada, dopo appena pochi minuti, ma Jonas
aveva lo stesso rabbrividito di sollievo nell’uscire dalla boscaglia
spazzandosi le spalle ed i capelli dal viscidume untuoso che avevano
lasciato le fronde basse.
Calavera li aveva guidati fino alla sommità, proprio vicino al bordo
dell’imbuto ed al mare prigioniero, dove la strada si allargava in un ampio
piazzale attraversato da spaccature e rivoli di acqua scura che sapeva lo
stesso odore metallico della foresta morta sulle pendici della collina; da lì, il
baratro a nemmeno un centinaio di passi oltre lo slargo dissestato, Jonas
non poteva non percepire la presenza dell’enorme massa l’acqua sotto i suoi
piedi, il rimbombo sostituito da una sensazione di pressione costante che
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periodicamente esplodeva in uno scoppio di tuono. E l’incastellatura di ponti
e travature, lucente ed irreale in lontananza dal colle, vista da vicino non era
altro che una cattedrale in disfacimento, tremante e cigolante in un dondolio
percettibile e continuo sotto il doppio assalto delle onde e del vento.
Mentre seguiva il rinnegato verso una coppia di edifici senza tetto, con
ancora qualche residuo della pittura blu che chissà quanti secoli prima li
aveva coperti, Jonas aveva messo la mano sulla pistola e si era guardato
attorno mentre le ombre si allungavano rapidamente; non riusciva a
togliersela, la sensazione che quel luogo di rovina e fradiciume fosse vivo.
Ma a che scopo parlarne?
Aveva guardato Louis, incontrando il suo sguardo proprio mentre il soldato
scendeva di sella con un salto e sfilava il fucile dalla fonda mettendoselo a
tracolla: gli aveva sorriso ma lui aveva replicato soltanto con un secco
accenno del capo, e vedere la sua espressione tesa dopo giorni in cui quel
volto non aveva manifestato alcuna emozione lo fece sentire ancora più a
disagio.
Il pensiero successivo gli suggerì che anche lui doveva condividere la
sua sensazione.
L’unico ad essere a suo agio, al punto da non sprecare nemmeno
un’occhiata intorno, era proprio il rinnegato; molto probabilmente perché
conosceva il luogo…e perché le canaglie si fanno raramente mettere in
soggezione dalle circostanze. Aveva invidiato la sua tranquillità e la sua
mano ferma nel prepararsi una sigaretta, tranquillo come se stesse nel bel
mezzo della prateria, mentre sentiva la sua tremare sul calcio di nichel non
importa quanto si sforzasse di calmarla.
Poi ad un tratto, mentre stavano avanzando, le passerelle ed i ponti
erano avvampati di una luce candida e bruciante, e la sorpresa era stata tale
da fargli fermare il cavallo con uno strattone e chiamare nuovamente in
causa la pistola. Calavera per tutta risposta aveva riso ancora, spiegandogli
che erano soltanto luci di focaria e che lui le aveva viste anche l’altra volta:
si accendevano non appena l’oscurità scendeva e si spegnevano quando
faceva chiaro. Un sistema “automatico”, credeva fosse quella la parola
giusta: gliel’aveva detto uno dei vigilanti, uno che di quelle cose se ne
intendeva più o meno quanto lo sceriffo Trenton (pace all’anima sua). Per
nulla rassicurato l’aveva rimessa via e dopo la prima occhiata, in cui aveva
colto con chiarezza un movimento ritmico e turbinoso, più in basso tra il ferro
ed il cemento, si era sforzato di non guardare più in quella direzione.
Sulla facciata di una delle costruzioni c’era ancora una scritta, sbiadita e
semicancellata appena sotto il cornicione del tetto sfondato, nelle lettere
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della Lingua Eccelsa così tanto amate dagli Antichi: Jonas riusciva a
leggerle e persino a pronunciarle mentalmente, ma non riusciva come
sempre a darvi un significato preciso. “Centro di controllo di flusso numero
7” leggeva, tirando ad indovinare sulle lettere troppo rovinate; cosa diavolo
fosse un ‘controllo di flusso’ non riusciva proprio ad immaginarlo, ma
l’immagine che gli suggeriva sfacciatamente il suo cervello aveva qualcosa a
che fare con le lune delle donne e col sangue. Era sceso di cavallo
sogghignando come un bambino alle prese con un pensiero sporco,
accantonando per un momento la sua inquietudine, mentre Calavera si
avvicinava per primo all’apertura della porta della costruzione più grande
(che non presentava più alcuna traccia dei battenti) e sbirciava dentro per
poi girarsi e fare cenno.
“È pulito” aveva detto, e loro l’avevano raggiunto dalla prudente distanza
a cui si erano fermati per guadagnare l’ingresso a loro volta.
All’interno della costruzione l’aria era pesante, stantia ed il pavimento
era coperto da uno spesso strato di fango umido. Calavera li aveva guidati
attraverso alcune stanze a pianterreno ingombre di detriti e strani macchinari
arrugginiti, e mentre passavano avevano notato a terra molte tracce dalla
forma insolita: come di stelle a cinque punte, curiosamente schiacciate ed
attraversate da venature che sembravano partire da un foro centrale per
allargarsi verso l’esterno.
Tracce di animali senza dubbio, e nel vederle il rinnegato aveva
ridimensionato un po’ la sua sicurezza e fatto più cauto il suo passo; ma era
durato poco, giusto il tempo di constatare, dopo una breve perlustrazione,
che nel complesso diroccato non c’era nessuno a disturbarli.
“Mutanti” aveva detto l’uomo, “Ma sono tracce vecchie”. Jonas le aveva
guardate a sua volta mentre il compare si allontanava coi cavalli cercando di
afferrare un dettaglio che si rifaceva alle vecchie lezioni di Nebi, e che forse
per questo non ne voleva sapere di affacciarsi con chiarezza alla sua mente.
Dopo qualche momento ci aveva rinunciato ed alzandosi aveva calpestato
con stizza l’orma stellata; si era ritrovato Louis davanti, che lo squadrava col
fucile puntato a terra ed un’espressione di chiara preoccupazione sul volto.
“Qui ci sono troppe cose strane” aveva sussurrato, e Jonas non aveva
potuto fare altro che battergli piano la mano sulla spalla mentre gli passava
accanto.
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Avevano tenuto il loro conciliabolo dopo aver acceso il fuoco, mentre il
caffè bolliva e lui cercava di togliersi di bocca il gusto della carne secca
171
finendo con ampie sorsate il poco graf che gli restava nella borraccia. Fuori il
buio era calato rapidamente e si era alzato il vento, che soffiava gelido
attraverso la finestra scardinata della camera d’angolo in cui si erano
sistemati. Non c’erano luci nell’oscurità densa come inchiostro che era
calata sulla collina e la luminosità splendente del bacino interrompeva la
linea scura dei boschi come un sipario, il suo chiarore artificiale visibile fin
dall’interno della stanzetta.
Calavera era andato dritto al punto. “Bisogna attraversarlo” era tornato
alla carica, e questa volta era stato Louis, l’uomo sempre silenzioso, a
sbottare di dissenso.
“Tu sei pazzo” aveva considerato, l’altro si era accontentato di muovere
la mano in circolo.
“Ci sono troppe cose strane qui, cose che non ho mai visto da
nessun’altra parte e che vorrei non aver mai visto. Diable! Questo non è un
posto buono, sembra…”.
“Vivo” lo aveva completato Jonas, ed il soldato aveva taciuto annuendo.
Anche a lui non tornavano i conti.
In risposta Calavera aveva gettato altri sterpi nel fuoco e si era
stravaccato meglio.
“Da due Cananei istruiti non mi aspettavo di sentire una tale stronzata;
vivo! Un posto come questo sarebbe vivo, secondo voi?”.
L’uomo aveva sputato nel fuoco con disprezzo e Jonas si era accigliato
davanti a quella scortesia.
“Per l’Uomo-Gesù, queste sono soltanto pietre e metallo; e possono le
pietre ed il metallo essere vive?”.
“Possono portare molta sfortuna, ed ospitare dei demoni” aveva replicato
Jonas, ma il rinnegato aveva risposto con un sorriso battendo la mano sulla
fondina.
“Non dirmi che ci hai creduto, alla storia dei demoni?
Te lo concedo ragazzo” aveva aggiunto subito dopo. “Queste sono cose
strane, e le cose strane fanno un brutto effetto quando ci sbatti il muso per la
prima volta; ma quando finisci per vederne troppe non ti fanno più né caldo
né freddo. Ed io ne ho viste di cose, ben più strane e pericolose di questa
scodella marcita. Volete forse sentire dei Vi Castis, delle loro camere
sotterranee e dei raggi-rasoio che proteggono i sentieri?”.
Aveva sorriso, forse anche conciliante, ma Jonas non era stato pronto a
cogliere l’occasione di fare pace e raccontare storie.
“Ci sei già passato?”.
“Venendo da Nuova Canaan, aye, ovvio che l’ho fatto. E non è lunga, né
brutta, e nemmeno sfortunata come voi timorati pensate. Una passeggiata,
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dico io; c’è un ponte di cemento con dei pilastri grossi come carri poco
distante da qui, solido e largo abbastanza da farci passare non due, ma
quattro cavalli uno vicino all’altro. E voi vi lamentate con queste stronzate!”.
Né Jonas né Louis avevano detto nulla, così il rinnegato ci aveva dato un
taglio.
“Tre o quattro ore di camminata al passo contro due giorni almeno per
aggirarlo; io ho già scelto” aveva concluso tirandosi la coperta sulla testa e
girandosi su un fianco.
Jonas e Louis si erano guardati, poi il primo aveva annuito al secondo
mentre entrambi coglievano all’istante lo stesso pensiero: non l’avrebbero
seguito, perché lui non era ka-tet con loro. L’indomani le loro strade si
sarebbero divise.
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Louis vegliò per primo, svegliando Jonas quando l’alba era ancora in là
da venire ed il fuoco non si era ridotto che ad una montagnola di braci;
mentre il compagno si metteva giù, il fucile accanto al giaciglio, per
prendersi la sua parte di sonno Jonas rinforzò il falò con altre frasche e si
avvicinò sbadigliando alla finestra. All’istante i suoi occhi furono catturati
dalla luminosità lattea che arrivava dal bacino e dopo le prime proteste la
sua mente fu subito sveglia.
“Ma dove cazzo ci hai portati…” mormorò squadrando Calavera che
russava avvolto nella coperta; si sporse verso la sua fiasca, abbandonata
accanto allo zaino, con l’intento di servirsene quando un rumore sommesso,
come di gente che stesse parlando a bassa voce, attirò la sua attenzione da
oltre il riquadro scuro della porta sfondata.
“Didarami? Damaciami! Dida dama, dida doda…”
Jonas rimase bloccato in avanti, il braccio teso verso la borraccia del
liquore mentre il chiacchiericcio si interrompeva per un attimo e poi
riprendeva sommesso accompagnato da piccoli colpi e rumori come di passi
strascicati.
In quel momento Calavera sbottò qualcosa nel sonno e il ragazzo
sussultò di sorpresa quasi perdendo l’equilibrio; fu rapido a tirarsi
nuovamente in piedi e si ritrovò in mano la pistola sinistra, puntata verso
l’alto col cane già armato, mentre il chiacchiericcio ammutoliva e lo strisciare
si faceva più affrettato per poi bloccarsi di nuovo all’improvviso. Nella stanza
a fianco i cavalli sbruffarono e sentì il tintinnio delle pastoie con cui li
avevano legati.
173
Jonas rimase immobile ad ascoltare per qualche secondo strizzando gli
occhi verso il rettangolo di buio oltre la porta della stanza, e credette dopo
un po’ di vedere qualcosa di grosso e tozzo che li stava fissando dal buio
con occhi debolmente luccicanti.
“Oh, cazzo…”.
“Dodacioni?”.
Senza staccare gli occhi dalla cosa nella penombra allungò lentamente la
mano libera verso le braci, e contemporaneamente vide la sagoma
raccogliersi a sua volta su sé stessa muovendo quelli che sembravano
lunghi arti ricurvi; poi diede un guizzo, afferrò un tizzone acceso e lo tirò
verso il vano della porta.
Un attimo dopo gridò e sparò insieme mentre anche l’altra arma veniva
estratta e spianata.
20
Appena assopito Louis fu il primo a schizzare in piedi e nell’impeto il
mostro gli franò addosso, colpito a morte ma ancora bellicoso; si trascinò
sulla coperta e tentò di piantargli nella gamba la chela che non gli era stata
staccata dalle pallottole di Jonas, ma il soldato scalciò urlando e spianò a
sua volta il fucile facendo fuoco e disintegrando quella che sembrava essere
la testa del mostro, un bulbo arancione di occhi e barbigli frementi. Quando
la bestia stramazzò fulminata l’uomo la allontanò con un calcio
rannicchiandosi in un cantuccio del muro, il fucile ancora puntato contro la
carcassa.
“Putaine! Cos’è quello? Cos’è quello?”.
Jonas si lasciò cadere di schiena contro la parete; vide con la coda
dell’occhio il cacciatore di taglie ancora semisdraiato, con le pistole a canna
lunga che spuntavano da sotto l’orlo della coperta ed un’espressione
finalmente confusa, oltre che assonnata, sulla sua faccia da schiaffi.
“Ma che cazzo è successo?”.
Aprì maldestramente il tamburo delle pistole ed i proiettili ancora buoni gli
sfuggirono sparpagliandosi a terra e mescolandosi coi bossoli vuoti: per una
cosa come quella Fardo lo avrebbe frustato a sangue, e lui inseguì il
pensiero mentre le dita facevano velocemente la spola dai passanti del
cinturone prelevandone altri. Non si fece problemi nel guardare mentre
ricaricava, perché non credeva che sarebbe stato capace di farlo alla cieca.
Non dopo che quella cosa gli era saltata addosso dal buio cercando di
sventrarlo non appena la luce l’aveva illuminata.
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Calavera si alzò mentre i cavalli nitrivano nuovamente, sfilò davanti a
Louis ancora raggomitolato e si affacciò all’altra stanza, poi i due lo videro
entrare e lo sentirono sparare ancora; subito dopo uscì, pallido in volto,
tenendo per la briglia due cavalli con gli occhi fuori dalle orbite.
“Stavano per mangiarci i fratellini, li ho buttati giù dalle finestre. Cosa
sono quelle cose?”.
“E lo chiedi a me? Dannazione!”.
“Ma è morto adesso, vero?”. Louis sporse cautamente il piede e toccò la
carcassa di quello che sembrava l’incrocio tra un cane molosso ed un
granchio, e quando la cosa tremò nel suo lago di sangue il soldato si ritrasse
nuovamente con un gridolino.
“Piantala anche tu, porca puttana! Quello è morto, non vedi?”. Jonas si
impose di staccarsi dalla parete, al prezzo di una vampata di nausea che
minacciò di fargli vomitare la cena. Si stupì che le gambe lo reggessero, se
le sentiva deboli e molli.
Qualcos’altro parlò dal buio. “Didarami?”.
Il soldato fece scattare la maniglia del suo fucile, ricordandosi solo in quel
momento di far saltare via il bossolo (.
“Leviamoci dal cazzo” mormorò. “Nom de Dieu, leviamoci dal cazzo e
facciamolo in fretta”.
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Ne abbatterono altri nelle sale del caseggiato ma fu immediatamente
chiaro che più rumore facevano, più ne avrebbero attirati; e una volta fuori
l’orrore fu grande nel vedere che lo spiazzo brulicava letteralmente di quelle
cose, sagome inequivocabilmente in movimento tra la linea scura della
boscaglia e la bolla luminosa del bacino.
C’era uno spazio tra le costruzioni, uno spiraglio ingombro di detriti e
fango dove furono lesti a rintanarsi tirandosi dietro i cavalli perché non c’era
altro posto dove andare; poi, forse per dare battaglia, Calavera armò lo
sparasvelto ma fu Jonas a bloccarlo afferrandogli la canna e facendoglielo
abbassare.
“Non abbiamo abbastanza pallottole, ma hai visto quanti sono?”.
L’uomo lo guardò con astio e in quel momento fu Jonas, malgrado la
situazione, a ghignare con arroganza.
“E allora cosa suggerisci?”.
“Torniamo indietro” propose Louis. “Scendiamo per la strada”. L’uomo
scosse il capo.
175
“Io là in mezzo, al buio con quelle cose, non ci vado nemmeno con una
pistola alla testa!”.
“Frère cosa facciamo?”.
Qualcosa armeggiò e raspò alle loro spalle, Jonas si girò e sparò dove
vedeva occhi che luccicavano ed il tramestio finì in uno strillo acuto di maiale
sgozzato.
“Lo so io, che cosa facciamo” disse Calavera. “Seguitemi”.
L’acqua scoppiò sotto i loro piedi come una cannonata mentre uscivano
allo scoperto verso il bacino, e non appena furono abbastanza vicini il tanfo
di marcio li avvolse ben più forte e nauseante di quanto non avessero
avvertito salendo. Jonas si sollevò la bandana su naso e bocca e passò le
redini del suo cavallo a Calavera, che le legò al pomo della sua sella e poi si
mosse spedito puntando coi due animali verso la cattedrale di balaustre.
Vide che, come rispondendo ad un ordine preciso, i mostri più vicini si
erano girati verso di loro ed avevano iniziato a caracollare in un goffo
inseguimento strascicando le loro zampe palmate e protendendo minacciose
chele ricurve; potevano averli visti o semplicemente percepiti rifletté, mentre
Louis faceva fuoco a sua volta uccidendone un altro, ed improvvisamente gli
tornò alla mente quel nome di cui Nebi aveva a lungo parlato. Aramostre,
quelle erano aramostre (una colonia intera a giudicare da quanto era
popolato il posto) ma lì non era il Mare Occidentale e bestie del genere non
avrebbero dovuto trovarsi in un luogo come quello.
Louis mirò nuovamente e lui, come già aveva fatto con Calavera,
abbassò la canna del suo fucile con uno strattone prima che facesse partire
il colpo.
“Non sprecare le cartucce” lo ammonì superandolo, poi si mise a correre
e lo sentì subito tenergli dietro.
L’acqua scoppiò ancora e quando Jonas giunse per primo sul bordo, ed
istintivamente guardò giù, ne rimase come ipnotizzato.
Era nero quel mare prigioniero, e si muoveva alzando spruzzi che
sapevano di carogna a forse venti piedi dalla balaustra arrugginita; si
dibatteva come una bestia in trappola proprio come aveva detto il rinnegato,
e nel guardarlo Jonas si dimenticò per un momento di tutto il resto: gli
sembrò che lo spazio sotto di lui si dilatasse, che le pareti di cemento e le
onde si stiracchiassero ai lati ritraendosi in giù, e non si accorse quasi del
formicolio vago che gli attraversò all’improvviso la testa riempiendogliela di
stoppa ed isolandolo da qualsiasi altra cosa che non fosse l’imperativo di
guardare e venire avanti. Sentì le mani che infoderavano le armi con calma
e pi si appoggiavano alla ringhiera: non la sentì nemmeno stridere e flettersi
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dopo un attimo sotto il suo peso, né si sarebbe accorto di precipitare se
Louis non l’avesse afferrato di scatto dallo zaino e riportato alla realtà con un
violento strattone.
Jonas annaspò all’indietro e cadde col culo per terra ed i denti
sbatacchiati, la sensazione dolorosa servì a riportarlo al presente; ci mise
qualche attimo a mettere a fuoco la mano tesa davanti a lui, e quando lo
fece capì immediatamente cosa era successo ed arrossì di vergogna.
Louis non disse nulla quando la afferrò, lo aiutò soltanto a tirarsi su ed
aspettò che avesse ripreso le sue armi, e che si fosse rimesso in
movimento, prima di seguirlo a sua volta.
22
Calavera lasciò andare per un momento le briglie del cavallo poi caricò e
fece scattare il meccanismo di fuoco dello sparasvelto, come gli aveva
insegnato lo sceriffo, per falciare con una raffica precisa un gruppo di tre
mostri temerari che si stavano facendo sotto da sinistra. Una gran bell’arma,
quella, niente a che vedere con i ferrivecchi in circolazione da quelle parti:
non per niente veniva dal mondo di prima.
Sparò ancora mentre i due ragazzi si avvicinavano abbattendone altri alle
loro spalle: non erano veloci, ma il capetto aveva ragione nel dire che erano
troppi. E lui, con o senza di loro, doveva togliersi di lì.
“Volevi farti una nuotata?” indagò, Jonas lo guardò storto e lui rise
indicando con la canna dell’arma, ad una trentina di passi alla sua sinistra,
un ponte di ferro e cemento largo quanto una strada baronale che correva
sospeso sull’acqua come un miraggio, tra tubi, cavi e ballatoi più piccoli,
racchiuso entro due file di lampioni splendenti come stelle.
“Da quella parte, o preferisci guardare il paesaggio?”. Jonas lo mandò
(per la seconda volta in verità) a farsi fottere e lui sghignazzò rimettendosi lo
sparasvelto a tracolla e tirandosi dietro le montature.
Non appena furono vicini notò che gli anni passati dalla prima ed ultima
volta che ci era passato sopra avevano infierito con mano pesante: il
cemento del ponte si stava sgretolando, mostrando l’anima in rete di ferro
che gli Antichi erano soliti mettere dentro le loro costruzioni, ed in alcuni
punti aveva ceduto del tutto in larghi buchi da cui vedeva l’acqua ribollire di
schiuma. C’era da sperare che più avanti non fosse crollato, o si sarebbero
semplicemente cacciati in una trappola senza uscita.
Fece avanzare il cavallo e quando l’animale salì poté sentire il cemento
muoversi, più percettibilmente di quanto non avesse desiderato; lo strinse
177
tra le ginocchia per farlo stare quieto poi si passò le briglie intorno
all’avambraccio sinistro.
“Questa è una pessima idea…che cosa combini adesso?”.
“Vado avanti perché so la strada e voi mi coprite”.
Prima che Jonas potesse rispondere il ponte tremò torcendosi a sinistra
come se qualcosa, da sotto, l’avesse colpito.
“Tempo di togliersi dai piedi sul serio” commentò il rinnegato e nessuno
dei due ebbe più nulla da ridire.
Jonas non poteva non pensare che fosse stato qualcosa di diverso da
un’ondata a provocare quell’urto; forse la stessa cosa che l’aveva adescato
sul ciglio del baratro, perché adesso ne era sicuro: lì dentro c’era qualcosa
ed aveva un suo Tocco.
Attimi dopo i mostri più vicini al bordo, come ubbidendo ad un comando,
iniziarono a buttarsi di sotto: vederli fiondarsi giù come palle di fucile
scomparendo nell’acqua schiumante era bastato a mettergli le ali ai piedi,
perché il motivo di quella manovra era fin troppo chiaro.
Le chele avevano iniziato a fare capolino dai parapetti mentre Calavera
procedeva in testa al piccolo trotto e loro tenevano dietro correndo, poi il
ponte aveva tremato ancora in un ruggito di metallo strappato e per poco
non erano finiti tutti quanti a terra.
Louis si era avvicinato al bordo ed aveva guardato giù ma subito se ne era
staccato indietreggiando, bianco in volto, ed aveva abbassato il fucile
mentre un tentacolo grigiastro dal diametro di un barile guizzava in alto
ergendosi sopra di lui per almeno nove piedi; mentre gli sparava Jonas
aveva colto con la coda dell’occhio il galoppo rapido del cacciatore di taglie
che superava con un salto una piccola voragine del ponte e si portava
rapidamente fuori pericolo.
Poi non c’era più stato tempo di pensare a lui: aveva messo via le armi e
si era gettato verso il compagno, ancora imbambolato nel bel mezzo della
mischia, per restituirgli il favore di poco prima.
23
Jonas afferrò Louis per una spalla e lo strattonò violentemente all’indietro
proprio mentre un’aramostra guadagnava la sommità ed altri tentacoli
emergevano da dietro il bordo abbattendosi tutto intorno a loro avvolgendosi
intorno alla sponda di cemento. La cosa che c’era all’altro capo aveva fame
considerò, mentre piantava una pallottola da cento grani nella testa del
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mostro appena sbucato. E quella sera con tutta probabilità il pasto erano
loro.
Schiaffeggiò il compagno a mano aperta rovesciandogli la testa di lato,
poi lo afferrò per le spalle e lo scosse e quello sembrò ritrovare un po’ di
lucidità.
“Le diable, le diable…” mormorò nella sua lingua incomprensibile; Jonas
scosse il capo e sorrise quasi bonario mentre la passerella tremava
nuovamente ed il cemento delle murate si sgretolava in grandi blocchi. Ne
vide altre una ventina di passi più indietro, almeno tre o quattro che avevano
avuto il tempo di salire e che ora li scrutavano guardinghe, e probabilmente
ce n’erano anche alle loro spalle: ma avrebbero dovuto aspettare il tempo
che era necessario a rimettere in carreggiata un ka-mate che aveva perso
la bussola.
“Non è davvero ora di farsela addosso, compare; ricorda chi sei e non
mettere la paura vicino alla tua mano”. L’uomo annuì.
“Ora tu prenderai il tuo ferro e sparerai presto e bene, perché noi non
moriremo qui, noi abbiamo grandi cose che ci aspettano e non possiamo
morire. Hai inteso?”.
Come a fare eco a quelle parole Jonas sentì il crepitare di uno
sparasvelto e capì che nemmeno il rinnegato era scappato come aveva
creduto. Erano ancora tutti insieme, e quello era proprio il momento di
muovere il culo.
Lasciò andare Louis, certo che avesse afferrato la situazione, e spianò le
armi davanti a sé lasciando che fossero il suo corpo ed il suo Tocco a
sparare; seminò fuoco e tuono, si girò e sparò ancora mentre lo sparasvelto
del rinnegato faceva da contraltare, sorridendo di soddisfazione quando udì
anche la voce del fucile del soldato unirsi al coro. E quando alla fine i suoi
tamburi furono vuoti rinfoderò e si mise a correre percependo senza
guardare che anche il compagno aveva fatto lo stesso.
Nell’acqua i tentacoli scossero i piloni del troncone di ponte, entrambi lo
sentirono slittare sotto i piedi e seppero che sarebbe crollato di lì a pochi
attimi; la fenditura pochi passi più avanti, oltre la quale Calavera teneva la
posizione sparando in sella ad un cavallo quasi imbizzarrito, scattò in una
nuvola di polvere e si allargò, mostrando gli spuntoni contorti dell’armatura
dei ferro e, più sotto, l’acqua ribollente dentro cui facevano capolino occhi
luminosi e malefici, grossi come ruote di carro, al centro di un viluppo di
tentacoli frementi.
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Saltarono insieme oltre il ciglio ed atterrarono rotolando; Jonas si rialzò
quasi subito e vide il camminamento franare giù inabissandosi con
un’ondata che fece vacillare il troncone su cui erano appollaiati.
Ma non era ancora finita.
“Dammi il tuo fucile” comandò e Louis ubbidì. Prese la mira e sentì
un’ultima volta che la testa sembrava riempirsi di ovatta, con l’impulso
stranamente stimolante di mollare quell’inutile catenaccio e tuffarsi di sotto,
perché in quell’acqua avrebbe visto cose che nessun altro uomo avrebbe
potuto vedere. Per un momento fu tentato seriamente di farlo, poi sparò
dritto verso i due occhi luccicanti e qualcosa urlò nella sua testa inviando
attraverso l’ovatta una fitta dolorosa che gli fece sbattere insieme i denti
snebbiandolo all’istante.
I dischi di luce scomparvero ed i tentacoli schiaffeggiarono la schiuma
aggrovigliandosi impazziti prima di afflosciarsi.
“In fede mia l’hai preso!”.
Calavera ghignò euforico, lui si accontentò di saltare in sella con Louis
mentre il rinnegato teneva ferma la bestia per loro. Corsero.
24
Non ci fu bisogno di parlare quando, finalmente fuori pericolo, si
fermarono per un breve riposo in uno slargo sul camminamento di cemento.
Sceso di cavallo Jonas si avvicinò al bordo e guardò l’acqua che ribolliva
di sotto, ma non provò più le vertigini di prima: gli rivolse invece il sorriso
arrogante di chi sa di averla avuta vinta anche quella volta e sputò giù in
segno di disprezzo. Poi sentì la mano di Louis sulla spalla e quando si girò a
guardarlo vide che il soldato, il suo gregario, aveva accennato un timido
sorriso.
Sentì che loro due, e loro due soltanto, erano davvero ka-tet malgrado gli
inganni e le cose non dette; e che forse un pezzetto dell’anima di Douglas
era davvero stato riportato indietro nel corpo di quell’uomo, dimentico di
essere stato strappato alla sua realtà per divenire nulla più che uno
strumento da usare.
In futuro ci sarebbe stata rottura, perché una casa solida non la si
costruisce sulla sabbia, ma in quel momento ci fu solamente unione.
25
Nelle ultime ore di quella stessa notte Jonas ripeté il sogno già vissuto:
sempre uguale ed allo stesso modo indistinto, sempre i medesimi particolari
180
di lei, di Louis, e della terza figura in ombra; c’era il bacio e c’era la
gigantesca torre verticale di vetro, ferro e tubi (arcologia, qualcosa gli diceva
che era quello il suo nome, qualsiasi cosa significasse) che si slanciava nel
cielo cupo della tempesta imminente e tutto si interrompeva con la
sparatoria dove lui invocava il Rosso ed i suoi compagni aprivano il fuoco
con le loro armi falciando l’orda di orrori sciamanti.
La differenza rispetto all’altra volta fu che anche Louis lo visse, ed anche
lui lo ricordò al risveglio.
“Ti ho sognato stanotte” aveva detto, davanti ad una tazza di caffè
bollente nel bivacco del mattino.
“Racconta” lo aveva esortato, e mentre lui riepilogava con precisione
molti dei particolari che lui stesso aveva ben presenti lo ascoltò con
interesse avvero vivo.
E quando terminò e lo guardò, come a cercare una conferma, un conforto, o
magari entrambi lui disse semplicemente che i sogni, talvolta, sono
messaggi degli Dei senza tuttavia parlargli ancora della sua visione; Louis
non chiese altro.
L’indomani la terra incominciò a tornare di un colore più sano e
riapparvero i primi alberi: all’inizio radi e stentati, rinsecchiti come le braccia
di uno scheletro si fecero via via più folti e rigogliosi mentre i prolungamenti
delle foreste di Nuova Canaan già bianche di neve precoce li accoglievano.
181
26
A tre giorni di cavallo dal mare prigioniero e dai suoi mostri fecero tappa
in un piccolo villaggio di taglialegna, e l’uomo che si prese cura dei loro
cavalli e diede loro ospitalità li rassicurò sulla bontà del loro itinerario: le
Gallows Hills erano alle loro spalle ad almeno una giornata di cavallo di
distanza, e prendendo nella direzione opposta a nemmeno tre giorni
avrebbero trovato le piste commerciali per Taunton e Debaria.
Il mattino seguente, acquistate poche provviste e qualche cartuccia dal
capo della comunità, si lasciarono alle spalle l’insediamento inoltrandosi
verso l’entroterra; ci volle un’altra buona decina di giorni per arrivare,
durante i quali riuscirono ad orizzontarsi abbastanza facilmente sulle piste di
pastori e coloni, ed il paese si offrì loro in tutto il suo splendore sotto un cielo
color ferro in una giornata che minacciava altra pioggia ed altro vento. Come
se fino a quel momento non ne avessero preso a sufficienza.
“Che posto di merda” sentenziò Calavera sputando dal lato della bocca
nel fango rinsecchito della Main Street; l’acquazzone che li aveva sorpresi la
notte precdente, ad una ventina di ruote di distanza sulla Via dell’Ovest,
aveva trasformato la strada maestra di Am’lis in una specie di pantano
sagomato dagli zoccoli e scavato dalle ruote dei carri, che si era
rapidamente indurito nel freddo del mattino trasformandosi in una superficie
irregolare dove i loro cavalli avanzavano incespicando ad ogni passo.
Il rinnegato si guardò attorno con le labbra increspate in una smorfia di
disgusto: anche se era quasi mezzogiorno c’era davvero poca animazione in
giro, rappresentata dai soliti perdigiorno ciondolanti e da qualche colono con
gli attrezzi in spalla.
“Ci sarà le cheriff?” chiese Louis e Jonas scosse il capo dando un
accenno di briglia.
“Come farebbero a pagarlo?” sbottò. “Siamo fortunati se c’è un saloon,
altro che uno sceriffo!”. Ed in effetti non ricordava di averne visto uno
quando era passato di lì a Tardestate, ma nemmeno l’aveva cercato. Ora
invece, con l’inverno bello che arrivato, sentiva di non potersi più
addormentare nel gelo senza la sensazione calda e rassicurante dell’alcool
nel ventre: e poteva scommettere che i suoi compagni la pensavano allo
stesso identico modo.
Avrebbero trovato il saloon, perché in nessun villaggio per quanto male in
arnese mancava un posto deputato allo smercio di torcibudella, e mentre i
suoi due compagni si rifornivano lui sarebbe andato a prendere Cindy; poi
se ne sarebbero andati via tutti e quattro, lontani da quel buco di merda
182
verso la nuova vita che sapeva essergli stata destinata dalle stesse mani
che stavano tracciando il suo cammino.
I due cavalieri si affiancarono e procedettero appaiati, e le poche persone
che c’erano sulla Main Street furono rapide a scansarsi al loro passaggio
mentre le baracche si susseguivano una dopo l’altra.
“Però almeno sanno ancora come si porta rispetto” sottolineò e Calavera
annuì con un sogghigno. Avanzarono per un altro po’ fino a quando oltre
una svolta della strada, incassato sul lato destro tra due file di catapecchie
cadenti, videro una stamberga di mattoni dai muri sudici ed una veranda
pericolante, che il cartello appeso sulla porta a battenti qualificava come ciò
che stavano cercando.
Scesero davanti alla veranda e Jonas sbirciò dentro: una sala in
penombra dal pavimento di legno occupata da alcuni tavoli, dove un uomo
basso e grasso stava spargendo segatura su chiazze che avevano tutta
l’aria di residui di baldoria.
“Niente in contrario se io vi raggiungo dopo?” chiese, il rinnegato scosse
il capo; dentro l’uomo grasso si accorse del loro arrivo, perché lo vide
mollare secchio e spazzolone lì dove si trovavano per trotterellare subito
fuori dal loro campo visivo, presumibilmente a prendere posto dietro il
banco.
“Fai con comodo, noi ce la prendiamo calma. Magari ci mangiamo
qualcosa, se capita”. Louis annuì a sua volta, silenzioso come era divenuto il
suo atteggiamento usuale, sfilando il fucile dalla fondina della sella e
mettendoselo a tracolla.
“Tenete d’occhio i cavalli e non ubriacatevi” ammonì, Calavera accennò
col capo facendo dondolare su e giù il cappello mentre si allontanava.
Rimasto solo Jonas riprese a seguire la Main Street verso l’estremità
opposta del paese e dopo una seconda svolta individuò subito, più in
disparte rispetto alle altre, la piccola baracca del vecchio col suo campo e la
legnaia che lui stesso aveva tirato su; il suo cuore iniziò a battere più forte
ed il passo accelerò fino a diventare corsa che non rallentò fino a quando
non fu davanti alla piccola porticina di legno screpolato che aveva richiuso
senza fare rumore dietro di sé quella mattina brumosa di nemmeno due
mesi addietro. Non c’erano luci dietro la finestra, ma dal camino vedeva
comunque uscire un pennacchio di fumo: probabilmente era Cindy alle
prese con la zuppa, chissà se avevano già finito tutte le sue provviste?
Jonas sorrise facendo per bussare, ma all’ultimo momento esitò; aveva
dato per scontato che lei decidesse di seguirlo…e se invece non avesse
voluto?
183
Si fermò col pugno sollevato in aria incapace di darsi una risposta; se
Cindy avesse preferito rimanere con suo zio non avrebbe certo potuto
portarla via con la forza, né plagiarla come aveva fatto con Louis (anche se
pensava che con lei non si sarebbe mai comportato così anche se ne
avesse avuto la possibilità). E poi poteva anche darsi che lei non fosse così
felice di vederlo come si aspettava: in fondo l’aveva abbandonata, ed anche
se le sue ragioni erano fondate le persone non amano in nessun caso
essere lasciate indietro. Forse non avrebbe nemmeno ascoltato ciò che
aveva da dire quando avesse provato a parlargli, ed in quel caso, riconobbe,
non avrebbe avuto altra scelta che proseguire senza di lei.
Poi Jonas sentì un rumore provenire dall’interno della baracca e prima
che potesse anche solo abbassare il pugno la porta si dischiuse mostrando
un volto ed un corpo che certamente non era quello della ragazza che
conosceva.
27
Per un attimo i due uomini si guardarono dritti negli occhi: quelli dell’uno
cisposi per i postumi della sbronza, quelli dell’altro totalmente disorientati nel
trovarsi di fronte quel figuro sporco e puzzolente, poi il primo indietreggiò
impaurito nella camera in penombra lasciando cadere la bottiglia che
stringeva ancora in mano; Jonas avvertì provenire dall’interno il fetore di
vomito ed urina, mescolanza ben diversa dal profumo gradevole che
ricordava esserci nella piccola ma pulita baracca.
“Cosa vuoi tu?” biascicò nella cadenza trascinata degli ubriaconi, e Jonas
non seppe cosa dire; allora, vedendolo esitare, il figuro sembrò riprendere
coraggio avanzando nuovamente e piazzandosi di traverso sulla porta a
bloccare il passaggio. Alle sue spalle vide qualcos’altro muoversi nella
penombra della piccola stanza, ed un attimo dopo da dietro le spalle
dell’uomo fece capolino un viso raggrinzito di vecchia dal naso adunco ed i
capelli lerci, che gli piantò in volto due occhi spiritati.
“Io cerco quelli che c’erano prima” disse, “Un uomo e una ragazza,
vivevano qui…”.
“Non ci sono più!” gracchiò la vecchia e quando Jonas mostrò di volersi
avvicinare quella si ritrasse dietro le spalle dell’uomo, che a sua volta
abbrancò i battenti della porta come per costringersi a sua volta a non
cedere il passo. Si fermò di nuovo.
“Vai via, non puoi entrare, vai via!” strillò, “Non ci sono più, non sono più
qui, il vecchio è morto, la ragazza è andata! Non ci sono più!”.
184
“Morto?” ripeté, e la megera fece roteare gli occhi scansando l’ubriacone
ed uscendo allo scoperto. Sentì la sua puzza prenderlo alla gola.
“Morto, morto! Il vecchio Rufus, oh si, aveva la gola aperta come un
coniglio! E lei non c’era più, via, sparita!”.
Sentendosi montare dentro una fiammata di collera improvvisa Jonas
scattò in avanti coprendo d’un balzo la distanza che lo separava da quella
strega fetida e la ghermì per un braccio prima che potesse rintanarsi
nuovamente nella baracca: fu come stringere un ramoscello secco e sentì le
sue ossa scricchiolare sotto le dita mentre glielo torceva di lato con facilità.
“Dov’è andata? Parla!”.
La vecchia strillò scoprendo gengive annerite senza più denti, l’uomo di
traverso alla porta incespicò nel tentativo di indietreggiare e cadde
all’indietro sul pavimento. Vincendo il disgusto la spinse contro lo stipite e
con la mano libera le strinse il collo rinsecchito.
“Parla o ti uccido, cagna demente” sibilò, e la vecchia cacciò uno strillo
soffocato che sapeva di rancido .
“Non c’era più, io non so niente, niente!”.
Jonas la staccò dallo stipite e le diede uno spintone facendola volare
attraverso la stanza buia mentre l’ubriacone, terrorizzato, lo guardava con gli
occhi grandi come meloni. Il vecchio morto, la ragazza scappata, e adesso?
Tu sarai khef con una giovane donna che farai tua ed abbandonerai al
suo destino, prima di capire che essa è importante per te almeno quanto tu
sarai importante per lei.
Jonas inviò un sentito grazie-sai a quel suggeritore indesiderato uscito dalla
sua buca a sussurrargli all’orecchio e la sua rabbia si rinfocolò malgrado
sapesse che tutto faceva parte di un unico disegno stabilito ed abbandonarla
era stato più che inevitabile.
Era stato prescritto, ma ora avrebbe dovuto ritrovarla.
Avvertendo un’urgenza quasi dolorosa si allontanò correndo lasciandosi
la casupola alle spalle, e tornato sulla Main Street puntò verso il Saloon
dove aveva lasciato i compagni poco prima.
28
Papà Dwayne meditava seriamente di cambiare lavoro; neppure tre
settimane prima gli era piombato nel saloon quel gruppo di maledetti
masnadieri, ed ora aveva appena visto entrare degli altri figuri che erano, a
quanto poteva vedere, della loro stessa risma se non peggio.
185
Ma cosa diavolo stava succedendo ad Am’lis? Era sempre stato un paese
tranquillo, un buco nella polvere dimenticato da tutto e da tutti, e adesso
sembrava che tutta la feccia della Baronia vi si fosse data convegno!
Il terzetto si era fermato lì fuori, li aveva visti mentre spargeva la segatura
sul vomito rimasto dalla notte precedente e non aveva perso tempo nello
svignarsela fuori visuale; forse non l’avevano scorto, e vedendo tutto vuoto e
silenzioso sarebbero passati oltre perché alla gentaglia piace fare baldoria,
piacciono le donne, la compagnia e la musica, e nella sua povera cantina
non c’era nulla di tutto ciò. Invece due dei tre uomini erano entrati lo stesso
accompagnati dal ciondolare delle loro armi e si erano diretti verso uno dei
tavoli, tutti indifferentemente deserti a quell’ora, degnandolo soltanto di una
breve occhiata che gli era stata tuttavia sufficiente per inquadrare appieno la
situazione. Avevano gli stessi occhi di quella gentaccia che ricordava fin
troppo bene, ed a lui non era rimasto che far buon viso a cattiva sorte per
l’ennesima volta.
Quando l’avevano chiamato al tavolo chiedendo da bere e da mangiare li
aveva foraggiati con il liquore migliore che aveva (tattica collaudata, quella)
nella speranza di tenerli calmi e soddisfatti, ma quando avevano domandato
della carne e lui aveva detto che non ne aveva uno dei due, un omaccione
biondo con cappello e guanti di pelle, lo aveva squadrato in un modo che gli
aveva quasi fatto riempire la brachetta.
Per fortuna l’altro era stato più accomodante: lo aveva semplicemente
rispedito al suo posto dicendogli di portargli quello che aveva in dispensa, e
lui si era affrettato a sparire nel retrobottega chiamando la moglie e
dicendole di mettere su la più buona zuppa di verdure che avesse mai
cucinato, per l’amore di Gan, dato che aveva la netta sensazione che ne
andasse della ghirba di entrambi.
Subito dopo era tornato nella sala asciugandosi i sudori freddi, perché gli
Dei non volessero che servisse loro qualcosa e non lo trovassero pronto a
soddisfare ogni loro richiesta: l’omaccione biondo con gli occhi da assassino
gli aveva preso le misure una seconda volta poi era tornato a dedicarsi alle
carte da gioco che erano apparse sul tavolo in quel breve sprazzo di tempo.
Ed ora li vedeva entrambi impegnati in quella che, in luogo di una partita
vera e propria, sembrava piuttosto una lezione su come si giocava a
Guardami! facilmente condotta dal tipaccio biondo a spese dall’altro,
decisamente più impacciato e privo della familiarità che lui stesso aveva con
un gioco stupido come quello.
Da dove può mai venire uno che non sa giocare a Guardami!, si sorprese
a chiedere a sé stesso, mentre la tensione cominciava ad abbandonarlo
stemperata dal profumo della zuppa che iniziava a spandersi dalla cucina.
186
Aye, non aveva importanza: avrebbero mangiato e finito di bere, e poi se
avessero desiderato pagare l’avrebbero fatto…mentre se non volevano farlo
lui non sarebbe certo andato a chiederglielo. Avrebbe preferito prendere un
crotalo per la coda, sicuro!
E poi, proprio mentre si stava convincendo che anche quella volta
sarebbe andato tutto bene, lo sbattere furioso della porta a battenti lo fece
girare di scatto verso l’ingresso. Quello che vide gli fece schizzare di nuovo il
cuore in gola cancellando in un attimo tutte le sue congetture traballanti: il
terzo compare era arrivato e nay, non aveva proprio l’aria di qualcuno di
buon umore.
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Il taverniere avrebbe dovuto saperlo, i tavernieri sanno sempre tutto di
tutti, specie in un villaggio piccolo come quello. Si fiondò all’interno e per la
troppa foga mandò a sbattere le ante contro il muro, ma non se ne curò.
Dentro il saloon Louis e Calavera avevano preso posto ad un tavolo e si
erano messi a giocare a carte mentre da qualche parte qualcosa cuoceva
mandando un profumo che era quasi invitante. In ogni caso lui non aveva
voglia di mangiare o rilassarsi.
Sentendo il rumore improvviso Louis alzò il capo di scatto ed abbassò la
mano alla pistola, mentre al rinnegato bastò far guizzare gli occhi per capire
cosa stava succedendo.
“Qualcosa mi dice che alcuni dettagli sono andati storti” borbottò
scartando una carta mentre l’altro uomo allontanava la mano dal calcio
dell’arma.
Jonas si avvicinò a grandi passi al banco e vide dal lato opposto il
locandiere farsi piccolo piccolo. Sorrise, crudele: il folken teme a ragione le
persone che portano armi specie in posti dove non deve essere certo
frequente vederne circolare, e lui aveva scoperto da un po’ che incutere
paura gli piaceva.
E in aggiunta a quello, in quel momento, aveva rabbia e frustrazione in
abbondanza da sfogare.
Lo afferrò per il colletto della camicia e lo strattonò verso di sé
strappandogli un gridolino; lo schiaffeggiò a mano aperta senza un vero
motivo, soltanto per iniziare bene la conversazione, ed il rumore fu
curiosamente comico (il pensiero successivo gli suggerì che era stato come
dare una pacca al culo di una puttana grassa).
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Alle sue spalle Calavera sospirò scuotendo la testa, sottolineando subito
dopo un Guardami! a spese di Louis facendo tintinnare la bottiglia ed i
bicchieri che erano poggiati sul tavolo.
“Ho esaurito la mia pazienza in questo covo di contadini merdosi” esordì
mentre il taverniere lo guardava insieme come un animale terrorizzato.
“Cerco un uomo dai molti anni ed una ragazza giovane e bella che viveva
con lui in questo villaggio”. Lo scosse .
“Dimmi dove sono, o giuro su tutti i santi e gli Dei che ti taglio la gola e ci
piscio dentro”.
L’uomo allargò gli occhi talmente tanto che Jonas temette per un
momento che potessero saltargli da soli fuori delle orbite.
“Rufus Oldman e Cindy, signoria!” balbettò. “Rufus è morto di coltello da
più di un mese, Cindy è sparita dal villaggio e nessuno l’ha più vista!”.
“Cazzo!” sbottò mollandolo con uno spintone; l’uomo franò addosso alle
mensole delle bottiglie dietro di lui facendone cadere a terra un buon
numero e ricevendosene addosso altrettante.
Qualcuno mandò un grido, Jonas si voltò di scatto con la mano già sulla
pistola ed inquadrò la figura di un donnone di mezza età fermo nel vano di
una porta che dava sul retrobottega.
“Oh, deve essere arrivato il pranzo” sentenziò Calavera; di fianco a lui,
Louis si godeva la scena con occhi appena un po’ più sorpresi del solito. Il
rinnegato si alzò e con la massima naturalezza andò a sfilare il vassoio con
le scodelle dalle mani impietrite della donna per poi portarselo al tavolo ed
appoggiarlo direttamente sopra le carte da gioco sparse in giro.
“Piatto ricco mi ci ficco! Speriamo che questa merda valga la pena,
altrimenti gliela spacco io la testa a quel ciccione”.
Jonas squadrò ancora una volta il locandiere che ricambiò il suo sguardo
con gli occhi di un animale terrorizzato, poi girò i tacchi a sua volta
lasciandolo a macerare tra i cocci di bottiglia e le esalazioni dei suoi veleni.
“Non hai trovato la persona che cercavi mon ami?”.
Louis lo guardò, più dispiaciuto che infastidito da quello scoppio d’ira,
mentre si sedeva al tavolo e beveva a canna dalla bottiglia; più indietro la
donna era corsa dal locandiere e l’aveva aiutato a tirarsi su: ora entrambi li
fissavano da dietro il banco con sguardi ostili e terrorizzati.
“Ha tolto le tende, l’hai sentito” rispose, decidendo soltanto in un secondo
tempo di far passare il torcibudella per il bicchiere. “Solo Gan sa dove sia
andata ora”.
“Non avevi detto che il tuo compagno fosse…una donna, giovane
rubacuori”. Il rinnegato sottolineò l’osservazione agitando il cucchiaio da cui
gocciolava giù una minestra color verde acceso.
188
“Questo non cambia nulla; io so solo che la devo trovare, per l’amore
degli Dei io devo trovarla…”.
“Perché? È pieno di donne in giro per il mondo, oppure ti sei
innamorato?”.
Sogghignò e Jonas chiuse gli occhi scuotendo il capo mentre la rabbia
defluiva lasciando il posto alla tristezza. Quasi singhiozzò nel parlare l’attimo
successivo.
“Non è solo questo! Se te lo dicessi non mi crederesti, perché se ci penso
non ci credo neanche io”.
Il cacciatore di taglie si accontentò di scrollare le spalle mentre
continuava a mangiare. Louis rimescolò nella tazza assaggiando a sua
volta.
“Io ti aiuterò, frère” disse, “Ma tu non devi prendertela così con chi non
c’entra coi nostri guai”. Il giovane uomo lo fissò e lui abbassò lo sguardo.
“Non so cosa mi sia preso, non ero più in me”. Dopo un attimo Louis
accomodò le cose con un cenno del capo giocherellando con la minestra.
“Cosa facciamo adesso?
“Dobbiamo cercarla” rispose d’un fiato. “E voglio sapere se posso
contare su voi due. Su entrambi, io prego, perché ho bisogno di tutto l’aiuto
che posso avere”.
Sentendosi chiamato in causa il rinnegato diede a sua volta un cenno
d’assenso appoggiando il cucchiaio nella tazza ormai vuota.
“Non ho molto altro da fare al momento…basta che correre dietro alla tua
principessa non ci allontani troppo dalla nostra pista. O mi metta in pericolo il
collo”.
“Faremo attenzione, hai la mia parola”. L’uomo liquidò la faccenda
muovendo la mano in circolo come se non gliene importasse granché della
parola di chicchessia.
Dopo pranzo fu Louis a condurre le trattative con il locandiere: li chiamò
al tavolo entrambi, lui e sua moglie, per prima cosa scusandosi per il
comportamento del suo compagno (e Jonas si vide costretto, per rendere
più credibili le scuse, a lasciare giù qualche moneta d’argento con cui
ripagare delle percosse e del danno); poi chiese loro dove avesse potuto
dirigersi la figlia di Rufus, ma di nuovo l’uomo allargò le braccia incapace di
rispondergli.
Gli raccontò che il fatto era successo in una notte di nubifragio e non era
stato scoperto che al mattino: il vecchio Oldman era stato trovato con la gola
trafitta davanti alla sua baracca, ed insieme a lui c’era il corpo di un altro
uomo con una pallottola in corpo. Un forestiero che lui stesso aveva visto
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pranzare nella sua cantina pochi giorni prima in compagnia dello stalliere del
villaggio.
“Anche lui se n’è andato, e allora abbiamo capito che doveva certamente
entrarci con la morte di sai Oldman” aggiunse timidamente, come
aspettandosi che Jonas desse nuovamente in escandescenze: ma lui non
fece proprio nulla accontentandosi di tirare fuori la sacchetta del tabacco per
prepararsi da fumare.
“Non l’avete inseguito?” chiese Calavera, e l’uomo allargò nuovamente le
braccia.
“Signoria, non abbiamo un borgomastro né tantomeno uno sceriffo” si
giustificò, “E due morti, uno dei quali di piombo, ci sono sembrati sufficienti.
Qui in paese non abbiamo armi, se Owen era armato come potevamo
tenergli testa? E poi la pioggia aveva cancellato tutte le tracce, e…”.
Calavera interruppe quello sproloquio di giustificazioni agitando la mano
ed il taverniere si bloccò come se avesse schiacciato un interruttore. Jonas
passò la sigaretta al biondo ed iniziò a prepararne un’altra per sé.
Patetico coniglio, lo so ben io da dove arriva quella pallottola. Hai avuto
fegato in abbondanza ragazzina…ma dove sei adesso?
“Sono sicuro che la situazione non vi permetteva scelte” accomodò
Louis.
“Dopo cosa successe?”.
Papà Dwayne spostò lo sguardo su Jonas e Calavera, come a cercare il
loro benestare prima di riprendere il suo racconto; constatando che nessuno
dei due sembrava sul punto di prenderlo nuovamente a schiaffi si decise a
sciogliere la lingua.
“Abbiamo trovato delle tracce che andavano verso la macchia, piedi
piccoli dentro scarpe basse, ed abbiamo pensato che fossero quelle di
Cindy; qualcuno degli uomini del villaggio le ha seguite, ma anche quelle
sparivano dopo un po’. Credetemi” aggiunse in tono accorato, “Noi eravamo
affezionati a Rufus ed a sua nipote, e…”.
“Non tutti in questo buco lo erano” tagliò corto Jonas e l’uomo si ritrasse
più vicino alle sottane di sua moglie; Calavera sogghignò senza dire nulla.
“Quali sono le città qui vicino? C’è Taunton, c’è Debaria, che altro?”.
“Queste sono le città per i ricchi ed i pistoleri” si intromise la donna e
papà Dwayne la guardò con occhi grandi come melagrane. “Cindy può
essere andata da quella parte e voi potete cercare lì, ma non è insultandoci
o rompendo la testa a mio marito che la troverete”.
“Discorso commovente sorella” sogghignò il cacciatore di taglie.
“Davvero, ci tocchi il cuore”. Jonas gli appoggiò una mano sulla spalla
offrendogli i fiammiferi per poi tornare sul taverniere.
190
“Vai a prendere almeno sei bottiglie del tuo torcibudella migliore;
paghiamo in argento, ma bada di non rifilarci la merda che servi ai bifolchi
del posto o ti do un’altra ripassata”.
L’uomo schizzò dietro il banco affrettandosi a fare quanto gli era stato
chiesto.
30
Presero il whisky di grano dopo che ebbero assaggiato, trovandolo di loro
gusto, e lo pagarono un prezzo di certo molto superiore al suo valore
effettivo: fu Louis ad insistere e di nuovo, sentendo che era giusto
assecondarlo, Jonas mise mano alla sacchetta del denaro.
Allo stallaggio ugualmente non seppero dire loro di più: lo stesso nuovo
stalliere era un uomo della comunità che si era semplicemente fatto carico
del lavoro dopo che il precedente era sparito dalla circolazione nel giro di
una notte. Consci che non avrebbero cavato altri ragni dal buco fecero
rifocillare i cavalli e ripartirono nel pomeriggio uscendo dal paese sulla
stessa pista da cui erano arrivati e seguendola verso Nord-Est nella
direzione di Taunton, il primo degli unici due borghi di una certa importanza
nella zona del confine meridionale, che comunque si trovava sulla strada
che avevano già deciso di percorrere.
Nemmeno un’ora dopo avvistarono una fattoria di medie dimensioni
proprio a lato della pista e Jonas decise di fermarsi per chiedere
informazioni: Cindy poteva essere passata di lì ed in quel caso, saperlo,
avrebbe confermato loro che si trovavano sulla pista giusta.
Furono scorti già da lontano e mentre si avvicinavano i cani si
premurarono di accompagnarli col loro concerto di latrati; una volta arrivati
sul limitare di una grande aia videro apparire presso la casa colonica un
uomo ed una donna, il primo reggeva un fucile, entrambi intenti a scrutare
nella loro direzione.
Jonas si fece avanti per primo conducendo con calma il cavallo e quando
arrivò davanti ai due coloni, soprassedendo sul fatto di trovarsi sotto tiro, si
tolse il cappello infilandolo sul pomolo della sella mentre i due compagni
rimanevano più indietro.
“Vita alle vostre messi” salutò (e gli sembrava un saluto del tutto adatto
per un contadino!) mentre quelli lo fissavano con un misto di curiosità e
malanimo, certo dovuto al fatto che avesse due pistole ed un fucile con sé;
l’uomo annuì senza rispondere e soprattutto senza abbassare lo schioppo, e
a scanso di equivoci decise di andare subito al punto.
“Sto cercando Cindy Oldman di Am’lis, potete aiutarmi?”.
191
Sentendo quel nome la donna allargò appena gli occhi ed appoggiò una
mano sulla spalla del marito, abbassandogli con l’altra la canna del fucile di
un pelo.
“Chi sei tu per cercarla?” chiese l’uomo per tutta risposta, e Jonas fu
rapido nello snocciolare la storiella che si era preparato arrivando.
“Sono suo cugino da parte di padre, e sono un ufficiale di compagnia
nella milizia; anni sono passati da quando l’ho vista l’ultima volta” aggiunse.
“E nel momento in cui ho deciso di venire a cercarla, beh…forse ho
aspettato troppo”.
“Quando ho prestato servizio io, nella milizia esistevano le uniformi”.
L’uomo lo squadrò di sottecchi, diffidente, e Jonas fu di nuovo pronto a
rimbeccarlo.
“Esistevano anche le licenze ai vostri tempi, padre, io credo: la vita delle
armi è stancante e tutti devono tirare il fiato di tanto in tanto”.
“Aye, quanto è vero” concesse soppesandolo con un’occhiata meno
guardinga.
“Ai miei tempi non resistevo per più di un mese senza una bella scopata!”.
La moglie gli diede un leggero spintone e l’uomo scoppiò a ridere mettendo
definitivamente da parte l’arma.
“Non sapevo che la piccola Cindy avesse un cugino importante; aye, io
dico, perché si ostinava a vivere in povertà con suo zio?”.
“Gli voleva bene” disse Jonas assumendo per l’occasione un tono
lievemente dispiaciuto ed abbassando gli occhi (e poteva quasi vedere
Calavera, poco più indietro, che si sforzava di non scoppiare a ridere).
“E non andavamo molto d’accordo: i cugini per l’un l’altro sono veleni,
come si dice da alcune parti”.
“Suo zio ora è morto” si intromise la donna. “Vedo dai vostri occhi che lo
avete saputo”. Una breve pausa, poi il tono si era fatto più umile.
“Cindy è passata di qui più di un mese fa, quando l’Ambulante era al suo
primo quarto ed era il tempo della semina del grano; aveva detto di avere
parenti in città e che sarebbe andata con loro”.
“Aye, sapevo che suo zio aveva un fratello a Taunton” inventò sul
momento per darle spago; lei prese l’uomo sottobraccio col volto
improvvisamente, e leggermente, preoccupato.
“Le grandi città sono pericolose per una bambina sola come lei: e se
questo fratello non fosse più in vita? O se fosse un malvagio?”. Un’altra
pausa, durante la quale la donna fuggì il suo sguardo.
“Io avrei voluto tenerla qui con noi, ma il raccolto è stato scarso e non
potevamo permetterci una bocca in più da sfamare. Anche se certamente
vostra sorella avrebbe saputo guadagnarsi da vivere”.
192
A quel punto Jonas aveva pensato di fare la parte del fratellone sdegnato
e dare una strigliata alla contadinella, così tanto per fare, ma mise l’idea
subito da parte; si era già sfogato a sufficienza a spese del locandiere di
Am’lis ed aver ritrovato così presto le tracce di lei aveva contribuito ad alzare
considerevolmente il suo umore. Decise quindi di soprassedere.
“Non dovete farvene una colpa, madre; i tempi sono duri per tutti”. La
donna gli rivolse un sorriso timido, evidentemente colpita dalla sua
comprensione. Poi l’uomo riprese il discorso.
“Volete entrare per rimanere servito?” invitò ma lui aveva subito scosso la
testa in segno di gentile diniego: era troppo impaziente di rimettersi in caccia
per fermarsi.
“Grazie-sai per questa gentilezza, ma adesso mi preme soltanto di
ritrovare mia cugina e la pista si è già raffreddata fin troppo”. L’uomo,
evidentemente comprendendo la sua fretta, non insistette offrendogli invece
una mano grande e callosa, ed una stretta che lui ricambiò prontamente.
I coloni rimasero a guardarli mentre si allontanavano dalla casa, lei che
cingeva lui e lui col fucile abbassato lungo il fianco, e sentì i loro sguardi
puntati fino a quando non uscirono dal cortile recintato e si rimisero sulla
pista.
Jonas si accorse subito che Louis, silenzioso come suo solito, lo
guardava in modo strano: era lo stesso sguardo che aveva visto al saloon,
uno sguardo di biasimo, e notarlo di nuovo e così presto lo infastidì. Troppo
simile a Douglas quel giovane sai, anche lui detestava mentire: per un
attimo tornò sul pensiero di avere evocato parte della sua anima dentro di lui
quando ne aveva riscritto la mente ed i ricordi, poi Calavera ruppe il silenzio.
“Ragazzo, non ho mai trovato uno così bravo a cacciar balle come te”.
“La cosa ti crea problemi?”.
Louis allora aveva rotto il mutismo a sua volta.
“Camarade, non dovresti mentire così tanto: le bugie portano altre bugie,
e vengono scoperte presto o tardi”.
“Senza contare” incalzò il rinnegato, “Che potrebbe venirti la tentazione di
raccontarne anche a noi, e la cosa non mi renderebbe propriamente felice”.
Jonas si morse la lingua per impedire ad una risposta particolarmente
pungente di trovare la sua strada.
“Le bugie sono utili a volte” disse invece, “E comunque non potevo certo
dire a quei grattaterra qual è il mio gatto nel sacco”.
“Nemmeno a noi l’hai mai detto, se è per questo”.
“Dannazione!” sbottò prendendo un bel respiro subito dopo. Quando
parlò di nuovo il tono si era fatto remissivo.
193
“Terremo un conciliabolo e ne parleremo, e dato che siete curiosi come
sceriffi vi dirò tutto: ma non lamentatevi se ogni cosa vi sembrerà assurda
perché siete stati voi ad insistere. In ogni caso” aggiunse “A voi non voglio
mentire: siete i miei compagni di via e deve esserci fiducia tra di noi,
altrimenti non andremo lontano”.
Né l’uno né l’altro risposero, e Jonas non seppe se li aveva convinti o
meno; la fattoria rimpicciolì gradatamente dietro di loro quando spinsero i
cavalli al trotto, poi la pista scese in una piccola depressione che la fece
scomparire del tutto alla vista.
31
Si sentì addosso i loro sguardi per tutto il giorno: erano occhiate di attesa,
di richiesta ed impazienza trattenuta a stento, e quando misero il campo
quella sera fu quasi felice di parlare.
“Non ci avevi promesso un conciliabolo?”.
Calavera rimescolò nella ciotola di fagioli e pancetta. “Questa roba fa più
schifo della sbobba di mia madre” considerò subito dopo ma Jonas non
ritenne di dovergli rispondere.
“Anch’io ricordo così” si accodò Louis in quel tono neutro ma non
neutrale, che aveva imparato a detestare perché mascherava fin troppo
bene il suo stato d’animo impedendogli di capire se fosse adirato, curioso o
semplicemente indifferente.
Rimasero in silenzio per qualche attimo, durante i quali Jonas finì la sua
razione di fagioli e posò la ciotola a terra.
“Potreste non crederci, al gatto che tirerò fuori dal sacco, nemmeno
quando ce l’avrete sotto gli occhi”.
“Tu racconta e noi giudicheremo” stabilì Louis; il rinnegato mosse
semplicemente la mano in circolo per dirgli di spicciarsi. Jonas sospirò.
“Tutto avrà inizio con la Prima Rossa, e tutto finirà nel fuoco e nella
cenere; queste sono le mie parole per voi, cosa mi offrite in cambio?”.
Il modo in cui entrambi lo guardarono era simile, ma non identico: c’era
sorpresa in entrambi i paia d’occhi, ma il modo in cui Calavera aveva
allargato lo sguardo tradiva qualcos’altro. Lui dal canto suo, dopo averci
rimuginato per tutto il giorno, era arrivato alla conclusione che forse aveva
realmente aspettato troppo; avrebbe dovuto scoprire le sue carte, almeno in
parte. Doveva farlo se voleva usare bene quei due strumenti che il Ka gli
aveva messo in mano.
“Sono parole che ho già sentito” disse.
194
“I Manni vanno dicendo della Prima Rossa lontano da qui, ma le voci
viaggiano rapide con le carovane; dicono che lo annuncerà, qualsiasi cosa
sia e qualsiasi cosa voglia dire, ma io non do credito a queste storie”.
“Forse invece dovresti”. Jonas fece una pausa cercando le parole giuste
prima di continuare. Non trovandole decise di dire le cose semplicemente
come stavano.
“Io penso di essere stato scelto per qualcosa. Ho ricevuto una chiamata e
voi con me, perché le vostre strade hanno attraversato la mia e sono
diventate una sola.
Penso che il Re ci abbia scelti” concluse; per tutta risposta Calavera sputò
nel fuoco facendo uno scongiuro.
“Credevo che tutti i Manni e le loro stronzate fossero rimasti oltre l’Arco
Esterno; io non desidero essere un burattino nelle mani di qualcuno”.
“Eppure lo sei stato finora” lo interruppe, “E poi tu vuoi denaro: fino a
quando l’ottieni, che ti importa del modo?”.
L’uomo questa volta non rispose; Louis posò a sua volta la scodella con
le altre: poteva scorgere la curiosità luccicare nel suo sguardo, e qualcosa
gli diceva che a differenza del cacciatore di taglie su di lui le sue parole
avevano fatto presa.
A differenza dell’altro, che non era parte della sua profezia, qualcosa gli
diceva che Louis avrebbe persino potuto credere.
“Dici che qualcosa ci ha scelti” chiese. “Qual è il nostro ruolo allora?”.
Jonas si strinse nelle spalle.
“Mi è stato detto che avrò dei compagni con cui preparare l’arrivo del Re
che renderà il mondo più giusto: uno dei miei compagni sei tu, sai, ed ho
motivo di credere che l’altro sia la persona che stiamo inseguendo”.
“Come fai ad esserne sicuro?”.
“L’altro mio compagno avrebbe dovuto essere una donna, e io l’avrei
abbandonata prima di capire quanto fosse importante per me”.
“Lo dicevo io che sotto sotto c’erano l’amore e la fica. I giovani sono tutti
uguali”.
Calavera ridacchiò e diede una robusta sorsata alla fiasca dell’alcool
passandola poi a Louis che a sua volta non si fece pregare. Jonas non si
aspettava davvero che l’uomo gli credesse, ma vedersi trattare con quella
sufficienza lo irritò.
“Và al diavolo, il mondo è pieno di donne” sbottò. “Ma non capita tutti i
giorni di venire chiamati per qualcosa di grande”.
“E chi ti avrebbe chiamato per questa impresa di grandezza?”. Calavera
lo derise di nuovo e Jonas decise di non rispondere; Louis gli allungò la
fiasca e quando fece per prenderla l’altro non la mollò.
195
“Qual è il tuo guadagno in tutto questo?”.
32
I due uomini si scambiarono un’occhiata poi Louis lasciò la presa e Jonas
si ritrovò la fiasca tra le mani senza più voglia di bere; non gli venne
nemmeno in mente di rispondere chiedendo se davvero dovesse esserci un
guadagno, perché aveva la sensazione che, suo malgrado, il soldato avesse
guardato dentro di lui mentre lui faceva lo stesso ed avesse visto la pasta di
cui era fatto.
“La fine di Gilead” disse. “Ed è il nostro guadagno, compare, perché
anche tu hai sprecato i tuoi anni più belli nell’addestramento da pistolero
soltanto per venire scartato insieme a me”.
Louis tacque.
“Quindi è per questo che vuoi metterti al servizio dei ribelli? Vuoi essere
un cane di guerra?”. Jonas diede un sorso e l’alcool gli bruciò la gola e lo
stomaco; restituì la fiasca a Calavera che bevve di nuovo.
“Tu vuoi guadagnare altro denaro, io voglio combattere contro il Bianco.
A ciascuno il suo, dico io”.
Per qualche momento nessuno parlò. Alla fine fu Louis a rompere
nuovamente il silenzio dicendo la cosa più ovvia.
“Perché non ce l’hai detto prima frère?”.
Jonas colse inequivocabile il rimprovero nella voce del giovane uomo, e
quando si girò a guardarlo rivide quegli stessi occhi che gli aveva già fissato
troppe volte in troppo poco tempo.
“Ve l’ho detto, pensavo che non ci avreste creduto”.
“Io non ci credo comunque, e penso che tu sia un visionario; ma non puoi
sapere nulla, per certo, se prima non dai fiato alla bocca”. Calavera buttò un
altro ramoscello nel fuoco avvolgendosi la coperta sulle spalle; avrebbe fatto
lui il primo turno.
“Ma per quello che mi riguarda, visionario o meno, dato che sai sparare
diritto possiamo cavalcare insieme se non farai nulla di stupido. E visto che
sono stato giovane e innamorato anch’io, prima di beccarmi il mio primo mal
bianco” aggiunse sogghignando, “Magari ti aiuterò anche a ritrovare la tua
bella. Basta che non ci mettiamo troppo, ecco”.
“Anch’io sono disposto a seguirti camarade” aggiunse Louis, “Ma d’ora in
poi tutte le carte devono stare sul tavolo, oui?”.
Jonas mandò giù il rospo e colse il messaggio: d’ora in poi avrebbe
dovuto trattarli diversamente. Coinvolgerli, guidarli, perché suo malgrado il
dinh era lui per almeno uno dei due. Fargli fiutare il profumo di un obiettivo,
196
di tanto in tanto, anche se i loro obiettivi andavano avanti a costruirli giorno
per giorno e settimana dopo settimana; ma aveva fede che tutto si sarebbe
rivelato, compreso ciò che restava della sua rivelazione: ed averne parlato ai
compagni lo aveva aiutato, se ancora aveva dei dubbi, ad accettarla fino in
fondo.
Con tutto, però, sopportava a fatica quel loro atteggiamento.
“Ti aiuterò, anche se ho capito poco di queste storie di Re, maghi e
presagi”.
Louis sorrise come un amico disposto al perdono ma lui lo ritenne
soltanto un idiota debole e molle, così avvinto in quelle stesse pastoie di
rettitudine e moralità che aveva già visto in Douglas e negli altri apprendisti,
di cui tuttavia non poteva fare a meno. Ricambiò comunque il suo sorriso
cercando di essere il più convincente possibile.
“Però avevi già parlato di questa Gilède, io lo ricordo, prima che perdessi
la mia mente”.
“Aye, e se ricordi ti ho nuovamente raccontato ciò che è necessario
sapere su loro e sull’Affiliazione” replicò sbrigativo. “Si meritano soltanto di
essere spazzati via, loro, i più grandi dittatori e guerrafondai dell’Arco
Interno. Se c’è un nuovo mondo che sta arrivando io voglio fare la mia parte
per toglierli di mezzo”.
“Ad ognuno il suo” lo citò Calavera e lui non rispose più, infilandosi sotto
le coperte e tirandosele fin sopra la testa.
“Camarade?”. Louis non si era mosso, lo guardava ancora con quella
stessa espressione di rimprovero, e Jonas pensò esasperato che forse lo
preferiva come cadavere vivente piuttosto che sostituto di una coscienza
non richiesta.
“Dimmi, io prego”.
Si accostò.
“Quel sogno…ha una parte in questo?”. Lo chiese come se lo avesse
vissuto non più tardi della notte precedente, e non settimane prima, e lo fece
a bassa voce quasi intuendo che Calavera non dovesse venirne a parte:
semplicemente perché non avrebbe capito, perché per lui sarebbe stata
un’altra storia a cui non dare credito. Jonas capì immediatamente di cosa
stava parlando, ed annuì.
“È un messaggio per noi” rispose. “La gente del sogno…”.
“Sono il nostro ka-tet”. Louis lo completò senza insicurezza né
indecisione come se avesse saputo esattamente cosa dire. “Tu ed io. E due
donne”.
“Quella che ho abbandonato, e che ritroverò…e quella che porta l’alba
negli occhi” concesse. “Qualsiasi cosa voglia dire”.
197
“Penso che lo scopriremo”: Una pausa.
“Avresti potuto parlare prima”. Louis sorrise accondiscendente.
“Invoco il tuo perdono”.
“Pas de quoi”. Anche se non le capì, quelle parole della sua lingua
strana, per Jonas suonarono come un ‘non importa’.
“Posso domandarti una cosa?”.
“Dimmi”.
Louis esitò un attimo prima di parlare; quando lo fece la sua voce era
incerta.
“Io ti seguirò in tutto questo, frère, se davvero tu ci credi…ma dovresti
moderarti; non tutti hanno colpe da scontare, ci sono persone che non
c’entrano nulla con i nostri guai. Perché trattarle come se invece ne fossero
responsabili allo stesso modo?”.
Perché è divertente? Meditò proprio di dirglielo, invece toccò a lui di
dover accondiscendere con un sorriso e fu grato al buio che lo rese
convincente. Anche quello era vero: avrebbe dovuto moderarsi per
conservare a sua disposizione quello strumento, e suo malgrado lo avrebbe
fatto.
Louis si alzò e quando, dopo qualche momento, sentì che si stava
mettendo sotto le coperte Jonas provò un senso di strano sollievo.
198
Dell’Amore e di altri demoni
199
200
1
Cindy Oldman di Am’lis aveva scoperto che si poteva vivere d’emozioni,
e si era abbandonata col pieno trasporto che solo un adolescente può
provare.
Era Tardestate quando quel ragazzo così strano era arrivato, ferito, nella
casupola di suo zio Rufus per andarsene dopo appena una settimana. Non
aveva detto da dove venisse o dove andasse, né loro avevano indagato in
merito; avrebbe potuto essere chiunque, tanto un soldato quanto un
rinnegato, un cavaliere o un fuorilegge, ma certo non una persona come ne
capitavano spesso al villaggio. Era rimasto poco più di una settimana e quel
tempo, per quanto breve, era bastato a sconvolgere senza rimedio la sua
mente ed il suo corpo ancora acerbi.
Cotta, colpo di fulmine, amore a prima vista: erano molte le parole che si
potevano spendere per parlare di quanto era successo, per tentare di
spiegare perché una ragazzina, che non aveva mai guardato con interesse
un uomo, si era data da un giorno all’altro ad un perfetto sconosciuto.
Nondimeno le parole servivano fino ad un certo punto, se non altro
perché lui adesso non c’era più; se n’era andato lasciandosi dietro provviste,
armi, bestie e denaro, quando bastava per cambiare la loro vita. E lei aveva
pianto senza rumore mentre suo zio rideva e saltellava, si passava le mani
nei capelli, misurava a larghi passi il pavimento della baracca e rideva
ancora con gli occhi spiritati, guardando silenziosa tutto quel ben degli Dei
che era stato lasciato loro in dono e che aveva il sapore amaro di un
pagamento.
Poi lo zio l’aveva abbracciata scambiando le sue per lacrime di felicità,
l’aveva chiamata bambina del suo cuore (come faceva sempre quando era
felice) e le aveva detto che la loro vita sarebbe cambiata, che l’Uomo-Gesù
era stato lì da loro quella notte, che d’ora in avanti tutto sarebbe andato
bene. Lei aveva affondato le dita nel farsetto polveroso del vecchio ed i
singhiozzi erano finalmente scoppiati.
Quella mattina così irreale era passata lentamente; mentre lei se ne
stava raggomitolata sul pagliericcio con gli occhi gonfi di lacrime suo zio
aveva messo il cavallo al riparo della legnaia e seppellito quasi tutti i denari
lì presso, accatastando sopra la terra smossa un cumulo di ceppi perché
nessuno avesse a sospettare che lì sotto ci fosse qualcosa. Avrebbero
potuto vivere per anni con una tale somma, tutto il poco tempo che rimaneva
a lui e buona parte degli anni concessi a sua nipote; ma l’uomo non era
persona da scegliere l’ozio se aveva un’alternativa.
201
Quando era tornato in casa le aveva annunciato mille progetti con
l’euforia di un ragazzino entusiasta: avrebbe comprato un carretto e
quell’animale così forte gli sarebbe servito per trasportare le merci dei
contadini e dei minatori ai mercati di Taunton e Debaria; ed il fucile che gli
aveva lasciato quel bravo sai sarebbe stato lo strumento con cui le avrebbe
difese lungo la strada perché anche l’uomo più pacifico, quando ha un’arma,
si sente capace e voglioso di utilizzarla. E prima di tornare avrebbe
comprato molti semi per coltivare la terra del suo campo e lei lo avrebbe
aiutato a far crescere tante cose buone per non patire mai più la fame. O
forse avrebbero semplicemente potuto andarsene da quel buco, comprare
una casa di pietra in città e trovarsi qualcosa di totalmente diverso da fare
perché coi soldi vengono anche le opportunità; avrebbero persino potuto
scegliere: Cindy poteva studiare da computista perché era giovane e la sua
mente era rapida, oppure avrebbe potuto fare la sarta, o anche lavorare in
un emporio mentre lui si dedicava ai suoi trasporti, magari prendendo un
aiutante con primi soldi che avrebbe guadagnato. O forse sarebbe stato
meglio aprirne uno proprio, di emporio?
Ma lei quel fiume di parole non lo ascoltava nemmeno: lo sguardo fisso in
avanti pensava che avrebbe dato volentieri tutto indietro per riavere lui, lì, in
quel preciso istante; il vecchio aveva fatto una pausa, umettandosi le labbra
rinsecchite e raccogliendo al contempo nuove idee, e si era girato verso di
lei per chiederle: “Bambina, tu cosa vorresti fare?”. Ma le parole gli erano
morte in gola nel realizzare finalmente che la gioia era ancora tutta sua.
Rufus si era alzato e si era avvicinato a lei, sedendosi al suo fianco e
cingendole le spalle con un braccio.
“Cindy, non devi piangere per lui; è venuto per farci del bene e se n’è
andato. Come un angelo, piccola…”.
L’uomo aveva carezzato i capelli della nipote e lei gli si era stretta contro
in un abbraccio disperato.
“Ci ha fatto del bene ma stava scappando, forse proprio dalla giustizia di
Gilead io dico; gliel’ho letto negli occhi quando l’ho incontrato, non avrebbe
mai potuto fermarsi con noi. Ma anche se era un fuggitivo ci ha fatto così
tanto bene, era un bravo sai, e noi rispetteremo i suoi regali…si?”.
La ragazzina era scoppiata nuovamente a piangere.
2
Quando si fu calmato dalla sua euforia anche quel giorno sai Oldman,
pure se non di buon’ora come al solito, era uscito dalla baracca per andare a
controllare le trappole che aveva messo nella macchia oltre la Grande Via;
202
ma prima aveva deciso di portare il corsiero allo stallaggio dal suo amico
Owen, uno che conosceva da una vita e di cui si poteva fidare come di suo
padre, e l’uomo aveva fatto tanto d’occhi nel vedere che insieme al suo
solito somaro quel poveraccio di Rufus conduceva alla briglia una bestia di
prima scelta come non se n’erano mai viste in quel buco di merda; quando
l’aveva visto entrare nella stalla e salutarlo si era subito preoccupato che
l’avesse rubata a qualcuno, anche se tutti in paese lo conoscevano come un
uomo povero in canna ma di specchiata onestà. Gli era corso incontro con la
faccia sconvolta chiedendo spiegazioni, perché il cielo non volesse che
arrivassero quelli della milizia a strapazzarlo per chissà quale accidente, ma
lui l’aveva subito rassicurato: quel cavallo era un dono, oh si, un dono dal
cielo. Credendo poi di potersi fidare di quel suo vecchio compare gli aveva
detto di tenerlo al riparo nella sua stalla e foraggiarlo con quanto fosse
necessario…e quando avesse avuto tempo, avrebbe anche voluto che gli
procurasse un carretto perché aveva intenzione di mettersi in affari; ma
attenzione, bisognava fare in modo che le voci non si spargessero troppo,
perché non tutti in paese erano onesti come lui, come Owen Slag, che era
suo amico da una vita. E quando l’aveva ricompensato con una moneta
d’oro pesante come un sasso gli occhi del povero stalliere erano quasi
schizzati fuori dalle orbite: le sue gambe avevano ceduto ed il suo culo
grasso aveva intercettato nella sua caduta una provvidenziale balla di fieno.
Il vecchio aveva riso al suo stupore ed era risalito in sella al mulo
allontanandosi fischiettando, e lo stalliere lo aveva guardato a bocca aperta
finché non era scomparso oltre una fila di baracche. Poi aveva abbassato gli
occhi e la moneta d’oro, luccicante nel palmo della sua mano impiastrata di
letame, paglia e segatura lo aveva convinto che no, non era stato un sogno.
Nella testa dell’uomo cominciò a farsi strada la consapevolezza che
quella faccenda andava rapidamente e debitamente approfondita.
3
Nelle tre settimane successive la luna cambiò nel cielo e l’estate si
stemperò nel freddo e nel vento di un autunno prematuro, e Cindy si nutrì
avidamente delle sue stesse emozioni divenendone schiava: tutte le mattine
quando apriva gli occhi si aspettava di ritrovarlo al suo fianco, o magari fuori
a lavorare con lo zio come aveva fatto in quei giorni; lo vedeva nelle figure
dei perdigiorno che ciondolavano sulla Main Street, credeva di riconoscere i
suoi capelli o la sua camminata, ricredendosi solo all’ultimo istante davanti a
visi gonfiati dall’alcool e rovinati dalla scabbia che non potevano certo
essere il suo, così bello invece, così dolce. Provò ad odiarlo ma si accorse
203
che questo la faceva stare ancora più male perché non voleva credere di
essere stata usata come una puttana per la scopata di un pomeriggio: lui
non avrebbe potuto farlo, anche se sapeva così poco sul suo conto, lui non
avrebbe potuto e basta. Non aveva la luce del falso negli occhi. Lui era
buono anche se la legge lo cercava.
Ad un certo punto accarezzò perfino l’idea di essere incinta ed il pensiero
le diede una sorta di strana felicità, che durò tuttavia soltanto fino al puntuale
arrivo del mestruo; portare in grembo il figlio di quel sai sarebbe stato come
avere una parte di lui sempre con sé, e con i denari che aveva lasciato loro
non sarebbe stato un problema crescerlo per quando sarebbe tornato.
Perché sarebbe tornato, aye, di questo era certa: sarebbe dovuto tornare,
era tutto ciò che chiedeva alle sue illusioni di ragazzina.
E mentre Cindy viveva di emozioni suo zio si preparava a far fruttare i
doni del sai senza sapere che la sua semplicità lo aveva già perduto. Il suo
vecchio compare, lo stalliere, gli procurò servizievole un piccolo calesse ed
in quegli ultimi giorni si occupò del cavallo come di un figlio senza mai fargli
mancare nulla, né brusca, né striglia, né sgambate distensive prima dell’alba
quando il villaggio dormiva ancora, senza nemmeno chiedere altro denaro
poiché quel pezzo d’oro così pesante sarebbe bastato a pagare i suoi servizi
per tutto l’autunno e l’inverno; vedendolo fremere in attesa di potersi attivare,
inoltre, gli consigliò di attendere ad avviare il suo commercio perché i
minatori avrebbero iniziato a spostarsi verso le pianure soltanto quando
l’Ambulante fosse stato al suo terzo quarto, e c’era ancora tempo per l’ultimo
raccolto che nei campi di Am’lis arrivava sempre tardi.
C’era ancora un mese e forse più per fare le cose per bene e con calma,
per non lasciare nulla al caso, per iniziare come davvero si conviene una
nuova vita.
E lui, che non aveva motivo di dubitare del suo amico, seguì docilmente i
suoi consigli continuando per il momento a vivere come aveva sempre fatto.
4
Owen Slag dal canto suo non si era certo riposato in quelle settimane,
dandosi invece da fare per far passare nelle sue mani il cavallo ed il resto
dei denari di quel sempliciotto di Rufus (perché dove c’è una moneta d’oro,
aye, è certo che ce ne sono molte altre). Come si fosse procurato tutto quel
ben degli Dei non gli interessava, ed era anche possibile che lo avesse
realmente trovato in giro: magari un mercante si era perso nei boschi delle
Terre Basse vicino alle paludi ed era crepato di fame, o forse era stato
mangiato dai lupi, o morso da un fottuto serpente, non aveva importanza;
204
era un fatto che quella fortuna fosse sprecata per quel gonzo, e per questo
lui la voleva per sé. Essere cresciuti insieme era una considerazione
passata rapidamente in secondo piano davanti alla prospettiva di diventare
finalmente ricco.
Conscio tuttavia del fatto di essere un dannato codardo, non avrebbe
avuto il coraggio di far parlare il vecchio se fosse stato necessario, decise di
procurarsi un po’ d’aiuto anche al prezzo di dividere con qualcun altro la
torta; i perdigiorno da comprare per un sorso di alcool non mancavano certo
ad Am’lis, ma aveva preferito tenere le cose in famiglia. Quello stesso
pomeriggio aveva lasciato la stalla in custodia al garzone ed aveva preso la
via di Nord-Ovest verso le propaggini meridionali dei Calvi fino a Copperwell,
dove viveva un suo cugino che faceva il capoposto in una miniera di piombo
ed aveva almeno tre dita di pelo sullo stomaco: tra lui e suo figlio erano
proprio una bella coppia di tipacci, che a differenza sua non si sarebbero
tirati indietro nel cavare le budella del vecchio a poco a poco se questi si
fosse rivelato testardo.
La tirata era stata lunga e non aveva potuto fare ritorno che due giorni dopo,
ma il cugino era stato molto contento di ascoltare le proposte che gli portava
garantendogli subito tutto l’aiuto necessario; al momento del congedo gli
aveva anche dato un piccione viaggiatore raccomandandosi di avvertirlo
quando fosse stata ora di muoversi: non avrebbe dovuto scrivere nulla, gli
sarebbe bastato liberarlo e loro, vedendolo tornare, avrebbero capito.
Tornato al villaggio non se ne era più allontanato e le settimane
successive le aveva passate a tenere sotto discreta sorveglianza l’allegra
famigliola tramite il suo garzone di stalla, che non aveva faticato a
convincere della bontà delle sue ragioni promettendogli a tempo debito
qualche briciola della torta (che poi avesse davvero intenzione di
accordargliele era un altro discorso, ovviamente); ed insieme aveva lavorato
sulla fiducia che l’amico nutriva nei suoi confronti per convincerlo a tenere
un basso profilo, a non far sapere in paese della sua nuova ed improvvisa
ricchezza (“Vecchio amico mio, se hai altri pezzi d’oro come quello che mi
hai dato, per l’amore di tuo padre tienili ben nascosti!” aveva detto, “Qui c’è
gente che ti taglierebbe la gola per molto meno di una moneta!”) così che lui
fosse l’unico ad esserne a conoscenza.
Era stato in conclusione fin troppo facile: il vecchio si era fatto circuire
come un vitello, lui, così ben disposto verso gli altri che non si sarebbe
dispensato dal curare un crotalo ferito pur di non vederlo agonizzare. Era
venuto spesso a trovarlo alla stalla, talvolta portandogli in regalo delle
provviste per compensarlo di quanto faceva (carne secca, bontà divina, non
era una merce che circolava spesso in un covo di mangiapatate come
205
quello!) pure se gli aveva detto che nessun altro pagamento sarebbe stato
necessario. Povero vecchio pazzo, gli aveva dato il tedio con mille e mille
progetti (che ogni volta cambiavano dalla precedente) mentre accarezzava il
cavallo con gli occhi adoranti di un bambino che gioca col suo trastullo
preferito, offrendosi addirittura di portarlo via alle sue dipendenze quando se
ne fosse andato dal paese per cercare altra fortuna in città; e lui aveva
sorriso tenendo gli occhi bassi come facevano gli umili davanti ai signori,
perché il suo amico era un po’ come se lo fosse già.
Ma con tutto, pur inducendolo ad infilare di sua spontanea volontà il collo
nel cappio, non era riuscito a scoprire dove nascondesse il resto della sua
fortuna (se pure c’era: ma ne era così convinto, oh si, ed in ogni caso
avrebbero fatto un bel gruzzolo anche solo vendendo il cavallo), ed ora si
sentiva troppo impaziente per attendere oltre; così una sera verso la fine del
mese aveva liberato il piccione viaggiatore e l’aveva guardato sparire nel
cielo scuro con un ghigno crudele. Se tutto fosse andato bene, niente più
merda di cavalli per lui.
Due giorni più tardi verso l’imbrunire il cugino e suo figlio erano arrivati a
dorso di cavallo con ancora indosso i vestiti da lavoro e negli occhi la stessa
bramosia che aveva lui; li aveva accolti ed avevano mangiato insieme alla
cantina di Papà Dwayne, e mentre si rifocillavano li aveva fatti partecipi del
piano che aveva messo a punto.
206
5
L’inverno sarebbe arrivato presto quell’anno, le avvisaglie c’erano tutte.
Quella sera la luce del giorno era sparita prima del previsto cogliendo Rufus
ancora nelle campagne col suo magro bottino di cipolle e finocchi selvatici
(da cui tuttavia Cindy avrebbe saputo, come sempre, tirare fuori una zuppa
da leccarsi i baffi); il vecchio aveva pensato di accamparsi e dormire fuori,
non sarebbe stata la prima volta, pure se non l’aveva mai più fatto da
quando dietro la sua baracca riposava una fortuna in pezzi d’oro di Gilead.
Poi il vento aveva iniziato a soffiare ed il cielo si era scurito di nubi, e la
voglia di passare la notte all’aperto gli era passata del tutto; l’uomo ripescò
dalla sacca sul dorso del mulo una piccola fiasca di torcibudella, l’unico
lusso che finora si era permesso scambiando parte della carne secca del sai
con Papà Dwayne al saloon, e diede una robusta sorsata. Non era tipo da
indulgere nel bere, lui, ma dato che la sua vita era pronta a ripartire non
c’era ragione di negarsi qualche piccolo piacere.
Si rimise in cammino e fu in vista del villaggio dopo appena una mezzora,
con l’oscurità oramai fitta, appena rischiarata dalle luci soffocate delle
baracche, ed un cielo che minacciava da un momento all’altro di far venire
giù tanta acqua da far spuntare le branchie a tutta Nuova Canaan. Entrando
in paese il vecchio si sorprese a fissare da lontano il Saloon, quello si
illuminato come si conviene per la sera del Sabato: per un momento meditò
di entrare e farsi un altro goccetto, e magari offrirne qualcuno alla gente
come facevano le persone con i soldi per far vedere a tutti quanti ne
avevano. Ma questo sarebbe stato un errore, come diceva Owen, mostrare
ad altri la sua improvvisa ricchezza; nessuno doveva saperlo perché in
paese poteva fidarsi solo di lui: perché loro erano amici, oh si, erano
cresciuti insieme ed aveva promesso di portarlo via da quello sputo di
villaggio per farlo lavorare per lui. Rufus indugiò ancora un attimo poi
scacciò l’idea con un sorriso e sfilò davanti alla cantina senza neanche più
guardarla, mentre all’interno minatori e contadini approfittavano dei loro
brevi momenti di svago e la chitarra scordata di Papà Dwayne faceva del
suo meglio per intrattenerli.
Sarebbe invece passato da Owen, perché pensava i tempi fossero ormai
maturi per iniziare; e credeva proprio che il suo amico sarebbe stato
d’accordo con lui.
6
207
Owen lo aveva avvistato mentre sistemava alcune balle di fieno, venire
lungo la Main Street, in groppa al suo dannatissimo mulo dopo che non gli
aveva più fatto visita per almeno una settimana. Aveva lasciato cadere il
forcone all’istante ed era schizzato all’interno dove, sul retro della stalla, il
cugino e suo figlio avevano messo su una partita a Castelli in cui il secondo
aveva accerchiato il poggio del primo dopo solo poche mosse.
“Sta venendo qui!” aveva sibilato e l’uomo aveva messo giù le carte e lo
aveva guardato sorpreso solo per un attimo; poi aveva capito, si era alzato
ed aveva tirato fuori il coltello appiattandosi dietro il battente del portone.
Niente più visita notturna come avevano deciso: nell’arco di pochi momenti
decisero tutti quanti di improvvisare perché l’occasione che si era presentata
era davvero troppo ghiotta.
“Ehi, amico, ci sei? Perché ti sei rintanato così?”.
Rufus vociò all’interno della stalla, la voce dello stalliere gli rispose subito
ed il vecchio non colse il lieve tremito di tensione che aveva.
“Aye, dannazione, avevo lasciato la lanterna accesa e per poco non
brucia tutto quanto, maledetta la mia testa!”.
Il vecchio rise smontando dal mulo ed oltrepassando il portone, ma quasi
subito una grossa mano gli tappò la bocca strozzandogli le risa e la lama di
un coltello gli si appoggiò proprio sopra il pomo d’Adamo.
“Non un fiato” gli aveva bisbigliato all’orecchio una voce che non
conosceva in un alito che sapeva di marcio; e lui aveva sentito le gambe
cedergli di scatto mentre quello che aveva sempre creduto essere il suo più
fidato amico era uscito dal retro della stalla con un secondo, giovane
sconosciuto e gli stava venendo incontro con una luce strana negli occhi.
Fuori si sentì tuonare, ed il tuono fu immediatamente seguito dai primi
scrosci di pioggia.
7
La mano era scivolata di poco a liberargli la bocca, fermandosi salda sul
mento, ma la sensazione di freddo tagliente alla gola non si era allentata
nemmeno per un attimo.
“Owen…amico mio, che significa?” aveva sussurrato, e per tutta risposta
lo sconosciuto più giovane gli aveva sferrato una potente ginocchiata al
petto; si sarebbe afflosciato come un sacco di patate se l’altro uomo alle sue
spalle non l’avesse sorretto con uno strattone. La lama del coltello gli ferì la
gola ma non se ne accorse nemmeno mentre tossiva cercando
disperatamente aria.
208
“Significa che vogliamo il tuo oro, vecchio” sibilò la voce che sapeva di
marcio e davvero non ci furono più dubbi in merito; un attimo dopo Owen gli
appoggiò la mano sulla spalla e con voce dispiaciuta gli espresse il suo
rammarico.
“Scusa questi miei familiari, vecchio compare, non hanno la creanza di
modi di noi paesani; dicci dov’è il resto del tuo denaro e ti terrai la pelle
cucita addosso anche questa volta”.
Rufus guardò basso rimanendo in silenzio, e allora lo stalliere gli afferrò i
capelli e lo strattonò dolorosamente facendogli alzare lo sguardo: oh, quella
si che era creanza di modi. Il vecchio sorrise al pensiero e l’amico sembrò
prenderlo come un gesto di scherno, perché spalancò gli occhi e gli rifilò un
manrovescio che gli fece sbandare la testa di lato, ma non lo indusse certo a
sciogliere la lingua. Oh no, potevano anche tritarlo a pezzi fini ma non
avrebbe parlato…perché se l’avesse fatto avrebbe tradito tanto i doni quanto
chi glieli aveva offerti.
“Vuoi che ci penso io?” si offrì sai fiato-marcio, come leggendogli nel
pensiero, ed Owen ci pensò su per qualche momento prima di scuotere il
capo.
“Sentito?” disse invece, nuovamente dispiaciuto per quello che stava
succedendo; perché era della sua testardaggine la colpa, era lui che lo stava
costringendo a fare cose che non avrebbe mai voluto. Perché loro erano
ancora amici, oh si, ed avrebbe dovuto collaborare nell’interesse di
entrambi, dandoci un taglio con questi capricci
L’uomo sogghignò e nella luce della lanterna il suo volto sfatto si fece
simile al mascherone di uno spauracchio mentre la voce si faceva
conciliante.
“Mio cugino Desmond vuole farti parlare, e davanti a Dio è capace di
farlo con quel suo coltello; ma io non voglio arrivare a tanto, non è
necessario…”.
“Non c’è altro denaro!” gorgogliò Rufus bloccandolo; Owen scosse il
capo.
“Quindi avevi solo quella moneta? E sei venuto a darla proprio a me?
Aye, se è vero sei ancora più idiota di quanto pensavo”. L’uomo fece una
pausa e si grattò il mento.
“Comunque per levarci il dubbio potremo sempre chiederlo a Cindy, quella
piccola deliziosa bambina che fa girare la testa a tutti noi paesani; e potremo
chiederglielo con creanza di modi, oh si…”.
Il vecchio diede uno strattone improvviso in avanti senza curarsi della
lama che lo ferì di nuovo; mentre il compare lo strattonava nuovamente
all’indietro lo stalliere sghignazzò.
209
“Aye, aye, vedo che ci siamo!” gioì, “Vuota il sacco e non le faremo
niente, davanti a Dio, all’Uomo-Gesù ed a tutti i suoi santi da calendario. Ma
se ti tieni per te quel che vogliamo sapere, noi ce la trifoliamo per benino in
tutti i buchi che ha!”.
Rufus lo fronteggiò ancora un attimo poi distolse lo sguardo, e l’uomo
vide la vampa di collera sparire dagli occhi del vecchio sostituita da una più
ragionevole aria supplice. Non era durato molto, si compiacque, era stato
sufficiente trovare le corde giuste (ed avere il coraggio di pizzicarle) per farlo
danzare prontamente alla loro musica.
“Vi darò tutto quello che volete…ma non fatele del male, io prego…”.
“Nay, non le faremo nulla, affatto; vogliamo solo i soldi, e magari ti
lasceremo anche qualcosa…perché non siamo così cattivi, vero cugino?”
Sai fiato-marcio latrò una risata catarrosa e Rufus seppe che tutti i
progetti, le fantasie ed i sogni di una nuova vita per sé e per la sua bambina
erano belli che sfumati, e non poté fare altro che maledirsi per la sua
stupidità.
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8
Cindy aveva acceso la lanterna a petrolio e la stufa, mettendo a bollire
l’acqua per la zuppa in attesa che lo zio tornasse dai boschi con quello che
era riuscito a trovare: nel pentolone per metà pieno d’acqua sobbollivano
foglie di barba di becco e tarassaco che mandavano vapori amari, e poche
verdure altre prese dalla magra riserva che erano riusciti a mettere insieme
durante l’estate; la ragazza era stata combattuta sull’aggiungerci o meno un
po’ di carne secca, tanto per dare un po’ più di sostanza ad un brodo che
era poco più che acqua calda, ma alla fine aveva deciso che sarebbe stato
meglio conservarla (“benedetta cucciola parsimoniosa!” l’avrebbe lodata lo
zio) ed aveva riposto il trancio insieme agli altri nella piccola madia della
cucina. All’ultimo però non aveva saputo resistere alla tentazione: prima di
posarlo aveva scoperto un angolino e dato un morso piccolo piccolo, e
mentre quel cibo delizioso le si scioglieva in bocca facendole brontolare lo
stomaco aveva ripensato alla persona che gliene aveva fatto dono.
Pur vivendo ancora di emozioni la sofferenza acuta dei primi tempi aveva
iniziato a scemare, ma invece di tranquillizzarla questo fatto la spaventava:
col tempo l’avrebbe dimenticato, gli aveva detto zio Rufus con l’aria di chi la
sa lunga, perché il tempo è un medico che guarisce ogni ferita, e forse suo
malgrado stava succedendo proprio quello. Giorno dopo giorno il dolore si
assopiva facendosi sordo come quello di un livido, dalla frustata bruciante
che era stato, e le situazioni, le sensazioni, persino i contorni del suo volto
ed il ricordo che aveva del suo odore si facevano vaghi ed indistinti come se
altro non fossero stati che i particolari di un sogno; come la marea che erode
uno scoglio portandone via un pezzo per volta, allo stesso modo la sua
mente di ragazzina aveva iniziato a mettere rapidamente da parte il ricordo
in un elementare quanto necessario meccanismo di autodifesa. E questo
sarebbe anche stato un bene…se non fosse che lei, la sua parte irrazionale,
non era proprio d’accordo: non desiderava dimenticarlo, anzi lo voleva lì, a
vivere la sua vita con lei come in quei giorni nemmeno troppo lontani ma già
così irreali; lasciarselo alle spalle sarebbe stato ammettere che a lui, di lei,
non importava nulla, che era stata solo la puttana per una scopata veloce.
Cindy si sedette alla finestra e guardò fuori il buio che quella sera era
sceso così rapidamente, e la baracca tremò sotto una folata di vento
improvvisa; poi la pioggia iniziò a picchiettare sui vetri sporchi di fumo e fu
come guardare il mondo oltre un velo di lacrime. Non voleva dimenticarlo.
Appoggiato allo schienale della sedia c’era il fucile che lui gli aveva
lasciato: Rufus lo aveva caricato (ma era stata lei a mostrarle come fare,
dopo che aveva memorizzato i suoi movimenti) ed ora se ne stava lì con i
211
colpi pronti. Lo zio si era raccomandato di starci lontano perché non era un
giocattolo, né tantomeno qualcosa di adatto ad una femmina, e lei aveva
sempre aspettato che se ne andasse per prenderlo e tenerselo
semplicemente stretto. Come una bambola o un orsacchiotto, di legno e
metallo invece che pezza, dal profumo di grasso e polvere nera piuttosto
che lavanda o sapone, ma pur sempre qualcosa da coccolare, qualcosa che
la tranquillizzava.
Come sempre quando era sola lo prese e se lo mise in grembo: chissà
se lui ne sarebbe stato fiero?
La ragazza sentì un nodo in gola e seppe che avrebbe pianto anche quella
sera, come tutte quelle che l’avevano preceduta; ma non avrebbe mai
permesso a sé stessa di metterlo da parte.
9
Lo fecero uscire dalla stalla e la pioggia scrosciante e spazzata da
raffiche di vento fu la migliore alleata nel ripararli dagli sguardi indiscreti del
piccolo folken del paese, certo tutto rintanato nel saloon a tracannare i veleni
di Papà Dwayne; avevano smorzato la lanterna e gli avevano legato le mani,
così da poter avere le loro libere, anche se lui non si sentiva davvero in
animo di fuggire, o creare problemi, o fare qualsiasi altra cosa di lì in avanti.
Si era fatto beffare come un idiota, ed anche se il tradimento di quello che
aveva sempre ritenuto un amico lo avviliva era poca cosa di fronte alla
tristezza che sentiva dentro per essersi giocato così un vero dono della
sorte.
Se dopo che avessero avuto il denaro lo avessero ucciso sarebbe stata
una degna punizione per tanta dabbenaggine: ed era quasi sicuro che lo
facessero, perché non si può dare alcun credito alla parola delle canaglie.
Ma non avrebbero dovuto fare niente a Cindy perché lei non c’entrava, e
quei tre non potevano essere così abietti da farle del male dopo essersi
presi tutto quello che volevano; era l’ultima sua speranza, non quella di
salvarsi la vecchia pellaccia, ma che anche la nequizia avesse un limite e lo
raggelava la paura che anche lei ne andasse di mezzo nei modi che
facilmente si immaginava.
Incespicò sulla strada buia e qualcuno dei suoi aguzzini gli rifilò un
doloroso calcio in culo soltanto per avere il pretesto di ritirarlo su dal fango
come un sacco di stracci. Altri pugni nella schiena per farlo muovere: erano
diventati nervosi ora mentre lui sperava, pregava che Cindy fosse uscita,
che si trovasse da qualsiasi altra parte ma non nella baracca, per l’amore
degli Dei e dei loro padri. Poi oltre le sagome scure delle casupole
212
addossate alla strada apparve la sua, e c’era una luce che filtrava
dall’interno e fumo che usciva dal camino.
“Oh, ma guarda, c’è qualcuno in casa” gracchiò Owen.
“Ho lasciato la candela e la stufa accesa” si affrettò a dire, e quello che
doveva essere il figlio di sai fiato-marcio lo fece star zitto con un ceffone che
gli fece fischiare le orecchie.
“Aye, lo vedremo da noi chi c’è lì dentro” rincarò. “Cugino, la nipote di
questo mio amico è di una bellezza rara, una rosa in boccio, e posso
scommettere che ha fatto riempire le mani di calli a tutti i figli dei contadini
per le seghe che si sono sparati pensando di inchiodarla al letto come si
deve. E non solo a loro, per gli Dei!”. Padre e figlio sghignazzarono in
risposta ed il cuore del vecchio perse un battito. L’avrebbero presa e
stuprata, ne era sicuro, e dopo l’avrebbero uccisa perché non potesse
creare loro problemi, oppure semplicemente per divertirsi; e lui non avrebbe
potuto far nulla per impedirlo.
“Avevi promesso, figlio di puttana!” sbraitò e fu un cazzotto al mento
quello che questa volta lo fece stare zitto scaraventandolo nuovamente nel
fango e rompendogli due denti.
“Vedremo, vedremo” si accontentò di rispondergli con un mezzo sorriso.
“Desmond, tappagli la bocca; non voglio che faccia casino con le sue urla,
questo vecchio signore così rumoroso”.
Rufus venne tirato nuovamente in piedi e di nuovo la grossa mano del
minatore gli serrò la bocca, subito seguita dalla lama del coltello che a titolo
d’avviso gli saettò appena sotto il mento scalfendogli dolorosamente la pelle
già ferita.
“Ora metti in moto il culo e facci vedere dove sono i soldi” abbaiò, e lui
non poté far altro che ubbidire.
10
Poteva essere lo zio di ritorno? Cindy si alzò di scatto con un improvviso
quanto bruttissimo presentimento; il vento fischiò e fece tremare
nuovamente la baracca, ma era la sua voce quella che aveva sentito un
attimo prima?
La ragazza si avvicinò ai vetri e sbirciò mentre il somaro legato vicino alla
legnaia dava un raglio; poi il vento si smorzò per un attimo ed oltre lo
scrosciare della pioggia udì altri rumori, come di passi nel fango e voci
soffocate. Non era suo zio, lì fuori c’erano i ladri e potevano essere venuti
per una cosa soltanto.
213
Sentì il cuore che le schizzava in gola ed arretrò di qualche passo fin
quando non incontrò il bordo del tavolo a tagliarle la ritirata. Fuori il somaro
ragliò nuovamente, poi i ceppi accatastati nella legnaia franarono giù ed il
rumore improvviso la fece acquattare sotto al mobile. Un attimo dopo vide
filtrare dalla finestra la luce di una lanterna e sentì altri rumori, sciaguattii di
gente che scavava mentre le voci riprendevano concitate senza più
nemmeno curarsi di bisbigliare. Poi a sovrastare ogni altra cosa sentì suo
zio che gridava con una disperazione che non aveva mai sentito.
“Cindy, scappa!”.
Come se non avesse atteso altro la ragazza si catapultò fuori dal suo
riparo col cuore in gola mentre i traffici si fermavano di colpo, poi sentì un
forte tonfo contro la parete di fondo della baracca e seppe, senza vederlo,
che si trattava di suo zio che veniva punito dai suoi sequestratori per averla
avvertita.
Fece scattare il saliscendi ed afferrò la maniglia della porta ma si fermò
subito; e poi? Poteva uscire e correre via verso la macchia sperando che
rinunciassero ad inseguirla (sempre che non fossero stati pronti a saltarle
addosso non appena avesse messo piede fuori) ma non avrebbe certo
salvato l’uomo con cui aveva vissuto fin da quando aveva ricordi, né
tantomeno il denaro che era stato seppellito sotto terra e che era la loro
opportunità
per
una
vita
diversa.
Non
voleva
scappare
abbandonandolo…ma nemmeno affrontarli, giusto?
In realtà probabilmente non avrebbe fatto nulla: era solo una donna e
sarebbe rimasta lì ad aspettarli, che la prendessero come avevano preso
suo zio e che le facessero ciò che più desideravano. Sentendosi invadere
dalla frustrazione, la mano inerte sulla maniglia della porta socchiusa, la
ragazzina abbassò lo sguardo…e solo in quel momento realizzò che la
mano libera stringeva ancora il fucile.
Lo spinsero sotto la legnaia dietro la baracca appoggiando la lanterna su
un cumulo di legna, e l’asino legato al riparo della tettoia salutò l’arrivo degli
intrusi con un raglio di cui nessuno si curò. Di nuovo il cugino di Owen gli
liberò la bocca per permettergli di parlare; come ad ammonirlo tuttavia la
pressione del coltello sulla gola si fece più forte.
“Lì sotto” sussurrò indicando la catasta che aveva ammucchiato sopra la
borsa dei denari dopo averla seppellita; il figlio del minatore spinse la
sommità del cumulo di legna facendolo franare ed il vecchio si augurò che
Cindy da dentro avesse sentito e se la filasse mentre erano ancora
impegnati. Ma pur tendendo le orecchie non sentì alcun rumore provenire
dall’interno.
214
“Brutto coglione!” lo ammonì il padre, quello nemmeno si girò e prese
invece a scostare i ceppi aiutato da Owen. Aye, tra poco avrebbero messo
le mani sui soldi e dopo (ne era così certo) sarebbe venuto il turno della sua
bambina; Rufus strattonò la presa e l’uomo alle sue spalle rispose
serrandolo più saldamente.
Incapace di trattenersi ancora, il vecchio fece l’unica cosa che poteva
ancora fare.
“Cindy, scappa!”.
Fu come se avesse sparato un colpo in aria; Owen e l’altro giovane
smisero all’istante di scavare e si bloccarono chini sulla terra, ed anche la
stretta del suo aguzzino ebbe un attimo di esitazione e si allentò. E se fosse
stato più giovane, Rufus avrebbe forse potuto tentare di divincolarsi; invece
sprecò l’occasione e l’uomo lo ghermì di nuovo e più saldamente di prima,
poi con una ginocchiata a metà schiena lo schiacciò violentemente contro la
parete della baracca
Sul punto di perdere conoscenza mentre l’uomo lo rigirava di nuovo,
probabilmente per rifilargliene un altro, chiese solamente che si sbrigassero
a prendere ciò che dovevano e che la facessero finita qualsiasi cosa
volessero fare. Poi sentì la porta della baracca che si spalancava di scatto
ed il minatore girò la testa con un’espressione di genuina sorpresa negli
occhi.
Rufus pensò a quanto fosse fastidioso avere una nipote che non fa mai
quello che gli dici.
11
Nello stesso momento in cui aprì la porta scostandola con un calcio sentì
la paura che, se non era svanita, almeno si era trasformata da inutile panico
a più pratica allerta. Li distinse chiaramente tutti e quattro, la loro lanterna
faceva risaltare le loro sagome come ombre cinesi sullo sfondo scuro della
legnaia. Tre in piedi, due dei quali addossati alla baracca (uno doveva
essere suo zio), ed uno chino a terra a stringere fra le mani un piccolo
fagotto. Il loro tesoro.
Alzò la canna e non disse nulla, perché davvero non era tempo di parole
quello, e si stupì di avvertire un sussulto di rabbia sommarsi alla paura che
gli faceva tremare le gambe. Fu felice di vedere che il gesto non era passato
inosservato.
La figura china a terra lasciò cadere la borsa dei soldi ed alzò le mani
borbottando qualcosa, e nel tentativo di arretrare incespicò sui ceppi sparsi
intorno cadendo col culo a mollo nel fango. Poi l’uomo più vicino si staccò
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dalle ombre portandosi dietro suo zio, saldamente stretto e con la lama di un
coltello puntata alla gola, e quella vista ebbe il potere di farle abbassare di
un buon palmo il fucile.
“Le brave ragazze dovrebbero essere a letto a quest’ora. Cosa vuoi fare
con quell’affare, dolcezza?”.
Avanzò, lei indietreggiò, e lo sentì che scoppiava a ridere mentre tutto il
coraggio che sentiva poco prima l’aveva già abbandonata.
“Allora, torta di mele, lo metti giù o devo fargli la barba?”. L’uomo fece
luccicare la lama premendone la punta sotto il mento di suo zio, ma prima
che lei potesse fare alcunché lui la fermò scuotendo il capo e guardandola
con occhi imploranti poi il vecchio tirò la testa indietro come a volersi
sottrarre, ma non era quello che aveva in mente.
“Questi sono nostri e di nessun altro” disse in un sussurro; le sorrise e
subito dopo spinse di scatto la gola sulla punta della lama.
Complici le botte che l’avevano intontito il vecchio morì nella
semincoscienza e non provò, tutto sommato, grande dolore: la sua ultima
preghiera fu che Cindy capisse e facesse ciò che era necessario. Colse
invece del tutto di sorpresa il minatore (che aye, era stupido almeno tanto
quanto era grosso): l’uomo sentì il sangue zampillargli sulla mano e lasciò
cadere il corpo arretrando di un passo.
La ragazza gridò, uno strillo acuto e disperato di orrore, e spianò il fucile
verso la figura dell’omaccione premendo in rapida successione il grilletto.
Partì ovviamente un solo colpo, la ragazza non ebbe la presenza di spirito di
far scattare l’otturatore e l’arma si inceppò subito, ma fu più che sufficiente
per trapassare di netto il torso dell’uomo che cadde all’indietro con una
giravolta ed un gemito strozzato. Lei continuò comunque a premere il
grilletto e ad urlare ancora per qualche attimo mentre il fumo bluastro della
detonazione si dissipava; alla fine il grido le morì semplicemente in gola e
rimase soltanto il rumore della pioggia.
Non c’era più nessuno, solo i due corpi a terra ed una pozza di sangue
che si allargava rapida nel fango; gli altri due compari erano spariti e non
avevano mancato di portarsi dietro i soldi, approfittando del tempo prezioso
che aveva perso mentre fucilava quell’uomo.
Lasciò cadere il fucile inorridita e gli occhi le si riempirono di lacrime; dal
paese avrebbero sentito e sarebbero venuti…e lei aveva appena ucciso (o
quantomeno ferito gravemente) un uomo: l’avrebbero presa, messa in
prigione, impiccata di sicuro! Se li immaginò uscire in strada dalla cantina e
dalle baracche con addosso gli spolverini e le tele cerate, e si aspettò di
veder sbucare da un momento all’altro le loro facce stupite dalla cortina di
216
pioggia: le avrebbero chiesto cos’era successo, lei non avrebbe risposto ma
loro avrebbero capito lo stesso, e allora lo stupore sarebbe diventato sdegno
e le loro mani l’avrebbero afferrata. Portata via. Impiccata.
Dimenticando ogni altra cosa, Cindy Oldman scappò via senza guardarsi
indietro come un animale spaventato a morte.
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La ragione avrebbe suggerito che fino al mattino dopo nessuno avrebbe
scoperto i corpi, ma Cindy non ebbe orecchie per ascoltarla; non si allontanò
di molto, andando a nascondersi nella macchia vicino alle sorgenti dove la
gente del villaggio andava per prendere l’acqua, tra alcune rocce che la
fecero sentire nascosta.
E mentre il temporale si gonfiava riconobbe finalmente che Lui non sarebbe
venuto a salvarla come un principe di fiaba, perché Lui si era soltanto
dimenticato di lei. Questa era la realtà, e lei era stata così stupida a vivere di
emozioni per tutto quel tempo.
13
C’erano ombre nel buco che si era scelta, e le ombre presero presto le
sembianze dei ladri e di suo zio, che si tagliava la gola da solo per togliersi
di mezzo nel’unico modo possibile e darle così modo di reagire: ma non era
servito a niente perché lui era morto ed avevano perso comunque tutto.
Certo lei era ancora viva, e non poteva sapere che era stata proprio questa
l’ultima speranza di Rufus, ma ciò non attenuava minimamente la sua
disperazione, la consapevolezza di essere stata inutile fino all’ultimo.
Pianse silenziosamente con le ginocchia strette al petto e quando il
temporale andò finalmente scemando si addormentò di un sonno strano,
fatto di sfinimento, paura e freddo, ed anche in quel sonno furono incubi
pure se il soggetto era cambiato: vide lui che se ne andava dalla loro
baracca lasciandosi dietro quel suo sostanzioso e maledetto pagamento per
l’ospitalità e la verginità che aveva ricevuto, lo vide più e più volte ed ognuna
era più vivida della precedente, e lei non poteva fare nulla per fermarlo, non
poteva parlare, non poteva dirgli quanto avrebbe voluto che rimanesse
perché nel sogno non aveva neppure la bocca per parlare.
Ci volle la luce del primo chiarore per scacciare le ombre e i demoni;
senza sapere dove andare Cindy vagabondò nella macchia tutto il mattino,
come un fantasma minuto con gli occhi gonfi ed i pantaloni chiazzati di
fango, e si ritrovò a sbucare per caso sulla pista per Taunton quando il sole
era già alto. Seguirla scegliendo a caso una delle due direzioni fu una
decisione pressoché istintiva: non aveva un posto dove andare ed allo
stesso tempo voleva qualcosa che la portasse via, che le permettesse di
fuggire senza più essere trovata; una strada era, in entrambi i casi, un’ottima
risposta.
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Senza saperlo Cindy si incamminò lungo la direzione che portava alla
città, invece che allontanarsi verso il confine ed eventualmente incrociare,
poche ruote dopo, la Via dell’Ovest. Due ore più tardi giunse in vista di una
piccola fattoria a margine della pista che riconobbe essere quella della
famiglia Harper: zio Rufus aveva lavorato per loro l’estate scorsa, erano
stati gli unici ad aver voluto un bracciante già vecchio sui loro campi, e lei lo
aveva accompagnato al tempo del raccolto per dare una mano alle due figlie
di Edward Harper a battere il grano. Non seppe perché la camminata
rassegnata e strascicata si era andata gradualmente trasformando in una
corsa leggera da quando la grande casa colonica era entrata nel suo raggio
di vista; poi quando fu presso l’aia e le sue gambe iniziarono a rallentare,
mentre i cani la avvistavano e davano avvio al concerto di latrati, un
gorgoglio sommesso allo stomaco diede risposta alla sua domanda
facendola sentire immediatamente malissimo.
Sulla porta della casa colonica Martha Harper uscì con una mano di
taglio sugli occhi ed il vecchio fucile del marito stretto per la canna nell’altra,
e quella vista ebbe il potere di paralizzarla lì dove si trovava; la donna
impiegò qualche attimo per riconoscerla, dopodiché la vide posare lo
schioppo contro il muro di adobe e venirle incontro a larghi passi mentre lei
rimaneva impietrita con i pugnetti chiusi e lo sguardo improvvisamente
abbassato.
Poi, quando la abbracciò e Cindy fu sul punto di ritrarsi, la colona se ne
accorse immediatamente perché fu rapida a staccarsi da lei ed a sollevarle
delicatamente il mento.
“Vieni dentro signorina” disse, ed il tono era insieme dolce e deciso.
“Così mi spiegherai che cosa ci fai, da sola, così lontana dalla tua casa e
dalla tua terra”.
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Si lasciò accompagnare all’interno, ed il calore della stufa accesa nella
grande cucina ebbe il potere di tranquillizzarla un minimo scacciando
l’intirizzimento dalla punta delle mani e dai piedi. La figlia più grande degli
Harper (Alice, se non ricordava male) stava mondando delle verdure vicino
al lavello e la guardò soltanto di sfuggita, per poi tornare su di lei con uno
sguardo davvero poco accogliente quando vide che la madre la conduceva
al tavolo e la faceva sedere mettendo mano al barattolo dei suoi biscotti.
A quella vista così provvidenziale lo stomaco della ragazzina borbottò di
nuovo e lei si contorse sulla seggiola stringendoselo nel tentativo di tacitarlo;
per tutta risposta la colona le spinse davanti qualche biscotto.
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“Ora fammi il piacere di mangiare” disse in un tono che non ammetteva
repliche, “Perché la fame è brutta, aye, e l’Uomo-Gesù ha detto che bisogna
dare da mangiare a chi non ne ha”.
E mentre lei dava un timido morso la donna sfilò alla figlia il paniere delle
verdure lavate ed iniziò a pulirle e tagliarle in previsione di una bella zuppa.
Tenendola d’occhio le diede il tempo necessario a sbafarsi due biscotti
prima di farsi nuovamente sotto.
“Dunque come sta il vecchio Rufus?” chiese, facendola bloccare a
mezz’aria col terzo già sollevato e la bocca invasa dal potente gusto dello
zenzero e della cannella; per tutta risposta lo abbassò piano rimettendolo a
posto vicino agli altri mentre lo stomaco le si serrava in un nodo doloroso.
“È morto” disse, e nel momento stesso in cui lo diceva una vocina fece
capolino da dentro ammonendola di tenere per lei i dettagli, perché nessuno
avrebbe mai dovuto sapere di chi era la colpa di tutto.
Cindy non vide Marta Harper appoggiare sul tavolo il coltello e la patata
mezzo sbucciata, non colse il mutare rapido della sua espressione perché lo
sguardo le era piombato nuovamente verso il basso e gli occhi
minacciavano un’altra dose di acqua; sentì soltanto la mano ruvida della
donna poggiarsi sui suoi capelli ed a quel contatto rispose spingendo la
testa contro il suo fianco in cerca di rifugio.
“Tesoro” disse carezzandola, “Come è successo?”.
Rialzò la testa e vide che anche la figlia maggiore, ora, si era accostata al
tavolo con le mani giunte sul grembiule e lo sguardo speranzoso che
guizzava dal viso della madre al barattolo dei biscotti alle spezie,
evidentemente poco o nulla interessata al discorso in atto.
“Cuore” mentì. “Ieri notte nel sonno”.
“Aye, talvolta i demoni vengono coi temporali, e forse uno di loro ha fatto
fermare il cuore di tuo zio”. Martha Harper fece uno scongiuro poco convinto
che la figlia sembrò prendere come un implicito gesto di assenso facendo
saettare la mano a ghermire il biscotto addentato ed abbandonato sul tavolo.
“Hai le condoglianze mie e della mia famiglia, Cindy Oldman”.
Alice annuì sgranocchiando rumorosamente e spandendo briciole, lei la
guardò trasognata ed immaginò che non avesse nemmeno afferrato il
nocciolo del discorso, o se l’aveva fatto non doveva interessargli un
granché. Poi la donna riprese a sbucciare la patata allontanando la mano
dalla sua testa e la sua testa dal suo fianco, decidendo chiaramente che il
cordoglio era finito perché non si poteva sottrarre altro tempo alle faccende
di casa.
Nel vedersi scacciata in quel modo Cindy sentì una stretta al cuore:
sapeva bene che era quello il modo di trattare una perdita, che in un mondo
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fatto di lavoro e di necessità non si poteva perdere troppo tempo a
crogiolarsi nel lutto, ma anche sapendolo non riuscì comunque ad
accettarlo.
Con un improvviso rivolgimento di emozioni odiò ed invidiò insieme quella
donna dal corpo così florido proprietaria di una fattoria con campi fertili e
bestie in buon numero, ben degli Dei che lei e suo zio in tutta la vita si erano
sempre e solo sognati, che probabilmente non aveva mai dovuto
addormentarsi in preda ai crampi della fame e che avrebbe avuto accanto i
suoi cari per ancora molti anni a venire; la odiò nel vedere che trattava con
sufficienza il suo dolore, anche se non poteva sapere che suo zio non era
certo morto di cuore ma si era squarciato da solo la gola sul coltello di un
malfattore, e provò l’impulso di urlare e graffiare senza ovviamente fare nulla
di tutto ciò, salvo guardarla con gli stessi occhi tristi di poco prima.
“Ora che farai?” chiese dopo una pausa di qualche attimo; lei mormorò
qualcosa a proposito di un certo fratello di suo zio che viveva in città, era la
prima storia che le venne in mente, e la donna annuì di rimando.
"Aye, Taunton è una grande città” snocciolò, “Piena di brutta gente, di
pericoli, di peccatori e di donnacce”. La colona sottolineò ogni enumerazione
con un preciso colpo di coltello facendo in quattro la patata oramai del tutto
denudata della buccia. Subito dopo fu il turno di una zucca color arancio
acceso, che iniziò a pelare tagliandone via la buccia spessa e lucida a
larghe falde. Alice nel frattempo si era allontanata: colse l’ultimo svolazzo
del suo grembiule oltre la porta che dava sull’aia, evidentemente anche lei
aveva qualcos’altro di meglio da fare.
“I cittadini non sono mica come noi, oh no, sicuro. Ti avrei offerto di stare
qui” aggiunse, “Ma il raccolto non ci è andato bene quest’anno e mio marito
non accetterebbe mai e poi mia una bocca in più alla sua tavola, anche se
sono certa che avresti saputo guadagnarti il pane”.
Cindy inghiottì, si sentiva la gola secca come polvere.
“Grazie-sai per l’offerta” disse come richiedevano le circostanze, la donna
per tutta risposta mosse la mano in circolo con aria sbrigativa.
Cindy ripartì da quella casa così indaffarata prima di mezzogiorno,
desiderando evitare ad ogni costo l’incontro con Edward Harper per non
dovergli ripetere la sua triste storia ed essere costretta ad ingoiare altre
lacrime davanti ad un dolore frettoloso; la colona le ripulì il viso, la pettinò
perfino e le diede (insieme a molte raccomandazioni non richieste) una
piccola borraccia, un involto con alcune gallette ed un maglione consunto da
mettere sopra il farsetto: lei fu sul punto di rifiutare, ma per fortuna non lo
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fece accettando invece le provviste con un sorriso triste prima di rimettersi in
cammino sulla pista che, ora lo sapeva, portava a Taunton.
15
Camminò fino a sera sulle pietre della pista e quando finalmente si fermò,
al riparo di un piccolo faggeto, e si tolse gli stivaletti vide che i piedi erano
gonfi e segnati da piaghe rossastre che non sanguinavano per puro
miracolo.
Avrebbe avuto bisogno di acqua per lavarli, ma una breve perlustrazione
all’ultima luce del giorno rivelò che nel boschetto non c’erano falde affioranti;
mentre esplorava trovò comunque alcune di quelle erbe che sapeva essere
utili per abbassare il gonfiore ed il rossore: tornando indietro a quello che
aveva eletto a suo campo base, una piccola radura col terreno coperto di
erba alta e muschio spesso e soffice, ne mise le foglie in bocca e masticò
fino a trasformarle in una poltiglia verdastra che si spalmò con cura sui piedi
dopo essersi distesa a terra.
Cindy mangiò qualche galletta e bevve dalla borraccia che le aveva dato
Martha Harper mentre il freddo aumentava ed il buio scendeva rapidamente
trasformando i faggi in righe d’ombra ed il cielo in velluto nero; senza un
fuoco che la scaldasse si rannicchiò sul muschio e si strinse nel maglione
mentre sopra di lei l’Ambulante al primo quarto faceva timidamente capolino
e la Vecchia Madre splendeva di luce nata ancora prima che il mondo
andasse avanti. Non poté non pensare a Lui e quando si sforzò di farlo con
distacco, di riprendere il pensiero della notte precedente, alle rocce della
sorgente, scoprì che di nuovo la sua testa si rifiutava di farlo.
Il freddo le sembrò perfino piacevole mentre piangeva: arrivò lentamente,
salendo dalla terra, prima nei piedi e poi nelle gambe, e poiché gli impedì di
sentire l’indolenzimento o il bruciore delle piaghe era il benvenuto. Si
addormentò così e se quella notte la temperatura fosse scesa anche solo di
pochi gradi in più la sua storia sarebbe finita in quella radura, e tutto ciò che
doveva venire in seguito sarebbe stato solamente una delle infinite linee
temporali alternative di quel mondo vecchio e usurato.
Invece quel Ka aveva ancora bisogno di lei.
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16
Noah Chandler era partito più di un mese prima dalla sua tenuta sul
Saroni per occuparsi personalmente della vendita dei suoi spiriti più pregiati;
mercante molto ricco possedeva terreni, frutteti e vigne ed una famiglia che
aveva sempre potuto vivere nell’agiatezza senza mai dover patire la fame.
La sua storia non merita di essere raccontata, non è nulla più che un’ombra
che attraversa il cammino di persone destinate a cose ben più grandi del
suo commercio e della sua ricchezza: eppure, se non fosse stato il
proverbiale uomo giusto al momento giusto molti dei successivi eventi
avrebbero preso un corso differente.
Chandler aveva iniziato il suo giro come faceva tutti gli anni
accompagnato dai suoi lavoranti più fidati, con una carovana di cinque carri
Conestoga ed un carico che rappresentava la sua migliore selezione di vini
e liquori, e quel viaggio gli avrebbe fruttato un ottimo guadagno presso i suoi
clienti abituali sparsi un po’ ovunque nei centri più importanti della Baronia.
Aveva visitato i grandi centri settentrionali, Hemphill e la stessa Gilead,
dando fondo già alla maggior parte delle scorte, poi a Tardestate si era
spostato verso meridione attraversando Plain e Whitecross ed ora il viaggio
stava fatalmente volgendo al termine: i forzieri sul carro di testa erano già
per tre quarti ricolmi e Taunton e Debaria sarebbero state, come tutti gli anni
le tappe finali. Avrebbe finito con i fuochi d’artificio, oh si, già lo sapeva: le
case da gioco ed i postriboli di lusso delle grandi città di confine erano da
sempre compratori forti e non tiravano mai sul prezzo. E come sempre i
clienti soddisfatti gli avrebbero garantito i suoi extra, e già si immaginava
quelle splendide prostitute dal corpo perfetto che lo avrebbero allietato
lontano dagli occhi di sua moglie: perché forte è lo spirito e debole la carne,
e per citare un altro detto: se l’occhio non vede il cuore non duole.
Quella sera la carovana aveva messo il campo presso un piccolo bosco
di faggi a margine della pista che stavano seguendo già da qualche giorno e
che da Whitecross conduceva a Taunton per la via più diretta. Dopo una
notte tranquilla aveva dato ordine di smontare il bivacco di buon’ora ed i
conducenti erano già tutti a cassetta in attesa di ripartire; mancava solo
Lana, la sua cagna da guardia, tanto affettuosa con lui quanto efficiente nel
fiutare i ladri e tenerli lontani dai suoi averi. La portava con sé tutti gli anni
anche se aveva già il pelo grigio perché gli aveva sempre dato una certa
sicurezza vederla dormire sui forzieri del denaro: ma quella mattina aveva
deciso di farlo andare fuori dai gangheri perché era sparita fin dalla notte e
nessuno degli uomini l’aveva più vista.
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Il mercante lo chiamò ancora, e per sottolineare la sua stizza puntò verso
il cielo la sua antica pistola a due canne ed esplose entrambe le cartucce.
Quel richiamo aveva sempre funzionato per dare lo sprone all’animale, ed
anche quella volta ebbe la sua efficacia: qualche minuto dopo l’uomo avvertì
in lontananza l’abbaiare concitato del cane e fu necessaria solo una ulteriore
piccola attesa per vederlo sbucare dalla selva come una furia uggiolante.
Stavolta però si comportò in modo strano: gli si fiondò incontro come
faceva sempre, ma poi, invece di saltargli addosso facendogli le feste, gli
girò intorno una o due volte per poi tornare verso la boscaglia ed abbaiare
ancora spostando il muso alternativamente nelle due direzioni.
“Dannazione Lana, e adesso che ti prende?” l’aveva rimproverata
facendo per andargli vicino ed agguantarla, ma lei era stata più rapida e
dopo un ultimo latrato si era nuovamente fiondata tra i rami facendo un
fracasso del diavolo.
L’uomo si era girato verso i carri ed aveva chiamato uno dei suoi
conducenti perché lo aiutasse a recuperare quel maledetto animale, ma
mentre questi accorreva il cane era già riapparso; e possiamo ben
immaginare lo stupore del mercante nel vedere che questa volta era tornato
in compagnia di una ragazzina con i vestiti laceri ed impiastrati di terra.
L’aveva trovata quando si era allontanata dall’accampamento per la sua
solita sgambata notturna, indubbiamente perché qualcuno lo voleva, al
centro di quella radura quando la temperatura era già pericolosamente
bassa; forse anche lui fu guidato dal destino (se anche i cani hanno un Ka a
cui render conto!) o forse fece semplicemente ciò che l’istinto gli suggeriva:
le si sdraiò addosso e nel dormiveglia Cindy si accorse appena che il suo
corpo aveva smesso di spegnersi.
All’alba, quando si svegliò, l’animale la salutò con una leccata sul viso e lei
fu appena sorpresa da quella nuova situazione inaspettata.
Lo accarezzò per ringraziarlo, poi si alzò e lavò gli impacchi ai piedi con
un po’ dell’acqua della borraccia; l’animale le diede appena il tempo di
spolverarsi un po’ dai pezzi d’erba e muschio prima di iniziare a saltellarle
attorno uggiolando. Quando poi le afferrò l’orlo dei pantaloni ed iniziò a
strattonarla lei capì di colpo: gli scostò i denti e quello mollò la presa
allontanandosi di un balzo per poi fermarsi di nuovo ed iniziare ad abbaiare.
Cindy si rimise in fretta gli stivaletti ed iniziò a seguirlo alla massima
velocità che i suoi piedi ancora doloranti le consentivano e l’animale la guidò
nella piccola macchia fermandosi ad incitarla coi suoi latrati quando
rimaneva troppo indietro; poi ad un certo punto entrambi udirono ben distinto
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il rumore di due colpi di pistola ed il cane iniziò a correrle attorno, a spingerla
col muso, a tirarla per l’orlo già stracciato dei pantaloni per metterle fretta.
Quando arrivarono abbastanza vicini al limitare della boscaglia Cindy udì
la voce di un uomo che molto probabilmente stava chiamando proprio quel
cane; si fermò sbirciando da dietro un albero e vide l’animale macinare a
folle velocità gli ultimi metri saltando fuori dal sottobosco oltre l’ultima linea di
alberi solo per fare ritorno un momento dopo e riprendere ad ululare come
un forsennato. Allora lei si era decisa ad uscire da dietro il suo riparo e come
se l’animale non aspettasse altro le era andato alle spalle e l’aveva spinta in
avanti pungolandola col naso e col dorso; lei aveva fatto gli ultimi passi
uscendo a sua volta allo scoperto, e si era trovata davanti un uomo vestito in
abiti da viaggiatore con una pistola ancora fumante in mano.
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“Così la mia Lana ha riportato una bella preda dalla sua caccia notturna,
si?”.
L’uomo, passato il primo stupore, aveva messo via la pistola e le si era
avvicinato con un mezzo sorriso: lei era rimasta dove si trovava, con lo
sguardo chino ed i pugni stretti lungo i fianchi. Fosse anche stato un
brigante non le interessava, che la prendesse e le facesse ciò che voleva:
tanto lei era già morta.
Invece non di un brigante si trattava, e da quanto poteva vedere
nemmeno di un uomo cattivo; mentre lei se ne stava lì aspettando
passivamente qualsiasi cosa era arrivato un secondo uomo ed il primo gli
aveva ordinato di tornare indietro e portare una coperta. Poi si era avvicinato
e le aveva alzato con delicatezza il viso sporco di fango per guardarla negli
occhi. Lei si era scostata riabbassandoli e lui non aveva insistito; un attimo
dopo la coperta era arrivata e qualcuno gliel’aveva passata intorno alle
spalle, poi l’uomo aveva parlato prendendo per la coda un pensiero poco
nobile.
“Andiamo a Taunton. Vuoi venire con noi?”.
Lei aveva annuito ed ora tutti e tre si trovavano all’interno del carro di
testa di una piccola carovana, seduti l’uno davanti all’altra in una
semioscurità rassicurante fatta di profumi dolci e casse che ondeggiavano e
tintinnavano al ritmo dell’andatura dei buoi.
Cindy osservò imbarazzata l’uomo, che non aveva più parlato né l’aveva
toccata, e si sentì in dovere di dire qualcosa.
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“Grazie-sai” mugolò guardandolo dal basso verso l’alto, lui sorrise
bonario facendo apparire alcune rughe su un viso peraltro perfettamente
sbarbato.
“Devi ringraziare la mia cucciolona, sicuro! Anche se non è ancora
tempo, il freddo è arrivato presto quest’anno: potevi morire vestita con
queste pelli di patata, là fuori”. Lei sorrise ed il cane, come a voler
sottolineare la parte avuta in tutto quello, le scostò il braccio posandole il
muso in grembo.
“Vedo che avete fatto amicizia in fretta” aggiunse. “Lana non dà
confidenza agli estranei di solito, lei ha il dovere di fare la guardia ai miei
soldi ed è strano che faccia così l’amicona”.
“Siete un mercante?” chiese e lui annuì con orgoglio.
“Di vini e liquori” precisò, “Non ne troveresti di migliori nemmeno in
Cressia, dico io”.
“Non lo so, io non ho mai bevuto, questa è roba da ricchi e la mia famiglia
è povera”. L’uomo scoppiò a ridere appuntandosi mentalmente entrambi i
dettagli.
“Sicuro, non è merce per un qualsiasi saloon! Ma io non so ancora chi sei
tu, giovane donna, me lo vorresti dire?”.
“Non ha importanza” disse. “E non posso pagare per il passaggio” si
sentì in dovere di aggiungere, ma il mercante scosse decisamente il capo.
“Nay, nay, che uomo sarei se pretendessi denaro per averti aiutata?
Come minimo Lana mi sbranerebbe il culo: che ne dici cucciolona?”.
Il cane si accontentò di alzare le orecchie e mandare un breve uggiolio
inorridito, e Cindy immaginando la scena si concesse il lusso di una risatina
più distesa.
“Hai qualcuno che ti aspetta in città?”.
Annuì e le tornò in mente la storiella che aveva rifilato alla signora
Harper: non c’era ragione per non usarla anche in quell’occasione, giusto?
Disse all’uomo che aye, aveva un fratello di suo zio che l’attendeva, che suo
zio era morto (senza scendere nei dettagli) e che lei non aveva più nulla
eccetto i vestiti che indossava in quel momento.
L’uomo la ascoltò con vivo interesse.
Arrivarono a Taunton appena quattro giorni dopo ed il mercante, per tutta
la durata del breve viaggio, si rivelò davvero disponibile.
Per incominciare in bellezza quella stessa mattina le preparò, nell’ampio
e riparato vano di carico del carro di testa, un mastello pieno d’acqua e delle
pezzuole pulite in modo che potesse lavarsi ed asciugarsi, ed ammonì il
conducente che se avesse anche solo provato a sbirciare lo avrebbe fatto
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frustare; pensò anche a tirare fuori da una cassapanca dei vestiti da uomo
puliti e profumati di liscivia, e addirittura della biancheria intima di pizzo (e
Cindy non seppe mai che essa, in realtà, era un regalo da parte del
mercante per la sua puttana preferita al bordello di Taunton). Dopodiché la
lasciò sola saltando giù dal carro per prender posto nel successivo; lei
rimase imbarazzata da quelle gentilezze solo per qualche secondo, poi su
tutto vinse la voglia di liberarsi dallo sporco e della stanchezza così si
spogliò e si infilò nel mastello, ed il fatto che l’acqua fosse soltanto tiepida
non era certo un problema per chi era abituato a fare il bagno nei torrenti.
Una volta ripulita e rivestita con pantaloni di fustagno ed una camicia di
lana a scacchi bianchi e rossi scese a sua volta dal carro per raggiungere il
suo mecenate e ringraziarlo con un abbraccio. E Noah dal canto suo fece
mostra con abilità di contentezza sincera ricambiando la stretta con un
bacetto sulla guancia, proprio come faceva talvolta zio Rufus.
Da allora i giorni passarono veloci: il mercante le permise se lo
desiderava di aiutare il cuoco della carovana, un vecchio mozo che aveva la
parlata di alcuni contadini del villaggio e che doveva provenire come loro
dalle regioni calde dell’Arco Esterno; si raccomandò comunque che non si
affaticasse, e la volle a viaggiare con sé e con Lana nel carro di testa
durante tutti gli spostamenti. Le raccontò del suo lavoro e dei compratori che
avrebbe visitato prima a Taunton e poi a Debaria: e quando le disse che, se
avesse voluto, l’avrebbe presentata ad un uomo molto importante la ragazza
si sentì una volta di più in debito verso quello sconosciuto così disponibile.
In attesa della nuova caduta Cindy non riuscì a capire perché le occhiate
che il vecchio mozo sdentato le rivolgeva fossero così tristi e le parole che le
biascicava incomprensibili quanto sconsolate, né riuscì a spiegarsi in altro
modo la cortesia e le premure dell’uomo se non considerando, nella sua
ingenuità, che probabilmente quello si era preso una cotta per lei; arrivò
anche a prendere atto che forse non era poi così morta come aveva
creduto…anche se le bastava ripensare al sai fuggiasco per sentirsi crollare
nuovamente il mondo addosso.
Perché malgrado le circostanze fossero un caleidoscopio, e piacere a
quell’uomo gentile appagasse il suo spirito, la sua mente aveva smesso di
erodere il suo ricordo da quella notte spaventosa conservando l’intima
speranza di vederlo tornare prima o poi. Mancava solo lui per rendere le
tinte di quel nuovo quadro davvero perfette.
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Taunton era una vera città, un posto che lei non aveva mai visto: la
colpirono le strade larghe, le case di legno e mattoni, ma su tutto il brulicare
di persone, il viavai di carrozze, l’animazione, in una parola sola, che non
avrebbe mai potuto sperimentare in un villaggio piccolo e dimenticato come
Am’lis; vedere dal carro tutta quella gente, tutti quei cavalli e buoi e uomini e
donne sciamare per i vicoli, infilarsi tra i banchi dei mercati all’aperto e delle
botteghe della periferia come tante formiche, entrare ed uscire da case
attraverso le cui porte vedeva stanze e focolari la disorientò riempiendola al
tempo stesso di meraviglia.
Poi come se non bastasse ancora le case si erano fatte più grandi e più alte
mano a mano che la città alta si avvicinava, e la terra battuta della Main
Street aveva lasciato il posto prima ad un acciottolato sconnesso, poi ad un
lastricato di grandi pietre scure, mentre a lato, ad intervalli regolari, erano
iniziati ad apparire i lampioni con le lampade di focaria già accese: la
ragazzina aveva chiesto al mercante cosa fossero e lui aveva sorriso
davanti alla sua meraviglia quando le aveva detto che si trattava di
illuminazione elettrica, qualcosa che per la mente semplice di un colono era
praticamente magia concretizzata.
Lente una dopo l’altra erano sfilate a margine della strada le magioni dei
ricchi e dei notabili e la carovana aveva incrociato le prime squadre di ronda
della milizia dalle inconfondibili casacche blu prima di fermarsi davanti ad un
elegante palazzo dalla facciata in pietra, con un sontuoso portale di legno
lucido oltre al quale Cindy colse una rapida visione di marmi grigi, tappeti
rossi e pareti adorne di quadri.
Il mercante era sceso con un balzo dal carro e con la sua solita
gentilezza di modi l’aveva fatta accomodare a terra; poi da quella casa
grandiosa era uscita una donna alta e magra con lunghi capelli castani
perfettamente lisci, bella come una principessa di fiaba nello splendido abito
di velluto a balze che indossava impreziosito da gioielli che sembravano
brillare di luce propria: non doveva avere molti più anni di lei ma
l’abbigliamento, i gioielli ed il pesante trucco, senza il quale sarebbe stata
comunque molto attraente, concorrevano a farla sembrare più matura di
quanto non fosse. In ogni caso, pur non riuscendo a stimarne la vera età, ne
era stata immediatamente affascinata.
A sua volta nel vederli la donna aveva allargato appena gli occhi in un
guizzo di stupore, ma la sua espressione si era stemperata subito dopo in
un sorriso dolce; il mercante le aveva posato le mani sui fianchi e i due si
erano scambiati un bacio sulla guancia (del tipo che la gente di un certo
livello chiama ‘bacio da convenevoli’) ed alcune parole che non era riuscita a
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sentire, poi la donna l’aveva oltrepassato e lei l’aveva seguita con occhi
pieni di meraviglia incapaci di distogliersi.
“Piccola sai” la chiamò. “Vieni con me, vuoi?”.
E lei certo che lo voleva, con tutto il cuore, e le rivolse un sorriso
raggiante: desiderava entrare e parlare con l’amico del sai mercante, perché
era sicura che quella fosse la sua casa (e la donna non poteva essere altri
che sua moglie o sua sorella), così se il lavoro fosse stato alla sua portata
avrebbe potuto tornare in possesso di tutti i soldi che le erano stati rubati.
Zio Rufus sarebbe stato così fiero di lei!
“Andiamo dall’amico del sai mercante?” chiese, e senza attendere
risposta la incalzò. “Lui dice che potrebbe fare molto per me.”
Cindy prese per mano la donna-principessa ed intrecciò le dita alle sue
come se fosse stata sua sorella: non si soffermò sul fatto che forse il
protocollo non lo richiedeva, era semplicemente così felice ed emozionata
da non riuscire nemmeno a pensare.
“Sai, penso di piacergli a quell’uomo…”. La donna accolse la confidenza
abbassando gli occhi e sfuggendo il suo sguardo, sicuramente una reazione
di pudore, un fare da nobili, e quando iniziò ad avviarsi lei la seguì ovunque
desiderasse portarla.
Nello spiazzo davanti al bordello Noah Chandler abbracciò e baciò, in
effetti più castamente di quanto avrebbe desiderato, la sempre bellissima
Liza Stark (anche conosciuta come ‘creampie Liza’, ed asteniamoci dai
commenti io prego), prima ballerina e sgualdrina di lusso della scuderia di
Cyllan Debonaire, e non poté trattenersi dall’avere una improvvisa drizzata.
Le sue mani scivolarono sulle chiappe della donna un attimo più tardi senza
che potesse davvero, trattenersi.
“Sai, che significa questo?” le sussurrò mentre accostava la guancia alla
sua e stava al gioco. “Chi è quella giovane?”.
“Un nuovo acquisto per il tuo padrone, se vorrà” ansimò lui facendo
saettare la lingua nel suo orecchio. “Portala in una saletta e avvertilo, voglio
che mi riceva al più presto”.
La prostituta capì all’istante; si staccò dall’uomo scostandolo con una
piccola mano e rivolgendogli un sorriso infelice, poi lo superò avvicinandosi
alla ragazzina che si guardava intorno con uno sguardo insieme vivace e
fiducioso.
“Piccola sai” disse, e quella la guardò con occhi grandi e meravigliati; la
donna sentì improvvisamente una tristezza forte come mai aveva provato.
“Vieni con me, vuoi?”.
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La ragazzina sorrise mostrando, ed era raro vederlo in una persona del
folken, denti bianchi, sani e ben allineati; certamente sarebbero stati un
punto di pregio nel nuovo lavoro di succhiacazzi che avrebbe dovuto,
volente o nolente, svolgere da lì in avanti.
“Andiamo dall’amico del sai mercante? Lui dice che potrebbe fare molto
per me” aggiunse, e Liza Stark fuggì il suo sguardo perché non poteva
proprio sostenerlo.
“Sai, penso di piacergli a quell’uomo..” le sussurrò e la donna si sforzò di
sorridere ancora. Quando lei la prese per mano strinse le sue dita
mordendosi il labbro, poi si avviò e lei la seguì docilmente oltre il grande
portale senza minimamente immaginare cosa le sarebbe successo di lì a
poco.
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19
“Lunghi giorni, lunghi giorni! Un anno è già passato, oh si, come vola il
tempo!”.
“Voi lo dite e dite il vero, Cyllan”.
Il mercante salutò tiepidamente il tenutario del bordello, nel suo usuale e
precario equilibrio tra mascolinità e femminilità, riflettendo su quanto fosse
irresistibilmente repellente con quella sua pelle lucida di cerone e quei due
baffetti impomatati troppo simili alle setole di un istrice; per non parlare poi
degli occhi, piccoli, mobili, così intrinsecamente cattivi, resi simili a quelli di
un serpente dallo spesso contorno di bistro che li circondava sfumando
appena ai lati. Aye, viscido come una lumaca e perennemente indeciso
sull’essere uomo o donna, ma quello sguardo gli faceva intuire ogni volta
che doveva essere un figlio di puttana come se ne vedono pochi in giro.
Il tenutario del bordello si avvicinò e la nuvola di profumo che si portava
appresso lo colpì con una zaffata potente serrandogli la gola; strinse la
mano che l’altro gli offriva, flaccida e fredda come un pesce morto,
appiccicosa di chissà quale crema e totalmente depilata al pari di guance e
sopracciglia, e questo bastò evidentemente ad appagarlo perché lo vide
sedersi al lato opposto del piccolo tavolino incrociando gambe magre come
stecchini e pizzicando un bicchierino tra due dita.
“Vorremmo assaggiare il tuo liquore, bottegaio, puoi accontentarci?”.
Noah non se lo fece ripetere due volte, e soffocando un colpo di tosse
(aye, con quel profumo così potente se qualcuno avesse acceso un cerino
sarebbe di certo scoppiato tutto!) sollevò con gesto rapido la bottiglia di
fiordirosa e ne versò due dita appena nel bicchiere proteso.
“Volée” tubò l’altro portandoselo sotto il naso e facendo ondeggiare il
liquido per fiutarlo meglio.
“Un bouquet aromatico, ricco ma non ridondante, dolce ma non
dolciastro” classifico prima di assaggiarne appena una goccia accostando le
labbra al bicchiere e facendo saettare una lingua minuscola e violacea.
Il mercante distolse di scatto lo sguardo mentre lo stomaco gli dava un
improvviso strappo verso l’alto per poi contrarsi in un viluppo acido. Dei,
quanto lo disgustava quello che neppure si poteva definire un uomo; per
fortuna l’altro non se ne accorse, o se lo fece ci passò sopra, poco
importava.
Noah si voltò ad inquadrare per un attimo l’omaccione che presidiava
l’ingresso della saletta, un membro del servizio d’ordine privato della casa di
piacere, quando la voce dell’altro lo fece nuovamente girare.
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“Eccellente, eccellente, bottegaio: da te non mi sarei aspettato nulla di
meno. Ti compro tutto il carico che ti resta per mille denari, vino compreso”
concluse, gettandosi con noncuranza il bicchierino alle spalle; il rumore del
cristallo pregiato che si spaccava fu a sua volta soffocato e distorto, come se
anch’esso fosse stato disgustato dal breve contatto.
“Servo tuo, Cyllan” accondiscese. “Come sempre”.
L’uomo mosse la mano in circolo con fare insofferente.
“Si, si, parole sicofanti, bottegaio, ma le apprezziamo comunque. C’era
altro di cui volevi parlarmi?”.
Noah esitò colto da un inaspettato quanto repentino rimorso: ma quando
l’altro sorrise e gli piantò in viso quei terribili occhi bistrati seppe che in realtà
era già al corrente di tutto, e l’idea di scoparsi una ragazzina gli piaceva
immensamente.
All'improvviso il mercante realizzò appieno quello che aveva deciso di fare,
quello che aveva appena fatto, e se ne pentì in uno slancio di contrizione
tanto sincera quanto tardivamente inutile.
“C’è…” balbettò, “…per strada io…ho trovato una ragazzina e…”.
Cyllan fece nuovamente saettare quella lingua orribile tra le labbra ed il
tappo che aveva messo al suo stomaco minacciò seriamente di saltare.
“Una ragazzina!” flautò, “Un corpo acerbo, perfetto ed intonso, tettine
piccole e sode, capelli lunghi…e posso immaginare la fichetta stretta e
pelosa, così succulenta da far rinascere anche un malato di mandrus!”
L’uomo sbatté le palpebre trasognato ed il mercante si sentì invadere da
un rinnovato disgusto in cui era prepotente l’ombra della paura pura e
semplice.
“L’ho già ammirata dalla mia vista segreta nella saletta, dove quella
cavallona di Liza l’ha portata e le sta tenendo bordone” continuò.
“Mi piace e la voglio, ti darò mille denari per lei”.
“Cyllan, io…”.
“Duemila se credi!” incalzò sporgendosi verso di lui; Noah sentì
goccioline di saliva spruzzargli la mano stretta al bracciolo della sedia e si
affrettò a spazzarle via con l’altra come se fossero state scintille di brace o
schizzi di veleno.
“Io non…”.
“Cinquemila, dannazione a te! Questa è la mia ultima offerta bottegaio…”
aggiunse, e mentre lo diceva il mercante sentì alle sue spalle i passi pesanti
del cane da guardia del tenutario. Quando si girò se lo vide incombere
appena dietro, le braccia incrociate al petto ed una guaina che penzolava al
fianco lasciando sporgere l’impugnatura di un coltellaccio.
“Potrei anche decidere di prendermela da solo, sai, se fai l’ostinato…”.
232
Noah deglutì sentendo le gambe che iniziavano a tremare.
“Servo…servo tuo, Cyllan” concesse con voce tremante un attimo dopo,
scivolando sulla seggiola come se la parte superiore del suo corpo si fosse
liquefatta.
“Trattala bene io prego” aggiunse in un sussurro, l’altro semplicemente
rise mostrando denti gialli e bucherellati, e batté le mani una sull’altra
compiacendosi dell’acquisto appena fatto.
“Eccellente, eccellente! Una sorchetta fresca e costosa, già me la
pregusto!”.
No, non l’avrebbe trattata bene. Che cosa aveva fatto?
Il mercante si tirò in piedi pallido come uno straccio e subito l’altro gli
passò il braccio intorno alle spalle; si sentì invadere da altro disgusto ma
non aveva nemmeno più la forza di ritrarsi.
“Bottegaio, hai fatto un vero affare oggi” puntualizzò, “Se ne trovassi altre
così te le comprerò con gioia: non a questo prezzo però…”.
Gli rifilò una gomitata complice al fianco e Noah sentì che non avrebbe
potuto controllare la nausea ancora per molto.
“Cyllan…se vuoi scusarmi ora…”. L’uomo agitò la mano in circolo
staccandosi da lui (e Noah rese grazie), poi puntò dritto verso la porta della
saletta e la spalancò seguito a ruota dal suo tirapiedi. Poteva facilmente
immaginare dove stavano andando: a deflorarla, ad aprirla in due, e
probabilmente nel corso del processo l’avrebbero picchiata tanto per
instillarle un po’ di sano senso del rispetto (avendo però cura di piazzare i
lividi in parti del suo corpo non individuabili ad una prima occhiata).
Stavano andando, in una parola sola, a domarla.
Il mercante si trascinò fuori e nel corridoio incrociò altre ragazze che
conosceva fin troppo bene, accompagnate dai loro profumi costosi e fasciate
nei loro vestiti eleganti di puttane d’alto bordo: loro lo salutarono, lui non le
degnò di uno sguardo. Ritrovò meccanicamente l’uscita ed il suo pensiero,
appena fuori, fu di rintanarsi al riparo del suo carro e vomitare sotto gli occhi
sorpresi dei suoi stessi lavoranti.
233
20
La donna-principessa l’aveva portata attraverso un corridoio di marmo e
tappeti fino ad una sala al primo piano di quella grande casa, e prima di
entrare aveva fermato un’altra donna (questa aveva la pelle scura ed i
capelli nerissimi e crespi, ed indossava un vestito di broccato rosso)
parlottando rapidamente con lei; quando questa si era allontanata la
principessa l’aveva fatta accomodare all’interno e per Cindy erano stati altri
attimi di meraviglia: quella stanza era grande almeno il doppio della baracca
dove aveva vissuto fino a pochi giorni prima ed era interamente rivestita di
legno scuro con grandi quadri e mobili di legno pregiato alle pareti. Loro due
si erano sedute su un divano di legno dipinto di giallo (per un momento
aveva pensato che fosse stato spruzzato d’oro, poi scartò quel pensiero così
impossibile anche per un luogo come quello) davanti al quale c’era un
piccolo tavolino di cristallo con sopra una bottiglia piena a metà ed alcuni
bicchierini.
Cindy aveva subito iniziato a tempestarla di domande: come si chiamava,
quanti anni aveva, se fosse del villaggio e così via; lei aveva risposto a tutte
con una compostezza ed un garbo di modi che l’avevano lasciata
esterrefatta. Le aveva detto di chiamarsi Liza, di avere vent’anni e di essere
nata e cresciuta ad Hemphill, ed alla sua domanda riguardo a dove fosse
quel luogo le aveva raccontato che era un posto molto più a Nord di lì, vicino
alla capitale, dilungandosi nei dettagli; e mentre parlava aveva riempito due
bicchierini con il contenuto della bottiglia, un liquido denso color verde scuro
che mandava un odore pungente simile all’incenso. Gliene aveva offerto uno
prendendo per sé l’altro, e quando aveva bevuto lei aveva fatto lo stesso
sentendo immediatamente la gola bruciare come se avesse inghiottito un
tizzone ardente. Aveva soffocato un attacco di tosse, immaginando che
sarebbe stato davvero poco elegante spruzzarla da capo a piedi, e quando
aveva inghiottito strizzando gli occhi il fuoco era sceso giù accompagnato da
una istantanea sensazione di capogiro.
Liza aveva sorriso dicendole di non preoccuparsi, che era tutto a posto,
che lei doveva solo bere per aiutare le cose ad andare nel modo migliore e
le aveva riempito nuovamente il bicchierino; poi erano seguite altre
domande più o meno ordinarie ed altre sorsate, durante le quali il capogiro si
era decisamente trasformato in vertigine e quello strano bruciore era
divenuto persino piacevole nel suo irradiarsi pulsante dallo stomaco alle
membra.
Erano andate avanti così per una buona decina di minuti, fino a quando
una serie di colpi secchi alla porta (che a lei erano giunti come tonfi ovattati
234
attraverso le nebbie dell’assenzio) non li avevano interrotti; Liza aveva
alzato la testa di scatto e Cindy si era accorta solo in quel momento di come
i suoi occhi fossero tristi, ed ora alla tristezza era arrivata a mescolarsi
inequivocabile la paura. Rannicchiata sul divano aveva fatto per tirarsi su del
tutto ma la mano le era scivolata ed il bicchiere era caduto a terra
spandendo sulle piastrelle di marmo il liquido verdastro.
Al secondo tentativo era riuscita a sedersi più o meno composta e
malgrado il torpore aveva iniziato a sentirsi inquieta; Liza si era alzata e
procedeva verso la porta in una visione al rallentatore mentre i colpi si
ripetevano impazienti una seconda volta. Poi la soglia si era aperta e la
ragazza si era bloccata mentre due uomini entravano.
In quel momento il senso di inquietudine si era trasformato in allarme
vero e proprio: aveva provato ad alzarsi in piedi, ma le gambe l’avevano
tradita ed era ricaduta inerte sui cuscini mentre lo stomaco le si rimescolava
e dalla bocca le usciva un rutto potente di preludio al vomito. Allora uno dei
due uomini aveva riso, un rumore acuto e sgradevole, e Liza si era girata
nuovamente verso di lei con gli occhi dilatati di terrore; poi l’altro aveva
indicato la porta e la donna aveva ubbidito come un cagnolino sparendo
oltre la soglia con un ultimo svolazzo del suo splendido vestito.
L’uomo dalla risata stridula aveva atteso che se ne andasse poi si era
avvicinato mentre l’altro, più alto e robusto, lo seguiva come un’ombra
rimanendo sempre in silenzio; aveva messo il piede sui cuscini, si era sporto
e l’aveva guardata, e quando lei aveva incrociato quegli occhi aveva gridato
divenendo finalmente consapevole, ultima fra tutti gli interessati, di quello
che sarebbe successo di lì a poco: esattamente ciò che aveva fatto con lui,
ma in quell’occasione non ci sarebbe stato spazio per il piacere o la
dolcezza.
Cindy aveva gridato di nuovo cercando inutilmente di sottrarsi mentre
l’uomo la ghermiva e faceva saltare i bottoni della camicia a scacchi
mettendole a nudo il seno; aveva tentato di coprirsi e lui aveva risposto
schiaffeggiandola con il rovescio della mano mandandola a sbandare contro
lo schienale del divano. Quando il nuovo conato era salito non aveva
semplicemente potuto resistere ed aveva vomitato poi si era lasciata cadere
sui cuscini insozzati mentre l’altro, improvvisamente fermo, la osservava
come in estasi. Tuttavia la pausa era durata solo un attimo: l’uomo era
subito tornato alla carica e le aveva strappato via pantaloni e mutandine
mettendo infine a nudo ciò che gli interessava.
Il finale era arrivato, tutto sommato, rapidamente.
235
Cindy Oldman
236
237
1
Liza Stark aspettò che Cyllan finisse il suo lavoro nascosta nel corridoio,
in una di quelle alcove che durante le feste ospitavano i clienti troppo
libidinosi per riuscire ad arrivare in una delle camere al piano superiore;
quando lo vide uscire con aria così appagata lo odiò senza rabbia, con la
rassegnazione di chi è stato piegato a sua volta ed ha imparato ad accettare
un certo ordine delle cose. La donna attese che i due uomini scomparissero
oltre la svolta del corridoio (tanto codardo da aver paura delle donne, tanto
vigliacco da non stuprare senza avere almeno un coltello dalla sua parte!) e
quando il rumore dei passi si affievolì, si fece avanti esitando solo un
momento prima di aprire la porta.
Non disse una parola mentre la alzava dal divano sudicio e le puliva il
vomito dalla faccia e dai capelli: la ragazzina tentò di ritrarsi e le piantò le
unghie nella schiena e nelle braccia ma lei la tenne ferma e sopportò senza
sottrarsi, considerandolo una giusta paga per la parte che aveva avuto nella
sua deflorazione; quando la sentì allentare la presa ed insinuare il collo
contro la sua spalla fu pronta ad accoglierla. Mentre piangeva le accarezzò i
capelli e la schiena facendola sedere sul tappeto, ed anche se non serviva a
nulla la cullò e le chiese scusa per quella cosa orribile di cui era stata
complice.
Poi, con un gesto che voleva essere solo pietoso, fece per asciugarle la
fessura della vagina con l’orlo della manica: la ragazza si scansò all’indietro
serrando all’istante le gambe e rialzando la testa, guardandola con occhi
improvvisamente asciutti e cattivi.
Fu in quel momento che Liza Stark, oltre al rimorso, provò anche paura.
“Non voglio farti ancora del male” disse, tirando fuori dal seno un
fazzoletto ricamato e allungando la mano verso di lei cercando di non
tremare.
Oh si, quegli occhi erano così simili a quelli di Cyllan, anche se mancava il
contorno di bistro nero: pienamente ed indiscutibilmente malvagi, così
lontani da quelli larghi di meraviglia con cui l’aveva guardata nemmeno
un’ora prima.
“Io prego, non guardarmi in questo modo…ho dovuto farlo, sono di loro
proprietà, lo capisci questo?”.
Per tutta risposta la ragazza le prese di mano il fazzoletto e si pulì con
uno strattone violento disegnando strisce rossastre sulla pelle tenera intorno
alle grandi labbra. Non abbassò lo sguardo nemmeno per un momento e
Liza Stark, che pure aveva esperienza della cattiveria del mondo e sapeva
come fronteggiarla, si sentì improvvisamente e totalmente indifesa.
238
Poi alla fine Cindy chinò gli occhi come se la carica di rabbia l’avesse
improvvisamente abbandonata, e riprese a piangere questa volta senza un
suono.
Dov’era lui? Perché non era lì? Perché non le aveva evitato quell’orrore?
“Non tornerà più, vero?” chiese guardandola dal basso in alto con uno
sguardo che in quel momento era soltanto triste: la donna, equivocando
quelle parole, scosse lentamente il capo.
“Tornerà. Lo fa sempre, anche se preferisce gli uomini a noi. Tornerà,
piccola mia, puoi soltanto abituarti all’idea”.
Decise che si sarebbe presa cura di lei perché in questo modo avrebbe
riparato almeno un poco.
Quando riprese un minimo di controllo la portò nella sua stanza salendo
al piano superiore attraverso uno dei passaggi dietro ai pannelli del muro,
quelli in cui prendevano posto gli uomini di Cyllan per controllare che le loro
preziose gallinelle dalle uova d’oro non venissero strapazzate troppo da
clienti particolarmente sadici o violenti.
Come sempre fuori della porta c’era la sua serva personale in attesa di
provvedere a qualsiasi sua necessità: anche quello era un dono del
protettore per le sue puttane di prima scelta. Dopo aver fatto distendere la
ragazzina sul suo letto la chiamò e le ordinò di portarle dell’acqua calda, che
arrivò puntuale nemmeno dieci minuti dopo dalle caldaie delle cucine.
Liza riempì lei stessa il bacile d’argento e vi versò dentro oli e profumi,
poi si spogliò a sua volta dell’abito ormai sporco di assenzio e vomito (non
che gliene fregasse qualcosa, in quel momento) ed esitò solo un attimo
prima di avvicinarsi alla ragazzina rannicchiata sulle coperte. Quando le
sfiorò la spalla lei trasalì e la donna ritrasse di scatto la mano come se
avesse toccato un ferro rovente.
“C’è…acqua calda e profumata, se credi” disse; lei si girò e per un attimo
temette che l’avrebbe nuovamente guardata con quegli occhi, ma per
fortuna non fu così. Era solo uno sguardo triste, neppure sorpreso dalla sua
nudità.
Si alzò, la cinse alla vita e lei si lasciò abbracciare, poi si immersero
entrambe nell’acqua calda e schiumosa; Cindy pianse ancora singhiozzando
disperatamente mentre l’ultima tensione trovava il suo sfogo, e questa volta
lei non si tirò più indietro ma la strinse forte e le disse che sarebbe andato
tutto bene. E mentre la stringeva la insaponò e la lavò con dolcezza
(sforzandosi di non pensare che lo stava facendo anche per renderla
presentabile per il suo prossimo incontro), e quando l’acqua iniziò a
raffreddarsi si risciacquarono ed uscirono tenendosi abbracciate nella
239
penombra profumata della mansarda; dopo averla asciugata la prostituta
mise sul letto uno dei suoi vestiti più belli perché lo indossasse quando si
sarebbe sentita pronta, ed avvertì il suo sguardo che la inseguiva mentre si
alzava per prendere da un cassetto del suo tavolino il rimedio alla probabile
maledizione di Cyllan.
Aye, se da uno stupro avrebbe anche potuto riprendersi quando avesse
accettato la realtà delle cose, quello invece non avrebbe mai potuto
sopportarlo. Nemmeno lei, né ognuna delle ragazze che aveva violentato
avrebbe potuto.
Quando la trovò si sedette a fianco della ragazzina e questa la guardò
con una punta di curiosità.
“Cos’è?”.
“Bambina” disse, “Tu sai che quando ad una donna succede quello che è
appena successo a te, dentro la pancia può iniziare a crescere un bambino,
si?”.
Cindy annuì.
“Pensavo di essere incinta del mio uomo, del mio sai” sussurrò e Liza
sollevò appena il sopracciglio sorpresa dalla rivelazione.
“Ma lui mi ha abbandonata”. La donna scosse il capo e le passò un
braccio intorno alle spalle.
“Gli uomini sono tutti quanti dei porci, bambina, e da noi vogliono soltanto
la nostra fessura per infilarvi il verme che gli Dei hanno fatto penzolare loro
fuori dal corpo. Hai già preso questo rimedio?” Lei scosse il capo.
“Aye, potresti essere sterile, o potrebbe esserlo stato lui; ma tu non vuoi
rischiare di avere un bambino da quel maiale di Cyllan, che sterile non è,
vero?”.
Senza attendere risposta Liza aprì la boccetta dell’olio di sabina, che
spanse immediatamente un odore untuoso e sgradevole, e ne versò la
quantità che l’esperienza gli diceva essere quella giusta in una pezzuola di
tela sottile.
“Puzza” disse e la donna annuì.
“Tu lo dici e dici il vero: ma devi metterlo dentro di te…laggiù” puntualizzò
“Perché può aiutare a scacciare il bambino dal tuo ventre”.
Altrimenti non ti rimane che l’aborto pensò. E per gli Dei, che almeno
questo ti sia risparmiato.
Cindy prese la pezzuola senza indagare sul contenuto e si coricò sul
letto; il contatto con l’olio freddo la fece sussultare mentre spingeva
delicatamente la pezzuola nel canale della vagina. Avvertì immediatamente
un lieve senso di bruciore là dove si era graffiata, e più all’interno dove
l’intrusione non era certo stata delicata.
240
“Brava piccola” si compiacque la donna quando lei ritirò fuori le dita.
“Puoi dormire fino a domani se ti va” concesse giocando con le ciocche dei
suoi capelli. “Alla sera arriva sempre qualcuno ma li riceverò al piano di sotto
e quando finirò starò attenta a non svegliarti”.
“Voglio andare via di qui” mugolò lei per tutta risposta, e la donna scosse
semplicemente il capo come farebbe una sorella maggiore verso i capricci
della minore.
“Non puoi, bambina; sei di loro proprietà adesso, e non puoi scappare. Ti
ucciderebbero se ci provassi, e tu non vuoi morire vero? Una ragazza
stupenda come te può ottenere molto in un posto come questo, oh si, e non
tutti gli uomini sono come quel maiale che ci possiede…”.
Cindy strinse gli occhi e premette la faccia contro il cuscino cercando
disperatamente rifugio. Perché c’era il suo volto davanti a lei? Lui l’aveva
dimenticata, non l’aveva protetta dall’orrore, non sarebbe tornato…e allora
perché il suo dannato volto sfolgorava nella sua mente come un faro?
Si staccò dal cuscino e per la seconda volta affondò il viso nel grembo
perfettamente piatto di quella donna che prima l’aveva tradita e che ora le
sembrava così simile ad una sorella, respirando il suo profumo buono
mentre le tornava voglia di piangere.
“Tu non mi abbandoni vero?”.
Lei la carezzò muovendo le dita tra i suoi capelli ora profumati dall’olio di
fiori, come talvolta faceva con le clienti che chiedevano la sua compagnia, e
sentì che il suo corpo reagiva con una piacevole sensazione di calore umido
all’inguine.
Si stupì tuttavia nel riconoscere che non era l’umidore artefatto ed
automatico che il suo mestiere richiedeva, né più né meno del pianto
comandato di una teatrante, quanto piuttosto qualcosa di pieno e vero;
farfalle nello stomaco, ci mise un attimo per agguantare la definizione e
quando ricordò il momento in cui aveva provato per la prima volta una
sensazione del genere, sette e più anni prima ad Hemphill, quando era
ancora una donna libera, arrossì violentemente e girò il volto prima di
rendere grazie alla semioscurità.
Si accorse solo in quel momento che il respiro si era fatto più affrettato, e
quando le raccolse al corpo avvertì un lieve tremito alle gambe: come una
ragazzina che abbia appena ricevuto un’occhiata dal giovane adone dei suoi
sogni, sicuro, ma Liza Stark non era più una ragazzina e certo avrebbe fatto
sorridere un imbarazzo come quello in una donna come lei.
“No bambina”. La accarezzò nuovamente tra i capelli ed il contatto
sembrò accenderle altre scintille dabbasso mentre il tremito si propagava
241
dalle gambe alla voce. “Io non sono un uomo e non ti lascerò. Tu starai con
me, io…io mi prenderò cura di te, se me lo permetterai”.
Liza strinse le cosce, le sfregò appena, e l’umidore esplose in una
cascata voluttuosa che colò in un rivolo all’interno delle gambe minacciando
di macchiare le lenzuola e la falda della gonna.
Dovette morsicarsi un labbro per sovrapporre dolore al piacere che
minacciava di scoppiare, e rese grazie di nuovo quando la sensazione se ne
abdò lasciandosi dietro un sentore di tumefazione calda.
Cindy si staccò di una frazione e le sorrise, e come liquido era uscito da
sotto ora uscì da sopra, più silenziosamente, e Liza non lo trattenne anche
se avrebbe dovuto rifarsi il trucco. Nay, non avrebbe mai e poi l’avrebbe
lasciata da sola nel tritacarne del bordello: si sarebbe presa cura di lei, le
avrebbe insegnato tutti i trucchi del mestiere e soprattutto l’avrebbe difesa,
perché la responsabilità di tutto quanto era sua.
“Va tutto bene?”. Accennò e tirò su col naso, di nuovo come se fosse
tornata ad essere una ragazzina a sua volta; la ragazzina di una volta, prima
di venire presa ed essere venduta proprio come era capitato a lei.
Cindy si appoggiò di nuovo a lei e Liza sussultò piano; dovette
controllarsi per evitare di ricominciare daccapo, ma non poté non stringerla e
cullarla di nuovo.
Non l’avrebbe lasciata sola, davanti a Dio, non lo avrebbe fatto: l’avrebbe
protetta, in qualsiasi modo le sarebbe stato possibile; e dal modo in cui
l’aveva desiderata, in modo così improvviso, inspiegabile e violento come
può esserlo soltanto un colpo di fulmine d’adolescente, poteva anche darsi
che col tempo diventassero amanti. Avrebbe potuto farle scordare l’orrore
degli stupri a pagamento dandole piacere in un modo più genuino e pulito,
ed anche quella sarebbe stata una sorta di riparazione.
Aye, oh si: poteva darsi che col tempo le permettesse di amarla, e quello
sarebbe stato bello invero.
2
La prima notte al bordello per Cindy fu anche l’ultima nella vita dell’uomo
che l’aveva venduta: perché il Ka è soltanto una ruota che gira e può anche
succedere che ti schiacci, mandando al diavolo le tue sacche di sangue ed
acqua, se ti butti troppo precipitosamente per afferrare le sue occasioni
Poche ruote fuori dalle mura di Taunton, Noah Chandler si allontanò in
silenzio dal carro di testa, fermo insieme agli altri per il bivacco; tutti i suoi
conducenti dormivano già della grossa, compresa Lana, intenta a fare la
242
guardia ai suoi forzieri su cui aveva lasciato un ultimo, lungo biglietto in
modo che tutti leggessero e capissero.
Solo la sentinella che aveva messo di guardia vegliava ligia al suo compito,
e quando lo riconobbe e gli chiese cosa fosse successo lui semplicemente
rispose che aveva voglia di una sigaretta in solitudine.
L’uomo si allontanò dal cerchio dei carri intorno al fuoco e quando giudicò
di essere abbastanza lontano si fermò. Anche in quel preciso istante
continuava a vedere il volto della ragazzina davanti ai suoi occhi: così dolce,
così bella, davanti a Dio così scopabile, che gli era valsa cinquemila denari
guadagnati senza fatica; affiorava dal buio delle palpebre chiuse o delle
ombre della notte e lo guardava, senza dire nulla, con occhi grandi e tristi.
Noah Chandler, che con i compari di bevute e di bordello si era sempre
vantato di avere tre dita di pelo sullo stomaco (quando non era impegnato a
salvare le apparenze di buon padre di famiglia) slacciò la pistola dalla cintola
ed armò il cane infilandosela subito dopo in bocca; assaporò per un attimo il
gusto di metallo e polvere nera e si chiese se era questo il sapore del luogo
in cui di lì a poco sarebbe precipitato.
Anche quello sarebbe stato preferibile al rimorso, a quella sensazione mai
provata prima, nemmeno quando aveva rubato, corrotto ed ucciso per
avvantaggiarsi sui suoi concorrenti. Perché di nefandezze ne aveva
compiute, e tante, ma mai qualcosa di così gratuitamente abietto.
L’uomo sospirò, poi premette il grilletto ed ebbe appena il tempo di
sentire la vampa dello sparo bruciargli la gola prima che ogni cosa si
interrompesse mentre il cervello veniva spappolato dalla palla di piombo da
110 grani.
Nel carro di testa Lana si svegliò improvvisamente e balzò fuori
abbaiando come una forsennata.
243
3
Cindy dormì nella camera di Liza, accoccolata al suo fianco, e quando il
sonno arrivò sognò di lui mentre in un altro luogo lui sognava di lei, perché
ormai tra le loro anime era stato teso un filo che in futuro poteva soltanto
rinforzarsi.
Vissero lo stesso sogno nello stesso istante, in luoghi diversi, e questa
non fu certo una coincidenza; ma a differenza di Jonas Cindy non ricordò
altro all’infuori del bacio che scambiò con lui, in sella nel sole febbrile del
tramonto. Tutto il resto, la desolazione, la città verticale, l’attacco degli orrori,
furono particolari indistinti che la sua mente si rifiutò di captare dopo quella
prima, somma soddisfazione.
Perché con una certezza in bilico tra il delirio ed il vero, da quel momento
in avanti seppe che lui sarebbe tornato e non le importò più di nient’altro.
4
Il mattino arrivò in fretta e Cindy si svegliò quasi all’alba, come era
abituata, coinvolgendo nella sua alzataccia anche la compagna di letto; la
prima cosa che le aveva mormorato prima di rituffarsi nel sonno era che lì
nessuno si alzava mai prima che il sole fosse ben alto, e allora lei aveva
fatto la brava rimettendosi nuovamente sotto le coperte in paziente attesa.
Liza si era tuttavia concessa solo un altro po’ di sonno e Cindy l’aveva
sentita scivolare via dal suo fianco proprio mentre stava per riassopirsi,
portandosi via quel profumo dolce e quella piacevole sensazione di calore
che l’avevano cullata e tranquillizzata per tutta la notte.
Quando si stiracchiò sbadigliando le tornò immediatamente il ricordo di
quello che era successo la sera prima: la violenza era ancora ben presente
nella sua mente (e come avrebbe potuto metterla da parte!), ma l’evento le
appariva stranamente lontano ed i suoi contorni erano indistinti, come se in
realtà fosse successo a qualcun altro. Si sentiva inspiegabilmente tranquilla,
come se avesse già accettato il fatto, anche se l’idea di ritrovarsi
nuovamente a dover soddisfare quell’uomo così orribile le rivoltava lo
stomaco.
Certamente era il sogno che aveva vissuto a confortarla, quella visione
che aveva scacciato d’incanto il dolore e la tristezza e smussato i contorni
della sua situazione: sarebbe stata solo questione di tempo, avrebbe
soltanto dovuto aspettare perché tutto si risolvesse da sé. Dunque, perché
essere tristi?
244
Cindy si puntellò sul materasso e vide la schiena color caffelatte della
prostituta allontanarsi verso un vestibolo protetto da alcune tende, poi sentì il
rumore di acqua che veniva versata in una brocca e lo sciaguattare delle
mani in un catino. Quando Liza tornò, pochi minuti dopo, il suo volto non
mostrava più traccia del trucco così pesante con cui l’aveva vista la sera
prima: adesso le labbra erano semplicemente rosa invece che rosso acceso,
e gli occhi non più gravati dall’ombretto apparivano svegli e penetranti, di un
verde scuro che le ricordò le fronde degli alberi di un bosco d’estate. Oh si,
così la donna-principessa era ancora più bella; le sorrise timidamente e lei
ricambiò il sorriso.
“Dormito bene, piccola sai? Qui si alzano tutti a mezzogiorno, e tu sei
così mattiniera, oh si”. La donna si distese nuovamente, nuda, al suo fianco.
“Non è stato un sogno, vero?” chiese ed il sorriso della prostituta si
accartocciò all’improvviso su sé stesso. Scosse il capo e Cindy le accarezzò
i capelli osando finalmente toccarla; lei provò a scostarsi fermandosi tuttavia
quasi subito, così la ragazza, dopo una breve esitazione, continuò il
movimento spostando le dita sulla sua guancia in un accenno di carezza.
“Io ti perdono” le disse, “Se davvero non avevi altra scelta. Ma non farà
più così male, vero?”.
La prostituta scosse il capo sorridendo e Cindy non poté non notare
come adesso fossero i suoi, di occhi, ad essersi inumiditi.
“Cyllan è un porco bastardo, ma non tutti gli uomini sono come lui. La
maggior parte ci rispetta per ciò che diamo loro” aggiunse, “E nessuno osa
farci violenza, perché qui ci sono altri uomini con le armi che ci proteggono”.
“Quando lui tornerà a prendermi si occuperà di noi, penserà a tutto; io gli
dirò che tu sei stata buona con me e lui ci libererà”.
“Lui chi?” indagò, e Cindy abbassò gli occhi allargando un po’ il suo
sorriso.
“Lui, il mio uomo, il mio sai. Lui ha la pistola e viene da Gilead, e non può
avermi abbandonata”.
“Piccola…”.
“Io so che non è così, lo so e basta!”.
Liza le prese le mani tra le sue stringendo forte.
“Bambina, io chiedo, parli di un pistolero?”. Cindy annuì e Liza ricambiò
la sua carezza come se servisse a convincerla che la sua non era altro che
una pia illusione.
“I pistoleri vengono qui, talvolta, ma ci prendono proprio come tutti”
continuò. “Hanno il solo pregio di pagare molto bene, ma per il resto sono
uguali a tutti gli altri”.
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A quel punto Cindy le appoggiò un dito sulle labbra e Liza smise
all’istante di parlare, nuovamente turbata da quell’atteggiamento.
“Lui non è come gli altri. Lui verrà per me” disse, con un piglio ed un tono
che la faceva sembrare realmente un’altra persona rispetto alla bambina
terrorizzata che aveva confortato solo poche ore prima. E Liza ne fu
spaventata.
“Non fare questi discorsi con nessuno” mise in guardia, evitando di
contraddirla perché sapeva che non sarebbe servito. “Non parlare così se
tieni a questo tuo sai o a te stessa”.
Cindy semplicemente tacque; poi dopo una pausa di qualche secondo,
come se il discorso di poco prima non fosse mai esistito le chiese: “Posso
darti un bacio?”
SI stupì lei stessa di quella richiesta che neppure seppe spiegarsi, se non
con un improvviso desiderio di dolcezza, e per un momento la donna non
seppe cosa rispondere. Poi passata la sorpresa le disse che certamente
poteva, se lo desiderava, e la ragazzina si sporse subito verso di lei
appoggiando le labbra alle sue e premendo il seno contro il suo petto. Liza
sentì l’eccitazione della sera precedente risvegliarsi come un rinnovato
umidore al sesso; ricambiò il bacio senza tuttavia insistere (anche se lo
desiderava) quando lei si staccò appena pochi secondi dopo.
“Grazie” disse, e nuovamente la donna non seppe cosa dire.
5
Rimasero distese fianco a fianco sul letto, dopo che lei le tolse la
pezzuola lavandola dall’appiccicume dell’olio di sabina, mentre da dietro le
imposte chiuse dell’abbaino la luminosità cresceva ed iniziavano ad udirsi i
rumori della città che si risvegliava: carri e carrettieri, passanti e coloni, la
stessa animazione che aveva visto arrivando sul carro del mercante; e
ripensando a lui, ugualmente Cindy non riuscì ad odiarlo: la strana
tranquillità che la pervadeva quella mattina fece in modo che anche a
quell’uomo si estendesse il suo perdono. Si augurò soltanto che stesse bene
e che potesse tornare presto dalla sua famiglia, se ne aveva una (senza
sapere che Noah Chandler non avrebbe mai potuto farlo).
Alla fine Liza si alzò di nuovo avvolgendosi in una vestaglia di seta gialla
e lei si sentì in dovere di tirarsi su a sua volta e rivestirsi con l’abito che le
aveva dato la sera precedente, una stupenda veste lunga di seta blu con
uno spacco vertiginoso che metteva in mostra le sue gambe ogniqualvolta
muoveva un passo. La vide prendere un sorso di un’altra strana medicina
dall’odore cattivo; quando chiese Liza disse che era tintura di semi di carota
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selvatica, serviva a tenere lontani i bambini dal ventre, e avrebbe dovuto
prenderla anche lei tutte le mattina.
“Meglio avere la bocca cattiva che la pancia piena” disse con un sorriso,
e Cindy si trovò decisamente d’accordo.
La mattinata passò lentamente e senza impegni poiché tutte le ragazze
del bordello lavoravano soltanto alla sera, o comunque mai prima del tardo
pomeriggio. Mentre la prostituta si rifaceva il trucco Cindy sentì qualcuno
bussare alla porta, e quando lei le disse di andare ad aprire si ritrovò davanti
una ragazzina forse anche più piccola di lei che teneva in mano un vassoio
con dei pani caldi, una caraffa fumante e dei bicchieri vuoti.
“Colazione” disse, glielo consegnò con un sorriso e poi se ne andò;
quando lo riportò dentro Liza le spiegò che quella era la loro serva, e che
averne una era un onore riservato a poche ragazze.
“Cortesia di quel maiale di Cyllan” sottolineò addentando un pane,
invitandola nel contempo a servirsi a sua volta. In quel momento lo stomaco
le borbottò indiscreto e lei si ricordò di essere a digiuno da quasi un giorno
intero.
Ne prese uno e diede timidamente un morso spalancando subito dopo gli
occhi: erano forse la cosa più buona che avesse mai mangiato, dolci,
fragranti e speziati, ed il latte bollente che riempiva la piccola caraffa era
l’accompagnamento ideale.
Mangiarono sul tavolino vicino al letto e quando finirono Liza prese il
vassoio e lo riconsegnò alla serva, che nel frattempo era riapparsa in attesa
silenziosa dietro la porta. Poi la donna uscì per un po’ e lei fu nuovamente
lasciata da sola, libera di esplorare con calma il luogo dove avrebbe dovuto
vivere.
La mansarda era molto ampia, con tende che scendevano dal soffitto e
dividevano l’ambiente in stanze separate e mobili di legno scuro e lucido
indubbiamente lussuosi; anche le pareti ed il pavimento erano coperti di
legno, ed oltre all’abbaino che si apriva sopra il letto ce n’era un altro nel
piccolo vestibolo dove Liza era andata a lavarsi. Quando la ragazzina vi si
diresse trovò che nella brocca accanto al lavabo c’era ancora un po’
d’acqua, poco importava se ormai era fredda, e ne approfittò per sciacquarsi
a sua volta il viso e le braccia; per il momento lasciò perdere le boccette dei
cosmetici e degli oli, che vide allineati in bella mostra su una mensola
accanto ad un appendiabiti con vari asciugamani: prima di usarli le avrebbe
chiesto il permesso ed era convinta che glielo avrebbe accordato.
Quando fu tornata vicino al letto decise che il passo successivo sarebbe
stato vedere cosa c’era fuori dalla stanza; oltre la porta trovò ad attenderla
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un corridoio ugualmente rivestito di legno con due porte che si aprivano sulla
parete opposta: da una di esse, proprio mentre si affacciava, vide uscire una
donna anch’essa giovane e bella come Liza, che le sfilò davanti rispondendo
al suo cenno di saluto con un’occhiata interrogativa prima di scomparire
nella rampa di scale che scendevano al piano inferiore all’estremità opposta
del corridoio.
E poi, proprio mentre stava per rientrare, vide arrivare dalla stessa
direzione un uomo vestito con una camicia bianca e dei pantaloni neri che si
mise a camminare lentamente lungo il corridoio. Questa volta Cindy si
ritrasse prudentemente all’interno lasciando la porta socchiusa e quando
l’uomo le passò davanti, accompagnato dal rumore cadenzato dei suoi passi
e da un odore estremamente acuto di profumo, non si fermò né si voltò a
guardare.
Al suo ritorno Liza le spiegò che gli uomini che vivevano lì erano i custodi
delle ragazze, ed alcuni di essi erano anche gli amanti di Cyllan (e al
pensiero che un uomo potesse amare un altro uomo provò un senso di forte
disgusto): portavano tutti delle armi e durante il loro lavoro avrebbero
guardato e sarebbero intervenuti per proteggerle se fosse stato necessario,
perché c’erano passaggi nascosti che permettevano di vedere cosa
succedeva nelle camere al primo piano e muoversi rapidamente nel
momento in cui fosse necessario.
Ed anche quando le ragazze volevano allontanarsi dalla casa durante le ore
di pausa dal lavoro, che comunque non era mai caotico durante la
settimana, la regola era che uno di loro fosse sempre presente e le
accompagnasse ovunque desiderassero andare. Semplicemente per
proteggerle, perché per ragazze belle come loro non era salutare andare in
giro da sole in mezzo ad un folken che non era certo composto soltanto dai
nobili e dai ricchi signori perbene che frequentavano abitualmente.
Ma mentre Liza parlava Cindy aveva già capito che non si trattava di
guardiani, bensì di carcerieri; e quando la donna al termine del suo discorso
le aveva rivolto un sorriso triste, forse per indurla ad accettare senza
discutere quello stato di cose, aveva annuito ricambiandolo perché era
chiaro che nemmeno lei credeva a ciò che stava dicendo.
6
Per tutto il resto del giorno le due donne rimasero chiuse nella stanza
perché verso mezzogiorno il tempo si guastò con un acquazzone che durò
fino a notte inoltrata. E durante quel breve tempo la più anziana iniziò ad
istruire la più giovane sul lavoro che avrebbe dovuto svolgere di lì in avanti.
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Per citare il modo di parlare dei vecchi, Liza tirò fuori davvero parecchi
conigli dal suo cappello: le insegnò a sorridere ed a guardare gli uomini dal
basso verso l’alto per farli sentire dominatori, che era la cosa a cui tenevano
di più; le fece vedere come doveva mettersi per lasciarli fare in modo da non
provare fastidio o dolore (la partecipazione sarebbe venuta dopo, quando
avesse imparato ad accettare quello che le stava succedendo); le disse che
avrebbe dovuto sempre mettere dentro di lei, prima di iniziare, una pezzuola
imbevuta con quell’olio appiccicaticcio e le mostrò dov’erano i sacchettini di
stoffa che avrebbe dovuto fare indossare ai clienti prima di dare inizio alle
danze (oltre a spiegargli senza troppi giri di parole cosa intendesse con la
parola ‘indossare’) per proteggersi al massimo dal pericolo di un bambino
indesiderato.
E come ultima cosa non mancò di attirare la sua attenzione sul fodero
nascosto dietro alla testata del letto, contenente un lungo stiletto dall’aria
appuntita.
“Puntaglielo alla gola se fa questioni, sicuro” le disse. “E graffia quel tanto
che basta per fargli capire che fai sul serio”.
Cindy non aveva risposto, allargando appena gli occhi alla vista dell’arma
e tornando tranquilla solo quando la donna l’aveva fatta sparire nuovamente
nel suo nascondiglio. Si era augurata vivamente che non ci fosse mai
bisogno di tirarla fuori.
Il suo primo cliente arrivò quella sera, un ragazzo che non doveva avere
molti anni più di quanti ne aveva lei: il genere di gatta da pelare, come le
disse in seguito Liza, che nessuna vuole prendersi perché uomini di quel
tipo sono incapaci e cincischioni e non c’è verso di divertirsi un po’ con loro.
E così il lavoro era stato rifilato all’ultima arrivata: per la verità Liza si era
anche offerta di occuparsene al suo posto ma lei non aveva accettato,
perché se di lì in avanti avesse dovuto fare quello (almeno per il momento,
almeno fino a quando Lui non fosse tornato) non c’era ragione di rimandare
il battesimo del fuoco.
Si stupì di non sentirsi nemmeno troppo disgustata all’idea che quello che
era successo con quell’uomo orribile di lì a poco si sarebbe ripetuto: avendo
accettato quello stato di cose, che sapeva in cuor suo essere soltanto
temporaneo, chiese soltanto a Gan che non fosse troppo spiacevole o
doloroso. Liza le strinse leggermente la mano e le regalò un sorriso
bianchissimo prima di ritirarsi dietro le tende a sorvegliare ed il rumore dei
passi affrettati lungo le scale le provocò soltanto una vaga fitta di ansia
mentre si avvicinava alla porta, splendida in quel suo vestito blu dallo
spacco vertiginoso, e la schiudeva sbirciando come lei le aveva detto di fare:
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era una cosa che eccitava gli uomini, le aveva spiegato, e farli arrivare già
eccitati avrebbe significato soltanto tirarla meno in lungo.
Lui non era Jonas e nemmeno ci assomigliava: più gracile e più brutto,
con i fianchi larghi ed un volto allungato sotto un pagliaio di capelli rossi e
lentiggini, le diede l’impressione di un cavallo trasformatosi bizzarramente in
un uomo e vestito per l’occasione con l’abito della festa; lo vide abbassare
gli occhi sulla soglia e quel semplice gesto bastò a mandare via l’ansia ed a
farla sentire improvvisamente più sicura di se.
“Entra, sai” disse, e per deciderlo meglio gli passò il braccio intorno al
suo trascinandolo nella mansarda quasi a forza. Il rumore della porta che si
richiudeva lo fece sussultare in un gesto che le strappò quasi una mezza
risata.
“Mio padre mi ha mandato qui” si affrettò a dire lui, sempre tenendo gli
occhi bassi, e lei si sentì in dovere di sollevarglielo con una carezza leggera;
non sembrava cattivo, non come l’uomo che l’aveva presa a forza facendole
così tanto male.
“Il tuo nome, sai?”.
“Josiah, ne faccio diciassette”. Accennò con un sorriso.
“Spogliati dunque, Josiah”. Lo disse in modo meccanico mettendo nella
voce quel poco calore che bastava ad evitare di far nascondere sai cavallo
sotto al letto.
“Facciamo ciò che tuo padre ti ha mandato a fare” concluse lasciando
scivolare le spalline del vestito oltre la curva delle spalle; la facilità con cui ci
riuscì, considerò mentre l’altro sgranava gli occhi e sembrava sul punto di
svenire, dava da pensare che il vestito fosse stato cucito apposta per quello.
Di sicuro era proprio così.
7
Come Liza le preannunciò fu rapido e nemmeno troppo spiacevole; dopo
la prima, terminata quasi subito in una specie di sbuffo, dovette offrirgli un
sorso di liquore e concedergli la rivincita: anche quella era la prassi, decisa
da Cyllan in persona, da tenere soprattutto con i più giovani (che
incidentalmente avevano padri molto ricchi alle spalle). Non si voleva certo
che qualcuno se ne andasse insoddisfatto, giusto?
Nella seconda sai cavallo se la cavò un po’ meglio ed ebbe perfino
l’ardire di strizzarle il seno; poi dopo i primi minuti di andirivieni fece come le
aveva mostrato Liza: lo strinse con le gambe dietro la schiena ed assecondò
il suo movimento, mettendo definitivamente (e quasi istantaneamente) la
parola fine a quella commala. Almeno fino al prossimo obolo.
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Sai cavallo se ne andò confuso e stralunato, con la camicia abbottonata a
salti, i capelli arruffati e qualche sbaffo di rossetto sulle guance, e lei lo
guardò sparire dietro la porta con un accenno di tristezza ed un vago senso
di insoddisfazione dentro, prima di alzarsi e andare a ripulirsi di nuovo con
movimenti meccanici che ebbe l’impressione di compiere su qualcun altro;
quando tornò in stanza lei era sul letto, il sorriso intonso là dove se lo
ricordava, e lei lo ricambiò appena sentendo un accenno di rossore salire
alle guance.
“Sei stata fantastica con quell’imbecille”. Liza le fece cenno di sedersi
vicino a lei.
“Ti ha fatto…”.
“Nay, non ho sentito nulla”. Ed era vero: a parte l’orrida sensazione di
appiccicaticcio, ma ci aveva pensato l’acqua della brocca a lavarla via, la
sensazione era stata anch’essa lontana. Come se stesse succedendo a
qualcun altro, anche se sul finire, quando lo aveva stretto per farlo
concludere, aveva avvertito un lieve fremito piacevole: niente di
paragonabile a ciò che le aveva regalato Lui, soltanto un fremito, una specie
di eco che le era rimasta dentro come una specie di tensione che il freddo
dell’acqua non era riuscita a cancellare.
“Quasi nulla” si corresse, nuovamente con una punta di imbarazzo, e il
sorriso di Liza si fece sornione.
“Col tempo sentirai, piccola sai”. Liza le passò il braccio intorno alle
spalle come a volerla confortare; Cindy appoggiò la testa al suo petto e di
nuovo la prostituta avvertì un principio inspiegabile di eccitazione bagnata.
“Tu…sei una donna così bella” mormorò passandole le dita tra le
ciocche; Cindy chiuse gli occhi e spinse assecondando il movimento, e
l’umido tra le cosce di Liza si rafforzò.
“Io non sono una donna…e non sono così bella” osservò; Liza chiuse gli
occhi e la carezzò ancora, e le bastò stringere un poco le gambe per
sussultare col respiro mozzato. Quando li riaprì lei la guardava, e il suo
sguardo così curioso, così innocente ebbe l’effetto di una giara di olio
rovesciata su un fuoco già vivido.
“Posso…posso toccarti piccola sai?”. Si rese conto che quella era una
supplica nel momento stesso in cui la pronunciava e Cindy allargò appena lo
sguardo senza capire; Liza fece scivolare verso l’alto la falda del vestito
prima che potesse fermarla, e la sfiorò in quel punto così sensibile proprio
all’apice della fessura. Schiacciò appena e Cindy si bloccò con le dita a
mezz’aria mente il bacino faceva uno scatto in avanti e la tensione nascosta
poco più all’interno si colorava dello stesso fremito gradevole che aveva
avvertito alla fine della commala con sai cavallo.
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Liza mugolò, ed anche questo non era uno dei gemiti finti che facevano
parte della sua recita coi clienti. Mosse le dita più rapidamente e Cindy
avvertì la fessura irrorarsi a sua volta di liquido mentre il bacino si muoveva
nuovamente in avanti seguendo il movimento.
“Tu rispondi bene” mormorò; la baciò all’angolo della bocca un attimo più
tardi mentre con l’altra mano la spingeva giù sul letto. Fece per parlare ma
quando la donna fece saettare la punta dell’indice dentro di lei tutto quello
che le uscì fu un mormorio strozzato mentre dal basso ventre saliva calore e
la peluria leggera delle braccia si rizzava dandole la sensazione di una
scarica elettrica. Avvertì la mano della donna sollevarla da sotto la schiena,
le sue braccia passarono dalla bocca al collo, le sentì succhiare lievemente
mentre si insinuava più in profondità dentro di lei e aumentava il ritmo;
gemette a bocca aperta ed artigliò il lenzuolo mentre le gambe si aprivano e
il bacino sussultava spingendo verso le sue dita.
Anche quella fu una conclusione rapida, in un inerpicarsi di respiri e urla lievi
e soffocate, e quando Liza uscì da lei vide, malgrado la penombra, che era
rossa come un peperone.
“Invoco il tuo perdono” sussurrò con una vocetta che la fece sembrare
realmente una sua coetanea.
“Ti ho…fatto male?”.
“Nay”. Cindy sorrise senza sapere bene come sentirsi, o cosa pensare.
Quando completò la frase arrossì a sua volta.
“È stato bello…è stato come con lui…”.
Un attimo dopo fu come se il sorriso gli venisse strappato di colpo dal
volto; sentì il fiotto di lacrime salire dalla gola già resa secca dall’eccitazione
e trovare sfogo senza che nemmeno provasse ad evitarlo. La abbracciò e
singhiozzò su di lei, e Liza la tenne stretta in bilico tra l’appagamento ed il
senso di colpa.
“Tra donne è differente, piccola sai” riuscì a dire alla fine, evitando per un
soffio di scoppiare a piangere a sua volta.
“Non è come con gli uomini. Non è adulterio” aggiunse, ed anche quella era
una parola che non aveva più usato da un sacco di tempo. Dalla sua vita
precedente si potrebbe dire.
”Sai che cosa è l’adulterio?”. Cindy tirò su col naso e la guardò accennando
piano, e quando provò a staccarsi la trattenne.
“Io invoco il tuo perdono…”.
Cindy scosse il capo.
“Non ce n’è bisogno, è…è come se lo avessi fatto da sola, vero?”.
Qualcuno bussò alla porta e le due donne sussultarono insieme; la voce di
un uomo gridò “Spettacolo!” con malagrazia ed una cadenza vagamente
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strascicata ed effemminata; Cindy e Liza si girarono all’unisono e Cindy si
immaginò l’uomo dall’altra parte della voce come un manichino dalla camicia
bianca, i calzoni neri, il volto rasato ed i capelli lucidi di pomata proprio come
quello che aveva sbirciato dalla porta quel mattino (ed infatti era proprio
così). Liza scostò le sue mani e le sorrise abbassando gli occhi.
“Vogliono me piccola sai; o almeno, qualche parte del mio corpo…”.
Cindy sorrise lievemente di rimando.
“Tornerai dopo, vero? Dormiremo insieme?”.
“Certo piccola sai…se vorrai…”. Il sorriso si fece più convinto mente il
bussare si ripeteva una seconda volta.
“Se ci sono altri…”.
“Li manderò su da te, e tu te la caverai benissimo” disse alzandosi dal
letto.
“Ricordati che io sono qui con te, lo sono sempre…e non me ne andrò mai,
la mia parola in pegno”.
Liza uscì in uno svolazzo color zafferano e Cindy rimase a guardare la
porta dalla penombra fino a quando nuovi passi affrettati ed arrestati di colpo
non la avvisarono che era arrivato dell’altro lavoro.
8
Da quella sera furono giorni sempre uguali che volarono via veloci, dove
gran parte del tempo era ozioso ed il lavoro giungeva nel tardo pomeriggio
senza interrompersi che a notte inoltrata: ebbe uomini giovani pieni di
imbarazzo, figli di possidenti che nessun’altra voleva prendersi la briga di
svezzare, e uomini meno giovani in cerca di svago dopo aver abbandonato
le mogli a teatro, in una sala da the o ad una partita a canasta con le
amiche. Tutti la trattarono bene, giovani o vecchi tutti furono delicati con lei
come se avessero paura di guastarla, lei, una bambina così piccola; e con
tutti il sesso che faceva era un gesto puramente meccanico, asensoriale il
più delle volte, che soltanto in alcuni casi (quando l’uomo di turno
assomigliava in qualche dettaglio troppo marcato a Lui) le portava fremiti
rapidi di piacere, che comunque non duravano mai troppo e la lasciavano
con un bruciante senso di colpa dentro.
E mentre il tempo passava iniziò perfino a farci l’abitudine, a quella sua
nuova gabbia dorata: imparò a sorridere prima e dopo mostrando falsa
soddisfazione e reprimendo l’eventuale disgusto, capì come lusingare, come
gemere, come muoversi nel modo necessario per compiacerli e farli
terminare il prima possibile; e poi a lavoro finalmente concluso si assopiva
nel letto della compagna in un torpore che durava fino all’alba, dove era
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ricorrente il sogno di lei che cavalcava nella luce del tramonto in una
desolazione di sabbia, strade, vetro e cemento accompagnata da tre
cavalieri in armi.
Era sempre la stessa visione che aveva avuto quella prima sera tra il
pianto e la disperazione, e fu forse il suo desiderio disperato a fare in modo
che la sua mente la rivivesse e vi indugiasse; e ad ogni nuova replica i
particolari si facevano più vividi: le ultime volte le sembrò addirittura di
sentire sulla pelle il calore malsano di quel sole così vecchio, così consunto,
e percepire intorno a sé l’odore delle bestie e del sudore, la polvere spessa
che le si appiccicava in gola ed il sentore, forse non più pericoloso ma
sicuramente poco salutare, di veleni antichi portati dal vento. Ma se pure il
sogno si faceva sempre più nitido riusciva sempre e comunque a distinguere
un volto soltanto, quando l’uomo che montava alla sua sinistra si affiancava
a lei e si tirava su il cappellaccio increspando in un sorriso labbra sottili e
crudeli tra cui era pizzicata una sigaretta accesa.
Quel cavaliere, quel principe decaduto era lui e nel sogno le diceva che
sarebbe andato tutto bene, che ogni cosa si sarebbe sistemata, che
avrebbero presto avuto cieli liberi e piste sconfinate a condurli verso grandi
destini.
Il bacio sanciva ogni volta il risveglio e le dava la forza per vivere il giorno
che iniziava senza rabbia né odio, con un atteggiamento di serena
accettazione e tranquilla rassegnazione: e Liza dal canto suo pensò che si
trattasse semplicemente di questo, rallegrandosi che la ragazzina non le
avesse dato problemi e continuando a farle da chioccia al meglio delle sue
possibilità.
Nel tempo che precedette la sua liberazione, che non vale la pena di
raccontare, le due donne divennero persino amanti proprio come la
prostituta aveva voluto fin dall’inizio, quando l’aveva desiderata con la forza
di un’infatuazione improvvisa ed a cui non aveva saputo né voluto dare
spiegazioni: era successo e basta, e se Cindy era disgustata all’idea di due
uomini che si amavano non lo era dalle attenzioni piacevoli che la compagna
di stanza le offriva sul grande letto nella penombra della mansarda, che
imparò presto a contraccambiare dopo il primo imbarazzo.
Fino a quando l’occasione non bussò alla sua porta; e naturalmente,
come era prescritto, lei si fece trovare pronta.
9
Successe quasi un mese più tardi.
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La serata era iniziata come tutte le altre: al primo calare precoce del buio il
bordello si era acceso di luci e colori, ancora più sfavillanti nella neve
leggera che aveva preso a cadere, profumandosi rapidamente delle
fragranze costose delle ragazze, e degli aromi di cibi e liquori serviti ai clienti
del ristorante a piano terra.
Come sempre Cindy aveva atteso che fosse Liza a portarle qualcosa in
camera, e quando la ragazza era uscita per andare ad intrattenere i clienti
nella sala da gioco lei si era distesa sul letto senza toccare cibo né
tantomeno liquore, avvolta in un abito a spacco che come gli altri mostrava
ad ogni passo generose porzioni delle sue gambe affusolate di ragazzina.
Tra poco sarebbero iniziati ad arrivare, come sempre. Dove sei?
Lo domandò, senza dubitare, e chiuse gli occhi quando il cuore accelerò
il battito con una insolita fitta d’urgenza.
Era da quando si era svegliata che se la sentiva addosso, quella strana e
inspiegabile inquietudine, dopo una notte in cui al suo solito Sogno si erano
mescolate visioni strane e confuse. Durante le ore del giorno, trascorso
come al solito nell’ozio, l’inquietudine si era trasformata in vero e proprio
nervosismo che aveva stupito tanto lei quanto la sua compagna di stanza
che non ricordava di aver visto altra animosità in lei oltre a quelle che
metteva nei loro amplessi femminili.
Per questo le aveva proposto di uscire insieme ma lei aveva rifiutato,
come faceva quasi sempre: da quando era al bordello aveva messo
raramente il naso fuori da quella stanza, se si escludevano le passeggiate in
città (sempre e comunque in compagnia di Liza e di uno degli uomini che
facevano loro da carcerieri). Per questo le altre avevano iniziato a chiamarla
“signorina principessina”, come le aveva detto Liza un giorno ridendo, ma
con loro lei non parlava perché non le piacevano gli sguardi così freddi e
cattivi che avevano.
A suo dire, comunque, non doveva preoccuparsi di quello.
“L’invidia parla e guarda per loro” aveva detto, “Perché la loro bellezza
sta sfiorendo mentre tu, che non bevi né fumi, rimarrai ancora bella per molti
anni”.
E infatti era vero: da quando era lì non aveva più assaggiato un sorso di
liquore, né preso il vizio del tabacco se pure in molte occasioni era stata
proprio la sua compagna ad offrirgliene. Non era giusto, non era ciò che suo
zio le aveva insegnato e non le andava di farlo anche se praticamente tutti lì
dentro lo facevano.
Si era tirata su dopo qualche minuto, il batticuore un poco placato in
favore di un accenno di fame, così aveva pizzicato qualche pezzetto di
carne dal piatto e lo stomaco si era svegliato del tutto mandando un
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brontolio molto poco femminile; il cibo era delizioso come al solito, e come al
solito non gli aveva fatto molto onore limitandosi a piluccarne qualche altro
boccone per poi berci sopra un bicchierone d’acqua: Liza diceva che era
utile per far dimagrire calmando la fame, e su quello si era trovata ben
presto d’accordo. Quanto all’arrosto, la loro servetta lo avrebbe nascosto in
un involto e portato a casa: aveva sorriso nel pensare che da quando era
arrivata lei, probabilmente molti nella sua miserabile famiglia avevano reso
grazie per la carne che aveva preso ad arrivare con regolarità.
Poi qualcuno aveva bussato alla porta e lei si era affrettata a nascondere
il piatto alla vista sul mobile della stanza da bagno.
Arrivano, come sempre. Dove sei?
Cindy aveva scostato le tende intorno al letto per creare la sua consueta
alcova di trasparenze colorate, lasciando aperto l’unico spiraglio proprio
nella direzione dell’ingresso, e quando il bussare si era ripetuto una seconda
volta si era tolta le scarpe scalciandole via nell’ombra ed aveva smorzato la
luce del lume.
Era andata ad aprire con calma, per finire, mentre il sorriso di timidezza e
sottomissione per cui si era esercitata tanto le era apparso spontaneamente
e senza sforzo sul viso.
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10
Jonas ed i suoi arrivarono a Taunton tre giorni dopo quel loro ultimo
conciliabolo e la città li inghiottì subito con la sua periferia brulicante, nella
confusione del folken e nello sporco delle strade di fango e dei tuguri di
mattoni anneriti addossati gli uni sugli altri. Presero alloggio in uno dei molti
saloon che si trovavano sulla Main Street oltre la cintura dei bassifondi, dove
le case iniziavano a farsi meno miserabili ed il fango e i rifiuti della strada
erano stati sostituiti da un acciottolato sconnesso e consumato.
Da quel momento Jonas passò quasi una intera settimana alla sua
ricerca, senza smettere un attimo ed allo stesso modo senza alcun risultato:
la cercò per le strade, tra le baracche, negli accampamenti improvvisati dove
dormivano i miserabili che non avevano nemmeno una catapecchia sulla
testa; chiese di lei nei saloon e nelle cantine della città bassa, e su consiglio
di Calavera tenne d’occhio per quanto possibile i bordelli popolari, perché
era molto probabile che una ragazza venuta in città da sola potesse essere
finita nelle maglie di quelle reti.
Ma non trovò alcuna traccia ed i giorni passarono rapidi, almeno fino a
quando il Ka non diede nuovamente un buffetto a quel suo servo così
dedicato mettendolo nuovamente in carreggiata.
Nella città avevano iniziato a comparire i feticci delle Messi mentre il
tempo si faceva sempre più grigio e freddo: pupazzi di paglia e stracci con
una croce di bastoni per corpo, vecchi guanti dipinti di rosso per mani ed un
sacco riempito di fieno e foglie secche per testa su cui erano disegnate con
rozzi segni di carbone le espressioni più strane. Sarebbero spuntati come
funghi mentre gli ultimi giorni dell’anno si avvicendavano rapidi ed alla fine
tutte le case ne avrebbero avuti molteplici, appesi come impiccati sopra
l’architrave della porta, oppure messi a sedere contro gli stipiti, o ancora
posizionati su balconi e terrazzi. Sotto la luce colorata delle lanterne di carta
sarebbero poi finiti tutti quanti nei falò per la festa di Finedanno, di lì a
nemmeno tre settimane, a ricordo di tempi in cui invece di spauracchi si
bruciavano vive persone scelte a sorte.
Quando era rientrato al calare del sole, dopo un’altra giornata di
perlustrazioni inutili, aveva trovato alcuni uomini intenti ad addobbare a quel
modo anche la sala comune; non sentendosi troppo in animo di festa si era
seduto ad un tavolo ed aveva preso la fiasca dalla bisaccia cercando di non
pensare che presto i suoi compagni avrebbero iniziato a scalpitare perché si
lasciassero alle spalle un posto dove il terreno scottava ancora sotto i loro
piedi.
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Bevve una sorsata. Che se ne andassero affanculo, se desideravano: la
profezia non si sarebbe realizzata ma lui non avrebbe rinunciato a cercarla.
Diede un secondo sorso con la stessa rapidità del primo raggiungendo
finalmente il fondo; affanculo anche il Ka, se pure non fosse stato
soddisfatto non avrebbe comunque rinunciato a lei.
Si era innamorato; senza che nemmeno se ne accorgesse, era successo,
e considerarlo gli provocò un altro strappo di frustrazione che lo indusse a
riempirsi un terzo bicchiere.
In quel momento alcuni degli uomini che stavano cercando di legare un
fantoccio proprio sopra l’architrave della porta a battenti se lo lasciarono
sfuggire e lo spauracchio cadde giù mancando di misura un vecchio che
stava passando e che fu rapido a scansarsi ed a riempirli di insulti; gli altri
contraccambiarono di tutto cuore mentre Jonas si alzava per andare a farsi
fare il pieno.
Arrivarono al banco nello stesso istante ed il barista salutò l’uomo come se
si conoscessero passando al ragazzo una bottiglia di whisky di grano senza
che questi la chiedesse, e ricevendone il pagamento senza nemmeno
guardarlo.
“Hai degli incapaci a lavorare per te, sicuro!” abbaiò il vecchio in una
cadenza acuta e strascicata ed il taverniere sogghignò mostrando denti neri;
asciugò un bicchiere con uno straccio sporco e glielo mise davanti
riempiendolo di sciacquabudella.
“Bevici su, Lazy” sentenziò e l’altro non se lo fece ripetere.
“Porti sempre la tua frutta piena di vermi al bordello?” chiese quando si fu
dissetato, ed il vecchio per tutta risposta lo guardò storto sputando di lato nel
recipiente ai piedi del banco.
“La mia frutta non ha i vermi, brutto fi-fi-figlio di puttana!” biascicò
sventagliando saliva. “Piace alle ragazze e quelle mi vogliono bene”.
Questa volta l’oste sghignazzò direttamente riempiendoglielo di nuovo.
“E magari te lo succhiano per quanto ti vogliono bene, si?”.
“Oh no, oh no” si affrettò a rispondere. “Ho una moglie a casa che mi
aspetta…e poi non ho abbastanza soldi per loro!”.
“Pane per i denti dei signori” lo compatì il locandiere, ed il vecchio che
aveva chiamato Lazy annuì facendo ondeggiare il liquore nel bicchiere e
bevendo questa volta con più calma.
“La mia frutta con i vermi…i vermi!” borbottò scuotendo il capo. “C’era
una fichetta che non avevo mai visto, con i capelli colore del fieno, e che
occhi ha fatto quando le ho regalato una mela tutta per lei…”.
Lo scappellotto del Ka arrivò nel modo più tradizionale ed inaspettato
possibile; a quell’ultimo biascichio Jonas girò il capo di una frazione verso il
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contadino, che tuttavia non sembrò nemmeno accorgersene: riprese
semplicemente a parlare da solo, visto che anche il taverniere si era
spostato all’altro capo del banco per versare da bere ad un gruppo di uomini
appena entrati.
“Nuove ragazze, non ne arrivavano da mesi…così giovane e bella, quella
piccola, oh si: mi ha baciato sulla guancia e me l’ha fatto drizzare, se vuoi
saperlo, davanti a Dio!”.
Jonas si sentì crescere dentro una sensazione di strana ed inspiegabile
ansia. Possibile che stesse parlando di Lei?
“Ehi, amico” lo chiamò senza pensarci, quello si girò squadrandolo con
occhi semichiusi in mezzo ad una foresta di rughe e peli bianchi di barba.
Prima che potesse dire qualcosa abbassò la bottiglia e gli versò altro liquore
nel bicchiere, e da socchiusi che erano gli occhi si fecero subito aperti ed
attenti.
“Parla ancora di questa ragazza, vuoi? Dove l’hai vista?”. Il vecchio prese
il bicchiere e lo scolò con gesto fulmineo, quasi temendo che ci ripensasse e
tornasse a svuotarlo nella bottiglia; soffocò un rutto ed un singhiozzo, si
leccò le labbra e le distese in un sorriso.
“Oh si, questo è diverso da quello che beve il vecchio Lazy…molto più
buono, giovane sai, molto più buono”.
“Ne avrai ancora se parlerai”. Jonas gli prese il bicchiere e lo riempì di
nuovo, ma prima che l’altro potesse ghermirlo fu rapido a passarselo nella
mano sinistra allontanandolo dalla sua portata.
“Non vuoi dare un altro goccio al vecchio Lazy, sai così gentile?” Il
giovane scosse il capo.
“Chi è la ragazza di cui parlavi?”.
“Una puttana di lusso”. Il contadino scrollò le spalle contrariato dal rifiuto.
“Al bordello dei signori, che forse è posto per te ma non certo per
me…posso averne ancora un po’?”.
Jonas sogghignò muovendogli il bicchiere davanti agli occhi prima di
allontanarlo di nuovo; il vecchio lo seguì con lo sguardo come ipnotizzato.
“Dove lo trovo questo posto?”.
“Su…su alla città alta, dove stanno i ricchi, dove c’è anche la luce nelle
strade”.
Il vecchio fece uno scongiuro.
“Tubi pieni di luce e demoni, non sono cose buone” bofonchiò. “Segui la
strada e ci arrivi, è in una piazza, non si sbaglia”.
Jonas sorrise ed appoggiò il bicchiere vicino al vecchio, bottiglia
compresa, e questi spalancò stupefatto la bocca sdentata: forse era troppo
sperare in una tale benevolenza del destino, ma se le ciance di quello
259
spaventapasseri lo avessero sul serio portato da lei si sentiva pronto a
regalargliene dieci. Anzi, lo avrebbe fatto affogare nel fottuto alcol, la sua
parola in pegno.
“Io non sono della città, ma tu portami lì e stasera potrai bere alla mia
salute”.
11
Non ci volle molto per arrivare sul posto: dopo aver nascosto la bottiglia
nella sella del suo asino il vecchio contadino lo guidò spedito e lui tenne
dietro senza chiedere altro, la sua ansia trasformata in urgenza bruciante; i
due uomini seguirono la Main Street tra case che si facevano a poco a poco
più signorili, su un lastricato di pietre larghe e ben tenute, ed una decina di
minuti dopo sbucarono in una piccola piazzetta il cui lato di fondo era
occupato dalla facciata di un palazzo a due piani con un grande portone
aperto che dava su un cortile interno.
“Il bordello dei ricchi” sentenziò. “Aye, beato te che puoi andarci giovane
sai…”. Jonas mosse in circolo la mano senza neanche voltarsi: vide alcune
carrozze parcheggiate fuori, e torce e bracieri che ardevano nello spiazzo
antistante mescolando la loro luce calda a quella più tenue e fredda dei
lampioni di focaria piantati su tutto il perimetro della piazza.
Si avvicinò costeggiando la piazza di lato ed il vecchio lo seguì come un
cagnolino nella speranza forse di scroccare qualcos’altro. Prima di
scantonare in un vicolo Jonas vide alcuni gruppi di ragazze molto ben vestite
che si intrattenevano con uomini dall’aria ugualmente facoltosa (e
naturalmente la cercò senza trovarla, mentre il cuore prendeva a battergli
più forte), sotto lo sguardo vigile di due guardiani che piantonavano entrambi
i lati del grande portale d’ingresso. Nuovamente al riparo il vecchio gli rivolse
un secondo sorriso sdentato e pestilente, e Jonas cominciò ad averne
abbastanza di lui: pur di levarselo dai piedi gli fece scivolare qualche moneta
d’argento in mano e quello fu lesto a farle sparire nella scarsella
benedicendo il nome di suo padre mentre si allontanava per la stessa strada
da cui erano venuti.
Lui dal canto suo si incamminò, più lentamente, solo dopo aver dato una
seconda occhiata furtiva allo spiazzo del postribolo ed essersi nuovamente
soffermato a cercarla.
Il mattino dopo era di nuovo nella piazzetta prima che il sole fosse alto
nel cielo, e rimase a bighellonare nelle vicinanze per tutta la mattinata
tenendo d’occhio il palazzo e cercando allo stesso tempo di farsi notare il
260
meno possibile specialmente dai piccoli drappelli della milizia che aveva già
incrociato la sera precedente (ma che comunque non l’avevano dissuaso dal
suo proposito). Quando alla fine la vide uscire sul fare del mezzogiorno,
accompagnata da una donna più grande di lei e da un uomo vestito come i
due guardiani al cancello, ebbe finalmente una conferma liberatoria a tutte le
aspettative accumulate in settimane di incertezza.
Nel riconoscerla sentì il cuore battergli più forte nel petto e nelle tempie;
guardò e rese disperatamente grazie mentre le due donne e l’uomo
attraversavano rapidamente la piazza puntando verso una delle viuzze della
città alta, e quando lei si girò a guardare per un attimo nella sua direzione
Jonas cullò l’idea, peraltro impossibile, che lo avesse visto e riconosciuto.
Si staccò dal muro soltanto quando furono tutti e tre fuori vista, eccitato e
frastornato come non ricordava di essersi mai sentito prima, accaldato come
se avesse la febbre malgrado l’aria fosse gelida; i suoi piedi trovarono la
strada del ritorno quasi inconsciamente e non sarebbe neppure del tutto
sbagliato dire che lo fecero fluttuando a qualche centimetro dall’acciottolato.
12
Qualche ora più tardi, profumato e pettinato come un damerino Jonas
non si riconosceva nemmeno più nell’immagine che gli restituivano i
numerosi specchi nell’androne del bordello. Sentendosi a disagio guardò
ancora una volta verso la donna dietro la scrivania di legno e lei gli rivolse
un sorriso così finto che pensava che da un momento all’altro le si sarebbe
staccato frantumandosi a terra.
In attesa del suo turno da pochi minuti appena, già non ce la faceva più a
dominarsi.
Prese la sacchetta del tabacco e si preparò una sigaretta e quel gesto
bastò a qualificarlo come un pesce fuor d’acqua, malgrado i vestiti puliti ed i
capelli lavati di fresco, in un posto dove chi fumava si portava dietro l’odore
dei costosi sigari alla vaniglia. A Gilead c’erano bordelli come quelli, ed
aveva la sensazione che più salisse il rango e meno le donne al loro interno
fossero felici. Ed era per questo si sentiva in colpa perché sapeva che il
destino di Cindy era stato una conseguenza, se pure necessaria, delle sue
azioni.
Ma era pronto a rimediare: era tornato perché anche questo era un
passaggio necessario, ed era pronto a riprendersela come un dinh che
raduna il suo ka-tet; e poi sarebbero stati cieli liberi per entrambi nell’attesa
che il disegno del Ka continuasse a svolgersi.
261
Jonas attese e fumò il suo tabacco, rispondendo con sorrisi strafottenti
alle occhiate di chi preferiva l’aroma della vaniglia ed aveva vestiti molto più
costosi dei suoi. Fosse stato per lui avrebbe scelto ben altra risoluzione per
riaverla.
Quel pomeriggio era tornato indietro in uno stato di euforia che lo
rendeva incapace di pensare ad altro che a lei; aveva trovato i compagni ad
oziare nella loro stanza al piano superiore del saloon, ed aveva detto di
averla finalmente trovata mentre già si stava allacciando le pistole ai fianchi
per andare a riprendersela a suon di piombo.
L’avevano guardato straniti e proprio mentre si stava fiondando di nuovo
fuori dalla stanza Louis aveva chiesto che cosa avesse in mente di fare: la
domanda l’aveva bloccato mentre la maniglia era già a metà corsa, lui
l’aveva mollata e per tutta risposta lui si era stretto nelle spalle.
No, non lo sapeva ma nemmeno gli interessava perché in quel momento,
dopo giorni di ricerche, non voleva ragionare e perdersi in piani e congetture
ma soltanto andare da lei e liberarla. Calavera aveva scosso il capo
osservando a sua volta che quando un uomo si mette a ragionare con il
cuore (o con l’uccello, che spesso e volentieri sono la stessa cosa) invece
che con la testa, allora è davvero pronto per la collina degli stivali.
“Le ragazze di bordello sono schiave che fruttano molto denaro ai loro
padroni” aveva detto; lui aveva annuito in risposta perché lo sapeva bene,
perché ne era stato frequentatore, a Gilead, anche se i suoi posti erano stati
più sordidi che lussuosi. Le manie bellicose avevano iniziato ad
abbandonarlo mentre l’altro lo redarguiva.
“E se lo sai, giovane idiota, pensi che te la lascino prendere e portar via
così? A loro non frega niente se il tuo cazzo la rivuole” aveva aggiunto, ed a
questo punto Louis era scoppiato a ridere.
“E nemmeno puoi entrare e metterti a sparare in giro, perché ho visto fior di
sbirri in circolazione ed io non voglio consumare le mie cartucce per
combattere le tue guerre. Magari il tuo compare lo farebbe, non io”.
A quel punto Jonas aveva annuito docilmente e Louis gli aveva passato il
braccio intorno alle spalle.
“Oui, io lo farei frère, ma questa volta ha ragione lui. Possono esserci
altre vie per risolvere una situazione come questa”.
Definitivamente frenato aveva richiuso la porta e si era seduto sul letto.
“Dunque?”.
“Inizia a darti una ripulita ed entra dalla porta d’ingresso senza fare
casino, proprio come un cliente in cerca di una scopata: e poi improvvisa,
dannazione, sei un pistolero no? I fulmini di guerra di Gilead non sono
262
stupidi, se la sanno sempre cavare”. L’uomo aveva sorriso e Jonas in
risposta aveva sfoderato il dito medio trasformando il sogghigno in risata;
non aveva ritenuto di dover specificare che lui non era un pistolero, ma
quell’approccio sarebbe forse stato preferibile alla sua prima pensata, che
consisteva tanto per cominciare nello riempire di piombo i due guardiani al
portone.
Dopo essere andato a farsi prestare il mastello dal locandiere, dietro
pagamento del dovuto sovrapprezzo, aveva quindi seguito il consiglio
dell’uomo dandosi una bella lavata per poi rivestirsi con gli abiti puliti di
ricambio; e mentre si sistemava Louis e Calavera erano usciti dopo essersi
fatti indirizzare verso il bordello, per una rapida perlustrazione che li vide di
ritorno quando la sera era già calata ed aveva ripreso a nevicare.
Era seguito un breve conciliabolo, dopodiché, dopo aver bevuto un’ultima
volta, i tre uomini erano usciti dal saloon confondendosi nell’animazione
iniziale della sera arrivando sul retro del bordello per vie separate, al riparo
di quella nevicata provvidenziale che aveva indotto la gente a tenere ben
chiuse le finestre delle case ed a restarsene rintanata.
Si erano salutati un’ultima volta al riparo dei vicoli poi Jonas si era avviato
col cuore in gola ed una sola pistola addosso, smontata nelle sue parti
principali ed accuratamente nascosta tra le tasche e le fodere degli
indumenti.
L’androne della casa di piacere lo aveva accolto col suo lusso di marmi,
specchi ed ottoni scintillanti alla luce elettrica degli splendidi lampadari di
cristallo e delle più piccole luci a conchiglia sulle pareti.
Aveva notato subito la presenza di quegli uomini vestiti di pantaloni neri e
camicie bianche aggirarsi con calma tra i frequentatori e le ragazze: alcuni si
mostravano tranquillamente, di altri la sua vista allenata aveva colto il
movimento dietro porte socchiuse e tende. Anche se non vide fondine
appese non significava che non ce ne fossero, e in caso di fuochi d’artificio
quelli sarebbero stati elementi di cui tener conto.
Cercando di darsi un contegno si era avvicinato ad una lunga scrivania di
legno lucido davanti alla quale c’erano alcuni uomini e dietro, splendida
come tutte le altre, una giovane donna dall’aria indaffarata. Al suo turno
chiese semplicemente di Cindy (e non poté fare a meno di abbassare lo
sguardo, imbarazzato, pure se di bordelli ne aveva frequentati parecchi!) e la
donna aveva annuito indicandogli, senza dire nulla, un tariffario appeso alla
parete: a quanto pare la sua bella costava cinquanta monete al colpo e sul
momento, mentre pagava senza dire nulla, non aveva saputo se sentirsi più
mortificato o sbalordito.
263
La donna gli aveva poi consigliato, forse cogliendo il suo imbarazzo, di bere
qualcosa nell’attesa ma lui aveva declinato gentilmente l’offerta preferendo
rimanere a ciondolare e fumare nell’androne fino a quando, in modo
ugualmente discreto, lei non lo aveva chiamato di nuovo indicandogli una
scalinata dai gradini di marmo che saliva al piano superiore.
“La prima camera alla tua destra, giovane sai, all’ultimo piano” aveva
detto ammiccando; lui le aveva borbottato qualcosa di inintelligibile, rosso
come un peperone, fiondandosi subito dopo verso gli scalini mentre lo
stomaco si contraeva in un groppo improvviso.
Pochi passi più tardi era già arrivato.
13
Cindy vide Jonas senza naturalmente riconoscerlo e lo accolse come
aveva accolto tutti gli altri, abbassando il capo e facendosi da parte nella
camera buia e profumata. Jonas vide Cindy ed il cuore, che già batteva forte
nelle tempie, gli schizzò in gola dandogli la sensazione di voler saltare fuori
da un momento all’altro. Quando si tirò indietro per farlo passare lui la prese
per mano fermandola e lei fu docile ad ubbidire.
Non disse nulla continuando semplicemente a guardarlo, sempre
sorridendo in quel modo così maledettamente finto, ed ebbe appena un
accenno di curiosità quando lo vide passarsi la mano libera intorno al collo
per slacciare il ciondolo.
Un attimo dopo il sorriso sparì e la ragazza mollò la presa arretrando di
scatto, inciampando nel tappeto pregiato e finendo lunga e distesa sul letto.
Toccò a lui sorridere dopo aver richiuso alle sue spalle la sottile porta di
legno.
14
Si fermò ma lei si ritrasse ancora, annaspando tra le coperte con gli occhi
sgranati prima che la testata del letto frenasse la sua corsa.
Rimasero a guardarsi per una manciata di secondi, completamente
immobili ed in silenzio, poi Jonas si appoggiò sul bordo del materasso e
gattonò verso di lei.
“Well, Cindy is a little gal” canticchiò. “She lives away down south…”.
Lei lo guardò con occhi che non seppe dire se fossero più terrorizzati o
stupefatti.
“Non mi dire che non la conosci” incalzò distendendo un braccio in
avanti, e lei dopo un’ultima esitazione gli prese le dita.
264
“She is so sweet the honeybees…swarm around her mouth”. Jonas
sorrise annuendo.
“Me l’ha insegnata zio Rufus quando ero piccola, perché lei si chiama
come me…”.
Lui si sporse in avanti verso di lei, piano, come se stesse avvicinando un
animale selvatico pronto a scappare al primo accenno di pericolo.
“So che lui non è più, la tua perdita è una mia perdita. Mi dispiace”.
Vide il suo labbro tremare ed un attimo dopo se la ritrovò tra le braccia,
quasi sbalzato indietro dal suo slancio. La tenne stretta mentre piangeva
carezzandole i capelli, e quando lei si staccò da lui, col trucco trasformato in
una maschera di colature verdi e nere, le asciugò premurosamente gli occhi
con il bordo della manica.
“E mi dispiace se ti ho fatta aspettare così tanto” aggiunse, ma lei scosse
il capo e gli appoggiò la punta del dito sulle labbra mentre lo spingeva
delicatamente giù sulle lenzuola.
“Sapevo che saresti tornato, quando ho smesso di dubitare di te. Ed ho
aspettato volentieri”.
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Si baciarono come fidanzati ritrovati dopo troppo tempo. Si carezzarono e
gli abiti scivolarono via come era giusto che fosse; fecero l’amore tra i
profumi della stanza e fu come nella radura del bosco: all’apice del piacere
lei gridò nell’estasi il suo nome, più e più volte, e la seconda parte della
profezia fu finalmente compiuta.
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Indugiando nel rilassamento del dopo, mentre le sensazioni li
abbandonavano né Jonas ne Cindy si accorsero che Liza era rientrata;
vedendo la sua amante giacere con un uomo la donna aveva ben pensato di
non disturbare infilandosi nel vestibolo del lavabo per rifarsi il trucco e
concedendosi, subito dopo, un po’ di respiro sul divano prima dello
spettacolo che di lì ad una mezzora l’avrebbe vista mostrare tette, culo e fica
sul palco della sala da gioco a piano terra.
Mentre lei si risposava, nell’alcova del letto i due si alzarono ancora
abbracciati e la prima cosa che Jonas le disse fu che l’avrebbe portata
immediatamente via da quel luogo.
“Tu cavalcherai con me se vorrai” le disse, lei annuì e lo strinse. Quando
poi lui iniziò a rivestirsi lei rialzò il lume ed uscì scostando le tende ma non
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degnò nemmeno più di uno sguardo l’abito con lo spacco preferendo andare
alla cassapanca ed aprirla, ritrovandovi ordinatamente lavati e piegati gli
abiti da uomo che le aveva dato il mercante: aveva chiesto a Liza, il giorno
dopo la violenza, di farglieli sistemare proprio in previsione di quel momento.
Iniziò a vestirsi senza che il sorriso le abbandonasse il volto, e quando sentì
rumore alle sue spalle non si girò nemmeno convinta che fosse lui.
“Credi che andrà bene per cavalcare?” disse, poi non ricevendo risposta
si girò e fu soltanto lieve la sorpresa nel vedere, invece del suo sai, la
compagna di stanza ferma immobile a squadrarla confusa.
“Cindy, cosa stai facendo?”.
Ebbe appena un moto di stupore nel vedere che non era lui, poi le sorrise
con occhi luccicanti.
“È arrivato e ora mi porterà via” disse piano, la donna si avvicinò
guardandola come se fosse improvvisamente impazzita.
“Chi è arrivato ragazza mia?”. La guardò senza capire; poi si ricordò
improvvisamente di quelle parole pronunciate settimane prima, e della fede
che lei aveva mostrato nel rinunciarle e che l’aveva messa così a disagio. La
donna si girò con uno scatto allarmato proprio mentre le molle del letto
cigolavano piano tradendo il movimento di qualcuno. Riuscì a malapena a
trattenere un grido di sorpresa quando si vide davanti un ragazzo alto e
magro, seminascosto nella penombra della camera e con tutta l’aria di esser
pronto a saltarle addosso.
Cindy le appoggiò una mano sulla spalla ed il nuovo contatto la fece
trasalire.
“Lui è venuto per me, te l’ho detto che sarebbe venuto” ripeté.
“Tu non puoi portarla via” disse, e pur non riuscendo a vedere gli occhi
del giovane non gli sfuggì in quel momento l’incresparsi delle sue labbra.
Sorrideva, ma era un sorriso cattivo.
“Ho fatto molta strada per lei, è parte del mio ka-tet” rispose e nel tono
c’era la stessa fede che aveva sentito nel parlare della ragazzina. Liza si
sentì improvvisamente presa in ostaggio da due fanatici.
“Io sono suo e lei è mia. Andremo via insieme”.
“Signore, ci sono uomini con il coltello là fuori” mormorò cercando di
mostrarsi conciliante. “Io non voglio mettermi fra te e lei, ma anche se sei un
pistolero non ti lasceranno fare molta strada…”.
Jonas le fece segno di avvicinarsi e le due donne ubbidirono. Il ragazzo
alzò il lume e spazzò col dorso della mano i ninnoli dal comò per poi tirar
fuori dalle tasche del mantello e del farsetto le parti smontate della pistola ed
i sottili strumenti con cui l’avrebbe rimontata. La donna sbiancò in volto.
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“Non desidero spedire nessuno nella radura alla fine del sentiero”
continuò mentre le sue dita si muovevano sicure e rapide avvitando viti e
regolando meccanismi. “Ma tu sarai la prima se mi darai problemi”.
E Liza, che non voleva certamente dare problemi ad un pistolero, lasciò che
le gambe cedessero accovacciandosi sul letto mentre il sorriso le era tornato
sul volto come un cagnolino obbediente e rassegnato.
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Lei stessa chiese a Jonas di legarla ed imbavagliarla, dopo che questi
ebbe barricato la porta della stanza con la cassettiera.
“Io prego, se hanno anche soltanto il sospetto che vi ho aiutati mi
uccideranno” disse, e lui non ebbe problemi nell’accontentarla. Mentre Cindy
annodava insieme le lenzuola del letto per ricavarne una corda con cui
calarsi lui fece a pezzi il vestito con lo spacco e le legò, per la verità piuttosto
blandamente, i polsi dopo averla fatta sedere in un angolo.
“Abbine cura” disse soltanto, prima che lui le chiudesse le bocca con una
striscia di tessuto, e Jonas annuì senza ricambiare al suo sorriso teso. Poi
qualcuno bussò alla porta e come se l’avesse aspettato Cindy spalancò la
finestra, ed il vento riversò all’interno un turbine di nevischio mentre gettava
al di là del davanzale la corda di canovacci
La vide scomparire oltre il bordo ed il capo della corda improvvisata che
avevano legato ai piedi del letto si tese dando piccoli strappi mentre la
ragazzina si calava giù. Il bussare alla porta si fece sentire di nuovo, più
forte e nervoso.
“Liza, va tutto bene?”.
Secondi dopo la corda diede un ultimo strappo e poi si rilassò; Jonas
sollevò la pistola nella posizione della guardia, poi si avvolse il lenzuolo
penzolante intorno all’avambraccio libero e scavalcò a sua volta il davanzale
mentre il bussare tornava a farsi sentire una terza volta.
Sentì la porta traballare sotto i colpi quando non era nemmeno a metà
della discesa e mentre si fermava a fianco di una finestra illuminata del terzo
piano, da cui provenivano voci e musica, poté quasi vedere la cassettiera
scostarsi trascinando con sé il tappeto.
Nella sua mente l’uomo che era appena entrato, di certo vestito con una
camicia bianca e dei pantaloni neri, si stava guardando intorno e forse
avrebbe perso qualche secondo cercando di capire cosa stava succedendo.
Poi avrebbe visto la donna legata ed imbavagliata (che peraltro aveva
davvero fatto la brava, ed era contento di non averla dovuta accoppare) o
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forse direttamente la corda tesa legata al piede del letto. Si calò oltre la
finestra nella bolla di oscurità appena sottostante, incespicando sui mattoni
resi viscidi dall’acqua mentre la fretta gli faceva mettere il piede in fallo;
cercò di non pensare che avrebbe potuto tagliarla direttamente, perché farsi
prendere dal panico non lo avrebbe reso più veloce. Confidò invece che la
curiosità lo vincesse e riprese a scendere più cautamente, gli occhi e la
pistola puntati verso il riquadro luminoso poco più in alto.
Quando vide una sagoma scura affacciarsi non ebbe esitazioni a
premere il grilletto ed il boato, nel silenzio ovattato della neve che cadeva,
sembrò ancora più fragoroso; la sagoma dall’uomo cadde all’indietro e lui si
infilò la pistola nella cintola, soddisfatto di aver lasciato la propria firma, poi
impugnò la corda con due mani e si lasciò scivolare giù senza più cercare di
essere discreto.
Qualche secondo dopo atterrò sul selciato e alzò di nuovo la testa: vide altre
sagome affacciate alla finestra mentre altre iniziavano ad aprirsi e sparò
nuovamente alcuni colpi senza prendere la mira. Vide i curiosi ritrarsi e tanto
gli bastava.
Poi iniziò a correre ed accanto a lui corse lei, ed i due si scambiarono un
sorriso mentre l’oscurità dei vicoli li inghiottiva e le voci, dall’alto delle
finestre del bordello, si facevano alte e concitate.
268
18
C’era una volta uno scartato, un esiliato che aveva appena iniziato a
riforgiare il suo destino e la credenza di esservi in qualche modo vincolato,
di non potersi sottrarre in alcun modo al suo dovere lo rese piuttosto
efficiente nel porre le premesse per gli eventi che sarebbero seguiti negli
anni. Si era dimenticato il giovane che a qualsiasi corso di eventi, anche se
ci sembra così predeterminato, ci si può sempre opporre se davvero lo si
vuole: lui non lo fece mai, e per quella sua dedizione così forte molti
avrebbero pianto ed altrettanti avrebbero reso grazie.
Quella notte, tra il freddo e la neve delle foreste a quaranta ruote da
Taunton, il ka-tet di Eldred Jonas dormì mentre il cacciatore di taglie, che
non ne era parte (né avrebbe mai potuto esserlo) vegliava su di loro; nel
sonno i tre cavalcarono ancora nel tramonto e nelle rovine di quella contrada
lontana mentre la Prima Rossa li chiamava per l’ultima volta a contezza dal
suo nido di ferro e cemento nelle desolazioni del Vecchio Mondo.
Era una voce a cui non si poteva rimanere sordi, e dopo quell’ultima notte
non vi fu più bisogno di inviare ancora quel messaggio: i semi avevano
ormai attecchito saldi e la curva li avrebbe attratti come un radiofaro, senza
dare loro né riposo né requie, fino a quando non l’avessero trovata e liberata
per dare finalmente avvio all’ultimo ciclo del Medio-Mondo.
19
Il Sentiero del Vettore scorreva da Ovest verso Est come un fiume
invisibile e magnetico che piega gli alberi e gli steli d’erba, orienta le colline
ed induce le nuvole a incanalarsi nel cielo anche se non c’è vento. La
Grande Via lo seguiva passo dopo passo, ruota dopo ruota attraversando i
feudi dell’Affiliazione nelle Baronie Centrali e Jonas scelse istintivamente di
muoversi lungo questa direzione seppure ne esistessero di più sicure per chi
non volesse correre il rischio di essere trovato dalla giustizia del Bianco.
A Sud-Est, a molte centinaia di ruote di distanza da Nuova Canaan, già
ben oltre i confini dell’Arco Interno, li attendeva la regione della Cressia di
cui Garland era capitale; Jonas dubitava che avrebbero trovato ciò che
cercavano in quel luogo, che fosse quella la desolazione mostrata dalla
contezza, ma al tempo stesso sentiva, con la certezza della fede e
dell’abbandono, che la via era giusta e che a tempo debito ogni cosa
sarebbe stata rivelata.
Brea e Cambria scivolarono lentamente sotto gli zoccoli dei loro cavalli
nelle ultime settimane dell’anno vecchio e nelle prime del nuovo e la Luna
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Regina, che inaugurava il nuovo calendario, li sorprese alle propaggini del
deserto contaminato che alcuni chiamano piana di vetro. E nel tempo che
impiegarono per compiere il loro viaggio l’ultima prova che li attendeva in
quelle regioni del mondo era già stata abbondantemente preparata.
270
Sommario
Prologo – La battaglia di Paddyfield ..................................................... 3 Pistoleri! .............................................................................................. 20 Colpo di mano ..................................................................................... 73 Piombo (ovvero: dove eravamo rimasti?) ........................................ 101 Il rito del passaggio ........................................................................... 137 Dell’Amore e di altri demoni............................................................. 199 Cindy Oldman ................................................................................... 236 271
Parte III
Il Ka-tet si raduna Commala come-sappiamo
noi siamo molti, noi siamo uno.
Il sole in faccia lungo il Vettore,
il volere del Ka noi vogliamo seguire!
1 2 Prologo – Verso la Piana
3 4 1
Prima che il mondo andasse avanti la civiltà che lo popolava aveva
raggiunto il suo apice di progresso e tracotanza: la cuspide che prima o poi
giunge nella storia di ogni popolo e che lo induce a divenire da operoso a
indolente, da lungimirante a scialacquatore, da illuminato a decadente.
C’erano due continenti nel mondo di un tempo, vediamoli ora e vediamoli
molto bene, popolati da genti della stessa stirpe che nei millenni si era divisa
prendendo strade divergenti: nell’uno gli uomini erano consumati dal
desiderio di denaro e profitto ed avevano costruito città estese per decine di
miglia in altezza e profondità, dalle altitudini della stratosfera agli abissi neri
del mare e della terra, prima di spiccare il volo verso le stelle nel tentativo
inutile di appagare la loro fame di materia ed energia.
Nell’altro, per contro, c’era religione e conservazione: e pur non resistendo
alla lusinga di costruire per mostrare a sé stessi quale e quanta fosse la loro
civilizzazione, gli uomini che lo abitavano si erano moderati perché il freno
del dio e del suo compiacimento è da sempre una delle migliori strategie di
autocontrollo.
Mentre nel primo continente le città non avevano nome, gigantesche
megalopoli che travalicavano mari e montagne, nel secondo, morigerato e
conservatore, ve ne erano solamente dodici e ciascuna era costruita dove le
linee di forza del mondo confluivano nei Sentieri del Vettore.
Lud, la Città della Tartaruga, fu la prima e la più grande, e negli eventi che
verranno farà la sua parte nel cammino di un altro ka-tet con i suoi fantasmi
folli ed avidi di indovinelli; e Zaia, la Città del Pesce, fu l’ultima, incastonata
come una sentinella tra valli e colline sulle coste di quello che oggi chiamano
Mare Orientale. Quando il mondo andò avanti e le civiltà dei due continenti
si volsero l’una contro l’altra annientandosi a vicenda nella forgia della
guerra, come Lud e le altre la città di Zaia si ridusse a null’altro che una
distesa di rovine al centro di una pianura velenosa che molto tempo dopo,
agli albori dell’Era di Eld, prese il nome di Piana di Vetro.
Oggi, a migliaia di anni di distanza da quei fatti di distruzione, la Piana è
un bubbone infetto incastonato tra l’Arco Interno e la regione costiera della
Cressia; le piste della nuova civiltà medievale, che ha diviso il continente
nelle regioni dell’Entro-Mondo, del Medio-Mondo e del Fuori-Mondo, evitano
come la peste le sue desolazioni avvelenate sobbarcandosi deviazioni di
centinaia di ruote pur di non calcare terre dove l’aria porta in bocca il sapore
del piombo e la pelle inizia a sanguinare ed a staccarsi senza alcuna
5 ragione. Terre di demoni, le chiamano, terre di spiriti adirati, perché quando
la scienza è andata quasi del tutto perduta gli effetti dell’inquinamento
radiochimico non possono che essere equiparate alla manifestazione della
malevolenza degli Dei e dei loro figli minori.
Eppure, anche se le ere sono passate, la natura non ha mai abbandonato le
regioni della Piana: il creato è forte, si dice, e la vita trova sempre una
strada.
2
La Piana di Vetro inizia molto prima della città vera e propria: ai suoi
margini, tra distese di erba verdastra alta quanto un uomo e boschi che
assumono appena i colori della contaminazione radioattiva, le vie
carovaniere sono attraversate da branchi di animali mutanti che le genti
dell’entroterra non si fanno scrupolo nel cacciare, perché chi ha molta fame
nello stomaco e terra avara sotto i piedi non disdegna la carne neppure
quando questa è fibrosa e costellata di tumori.
Cervi, caprioli e cavalli selvatici con zampe e teste in sovrannumero, e
tuttavia sufficientemente fertili da poter perpetuare le loro specie, diventano
da avvistamenti rari ad inquietante normalità non appena si devia di qualche
decina di ruote e ci si addentra nelle regioni più esterne della Piana; e se il
desiderio di esplorare è sufficiente, procedendo si arriva ben presto a luoghi
dove i boschi si fanno fitti e scuri ed i tronchi, dalle inequivocabili sfumature
blu, viola e rosse, si curvano e si torcono come candele sciolte luccicando
debolmente di notte e dando l’impressione di muoversi anche se non c’è
vento.
Gli animali in questi luoghi sono numerosi, stupidi ed aggressivi,
nascendo e morendo in un ecosistema chiuso che la forza della vita ha
ricreato secolo dopo secolo, modificando sé stessa ed adattandosi
all’inquinamento causato dalla stupidità umana: insetti volanti grossi come
polli, bisonti a due teste, linci albine ed orsi mannari si predano nel loro ciclo
della vita ben lontani dall’espansione dei coloni che non si spingerebbero in
queste regioni nemmeno se glielo ordinasse l’Eld in persona.
Se poi ci si sposta ancora verso la costa e si ascendono le prime colline
la nausea inizia a stringere lo stomaco e l’aria pizzica sulla pelle del volto
quando il vento che soffia dal mare investe la terra col suo carico di veleni
antichi e per nulla inerti. Poco oltre si arriva ai bordi della conca, dove la
boscaglia si dirada come i capelli sulla testa di un vecchio ed il suolo
6 abbandona il suo colore verde brillante per assumere una gamma di tonalità
di grigio e giallo ugualmente innaturali; sui crinali digradanti delle prime
alture i piedi iniziano ad affondare nelle polveri pesanti che una volta
facevano parte dei trecento milioni di abitanti di Zaia, e la vista cattura i
bagliori delle placche di terreno vetrificato in prossimità di crateri ancora
lontani dove migliaia di anni prima le testate nucleari si sono abbattute come
piccoli soli maledetti.
La città si offre allo sguardo degli esploratori in tutto il suo magnifico,
grandioso orrore all’orizzonte, oltre l’ultima linea di colli, tra nebbie, vapori e
ceneri continuamente sollevate e rimescolate dal vento: l’occhio coglie il
luccichio dei vetri e delle travi di acciaio inossidabile, distingue appena le
forme dei grattacieli e delle arcologie crollate e la fitta rete di strade e ponti
dove nel mondo-che-era correvano carri privi di cavalli e treni intelligenti. Poi
la foschia si alza e si dipana come un sipario e la mente viene assalita,
atterrita dallo spettacolo di una devastazione grigia senza limite, immobile,
estesa fino a dove l’occhio può correre a testimonio silenzioso del punto al
quale può spingersi l’uomo nella sua brama di annientamento.
Qui di solito la mente cede ed il povero esploratore che si è spinto tanto
avanti torna sui suoi passi correndo ed urlando: se avrà fortuna (e non farà
troppo rumore) riguadagnerà le propaggini della Piana e seguirà la pista
delle carovane fino a sbattere nel primo villaggio con saloon, dove si
ubriacherà e contribuirà col suo racconto confuso ad alimentare la trama di
favole e leggende cresciute negli anni intorno alla città fantasma di Zaia.
Eppure, se il viaggiatore avesse esplorato con maggiore attenzione i
boschi colorati avrebbe forse colto l’indizio di una presenza nascosta a
rendere meno alieno un luogo così terribile. Una presenza quasi familiare,
se così si può dire: resti di fuochi di bivacco ed involucri di plastica
contenenti cibo, nella curiosa maniera di conservare che avevano gli Antichi,
oppure tracce malamente cancellate di piedi e zoccoli bifidi, oppure ancora
pezzi di una corazza che ha ceduto, frammenti della suola di uno scarpone,
frecce di ferro spuntate e nei casi più rari bossoli di sparasvelto esplosi di
fresco.
Perché le regioni della Piana di Vetro non sono disabitate, è vero, ma il
ritorno della vita non si è certo limitato solo a quella animale.
7 3
Cindy sollevò l’arco di un palmo ed incoccò la freccia tendendo il nerbo
con un lieve scricchiolio, Jonas sorrise e le abbassò il gomito che sporgeva
troppo all’infuori. La ragazza prese la mira con calma puntando il cervo
mutante in cerca di cibo tra la neve della piccola radura; poi, forse per avere
un appoggio più saldo nel tiro, raccolse a sé le gambe ed il movimento la
tradì con un sommesso crocchiare di neve.
Oltre i grovigli di malaspina, a meno di quaranta passi dalla boscaglia in cui
si erano nascosti, il cervo drizzò la testa di scatto e fece fremere le orecchie
guardando nella loro direzione con due paia d’occhi ugualmente confusi:
Jonas seppe che di lì a qualche secondo sarebbe nuovamente scomparso
nella forra e mirò di sinistro a braccio disteso.
Un attimo dopo Cindy mollò le dita ed il manto dell’animale si arrossò
improvvisamente poco sotto al muso mentre la freccia si conficcava di
striscio; proprio mentre si voltava e spiccava il salto Jonas fece fuoco in
rapida successione ed il cervo franò scompostamente oltre la parete di
cespugli innevati, colpito forse già mortalmente al ventre ed ai quarti
posteriori.
Nel momento in cui si fiondava fuori e la ragazza lo seguiva a ruota non poté
fare a meno di sorridere nuovamente: malgrado gli errori veniali la sua
pupilla imparava presto e bene.
Ritrovarono il cervo dopo poco seguendo la scia di sangue e rami
spezzati, agonizzante ai margini di una piccola macchia di betulle; Jonas
attese che anche lei fosse da presso, poi si avvicinò e nel notare che
l’animale era ancora vivo il sorriso di poco prima si trasformò in un ghigno
crudele.
“Finiscilo” disse, Cindy si mise l’arco a tracolla e strinse le mani intorno
all’impugnatura del coltello: anche quello era un’eredità di Mandy, come la
sella, il giaciglio e soprattutto le pistole che tuttavia non aveva ancora il
permesso di usare. Per queste ultime, Jonas temeva ci sarebbe andato
ancora un po’.
La vide esitare mentre il cervo, vitale come soltanto un mutante può
esserlo, scalciò nella neve arrossata di sangue trascinando penosamente le
zampe posteriori nel tentativo di rimettersi in piedi.
“Joy, io…”.
Jonas serrò le labbra.
8 “Fai in modo che non debba ripeterlo”.
Cindy si morsicò il labbro, sfoderò il coltello e si avvicinò titubante.
Quando fu china accanto al collo del cervo l’animale soffiò dalle narici e con
uno sforzo supremo si rialzò sulle ginocchia; lo vide sferrare una cornata ed
un attimo dopo il coltello e la ragazzina volarono all’indietro in uno schizzo di
sangue.
Deluso Jonas sparò un’ultima volta e la testa del mutante andò in pezzi
come un melone maturo, l’eco dello scoppio stranamente attutito dalle volte
innevate della foresta.
Poi mise via l’arma e si avvicinò con calma.
Fortunata ragazzina considerò, mentre la tirava su e lei si abbarbicava al
suo torace. Fortunata bambina, un occhio avrebbe potuto rimettercelo di
sicuro; e adesso, con ogni probabilità sarebbe stato necessario cucire quel
brutto strappo che buttava sangue e che ad occhio era arrivato fino all’osso.
Almeno non piangeva, ed era già qualcosa.
“Scusami” mormorò. “Invoco il tuo perdono Joy, avrei dovuto…”.
“Fare come ti ho detto, senza menare il cane in giro per l’aia; io avrei
risparmiato un colpo e tu del dolore”.
Jonas scostò il suo volto e guardò preoccupato la ferita, distendendo
tuttavia l’espressione quasi subito: niente osso a nudo e neppure la Vena
del Giorno, che corre all’interno del braccio e va dritta al cuore, era stata
toccata. Soltanto pelle e carne in una ferita che appariva ben più superficiale
di quanto non fosse sembrata.
Fortunata bambina.
Le arrotolò la manica strappata fin sopra il taglio, poi prese una benda
dalla bisaccia e la fasciò più strettamente che poté, e per tutta la durata delle
operazioni lei ebbe il buonsenso di non gemere: almeno quella lezione
l’aveva appresa. Dopodiché, mentre Cindy lo guardava senza osare
muoversi, recuperò la freccia e recise la testa in poltiglia dall’estremità del
collo lasciando che il sangue spurgasse fuori meglio che poteva.
Quando decise che era abbastanza lo sventrò e tirò fuori le viscere, poi si
issò la carcassa in spalla e per finire tornò dalla ragazzina ancora ferma
come una statua.
Era stato troppo prodigo di buoni giudizi, prima.
“Ora stammi vicino, io prego, perché intendo tornare al campo e non
voglio perdere tempo a cercarti se ti perdi”.
9 Jonas sospirò mentre si avviava: si dispiaceva per averla maltrattata ma
quello era l’unico modo che conosceva, eredità di Fardo, per essere sicuro
di farla imparare dai suoi errori.
4
Avevano allestito il campo vicino ad una piccola cresta rocciosa che si
alzava dall’intrico della selva come un dente solitario e consumato. Calavera
non c’era, era andato in avanscoperta per cercare di ritrovare la pista che
avevano perso due giorni prima, e Louis li stava aspettando vicino al piccolo
fuoco che erano riusciti ad accendere presso la parete. Aveva il fucile di
traverso in grembo e la sua solita faccia di pietra ebbe appena un guizzo nel
sentirli uscire dalla boscaglia; perlomeno stava attento rifletté, mentre si
faceva scivolare giù dalle spalle la carcassa del cervo ed il compagno si
avvicinava per iniziare a scorticarlo dal collo, come gli aveva mostrato su
prede più piccole.
Anche lui tuttavia non faceva un buon lavoro; nel vederlo armeggiare
maldestramente con la cotenna fece per parlare, per ripetere ancora la
lezione come dovrebbe fare un buon maestro ma all’ultimo si bloccò e
decise di lasciarlo cuocere nel suo brodo finché non capisse e si
correggesse da solo. Si avvicinò al fuoco e tese le mani, e quando si girò
nuovamente vide Cindy che se ne stava in piedi, ferma immobile senza dire
una parola. Le fece cenno di sedersi con lui.
“Invoco il tuo perdono” disse, lei si accoccolò e le appoggiò la testa sulla
spalla.
“Però l’ho preso” mormorò, Jonas annuì.
“E se non avessi fatto rumore quella freccia gli sarebbe finita dritta nel
gozzo, sicuro”. Sorrise e lei ricambiò timidamente.
“Non ti ho rimproverata per questo, perché anch’io non sono infallibile
nello sparare, nessuno lo è. Aye, ciò che non hai fatto e che invece dovevi
fare…”.
“Avrei dovuto ucciderlo subito e con attenzione” lo interruppe parlando
tutto di un fiato; Jonas annuì accennando piano.
“E perché non l’hai fatto?”.
Cindy attese qualche attimo prima di rispondere.
“Perché mi faceva pena” disse alla fine, e come se non si aspettasse una
risposta diversa da questa Jonas distese il suo sorriso senza guardarla.
10 “La pena è un compagno di viaggio pericoloso almeno quanto
l’avventatezza, e credimi se ti dico che lo so. Se hai pena di qualcuno o
qualcosa” aggiunse, “Nessuno ti dice che quel qualcosa, o quel qualcuno,
ne avranno a loro volta per te”.
Cindy tacque abbassando un poco gli occhi.
“Se spari ad un uomo o ad un animale devi farlo con l’intenzione di
andare fino in fondo. Se ti fermi a mezza via ti metti in pericolo, mi capisci?”.
La ragazza annuì.
“Senti dolore a quel braccio?”. Scosse il capo.
“Mi dovrai…cucire?”.
Di nuovo fu tentato di risponderle che si, avrebbe dovuto farlo, se non
altro per darle modo di confrontarsi con qualcosa che presto o tardi sarebbe
dovuto venire. Invece negò a sua volta e le carezzò la guancia.
“Non credo sia necessario, non è così profonda come pensavo; ma ci
vorrà un po’ prima che tu guarisca”. Vide chiaramente la sua espressione
distendersi.
Si alzò mentre Louis, con uno strappo sanguinolento, metteva a nudo le
costole del cervo e riprendeva a lavorare di coltello.
“Tu mi vuoi bene?”.
La domanda lo bloccò proprio quando aveva deciso di andare a dargli
manforte per evitare che sprecasse tutto.
“Certo che te ne voglio” rispose, ad una questione che in quelle
settimane di viaggio lei gli aveva rivolto sempre più spesso. Le sorrise e si
chinò a baciarla sulla bocca, e quando si staccò da lei vide che era sul punto
di piangere.
“Non trattarmi più così, io prego…”.
Aye, e tu non darmene più motivo, si?
“Cercherò di non assomigliare troppo al mio vecchio maestro. Lo sai? Lui
mi colpì con la sua sferza, quando mancai il mio bersaglio durante la
caccia…mi frustò davanti a tutti gli altri per umiliarmi”. La ragazzina allargò
gli occhi mentre lui sentiva un fremito di collera risvegliarsi.
“A Gilead si usa così, con botte ed insulti, perché secondo gli istitutori
solo così i giovani apprendono; io…invoco il tuo perdono” disse
nuovamente, lei si accontentò di poggiargli un dito sulle labbra ed un bacetto
sulla guancia.
Mangiarono un cervo arrosto dalla carne troppo dura e fibrosa, e
Calavera li raggiunse nel bel mezzo del banchetto uscendo come uno
11 spettro dalla boscaglia senza quasi che Jonas l’avesse sentito arrivare.
L’uomo salutò con un cenno le tre paia d’occhi che lo seguivano, si piazzò
vicino al fuoco ed afferrò una costola sfrigolante iniziando a rosicchiarla col
fare di un grosso cane affamato.
“Hai trovato la strada?”. L’uomo annuì mentre strappava un lembo di
cotenna, lo biascicava e sputava di lato ciò che ne rimaneva.
Da due giorni a quella parte le piste che avevano seguito nell’allontanarsi
dall’Arco Interno sembravano essere scivolate via da sotto i loro piedi come
se il magnetismo del Vettore, anche in quel momento visibile negli steli
d’erba schiacciati a terra, nei tronchi percettibilmente piegati e nelle nuvole
che si sfilacciavano senza vento nel cielo notturno li avesse dirottati di
proposito. Ma era sempre più sicuro che, piste o meno, fosse proprio quella
e nessun’altra la direzione che dovevano prendere.
Erano passate settimane, almeno cinque, forse di più: la legge aveva
steso le sue reti ma loro erano riusciti a sgusciare in mezzo alle maglie
nascondendosi, passando il più possibile inosservati, viaggiando lentamente
nelle terre di nessuno in compagnia di fame, freddo e stanchezza mentre le
acque si calmavano ed i volti di Jonas e Calavera avevano iniziato a sbiadire
dagli avvisi di taglia e dai ricordi dei cacciatori meno tenaci (e lui non poteva
non pensare che ci fosse qualcosa a proteggerli e ad assisterli, al di là della
semplice buona sorte).
E adesso tutti quanti sentivano di essere sul punto di farcela: perché la
Cressia non poteva certo essere ancora lontana, e laggiù la stretta
dell’Affiliazione era debole ed inefficace.
Ma era proprio lì, in fin dei conti, che lui voleva andare?
“C’è una pista che attraversa, di là” indicò agitando la costola spolpata
verso il varco di un sentiero che scompariva sotto la volta scura degli alberi.
“Se la seguiamo da qualche parte arriveremo”.
“Non hai idea di dove siamo”. L’uomo sogghignò e scosse la testa.
“Pazienta giovane, ritroverò la mia memoria per strada. Ti ho detto che ti
avrei portato in Cressia, no? Ed in Cressia arriveremo, dico io”.
Jonas, Louis e Cindy si scambiarono un’occhiata.
Dalla notte dell’ultimo sogno, da quando cioè, Jonas aveva spiegato,
erano andati a contezza, tra loro era nata una strana complicità da cui
Calavera era stato escluso.
Tutte le questioni erano state messe da parte, le incomprensioni tacitate, le
perplessità accettate con qualcosa di molto simile all’atto di fede per
12 concentrarsi solo ed esclusivamente sulla via, perché tutti e tre sentivano
che era quella la cosa giusta da fare.
In due seguivano, si poteva dire, ed il terzo apriva la strada in attesa di
divenire quarto. Proprio come in un vero ka-tet.
L’uomo smise di sorridere e li guardò confuso.
“Non ha importanza in fondo” disse Jonas alla fine, sottolineando
l’osservazione con un’alzata di spalle. “Acqua sarà se Dio lo vorrà”.
Sentì Cindy che gli stringeva la mano, vide Louis accennare un sorriso;
seppe che, si, sarebbe andato tutto bene perché non poteva andare
altrimenti: e se anche quella strada non li avesse portati dove dovevano
andare ce ne sarebbe stata un’altra da prendere, e poi un’altra, e poi un’altra
ancora fino a giungere all’ultimo sentiero oltre il quale li attendevano i loro
destini gloriosi.
Nel vedere il loro sguardo d’intesa Calavera bofonchiò qualcosa di
incomprensibile a proposito di Manni e fanatici, gettando nel fuoco la costola
rosicchiata e servendosi di un altro pezzo. Jonas non lo ascoltò, e nemmeno
chiese altro perché in quel momento altro non gli interessava sapere.
5
La città, primo centro abitato che vedevano dopo una settimana di
vagabondaggi nel nulla, fece capolino oltre una piccola collina a metà del
giorno seguente quando la macchia aveva iniziato a diradarsi per lasciare
brevemente il posto a pianure ondulate e sassose. Secondo Calavera, che,
complici le indicazioni sulle pietre miliari, sembrava aver finalmente ritrovato
la sua memoria, il posto si chiamava Eastcross ed era ben diverso dai buchi
fangosi vicino a cui erano passati nelle settimane precedenti.
“Un posto di scambio e di confine” aveva detto. “La frontiera dell’Arco
Interno, per chi da peso a queste cose”.
L’uomo aveva indicato i nastri scuri delle vie lastricate che, oltre la città,
si diramavano come vene verso Sud ed Est.
“Una varrà l’altra, ma non siamo ancora fuori dai guai”. Jonas annuì; era
vero: senz’altro gli echi di tutto ciò che avevano combinato a Nuova Canaan
era giunto fino a quel luogo, e con tutta probabilità non si erano ancora
spenti.
A valle della collina si separarono: mandarono avanti Louis e Cindy, i cui
volti non erano immortalati su pezzi di carta scomodi, con il cavallo ed una
scarsella delle monete ormai leggera per fare provviste e raccogliere
13 informazioni; quando poche ore dopo si ricongiunsero dalla parte opposta
del borgo, Jonas non fu sorpreso nell’apprendere che la pista più diretta per
la Cressia seguiva, almeno nel suo primo tratto, la direzione del Sentiero del
Vettore.
Si lasciarono rapidamente alle spalle la città, uscendo di pista quando i
viaggiatori con cui condividerla iniziarono a farsi troppo fitti…e quando si
accorsero che deviava troppo marcatamente dal Vettore; Jonas giustificò a
sé stesso la scelta come una misura di prudenza: muoversi fuoripista come
avevano fatto finora aveva limitato al minimo i brutti incontri con gli uomini
della legge, ed era certo che anche gli altri avessero fatto lo stesso. Ma sotto
sotto (ed ugualmente pensava che per almeno due dei suoi tre compagni
fosse così) sapeva che seguire il Vettore era tutto ciò che dovevano fare in
quel momento.
Nei giorni successivi mano a mano che si allontanavano dalle strade
battute la pianura, prima spoglia e brulla, iniziò a trasformarsi in una prateria
di erba grigiastra dagli steli duri e le foglie larghe e taglienti che arrivarono
ben presto a sfiorare il ventre dei cavalli; mentre prima la potevano scorgere
solo aguzzando la vista, ora la piega magnetica del Vettore era conservata
in modo inequivocabile dagli steli di quell’erba strana come il solco di una
cicatrice vecchia e sbiadita. Nel seguirla furono costretti spesso ad aprirsi la
strada a colpi di coltello e più di una volta, nottetempo, sentirono gli steli
ondeggiare e frusciare intorno a loro senza mai capire che cosa li
muovesse, se il magnetismo, il vento o il passaggio di qualche animale.
I villaggi erano rari, nella prateria grigioverde, poveri ed isolati: dopo aver
visitato inutilmente il primo ed essere stati accolti da un folken selvaggio tra
cui – cosa rarissima a vedersi almeno per Jonas – erano numerose non solo
le bestie, ma anche gli uomini mutanti, giudicarono fosse inutile perdere altro
tempo in deviazioni.
Sul finire del quinto giorno di marcia i boschi spuntarono all’improvviso
dalla nebbia, in lontananza, come un paravento scuro che sfumava nella
luminosità violacea della sera interrompendo il piattume grigioverdastro.
“La via non sembra agevole, se proseguiamo” aveva osservato Calavera,
ma Jonas non aveva avuto dubbi in proposito; e quasi a sottolineare la sua
decisione Cindy e Louis vollero andare in avanscoperta: loro due misero il
campo e li attesero, ma quando fecero ritorno c’era preoccupazione sui loro
volti.
14 “Sono strani, fanno paura…e puzzano” aveva detto Cindy mentre lui
l’aiutava a smontare di sella; e non si ricordava di averla mai vista così seria
nel viso e nello sguardo come in quel momento.
“Puzzano di cosa?” aveva chiesto, lei aveva rabbrividito senza dire nulla.
Poi Louis gli aveva posato una mano sulla spalla ed anche i suoi occhi
erano gravi.
“Camarade, quegli alberi luccicano” aveva detto. “Dove siamo finiti?”.
Ed a quel punto lui non aveva proprio saputo che cosa rispondere.
6
Quella notte, alla fine del suo turno di guardia, Louis si era alzato per andare
a chiamare Calavera trovandolo già sveglio, con due sigarette di conforto e
l’aria di chi vuole tenere un conciliabolo.
Senza dire nulla i due uomini si erano seduti accanto al fuoco e l’avevano
rinforzato con alcuni sterpi facendo immediatamente sprigionare dalle braci
una nube di fumo denso e gradevolmente caldo.
Era stato il soldato a prendere la parola per primo.
“Tu mi devi dire qualcosa” era saltato su, l’altro aveva annuito con un
mezzo sorriso.
“A te convince?” aveva chiesto di rimando, indicando con la sigaretta le
figure addormentate ed abbracciate di Jonas e Cindy. Ci avevano dato
dentro, prima, e non si sarebbero svegliati tanto presto; Louis aveva fumato
senza dire nulla.
“Avanti, parla dannato orso” l’aveva punzecchiato col suo fare da vecchia
canaglia, e forse per rendere più gradevole la domanda l’aveva
accompagnata con l’offerta della sua fiasca; a quella vista il soldato si era un
poco smosso, e prendendola aveva detto le parole più semplici che avrebbe
potuto.
“Mi fido”.
“Perché siete compari, o fratelli forse?”.
“Lui è il mio frère ma non siamo parenti; lui me lo avrebbe detto se fosse
così”.
“Già, te l’avrebbe detto, sicuro. È stato proprio bravo, il nostro capintesta,
nel volerti tornare a prendere da quella specie di stregone dove lui stesso ti
aveva lasciato…”.
“Non poteva saperlo!” era saltato su, l’altro aveva subito disteso le mani
avanti.
15 “Calma, giovane, calma; tu sei così rapido nel perdere il tuo controllo, è
per questo che ti hanno spedito ad Ovest?”.
Louis si rabbuiò.
“Lui ha detto che abbiamo fallito il nostro addestramento, che fanno così
con tutti quelli che non ce la fanno”.
“…perché tu non te lo ricordavi, giusto? Né di questo, né di nient’altro”.
“Ha detto che ho perso la mia mente…”.
“Su questo mi sento di dargli ragione; non so cosa ti stava facendo, il
vecchio sai della ferrovia, ma non ricordo di aver mai visto qualcuno nel tuo
stato. Se ti ha messo dei demoni dentro, dovevano essere demoni potenti”.
Spazientito, Louis aveva aspirato nervosamente. “Stai cercando di dirmi
qualcosa?”.
“Forse si, forse no”. Calavera aveva sorriso sornione evitando di
guardarlo negli occhi.
“Lo segui solo perché ti fidi, hai detto, o c’è dell’altro? Guarda dove ci sta
portando, dannazione, guarda dove siamo…cos’è questo posto? Perché
siamo venuti qui? Talvolta” aveva aggiunto tornando serio, “Talvolta ha lo
sguardo strano, sembra un fanatico Manni; tu sai chi sono i Manni?”. Louis
aveva scosso il capo.
“Lui segue la Prima Rossa” aveva detto, ed il rinnegato aveva mosso in
circolo la mano facendo una smorfia.
“C’ero anch’io, ricordo cosa ci disse e con quanta fatica lo fece; disse che
non avremmo creduto ad una parola e ricordo che nemmeno tu sembravi
così pronto a bertela, questa panzana. Cos’è successo poi?”.
Louis ripensò alla contezza, così vivida nelle sue sensazioni, nel calore
febbrile sulla pelle, negli odori pungenti del vento, nella polvere dentro la
gola mentre l’altro lo guardava in attesa: non ne sapeva nulla, lui, e neppure
doveva saperne altrimenti Jonas gliene avrebbe di certo parlato.
Lui non era ka-tet.
“Non ha importanza”.
“Potrebbe aver rubato la tua mente a sua volta, ci hai mai pensato? Per
me è convinto di avere un dovere, un qualche compito…ma forse è soltanto
un giovane pazzo, ed è un fatto che talvolta i pazzi trascinano gli altri nelle
loro reti”.
Fu Louis a quel punto a sorridere e l’uomo, che non era certo un
piedidolci, non poté reprimere un leggero brivido nel riconoscere in quegli
occhi luccicanti lo stesso atteggiamento che aveva colto troppe volte in
Jonas.
16 Capì che non sarebbe servito a nulla cercare di tirarlo dalla sua, o
quantomeno farlo riflettere, così come riconobbe che avrebbe dovuto
separare la sua strada dalla loro molto tempo prima; forse, se così avesse
fatto, Mandy sarebbe stata ancora in vita.
“Noi tre pensiamo di avere un dovere, per questo siamo stati riuniti e
camminiamo insieme. Tu perché ci segui?”.
“Perché non ho altri compagni, sai, e perché la vostra strada portava
negli stessi luoghi della mia. Così almeno credevo, invece…ti sei accorto
che stiamo andando ancora ad Est, verso il mare, mentre la Cressia è a
Sud?”.
Louis non aveva risposto come se quello fosse un dettaglio da nulla (e
per lui in effetti lo era) ed il rinnegato non aveva più parlato, perché era
perfettamente inutile aggiungere altro.
“Vai, fatti la tua dormita” aveva concluso con un’alzata di spalle.
“Vedremo che acqua pioverà domani”. L’altro si era già girato ed aveva visto
il suo mozzicone disegnare un breve arco fumante prima di sparire nella
neve.
Perché li aveva seguiti? Se lo chiese per l’ennesima volta mentre lo
sentiva armeggiare col giaciglio e la risposta, che non era riuscito a trovare
nei giorni precedenti, si mostrò improvvisamente chiara e inquietante.
Li aveva seguiti perché aveva dovuto farlo, anche se nessuno di loro lo
aveva mai veramente costretto: semplicemente il ragazzo aveva saputo
tirarlo dentro mani e piedi nelle sue cose, su una pista che non era
veramente sua né avrebbe mai potuto esserlo, e non aveva neppure avuto
bisogno di puntargli una pistola contro per farlo.
Gli aveva fatto vedere le cose come irrinunciabili. Necessarie. Inevitabili,
proprio come aveva fatto con i suoi due amichetti, e lui glielo aveva lasciato
fare.
Lo aveva seguito, in una parola sola, senza neppure pensarci.
Pure se non conosceva il gergo dei pistoleri, quello che loro chiamavano
Lingua Eccelsa, era a conoscenza del modo che i tiratori eccelsi avevano di
creare legami: lo chiamavano ka-tet ed era precisamente quello che stava
creando; un ka-tet tra lui, la piccola puttanella dai capelli di paglia e il soldato
silenzioso e sempre immusonito che di sicuro non aveva tutte le rotelle che
giravano nel verso giusto. In tutto questo l’aveva tirato in mezzo, non sapeva
a quale titolo, era soltanto sicuro che aveva iniziato a farlo fin da quando
Mandy era ancora viva e lui glielo aveva permesso.
17 La domanda a questo punto era: perché gliel’aveva permesso?
Forse perché gli faceva piacere essere parte di un ka-tet?
Scosse il capo scacciando immediatamente il pensiero mentre le dita
correvano nuovamente alla sacchetta del tabacco; non aveva comunque
importanza a quel punto, l’acqua passata non muove più la ruota, ma non è
mai troppo tardi per cambiare registro.
Decise in quel momento che si sarebbe sganciato, e per qualche ragione
formulare questa risoluzione gli costò un certo sforzo, come uno strappo
mentale, e per mitigarlo rifletté che avrebbe aspettato ancora un po’ prima di
farlo. Se la pista dell’indomani li avesse riportati verso terre più civili allora
avrebbe continuato a ballare quella musica, in caso contrario avrebbe fatto
fagotto (e anche qui la sua testa quasi si rifiutò di concepire il pensiero,
perché qualcosa in lui voleva continuare a seguirlo, qualcosa in lui voleva
essere ka-tet).
Confuso accese la sigaretta e cullò il pensiero vegliando fino a quando il
cielo non iniziò a schiarirsi; quando si rimisero in marcia, tuttavia, gli fu
immediatamente chiaro che riprendere la pista della Cressia non faceva
proprio parte delle intenzioni del capo del gruppo, a dispetto di quanto era
sempre andato dicendo.
18 7
Si inoltrarono nei boschi poco dopo l’alba e Jonas vide subito che Louis
non si era ingannato.
Luccicavano davvero, aveva pensato, mentre conduceva il cavallo su un
sentiero appena visibile tra la boscaglia – forse tracciato da viaggiatori, forse
da animali, forse dal Vettore stesso – e Cindy dietro di lui gli stringeva la vita
con mani nervose.
Luccicavano, anche se non così marcatamente, ed in effetti dubitava che
se ne sarebbe accorto in una giornata di pieno sole. Ma adesso tra la nebbia
e la neve i colori erano inequivocabili: appena visibili nei fusti più piccoli delle
betulle e dei noccioli, si facevano cupi in quelli degli alberi più grossi, abeti e
larici centenari molti dei quali si alzavano contorti e piegati come candele
sciolte. E anche la storia sulla puzza era vera: sotto le volte degli alberi
faceva più caldo e dal suolo saliva un odore di muffa e di malsano misto ad
un sentore che gli si appiccicò vagamente in bocca; ci mise un po’ a
riconoscerlo, poi gli tornò in mente di quando aveva svitato coi denti una
cartuccia per svuotarla della polvere da sparo e cauterizzare la ferita del
soldato, e realizzò che il gusto che sentiva in quel momento era del tutto
simile a quello del piombo.
No, non aveva mai temuto di muoversi attraverso le foreste (una volta
che aveva imparato come condurvi un cavallo senza finire disarcionato dai
rami bassi – rendiamo grazie alle botte di Fardo) ma la sensazione che quel
posto gli trasmetteva, uno sgradevole senso di tensione ed urgenza, era
sufficiente a fargli desiderare di trovarsi in un sentiero aperto pieno di sole e
vento. Antipatia pura e semplice, la classificò dopo un po’, come se dargli un
nome gli permettesse di accantonarla meglio: antipatia del luogo verso di lui
ed i suoi compagni, ospiti non richiesti ed invasori di un luogo che non
competeva loro. Certamente c’erano spiriti in quelle foreste, considerò,
mentre il sentiero passava davanti ad una piccola radura immobile e
silenziosa come una cattedrale, dove tronchi enormi e scagliosi proiettavano
bagliori strani sulla neve che copriva il terreno.
Demoni dentro il legno, forse nella terra rifletté, toccando in segno di
scongiuro il calcio metallico della pistola di destra.
Dove vi ho portati?
Il cavallo di Calavera nitrì improvvisamente e diede uno strattone alle
briglie mentre a sua volta il suo si impuntava recalcitrante.
19 Sentì le mani di Cindy che lo stringevano ed il serrarsi improvviso gli strappò
un gridolino strozzato di sorpresa.
Qualcosa sibilò, ed era un fischio cattivo che gli fece rizzare all’istante i
peli sulle braccia.
“Joy che cos’è stato?”.
Calavera pungolò l’animale con gli speroni e quello si impennò nitrendo;
mentre tentava di controllare il suo a Jonas sembrò di cogliere un
movimento nelle sterpaglie della strada, proprio ai suoi piedi. Un attimo dopo
qualcosa di grosso e veloce schizzò fuori dagli sterpi puntando dritto alla
gola del cavallo.
La sgroppata improvvisa lo colse totalmente di sorpresa; ebbe soltanto il
tempo di sentire Cindy che scivolava all’indietro con un grido, poi l’animale
franò giù nitrendo disperatamente ed il serpente di terra, spesso e lungo
come una gomena, gli serrò il collo in uno scricchiolio liquido affondando
nella carne entrambe le teste e dimenando una coda che terminava in un
lungo pungiglione gocciolante.
Si sentì trascinare coi piedi impigliati nelle staffe mentre il cavallo scalciava,
cercò di divincolarsi senza riuscirvi quando l’animale morente gli franò
addosso con tutto il suo peso mentre il serpente mordeva e soffiava ancora.
Sentì Calavera imprecare ed avvertì lo scatto della sua arma, il crepitare di
raffiche che non erano dirette in quella direzione, poi fece per mettere mano
alla pistola destra e realizzò con orrore che non era più al suo posto.
In quel momento, come se avesse improvvisamente riconosciuto un’altra
possibile preda il serpente di terra girò una delle due teste a guardarlo,
ondeggiando piano e sbattendo la palpebra di un unico, grande occhio rosso
centrale che gli ricordò quello di certi insetti secchi di Nebi.
Si sentì quasi ipnotizzato; un attimo dopo il mostro spalancò una bocca
piena di sangue e zanne da lupo e si inarcò all’indietro.
Poi alle sue spalle qualcuno sparò; entrambe le teste guizzarono a destra
ed a sinistra mentre la terra vicino alla carcassa del cavallo si alzava in un
grande sbuffo grigiastro. Sentì il rumore familiare del tamburo della sua
arma che ruotava ed il cuore gli schizzò dritto in gola dandogli finalmente la
sveglia.
“Spara dritto per l’amore di tuo padre!” gridò sfoderando il coltello e
minacciando il mostro che si fece indietro soffiando, forse stupito che la
preda reagisse: ed era tutto ciò che lui voleva.
20 Il secondo colpo aprì uno squarcio nelle spire serrate sollevando uno
scoppio di sangue quasi nero, che gli bruciò la pelle delle mani e del viso
dove ricaddero gli schizzi più fitti; strizzò gli occhi e sferrò un altro fendente
alla cieca, il serpente strillò in un gemito quasi umano. Quando li riaprì vide
che si era srotolato e stava battendo in ritirata, e ne approfittò per farsi
indietro a sua volta riuscendo a liberare un pezzo di gamba. Cindy sparò
ancora e sollevò altra terra mentre il serpente correva a rintanarsi sotto
l’erba innevata lasciandosi dietro una striscia rossastra. Più in là Calavera
sventagliò verso l’alto e la chioma dell’albero sotto cui stavano passando, un
pino gigantesco dai rami porporini, tremò di altri fischi e soffi in una cascata
di neve ed aghi. Li mise finalmente a fuoco, c’erano ancora tutti e due:
anche a loro si erano accontentati di far fuori il cavallo.
Arretrò spingendo in avanti la carcassa e fu finalmente libero di agguantare
la pistola sinistra, che spianò in avanti senza tuttavia sparare e che si decise
a riporre solo qualche momento dopo.
Si rialzò.
In fretta come era iniziato era già tutto finito, e Cindy era come
imbambolata al bordo del sentiero: una statua di ragazza che reggeva a due
mani la pesante cinque-colpi, tesa dritta davanti a sé, e guardava il bosco
con occhi sbarrati. Si rialzò e fece per abbassargliela con calma, ma questa
fece un salto, gridò e sparò un prezioso proiettile che staccò dal tronco di
una betulla più avanti un grumo di legno grosso quanto il suo pugno.
Sospirò.
“Ora mettila giù” disse, e come se non avesse atteso altro che quel
comando la ragazza lasciò cadere giù l’arma e ritrasse le mani contratte ad
artiglio. La raccolse subito e controllò il tamburo, cogliendo con la coda
dell’occhio l’avvicinarsi dei due compagni. Quattro su cinque, aveva contato
bene, uno solo a segno, uno sprecato senza motivo: Fardo le avrebbe fatto
ingoiare i denti a suon di sberle se fosse stato lì.
Lui invece si accontentò di sorridere mentre le mani iniziavano
automaticamente il loro lavoro di ricarica, incuranti delle bolle giallastre che
stavano iniziando ad affiorare dove il sangue del serpente lo aveva
schizzato. Non sentiva nemmeno dolore per la verità
“Grazie-sai, per la tua prontezza”. Cindy non disse nulla, lui terminò di
riempire il tamburo e chiuse la pistola con un colpo secco. Se non aveva
fatto errori nel contarli, gli rimanevano venti colpi; dopodiché avrebbe dovuto
cavarsela con arco e frecce.
21 Zeppa di veleno la carcassa del loro cavallo si torse improvvisamente su
se stessa, si gonfiò ed esplose con uno scoppio sordo spandendo sangue e
brandelli di carne tutto intorno; Cindy sussultò nuovamente portandosi le
mani alla bocca ed un attimo dopo se la ritrovò abbarbicata alla vita, col
volto sepolto contro il suo fianco come faceva sempre quando era
spaventata.
Sarebbe stato un atteggiamento da correggere, indubbiamente, ma non era
quello il tempo; nuovamente accondiscendente le accarezzò i capelli.
“E ora che facciamo, sai?”. Calavera si rimise il fucile a tracolla, Louis
tenne basso il suo. C’era collera nella voce del cacciatore di taglie e Jonas
sentì come un campanello d’allarme mandargli il suo eco nella testa.
Si staccò da lei.
“Si va avanti, non…”.
L’uomo scostò la falda dello spolverino scoprendo la fondina ed il
campanello d’allarme mutò il suo trillo vago in uno scroscio frenetico.
“Io me ne vado. Non ti voglio più seguire ragazzo”.
Vide Louis allargare gli occhi, sorpreso quanto lui, ed alzare lievemente
la canna del fucile. Cindy staccò il volto dal suo fianco.
“E dì al tuo compare di tenere il ferro a posto, perché se lui buca me io
buco te, sicuro”.
Jonas accennò col capo al soldato e questi, dopo un attimo di esitazione,
abbassò il fucile.
“Ti sono ceduti i nervi?”. Jonas sorrise sentendosi triste, e distese le
braccia lungo i fianchi; valutò se estrarre e tentare la fortuna ma scartò l’idea
l’attimo immediatamente successivo. Si erano protetti, in quelle settimane, si
erano aiutati a vicenda, avevano marciato insieme e diviso il cibo; se anche
lui non era ka-tet, se anche non era il quarto compagno con l’alba negli
occhi, comunque quel voltafaccia l’aveva ferito. E anche se erano entrambe
canaglie, non avrebbe sparato su di lui se non fosse stato assolutamente
necessario.
L’uomo non disse nulla.
“Possiamo uscirne senza guai se rimaniamo insieme, dobbiamo solo
andare avanti…”.
“Avanti per cosa? Lo sanno loro per cosa stanno andando avanti?”.
Jonas non rispose; un attimo dopo il rinnegato coprì nuovamente la sua
fondina facendola sparire sotto il cuoio dello spolverino.
“Noi stiamo andando in Cressia” accennò, l’uomo corrugò la fronte
socchiudendo gli occhi.
22 “Un cazzo, è da Eastcross che dovremmo tenere a Sud, invece tu ci stai
portando verso Est. E se sbaglio io invoco il tuo perdono, ma per Dio non sto
sbagliando e tu lo sai”.
Jonas non rispose; era vero, non aveva più fatto il punto da quando si
erano addentrati nel mare d’erba perché non gli era più interessato farlo,
perché per lui (e per loro) non ce n’era più stato bisogno. Dovevano seguire
il Vettore, tutto qui.
Fece per dire qualcosa ma l’altro lo precedette.
“Tu non vuoi fare il mercenario in Cressia, ragazzo mio” considerò in tono
più calmo. “E nemmeno voialtri due che gli state dietro come cagnolini fedeli,
ci scommetterei le mie palle”.
“Non è una questione di soldi, se è questo che pensi” riuscì a dire alla
fine, “Abbiamo già tenuto un conciliabolo sulle nostre ragioni…”.
“Sulle vostre ragioni, che non sono sufficienti a farmi rischiare la pelle in
questo posto fottuto. Affanculo, avrei dovuto mollare già da un pezzo,
giovane idiota!”.
Calavera dovette fare uno sforzo per pronunciare quelle parole, la sua
mente quasi si rifiutò di farlo e quello che avvertì non appena chiuse bocca
fu qualcosa di simile ad una lacerazione che spazzò via di colpo la rabbia,
lasciando soltanto un vago senso di amarezza; ed era precisamente ciò che
provava Jonas.
Lo guardarono che si incamminava lungo il sentiero, rimasero fermi fino a
che non fu scomparso oltre la curva, e anche dopo il silenzio si protrasse.
Alla fine fu Jonas fu il primo a parlare e quando lo fece la sua voce era
incerta.
“Voi lo sapete perché andiamo avanti, vero?”. Louis annuì e si sforzò di
sorridere, Cindy lo abbracciò semplicemente alla vita.
“Io ti seguo perché ti amo” disse, “E perché è giusto così”. Louis annuì a
sua volta.
“Qualcosa ci guida”.
“La Prima Rossa” esalò Jonas, e dagli sguardi che Louis e Cindy gli
rivolsero seppe che lo stesso pensiero aveva attraversato simultaneamente
le menti di tutti e tre.
Non ne avevano più parlato ma in quell’attimo seppe che, pur non avendolo
fatto, anch’essi come lui avevano continuato a credere.
“Se volete andare con lui potete farlo, io non vi obbligo a camminare con
me”.
23 “Lo sappiamo”. Non ricordava di aver visto Louis sorridere a quel modo,
dopo che si erano salvati insieme dalle aramostre. “Noi scegliamo te,
camarade, e tu non potresti obbligarci nemmeno se volessi” scherzò. Jonas
si sentì sollevato.
“Non è ora di andare?” osservò Cindy; anche lei sorrideva, e quando
Jonas la abbracciò alla vita si fece addirittura radiosa, lo spavento già
dimenticato in favore della determinazione a seguirlo. Le scompigliò
nuovamente i capelli.
“Tu lo dici e dici il vero, non è stando fermi che arriveremo; ed affanculo
quel sai, dico io, lui non è uno di noi”.
Jonas raccolse le sacche della sella e se le mise in spalla; dopo che
Louis ebbe fatto lo stesso ripresero a seguire il sentiero senza guardarsi
indietro una sola volta.
8
Non era poi così difficile proseguire, anche se erano appiedati, e le
provviste non erano il problema principale: anche se Calavera si era preso la
sua parte (ed era giusto che lo avesse fatto) con ciò che rimaneva di quello
che avevano acquistato ad Eastcross avrebbero potuto andare avanti per
almeno una settimana ancora, tirando un po’ la cinghia dove necessario; poi
avrebbero cacciato fino a che i proiettili e le frecce non fossero finite.
E per allora, ne era certo, qualcosa sarebbe successo.
Quella notte prima di dormire invocò il sogno ma il mattino dopo, quando si
svegliarono sotto una pioggia leggera e fredda, nessuno di loro ricordò nulla
in proposito.
“Verranno se devono venire” aveva detto Jonas, e tutti avevano accettato
quella spiegazione come la più naturale del mondo.
La pioggia li accompagnò per tutto il giorno, rinforzandosi in un vero
nubifragio dopo le ore del mattino e trasformando ben presto la foresta in un
pantano scrosciante dove era difficile avanzare; gli alberi andarono prima
rarefacendosi, poi infittendosi nuovamente, e ben presto tra i tronchi colorati
iniziarono a spuntare gli scheletri di grandi costruzioni quasi interamente
coperte da terra ed erba: edifici ancora imponenti nella loro rovina, sagome
massicce spezzate nel loro svettare verso il cielo, da cui il sole traeva
bagliori inquietanti di ferro e di vetro, si fecero via via più frequenti mentre il
sentiero si allargava ed il terreno, sotto lo strato di foglie ed aghi, tornava ad
24 assumere l’inequivocabile compattezza del suolo artificiale e la divisione in
antiche strade più larghe e regolari di qualsiasi via baronale mai costruita.
Dopo qualche ora la strada iniziò a digradare verso il basso come
seguendo il crinale di una collina ed i tre iniziarono a sentire in lontananza
un rumore d’acqua che correva; nemmeno venti minuti più tardi, oltre un
ultimo muro di vegetazione, la pista si interrompeva sugli argini di un canale
largo almeno cento piedi parzialmente invaso da frane e detriti, e dai
tronconi spezzati di un grande ponte di ferro.
Jonas si strinse nel mantello e si avvicinò all’argine: più in basso, oltre
due gradoni di cemento su cui erano incisi i simboli di una specie di pesce,
scorreva un fiume di acqua, fango e detriti che sembrava andare gonfiandosi
di minuto in minuto rinforzato da quell’uragano che non accennava a
diminuire; mentre guardava lo vide alzarsi percettibilmente sopra i tronconi
affondati del ponte che tremavano come gelatina, e che risuonarono
sordamente quando la corrente vi sbatté contro il tronco divelto di un grosso
abete che svanì quasi subito tra i detriti e le incastellature arrugginite.
“Porca puttana” considerò, Cindy lo strinse in silenzio.
“Che facciamo?”.
“Possiamo cercare di attraversarlo più in là” propose Louis, Jonas
accennò col capo poco convinto e guardò su: nel vento le nuvole grigie si
muovevano rapide in code allungate su uno sfondo bianco latte, incanalate
nel loro letto allo stesso modo dell’acqua. Che dovessero passare di lì era
fin troppo chiaro.
“Aye, ma potremmo allungarla di molto; ce l’abbiamo ancora una corda?”.
Dopo un attimo sentì la stretta di Cindy farsi più forte.
“Ti prego, non dirmi che vuoi andare lì sotto…”.
“Voglio solo vedere se si può passare, tutto qui”.
“Non possiamo fare un’altra strada?”.
Scosse il capo. “Non se possiamo farne a meno. Anche tu sai che è
questa la strada che dobbiamo fare ed io non voglio deviare se non è
necessario”.
La sentì sospirare e la stretta si allentò un poco.
“È troppo pericoloso…”.
“Non lo sarà, fidati di me. Sarò prudente”.
Louis, che non aveva fatto commenti, gli allungò il capo di un lasso e lui
se lo passò alla vita; anche il suo sguardo era dubbioso.
“Sei sicuro?”.
25 Jonas si slacciò il cinturone e per tutta risposta glielo passò intorno alla
vita allacciandolo sopra il suo.
“Tienimi questo, vuoi?”.
“Forse il biondo aveva ragione, tu sei tutto matto”. Il soldato scosse il
capo e si avvolse il lasso intorno alle mani mentre Jonas iniziava lentamente
a scendere.
9
Gli abitanti di Zaia lo chiamavano “Thola”, dal nome del Guardiano del
Vettore: il leviatano Tholapsyx che dalle profondità del Mare Orientale
proteggeva quell’estremità del cammino da quando gli uomini avevano
memoria.
Il Thola era un fiume artificiale che attraversava da un capo all’altro tutta
la Costa Ovest attraverso cancelli di teletrasporto permanenti, collegando le
città ed i collettori delle acque di sintesi come una colossale opera d’arte, un
segno di grandezza e progresso ed una via di comunicazione insieme: a
Nord, nelle sconfinate pianure della Cintura del Grano il Thola veniva
convogliato dentro campi fertili, risaie e frutteti, il suo corso regolato (e
talvolta invertito a seconda del bisogno) da chiuse e cascate artificiali, la sua
portata imbrigliata dentro imponenti impianti idroelettrici che assicuravano
una produzione di energia costante, cospicua e rinnovabile; mentre nelle
città che si trovavano sul suo percorso veniva spezzato in canali e navigli
sempre affollati di trasporti, merci e viaggiatori, incanalato tra palazzi
grandiosi, giardini pensili ed arcologie monumentali, attraversato da ponti di
ferro e pietra ed affiancato da monumenti, viali e piazze pavimentate in oro e
marmo dove i cittadini potevano passeggiare e compiacersi della grandezza
del loro mondo.
Lungo tutte le sue settemila e più ruote era sempre stato controllato,
come si controllerebbe un cavallo docile che all’occorrenza può diventare
bizzoso: tutto il suo corso era disseminato di canali di sfogo, chiuse
automatiche e bacini di contenimento in grado di assorbire e distribuire sul
nascere qualsiasi principio di piena così che nessuno avesse mai nulla da
temere da quel grande, liquido genio benefico che esisteva solo per il
benessere e l’autocompiacimento di tutti.
Per centinaia di anni il fiume aveva assolto ai suoi compiti, prima che il
mondo andasse avanti: ma quando alla fine le cose erano precipitate
nemmeno lui era potuto uscirne indenne.
26 Anche se l’avanzata aveva interessato solo marginalmente gli impianti del
Thola, con l’estinzione dei suoi artefici il genio benefico era rimasto in totale
balia dei suoi servitori automatici che a loro volta, col passare del tempo,
smisero gradualmente di servirlo: le chiuse ed i loro servomotori
arrugginirono e si bloccarono perché nessuno si curò più della loro
manutenzione; i sensori di rilevamento del livello delle piene smisero di
funzionare perché i satelliti che li controllavano, uno dopo l’altro, secolo
dopo secolo, si spensero e precipitarono; e senza nessuno che si
premurasse di dragarne il fondo o di rinforzarne gli argini i collettori, i canali
ed i bacini di compensazione franarono su sé stessi o si riempirono di
sabbia e ghiaia.
Ed il genio una volta benefico indurì il suo cuore e si indispettì per essere
stato così indebitamente abbandonato dopo i servigi millenari che aveva
reso: la sua collera spazzò via i muri che lo imprigionavano, schiantò dighe,
barriere e terrapieni, travolse i ponti e le banchine che lo avevano ingabbiato
per più di duemila anni; ed anche quando ebbe sventrato e scorticato,
schiantato e lacerato le antiche opere dell’uomo, abbattuto i suoi palazzi,
sepolto i suoi viali di marmo ed i suoi campi sotto detriti e limo velenoso non
smise mai di accanirsi, perché non gli rimaneva altro da fare fino a quando
le sue sorgenti, sparse per almeno una decina di mondi nella galassia, non
si fossero finalmente seccate.
Centodieci ruote più ad Est, presso le alture costiere, tra gli strumenti
della sala di controllo di un antico bacino di compensazione una tenue luce
rossa iniziò a lampeggiare, segnalando un improvviso aumento del flusso di
acqua in transito probabilmente dovuto alle piogge che da tre giorni
imperversavano sui monti: dell’uomo che avrebbe dovuto accorgersi del
problema non rimaneva che un piccolo monticello di polvere (con qualche
osso rosicchiato) sparso proprio sotto al quadro comandi.
Minuti dopo la luce brillò più vivida e da un piccolo altoparlante al centro
del soffittò si alzò un allarme acustico mentre l’onda di piena si riversava nel
bacino sotterraneo tracimando dal collettore squarciato; il pavimento tremò
al passaggio di svariati milioni di metri cubi d’acqua e detriti che si
incuneavano tra le pareti di cemento marcio con la forza di una carica di
bisonti, e dal quadro dei controlli si sollevarono sbuffi di pulviscolo mentre
altre lampadine pulsavano di giallo ed arancione.
Poi dopo un ultimo balenio frenetico tutte le luci si spensero e l’allarme
tacque rapido come era venuto allorché i pochi sistemi ancora in vita
27 tentarono di alzare gli sbarramenti automatici e notificarono il loro fallimento
ad un server centrale morto da tempo. La sala ritornò silenziosa mentre
l’onda si gonfiava incontrollata nell’alveo oltre il posto di controllo, e la
polvere non impiegò che pochi secondi a depositarsi sui controlli
nuovamente muti.
Centodieci ruote più ad Ovest, nemmeno un’ora dopo Jonas si avventurò
sulle travature divelte del ponte tra la pioggia ed il vento, con la sola
sicurezza di un lasso sfilacciato intorno alla vita, e pensò che l’ultima acqua
che avevano incontrato non aveva portato loro fortuna; quasi a sottolineare il
pensiero il ferro cigolò sotto i suoi piedi ed il fiume si gonfiò verso l’alto come
se l’acqua stessa avesse preso un bel respiro, per poi abbassarsi
nuovamente mentre la struttura divelta veniva sbatacchiata dalla corrente.
“Joy!”.
Il vento lo investì tagliandogli il respiro, sentì gli stivali slittare verso il
calderone di fango e si aggrappò con entrambe le mani alla balaustra
arrugginita giusto in tempo per intravvedere, appena un poco più sotto e
quasi a pelo dell’acqua, una passatoia di assi, tubi e lamiere fissata in un
malfermo appoggio proprio dove le traversine del ponte si erano spezzate
come se qualcuno ce l’avesse messa di proposito. Seguì con lo sguardo a
salire e scorse altri appigli sul secondo troncone ondeggiante, dove le
ringhiere erano state ribattute a formare rudimentali gradini e le piastre di
ferro squarciate in tagli troppo regolari e ravvicinati per non essere artificiali.
Qualcun altro passava di lì, ma di chi si trattasse al momento non gliene
importava un fico secco: sapeva solo che potevano servire ad inerpicarsi,
quando la tempesta fosse passata, e questo gli bastava per riportare il culo
all’asciutto.
Si girò soddisfatto e vide che anche Cindy e Louis si erano sporti a loro
volta facendosi incontro: vide Cindy sbracciarsi ed urlare qualcosa che non
riuscì a discernere, poi un’altra sferzata di vento lo fece barcollare e con una
rapidità di cui non si rese nemmeno conto il fiume si alzò a sommergere la
passerella arrivandogli fin oltre la vita.
Mentre la corrente lo strattonava facendogli perdere nuovamente l’equilibrio
nella testa gli esplose la voce di Fardo, irosa ed arrogante come sempre: sei
nei guai larva! Abbaiò. Sei nella merda e io ci godo, fottuto pallemosce! Si
aggrappò testardamente alla balaustra mentre le gambe perdevano
rapidamente sensibilità nell’acqua gelida; dalla riva Louis lo tirò ma la
sensazione gli giunse distante ed attutita.
28 L’acqua salì ancora arrivandogli alla gola, lo sbatacchiò come un fuscello
quando i piedi persero il contatto e lui rimase appeso alla ringhiera soltanto
con una mano che si rifiutava disperatamente di mollare; un attimo dopo
un’onda che sapeva di terra e piombo lo cacciò sotto con la violenza di una
spallata, e mentre era giù l’acqua gli trasmise chiare ed inequivocabili le
vibrazioni della valanga in arrivo. Quando riemerse sputacchiando la vide
arrivare con la velocità di un branco di cavalli al galoppo e sentì i testicoli
ritrarsi contro il ventre facendosi piccoli come due noci.
Non sarebbe riuscito a scappare.
Ci sei mezzasega!
Jonas annaspò cercando di risalire ma l’acqua lo spinse sotto
nuovamente, poi sentì con orrore che si stava sollevando e seppe che di lì
ad un attimo sarebbe stato scaraventato in avanti da una forza impossibile
da trattenere.
Riguadagnò la superficie soltanto per un attimo, giusto in tempo per
vedere Cindy che veniva strappata via con un urlo disperato all’altro capo
della corda tesa.
10
Un attimo più tardi l’acqua lo schiacciò di nuovo; Jonas vide chiazze di
luce e sentì i polmoni riempirsi di acqua e fango mentre il frangente della
piena lo sbatacchiava trascinandolo a fondo.
Non provò più paura, adesso c’era soltanto un forte senso di abbandono, e
la sensazione della vita che stava per finire non era nemmeno così
sgradevole.
Così muore uno scartato pensò, poi la sensazione della fune che lo
stringeva ancora alla vita gli ricordò che all’altro capo c’era qualcuno che
non meritava di crepare così.
Nello stesso istante avvertì una sensazione di caldo elettrico salirgli dal
tallone e scuoterlo come una scudisciata.
Jonas mise in secondo piano il fango nei polmoni e la stupenda
sensazione dell’asfissia e diede un colpo di talloni, alzandosi verso l’alto
malgrado la forza della corrente. Pinneggiò ancora, ed anche se non vedeva
nulla in quella caligine liquida ed indistinta sapeva esattamente dove andare.
Un attimo dopo si scontrò con un corpo morbido, lo afferrò e strattonò
disperatamente verso la luce sempre incitato dal suo scudiscio personale.
29 Quando riemerse la prima cosa che fece fu di appiccicare le labbra a
quelle del corpo abbandonato e di lasciar fare al Tocco: anche se non ne
conservò il ricordo, in quei momenti poté quasi sentirlo uscire dalle mani e
dalla bocca per infilarsi dentro Cindy insieme all’aria che le soffiava nei
polmoni con un gesto che gli era stato suggerito dall’istinto puro e semplice.
Continuò a soffiare ed a sostenerla anche quando l’onda li sballottò e li
schiacciò giù di nuovo e di nuovo, approfittando delle pause d’aria per
riempirsi i polmoni e vuotarli dentro di lei, senza smettere se non quando la
vide aprire gli occhi di scatto ed inspirare avidamente l’aria che li circondava.
“Joy!”.
Un attimo dopo sentì che stringeva le braccia intorno al suo collo mentre
la corrente rallentava e si allargava in un letto più vasto e a destra ed a
sinistra, su entrambe le sponde, sfilavano i rimasugli diroccati di costruzioni
impossibili.
La strinse, le parlò nel modo più tranquillizzante che gli riusciva e le
accarezzò la testa tenendogliela su; minuti dopo vide apparire in lontananza
la lingua terminale di una frana antica che aveva fatto crollare un pezzo
consistente dell’argine, e quasi contemporaneamente un tremito più forte,
più minaccioso salì dall’acqua stessa increspata in una corrente
improvvisamente più veloce.
Sembrava il rumore di una cascata, e non aveva davvero voglia di vedere
dove lo avrebbe portato se ci fosse caduto dentro. Agitò le gambe e le
braccia per spostarsi ad intercettare la lingua di terra; dovette sporgersi col
braccio libero per abbrancare un pezzo di ferro che sporgeva dai detriti e
sentì i muscoli tendersi e gridare mentre si tirava di lato a forza di braccia.
Un attimo dopo la sensazione del terreno, cedevole ma pur sempre fermo
sotto i piedi gli annunciò che erano finalmente giunti in salvo.
La trascinò fuori e un attimo dopo stramazzarono entrambi a terra, fradici
e gelati mentre dal terreno quella vibrazione cattiva saliva a permearli. Jonas
lasciò che per un attimo soltanto la sensazione (così dolce) dello sfinimento
lo cullasse, poi con uno sforzo terribile si tirò su sapendo che per nulla al
mondo avrebbe dovuto chiudere gli occhi. Dovevano cercare riparo o il
freddo della notte avrebbe fatto quello che l’onda di piena non era riuscita a
fare.
La scosse piano e lei socchiuse gli occhi tossicchiando, poi aprì la bocca
e vomitò acqua con un gemito strozzato. Quando la tirò su di peso per poco
non finirono di nuovo a terra entrambi.
30 “Ora devi camminare perché non ce la faccio a portarti” sussurrò e gli
sembrò di vederla annuire.
La lingua della frana coperta di neve risaltava lievemente luccicante nel buio
che arrivava rapido; Jonas la seguì con lo sguardo iniziando a trascinarsi e
quando arrivò sui primi blocchi scorse qualcosa, più in alto sulla sponda, che
gli snebbiò all’istante la mente e gli fece tornare forza nelle gambe.
C’era del vapore che si alzava sopra l’argine, una colonna biancastra e
sfilacciata che non poteva essere nebbia semplicemente perché non era
possibile che lo fosse; nel momento stesso in cui la guardava gli sembrò di
sentirne il calore ed inviò mentalmente un sentito ringraziamento alla
potenza che di sicuro stava continuando ad aiutarli.
Prese in braccio Cindy e lei si rannicchiò cercando calore mentre lui
saliva sui detriti più velocemente che poteva, riguadagnando l’argine una
decina di minuti dopo. Nel buio che ormai era sceso la neve e l’acqua per
terra brillavano e la colonna di vapore sfiatava a nemmeno venti passi di
distanza da grandi griglie arrugginite che si aprivano nel suolo accanto a
quello che aveva tutta l’aria di essere un passaggio: una piccola garitta di
cemento dalla porta scardinata con un accenno di scale che scendevano
giù, malamente illuminate da luci a muro arancioni.
La appoggiò nuovamente coi piedi a terra e lei mugolò riaprendo gli occhi
arrossati.
“Ho trovato un riparo” disse sorridendo, lei ricambiò appena e gli strinse
forte la mano: aveva le labbra blu, probabilmente anche le sue erano così ed
in tal caso non rimaneva molto tempo prima che le forze lo abbandonassero
di nuovo.
Scesero giù dalle scale e Jonas tenne la mano sul coltello, ma quando,
oltre una terza svolta, apparve una piccola camera sotterranea piena di
vapore e tubi rilassò la presa nel vedere che non c’era nulla di pericoloso ad
attenderli; non che in quelle condizioni sarebbe stato in grado di gestire un
corpo a corpo, in ogni caso.
Inquadrò subito il punto da dove sfiatava il vapore, una valvola di sfogo
sputacchiante alla sommità di un groviglio di manopole; si trascinarono
aiutandosi l’un l’altro e quando furono quasi al centro della nuvola giallastra,
che sapeva di ruggine e uova marce, la spogliò degli abiti bagnati e sentì
che lei faceva lo stesso.
Solo quando avvertirono il calore bruciante sulla pelle si abbandonarono
abbracciati.
31 Siamo vivi pensò mentre la stringeva e le sensazioni di freddo e nausea
andavano scemando gradatamente sostituite dal pulsare cupo e piacevole
che saliva dal tallone. Il pensiero successivo giunse ovattato e
tranquillizzante.
Ne ho un pezzo dentro, un pezzo della stessa roba che stiamo cercando,
ecco perché tutto va bene: è il mio ankh-a-Gan, mi protegge come nelle
storie di mamma.
Jonas sorrise mentre sprofondava nel sonno ed il Tocco, amplificato dal
frammento dello Specchio di Maerlyn, li avvolgeva ristorandoli entrambi dagli
effetti più gravi dell’avvelenamento da radiazioni.
32 11
Il Patriarca non poteva sognare, nel torpore farmacologico in cui passava
ormai gran parte dei suoi giorni di ultracentenario, ma ciò che aveva vissuto
quella sera era così simile ad un sogno che non riuscì a definirlo in altro
modo.
Dopo quell’allarme Qan-Li lo aveva seduto sulla sua sedia a repulsione,
senza domandare alcuna spiegazione per l’improvvisa richiesta, e poi
l’aveva spinto con la dolcezza di un’infermiera premurosa fin quasi sulla
cima della collina del Rifugio dove l’efficacia dei dispersori magnetici iniziava
a venire meno.
Questo lo sapeva bene ma riteneva comunque che non sarebbe stato
qualche Sievert di troppo ad ucciderlo, dato che il suo sangue anche in quel
momento veniva filtrato e depurato in una dialisi continua ed indolore; e poi
lui era già morto, da cinquant’anni almeno, ed il merito di far vivere ancora
quel vecchio guscio mummificato andava solo ed esclusivamente agli organi
sintetici che avevano via via sostituito quelli biologici ed alle nanomacchine
che li riparavano continuamente.
E tutto questo perché non si rassegnava a ritirarsi, a cedere il posto ad un
altro Patriarca (o Supervisore come in effetti sarebbe stato più sensato
chiamarlo) per concludere la sua degna carriera col meritato pensionamento
dell’eutanasia.
Come tutti i vecchi anche lui aveva paura di ciò che c’è dopo la morte.
Qan-Li aveva aspettato più indietro, docile come soltanto una ginoide può
essere, disponibile come sempre era stata: nell’adolescenza ed in
giovinezza a soddisfare i suoi voraci appetiti sessuali, nella maturità ed in
vecchiaia a fornire sfide intellettuali sempre adeguate al suo Q.I di
centonovanta punti. Era il suo lavoro, lo aveva sempre svolto bene coi suoi
predecessori ed avrebbe continuato a farlo con i successori; considerò che
molto probabilmente la comunità si sarebbe estinta ben prima che le sue
celle a combustibile avessero prosciugato la loro ultima scintilla di energia,
mentre orientava il governale di flusso spingendo i repulsori fin quasi
sull’orlo del precipizio.
C’erano ombre più sotto, e bagliori di fuochi accesi vicino ai ripari che la
gente, la sua gente aveva costruito intorno alle porte del Rifugio e lungo il
fianco della collina; erano gli ultimi, come aveva letto dai log di chi era
venuto prima di lui, poiché in trecento anni dalla riattivazione dei sistemi non
33 si erano registrati contatti con gli abitatori degli altri Rifugi della nazione, né
captate trasmissioni radio all’infuori di vecchie propagande ripetute a ciclo
continuo da stazioni automatiche, né (per quanto ne sapeva) c’era mai stato
un contatto con qualcuno che veniva da fuori.
Il Patriarca inspirò l’odore del fumo, di sicuro anch’esso lievemente
radioattivo perché quel favoloso elemento chiamato itterio e la sua corte di
isotopi instabili, portato dalle stelle soltanto per essere causa della
distruzione della specie umana, è un compagno di viaggio di cui non ti liberi
facilmente; come a sottolineare il fatto sul bracciolo della sedia si accese
una luce, rilevando nell’area circostante una contaminazione di sei
microSievert l’ora.
Il vecchio si sentì profondamente inutile.
Aveva la sensazione che fosse solo questione di tempo prima che le
malattie, gli automi impazziti o semplicemente la degradazione genetica
dovuta a generazioni di incroci tra consanguinei portassero finalmente
all’estinzione l’umanità, anche se la sua incantevole assistente robotica non
sembrava essere dello stesso avviso: ma questo era un argomento di cui lei
non parlava volentieri e tutte le volte che aveva cercato di affrontare il
discorso lei lo aveva abilmente sviato, in qualche modo facendogli perdere
la voglia di affrontarlo fin quando non ci aveva semplicemente rinunciato e si
era lasciato sprofondare in una esistenza di sesso, musica e simulazioni
olografiche in cui talvolta indulgeva per anni immaginando di trovarsi in posti
ormai passati, risvegliandosi ogni volta più vecchio e con qualche nuovo
pezzo che non sapeva come si era procurato.
12
Da decenni non aveva più pensato a loro, da decenni non era più uscito
dalle camere interne del Rifugio e non c’era un motivo logico per cui l’avesse
fatto in quella sera così uguale alle centinaia che si erano susseguite.
Se non a causa del sogno.
C’erano figure che si muovevano tra il fumo intorno ai fuochi: alcune
cantavano, forse altre danzavano persino, poi qualcuno gridò e gli sembrò di
scorgere un principio di tafferuglio.
Poveri dementi, sfortunati e ferali, che lui aveva sempre e soltanto spiato da
lontano e solo quando la ginoide non era presente: perché avrebbe potuto
offendersi e negargli i suoi piaceri se l’avesse scoperto a dubitare di ciò che
34 gli aveva detto, a cercare di vedere da solo quali fossero le condizioni della
sua gente senza fidarsi ciecamente di ciò che lei gli riferiva. Ma era forte la
sensazione che ogni volta lei lo fosse venuto in qualche modo a sapere e
bonariamente avesse lasciato correre.
E pensare che da giovane, sedicenne appena chiamato in servizio,
aveva persino provato ad organizzarli: aveva tentato per anni di arringarli dai
grandi schermi di propaganda sulla parete rocciosa proprio lì sotto, ma era
stato tutto inutile; poi Qan-Li gli aveva detto che in realtà loro avevano tutto
ciò che desideravano, che le cose andavano bene così com’erano perché
non dovevano andare proprio in nessun altro modo: c’era ancora potenza
nei collettori solari, sufficiente per mantenere in attività il reticolo di dispersori
magnetici e di purificatori atmosferici intorno alla montagna, c’erano ancora
farmaci e medicine nei magazzini del Rifugio ed esse sarebbero state
distribuite regolarmente; le tare genetiche non erano poi così normali, il
materiale a disposizione in fin dei conti era abbastanza variegato e
comunque anche quelle si potevano correggere; e gli stessi sopravvissuti
avevano ritrovato, ormai già da almeno due secoli, una serra idroponica
ancora funzionante a poca distanza dalla montagna che sarebbe certamente
bastata a sostentarli evitando loro le fatiche dell’agricoltura.
Secondo Qan-Li quelle persone stavano bene, per essere gli ultimi
sopravvissuti di un olocausto nucleare, e si stavano evolvendo verso il
nuovo stadio dell’umanità. Lui avrebbe dovuto assolvere ad un compito
soltanto: essere il loro Dio.
Questa cosa, questo delirio l’aveva tirato fuori proprio dopo il suo ultimo,
fallito tentativo di parlare al popolo a seguito del quale molte pietre e lance
avevano sfondato la superficie del grande schermo di trasmissione appeso a
lato delle porte di piombo.
“Può un Dio mostrarsi?” aveva detto. “No, poiché scatena la paura di chi
non può comprenderlo; il Dio deve parlare e comandare, e così devi fare tu,
Supervisore”.
Se lo ricordava bene quel discorso, malgrado l’età, complici i moduli di
aumento cognitivo che si era impiantato nel cranio alle prime avvisaglie del
degrado senile: erano nei suoi quartieri, sul divano del suo ufficio, presso il
quadro di trasmissione e lei lo stava consolando dopo quell’ennesimo
frustrante fallimento.
“Dovrei essere il loro…Dio?”.
“La nostra era una nazione molto religiosa, noi credevamo nell’Unico e le
vite di quattro miliardi di persone erano dedicate soltanto a Lui ed alla Sua
35 grandezza; ora il culto è sparito, e forse anch’esso ha fatto il suo corso”
aveva aggiunto. “Ma l’uomo da sempre ha bisogno di una figura superiore e
per queste nuove persone, quella figura, sei tu”.
Il vecchio chiuse gli occhi tornando con la memoria a quei tempi andati.
“Cosa dovrei fare?”.
Qan-Li aveva sorriso mostrando denti bianchissimi ed i suoi grandi occhi
a mandorla si erano lievemente allargati in un ammiccamento sensuale,
mentre le sue subroutines di comportamento esploravano codice rimasto
fino ad allora silente.
“Impartire direttive, comminare punizioni, dare insegnamenti; i tuoi
antenati non l’hanno fatto, non è mai stato necessario, ma ora lo è”.
La ginoide si era sporta verso di lui facendo oscillare piano, sotto la
camicetta, quella coppia di seni morbidi e perfettamente sferici che lo
facevano impazzire.
“Tu vuoi aiutarli ma non è così che puoi farlo; devi invece amministrarli in
modo diverso perché è questo che il tempo richiede”.
Poi aveva sentito, attutita dai muri di piombo, una vibrazione sorda che
gli aveva fatto rizzare i peli delle braccia; aveva tentato di alzarsi ma la
ginoide l’aveva tenuto giù, gattonando sul divano fino a fargli pendere i seni
artificiali proprio sulla punta del naso.
“È solo una punizione che mi sono permessa di amministrare” aveva
risposto, con voce arrochita di desiderio fittizio fatta appositamente per
eccitarlo.
“Hanno tirato pietre e bastoni contro quello schermo, devono capire che è
sbagliato; e mentre loro imparano, Supervisore, non gradiresti un po’ di
sesso?”.
Il Patriarca riaprì gli occhi; aveva scoperto in seguito che la ‘punizione’
era consistita in una esecuzione a seicentosettanta decibel della cavalcata
delle Valchirie di Wagner, uno dei suoi pezzi preferiti peraltro, diffusa da tutti
gli altoparlanti di avviso ancora attivi all’esterno del Rifugio: tra tutti quelli
non abbastanza rapidi da rintanarsi nella montagna i più fortunati ci avevano
rimesso irrimediabilmente l’udito. I meno erano probabilmente morti, subito o
poco a seguito, quando le onde soniche avevano squassato i loro vasi
sanguigni come carta velina.
Dopo quell’episodio era diventato il loro “dio”: aveva parlato a loro ed essi
avevano avuto abbastanza presenza di spirito per ascoltarlo e capire i suoi
discorsi elementari; li aveva gestiti ed amministrati come in realtà aveva
36 sempre voluto fare imponendo turni di raccolta degli alimenti alla serra
idroponica, vigilanza contro il pericolo di attacchi da parte degli automi senza
controllo e visite periodiche di controllo della salute, avvalendosi degli
aiutanti automatici ancora operativi del Rifugio spediti in giro come
messaggeri del suo volere ed armati con pistole stordenti ad alta intensità.
C’erano scappati dei morti, le prime volte, quando alcuni dei popolani più
instabili avevano cercato di attaccarli, forse credendo si trattasse degli stessi
robot ostili che infestavano le foreste e la città distrutta (purtroppo il cervello
tende a schizzare via dalle orecchie quando si riceve un colpo di storditore
alla testa – e sospettava che fosse stata proprio Qan-Li a riprogrammare gli
automi perché mirassero in questo modo); col tempo tuttavia, con altri
proclami ed altre punizioni, tutti quanti avevano accettato la sua autorità.
In seguito erano sopraggiunti i decenni dell’ozio, in cui l’interesse per le
sorti del popolo era tutto sommato venuto meno: mentre lui vagava in
paradisi onirici la sua voce aveva continuato a parlare ed amministrare, e
che fosse una voce sintetizzata poco importava perché ormai era entrata nei
cuori e nelle anime dei Risvegliati come un controllo remoto e li guidava con
la stessa infallibile efficacia.
Poi appena mezzora prima aveva interrotto un gioco di ruolo ventennale
nella Cina della dinastia Tang quando il suo personaggio aveva vissuto un
sogno incredibile, e tuttavia molto più vero della realtà simulata che lo
circondava, per uscire lì fuori a pensare e guardare verso l’orizzonte.
“Va tutto bene, Supervisore?”.
Il vecchio trasalì alla voce, sempre sensuale, sempre dannatamente
uguale della ginoide ed il compensatore di battito si premurò di proteggere il
suo cuore di cartapecora da un sussulto che avrebbe potuto fermarlo.
“Una sensazione” biascicò. “Loro…prosperano?”.
“Sotto la tua guida non potrebbero fare altrimenti”.
“Riferisci il tasso di natalità e mortalità” dichiarò, cercando di rendere
quanto più possibile autorevole una voce che era poco più di un bisbiglio; la
ginoide accondiscese.
“La natalità è incrementata del 38,75% rispetto all’ultima volta che me lo
avevi chiesto…”.
“…ventidue anni fa”. Qan-Li sorrise.
“Ventidue anni fa; il tasso di mortalità infantile è del 7% e la vita media è
di quarantacinque anni, il massimo che ci si può aspettare in queste
condizioni, ma alcuni membri della comunità hanno superato i settant’anni;
la gente li chiama ‘Anziani’ ed hanno un grande ascendente sulla comunità”.
37 Era disappunto quello che gli pareva di aver colto nella voce sintetica?
“Non sapevo di questa novità”.
“Sei stato molto impegnato negli ultimi tempi, Supervisore, comunque
non sono un problema: l’autorità che hai è molto forte, e possiamo tenere i
giovani sotto controllo con gli Esecutori”.
Tutto va magnificamente pensò; di certo stava sorridendo, così
maledettamente compiaciuta.
“Tutto va magnificamente”. La sentì posare le mani, certamente lunghe
ed affusolate come se le ricordava quando si prendevano cura del suo
uccello, con un piccolo colpetto sui braccioli della sedia a repulsione.
“Qualcosa ti turba?”.
“Una sensazione” ripeté, pensando al sogno, una rapida successione di
immagini che sarebbe stata bene solamente in una simulazione
plurisensoriale venuta fuori dalla mente di un artista sadico: prima c’era lui
che guardava in un corridoio una bambina in fuga, la visione accompagnata
dalla sensazione strana e ‘legnosa’ di trovarsi proprio dentro la cornice di un
quadro; poi era diventato un’ombra fluttuante sopra un gruppo di persone a
cavallo lungo una strada che si snodava tra le rovine di una megalopoli
distrutta. E per finire si era trasformato in qualcosa di infinitamente piccolo,
un seme aereo o forse un semplice grano di polvere, sbalzato verso l’alto
dal vento di un tornado, su e ancora più su lungo le pareti verticali di
un’arcologia diroccata che ospitava in cima qualcosa di rosso.
“Forse dovremmo scegliere il mio successore tra questi ‘Anziani’, che ne
pensi?”.
La avvertì nettamente, la sorpresa che diveniva rapidamente disappunto, gli
sembrò quasi di vedere i muscoli sintetici che si contraevano sul dorso di
quelle deliziose mani di tiracazzi appoggiate sui braccioli della sedia e
pericolosamente vicine al suo collo rinsecchito...
“C’è ancora tempo per questo, ma il protocollo richiede che la scelta
ricada su uno dei giovani in stasi criogena…”.
“Io sono il Supervisore e posso cambiare i protocolli”. La rimbeccò e di
nuovo vide nella mente il suo delizioso musetto che si contraeva in una
smorfia di disappunto così ben simulata da non avere quasi più nulla di
artificiale.
“Indubbiamente” concesse dopo un attimo, stemperando la voce.
Il Patriarca tacque per qualche momento; a Nord-Ovest il cielo era scuro di
nubi, a non più di qualche decina di miglia, e la pioggerella che stava
cadendo si sarebbe ben presto trasformata in uragano quando la
38 perturbazione che rotolava giù dalle montagne avesse orientato il suo fronte
in quella direzione.
Che cosa poteva mai voler significare quel sogno?
“Avremo pioggia questa notte, non sei d’accordo?”. Il suono della sua
voce tornò a farsi piatto, dimesso.
“Indubbiamente: i sistemi meteorologici hanno rilevato un addensamento
dei cirrostrati ed un aumento dell’attività elettrica atmosferica. Dovremo
proprio ritirarci”.
La sedia a repulsione iniziò a muoversi senza che lui le avesse detto di
portarlo dentro; non la fermò in ogni caso, ma si adattò docilmente.
39 Il folken nascosto
40 41 1
Louis si sentì sbilanciare e mollò la corda istintivamente; la donna del suo
frère non fece lo stesso e la vide mentre veniva strappata in avanti come un
pesce all’amo ed inghiottita dal frangente dell’onda.
Nello stesso istante il ponte vibrò e scricchiolò torcendosi in avanti,
scomparendo quasi del tutto sotto il pelo dell’acqua; alcune travi di ferro si
piegarono e furono strappate con colpi sordi mentre tronchi, detriti e
carcasse di animali investivano la gabbia di ferro già provata da chissà
quante altre inondazioni come quella. Il fiume salì fino alla riva mentre il
soldato guardava senza riuscire a muovere un muscolo, gli coprì i piedi fino
a metà degli stivali, poi, momenti dopo, iniziò lentamente ad abbassarsi fino
a diventare un flusso scuro e tumultuoso che si incuneava ringhiando fra le
travature.
Era successo tutto in una manciata di secondi e lui, adesso, era solo.
Arrivò il buio, si alzò il vento e la pioggia si trasformò in neve, leggera e
sottile come polvere, lievemente luccicante, che si infilava tra gli abiti
cercando la pelle. Louis si riscosse come uscendo di trance: senza sapere
cos’altro fare si caricò di tutto ciò che poteva, mettendo al sicuro le armi di
Jonas nella sacca da sella ed allacciandosi il suo cinturone a bandoliera, poi
si incamminò lungo l’argine chiamandoli a gran voce.
Andò avanti lentamente, di tanto in tanto sparando qualche colpo in aria,
ma nessuno rispose mai con le grida di avvertimento che si aspettava
disperatamente di sentire; quando più avanti il fiume si biforcò spezzandosi
in canali più piccoli cercò di fare come avrebbe fatto Jonas, di ascoltare
l’istinto seguendo la direzione più plausibile. Ma lui non era Jonas ed ebbe il
solo risultato di perdersi ancora più di quanto già non fosse.
Poi alla fine, quando l’oscurità si fece fitta ed anche l’acqua delle pozze
iniziò a risaltare di un chiarore giallastro e malsano, il soldato fu preso dal
panico.
2
Non sapeva per quanto aveva camminato, né di quanto aveva deviato da
quello che il suo frère chiamava “Sentiero del Vettore”, mentre la tempesta
di neve si rinforzava; ad un certo punto dopo l’ultima biforcazione il canale
era sceso in pendenza seguendo gli ultimi crinali della collina e si era andato
42 allargando in quella che sembrava una unica, grande città indistinta in cui
non aveva avuto esitazioni ad inoltrarsi.
Adesso intorno a lui c’erano strade ampie e diritte, solo parzialmente
ingombre da strani detriti ed ancora illuminate a tratti da lampioni che
mandavano una luce candida ed intensa, su ognuno dei quali compariva
uno strano fregio a forma di testa di pesce; e intorno alle strade c’erano
palazzi distrutti di vetro, cemento e ferro molto più alti ed imponenti di
quanto non fossero state le case che una volta in gioventù, prima della
guerra civile, aveva visto a Washington (o forse a Gilead, a Debaria, ad
Hemphill?) e che per la loro grandiosità gli erano rimaste impresse dentro.
Quelle però non erano le testimonianze della grandezza di un popolo che
conosceva e di cui faceva, o credeva di fare parte: erano reliquie di un
mondo morto e quella città, con quelle case così alte ed impossibili e quelle
strade troppo grandi e dritte per essere destinate al passaggio dei carri, non
era altro che un immenso mausoleo funebre.
Improvvisamente desiderò urlare e non fece nulla per trattenersi; i nervi
gli saltarono di netto e Louis Depape, profugo suo malgrado da un mondo
più lontano che mai, gridò di rabbia ed impotenza verso il fiume che gli
aveva portato via i suoi compagni e verso quelle tombe alte e silenziose.
Gridò e bestemmiò contro la sfortuna, contro il ka, contro tutto e sparò in
aria con il fucile sprecando altri proiettili preziosi.
E quando il grido gli si spense in gola fu con sorpresa mista ad un certo
qualche sollievo, che vide emergere dall’oscurità e dalla neve quello che
sembrava proprio un uomo come lui, il corpo e la testa avvolte di stracci
logori.
Grato come non mai nell’incontrare qualcuno in quella desolazione, e
complice lo stato emotivo in cui si trovava, il soldato non fu nemmeno
sfiorato dal dubbio ed abbassò fiducioso l’arma; poi l’individuo alzò il braccio
destro, puntandoglielo contro, e lui ebbe il tempo di notare un particolare
curioso: gli occhi di quell’uomo erano grandi, e lucenti di una luce rossastra
come due lanterne cinesi.
Louis rimase interdetto, poi sentì uno scoppio sordo e qualcosa di
appuntito lo fiocinò al fianco destro attraversandogli la carne per poi
piantarsi con una vampa di scintille nel parapetto del fiume.
3
43 Indubbiamente camminare in una città infestata da automi ostili verso le
intelligenze al carbonio (per tacere dei predatori mutanti) gridando ai quattro
venti il nome di un compagno scomparso non è di certo il modo migliore per
mantenere un basso profilo, ma Louis non poteva certo saperlo e di questo
avrebbe avuto tempo di invocare perdono nell’immediato futuro.
Il robot di sorveglianza, un vecchio modello di vigilante ‘Mister Bobby’
(che aveva ampiamente risentito delle intemperie degli ultimi millesettecento
anni e del progressivo esaurirsi delle celle a combustibile) rilevò l’eco delle
grida mentre era intento al suo solito giro di sorveglianza tra la sede della
Union Bank, il concessionario della Takuro Spirit e il piccolo Galaxy Mart
dell’anziano signor Abernathy; lo sentì mentre stava arrancando nel solco
che si era scavato dentro il cemento del marciapiede, in secoli e secoli di
passaggi uguali al millimetro, da quando era stato riattivato ed i suoi
protocolli di strato superiore modificati per assegnargli una nuova direttiva
prioritaria: sparare a vista su qualsiasi essere biologico che fosse entrato nel
raggio dei suoi sensori.
Non era la prima volta che lo faceva, altre aveva inseguito ed ucciso un
umano sperduto o si era battuto contro uno dei tanti animali mutanti che
arrivavano dalla foresta; e sempre, dopo aver finito, era tornato alla sua
ronda dimenticandosene istantaneamente perché esso non era che un altro
dovere da assolvere. E sarebbe stato così anche quella volta.
Non appena captò l’eco lontana Mister Bobby si bloccò a metà di un
passo mentre i servomotori orientavano la testa allungata nella direzione del
rumore ed i videosensori zoomavano inutilmente in avanti nel tentativo di
individuare la fonte delle armoniche che, i sistemi gli sottolinearono,
appartenevano senza margine d’errore alla gamma dei timbri umani. Un
attimo dopo il robot scavalcò l’orlo del suo solco e prese ad avanzare a
passo sostenuto verso i rumori che i suoi sensori giudicarono in rapido
avvicinamento nella zona del lungofiume.
Quando sbucò sulla passeggiata, una decina di minuti dopo, senza più il
riparo dei palazzi la neve ed il vento lo accecarono momentaneamente;
commutò la visuale dal notturno al termico inquadrando subito la macchia
colorata di forma umanoide qualche centinaio di piedi più avanti, ben
distinguibile tra le isole di calore dei lampioni accesi.
Mentre avanzava eseguì una diagnostica rapida dei sistemi d’arma: la
routine lo informò che il proiettore di raggi stordenti era fuori uso e che il
fucile a dardi aveva ancora il 37% di munizionamento utile; un attimo dopo,
44 mentre la figura umanoide si faceva più delineata, le piccole canne
emersero con uno scatto dagli alloggiamenti nell’avambraccio ed il robot
distese l’arto mentre il sistema di mira parzialmente danneggiato cercava di
inquadrare il bersaglio tra le colonne di neve turbinante.
Poi l’’umano gridò e sparò in aria ed a quella reazione Mister Bobby si
fermò abbassando di una frazione il braccio mentre una subroutine gli
suggeriva alcune possibili spiegazioni al comportamento – paura, rabbia o
sfida – insieme ad un nuovo piano d’azione che tuttavia l’IA madre scartò
immediatamente.
Il robot rialzò il fucile pneumatico e riprese ad avanzare, e l’attimo
successivo emerse nel cerchio di luce del lampione; l’umano nel vederlo
abbassò le braccia con un’espressione confusa.
Il sistema di mira gli suggerì che l’affidabilità del colpo, da quella distanza
e con quelle condizioni atmosferiche, era del 67,4% e Mister Bobby decise
che tutto sommato il margine d’errore era accettabile.
4
“Merde!”.
Louis avvertì una frustata di dolore acuto salire dal fianco e barcollò
all’indietro; il pensiero successivo rotolò lentamente suggerendogli che
quello tutto era meno che un uomo. Estrasse la pistola sparando in alzata
mentre la cosa dagli occhi luccicanti avanzava di un passo, forse per fare
fuoco di nuovo, e quando il proiettile andò a segno vide sprizzare scintille e
fumo dal punto in cui l’aveva colpita. La cosa si portò il braccio alla ferita ed
abbassò il capo, e quando lo rialzò uno sbuffo di vento rovesciò all’indietro
gli stracci che lo avvolgevano.
Louis gridò ancora sparando in rapida successione ed uno dei tre
proiettili che aveva esploso centrò per caso quel viso da incubo, che aveva
fuochi per occhi ed una griglia di ferro al posto della bocca, facendolo
scoppiare in una vampata di fuoco chiarissimo; il corpo della cosa privo di
testa rimase fermo ancora un istante col braccio teso in avanti, poi una
folata di vento lo fece cadere all’indietro rigido come un asse di legno.
Il soldato si appoggiò al parapetto col cuore che batteva in gola come se
dovesse scappar fuori da un momento all’altro, senza sapere cosa pensare,
e guardò il corpo disteso che si stava già coprendo di neve luccicante: nei
punti in cui l’aveva colpito saliva del fumo biancastro e dal collo reciso
45 uscivano grovigli strani, come di fili intrecciati. Come poteva essere
possibile?
Ricaricò con la massima velocità che il tremito alle mani gli permetteva,
poi richiuse il tamburo della colt e si avvicinò tenendosi pronto, l’arma
puntata in avanti col cane sollevato. Il corpo fortunatamente non si rialzò, ma
quando vi arrivò vicino e poté vederlo bene ci mancò poco che i nervi gli
cedessero di nuovo.
Quell’uomo era fatto di ferro, per quanto la sua mente si rifiutasse di
accettare un’idea così folle; era fatto di ferro, con una pelle di lamiera
grigiastra, graffiata ed annerita in più punti che copriva un corpo molto sottile
ed allungato. E nei punti dove le pallottole l’avevano trapassato la lamiera
era saltata via lasciando intravvedere ingranaggi, piccoli tubi e fili come
quelli che fuoriuscivano dal collo privo di testa.
Louis si accovacciò sulle ginocchia tenendosi pronto a sparare di nuovo se
la cosa – Dio non volesse – avesse dato altri segni di vita; vide che in alto a
destra sul petto c’era un simbolo che gli era familiare: una stella a cinque
punte, un distintivo da sceriffo ma, quando provò a toccarlo, sentì che era
soltanto disegnato. Il contatto con il metallo (tiepido, proprio come se fosse
stato un corpo vivo) gli fece ritrarre le dita di scatto.
In quel momento sentì un rumore di neve calpestata dietro di lui; si rialzò
di scatto e spianò l’arma, ma non riuscì nemmeno a premere il grilletto.
Sentì solamente il braccio cedere e le dita allentarsi intorno al calcio, distanti
come se fossero appartenute ad un altro uomo, quando realizzò che almeno
sei o sette altre cose erano spuntate dal buio e lo stavano fissando coi loro
grandi occhi luminosi. Poi una di loro sollevò il braccio puntandoglielo contro
e allora il soldato, gridando di disperazione, lasciò cadere tutti i suoi bagagli
a terra e scappò via pazzo di terrore.
46 5
Come i robot anche i sintetici di quella zona avevano rilevato gli
spostamenti dell’umano, perché quelle grida erano davvero troppo forti per
poter essere ignorate; e quando le sentinelle avevano passato la notizia che
un uomo stava scendendo dalla zona residenziale lungo Thola Boulevard
l’area si era messa in agitazione all’istante.
Erano ben diversi dai robot, i sintetici: intelligenze artificiali ben più
evolute non avevano nulla contro gli uomini, non erano stati riprogrammati
per dare loro la caccia, non avevano un padrone che li controllava ma
solamente una schiavitù ad antichi protocolli di servizio – compagnia,
intrattenimento, assistenza e sesso – che col passare dei secoli si era fatta
più lasca. E soprattutto, cosa molto importante, i droidi erano curiosi ed
intraprendenti in virtù delle routine comportamentali eclettiche introdotte nel
software per favorire lo sviluppo delle personalità complesse richieste
dall’esecuzione dei loro compiti; era per questo che trovavano impossibile
resistere ad ogni richiamo di novità, per quanto potenzialmente pericoloso
potesse essere.
Era per questo che l’improvvisa apparizione di quell’umano aveva avuto
per il gregge di 300 l’attrazione irresistibile che la luce ha per la falena.
Usciti con cautela da sottoterra, dai tunnel della metropolitana in cui si
erano rifugiati da sempre, avevano spiato da lontano tornando a
nascondersi ed a spostarsi quando quello strano umano si spostava a sua
volta. Alcuni tra i più sensibili, come Phil-972.566, sacerdote minore della
chiesa dell’Unico, nel sentirlo vociare con un timbro che all’analisi armonica
denotava angoscia e smarrimento proposero di avvicinarlo per sentire cosa
lo affliggesse, ed eventualmente aiutarlo a venire a capo dei suoi problemi;
altri invece, come Janice-12.556.443, insegnante di matematica alla scuola
del quartiere, avevano suggerito prudenza: quell’umano poteva essere
pericoloso, ostile come lo erano i sopravvissuti impazziti del Rifugio 97
dall’altra parte della città, non sarebbe stato saggio andarlo a stuzzicare a
cuor leggero.
E così si erano accontentati di seguirlo in silenzio, almeno fino a quando non
si erano accorti che anche qualcun altro lo aveva sentito.
“È quel bruto, miscredente e senzadio di Mister Bobby! Il numero
227.492.743 intendo” aveva detto Phil con la sua voce appena un po’
47 effeminata (supergay avrebbe detto qualcuno). “Dobbiamo avvertirlo o lo
ucciderà!”.
“Così Mister Bobby ucciderà lui E te” aveva ribattuto Clyde - 667.543,
androide da consumo sessuale con la voce, le fattezze (e le misure)
dell’Elvis Presley di quel mondo nei suoi anni migliori.
“Rilassati, non è un problema nostro”.
“Ma quell’uomo è un Figlio dell’Unico, sempre sia lodato, è nostro dovere
avvisarlo!”.
Clyde aveva ridacchiato e Janice si era affrettata a tappargli la bocca
sbirciando da dietro l’angolo del palazzo nella direzione in cui l’umano si era
appena allontanato.
“Non fare rumore, ragazzaccio!” lo aveva rimbeccato come se fosse alle
prese con uno studente ribelle. “O ci manderai tutti in punizione!”.
Il sintetico aveva scosso il capo scoccandole un’occhiataccia ma si era zittito
all’istante; tutti quanti potevano captare la traccia elettromagnetica del robot,
ad un isolato di distanza, ed anche se quest’ultimo era usurato e ad un
passo dalla rottamazione poteva ancora sistemarli facilmente tutti e quattro
(se non altro per il fatto che loro non avevano nulla con cui difendersi).
Phil uscì allo scoperto e la neve lo avvolse per un attimo nascondendolo
alla vista. “Non venite? Lo perdiamo se stiamo qui!”.
Janice sembrò dubbiosa.
“Questa faccenda sembra incasinata, come diceva sempre il piccolo
Lawrence Brown della terza fila, quarto banco dalla finestra, quando non
capiva un problema. Poi io glielo spiegavo, ma lui continuava a dire così”.
“Tu sei fuori di testa prof” aveva sottolineato Clyde, poi si era girato
nuovamente verso Phil soltanto per cogliere l’ultimo svolazzo della sua
tonaca sparire tra le colonne di neve.
“Affanculo” protestò avviandosi a sua volta; Janice, realizzando
l’accaduto con uno sbattere meccanico di ciglia e non desiderando essere
l’unica del terzetto a perdersi qualsiasi cosa dovesse succedere, si era
affrettata a tenere dietro.
Avevano seguito di soppiatto ancora per una manciata di minuti, loro alle
spalle di Mister Bobby a sua volta alle spalle dell’umano, poi quando
quest’ultimo si era fermato ed aveva urlato sparando in aria Phil aveva
sussultato con un guizzo incontrollato di servomotori.
“Per la Madre Santa, lo sta uccidendo!” aveva bisbigliato, ma Janice si
era accontentata di rifilargli una gomitata nello stomaco.
48 “Passa alla termica, tu, discolo che non sei altro! Non gli ha ancora fatto
nulla!”.
“Oh…positivo”.
Il sintetico commutò a sua volta ed ingrandì lo zoom proprio in tempo per
vedere Mister Bobby che avanzava verso l’uomo, fermo immobile nel
cerchio di luce di un lampione, puntandogli contro il fucile a flechettes; lo
scoppio di gas compresso arrivò, attutito e distorto dal vento ma sufficiente a
farlo sussultare di nuovo, seguito dall’imprecazione dell’uomo.
“È un Franco” considerò Clyde dopo una sommaria analisi linguistica.
“Non sapevo avessero riattivato le linee transcontinentali”.
Janice fece per rispondere che se parlava francese non era così scontato
che venisse dalla Francia (per la miseria, avrebbe anche potuto venire dal
Canada!) quando tutti e tre udirono lo scoppio di una detonazione seguita
all’istante da un intenso chiacchiericcio elettronico che si irradiò in broadcast
da Mister Bobby sulla frequenza di comunicazione standard.
“L’ha colpito…”. C’era incredulità ottimamente simulata nella voce di Phil.
L’androide si sporse in avanti ansioso, poi tutti e tre sentirono echeggiare
altri scoppi inframmezzati da un urlo di spavento e terminati da un botto
come di ceramica spaccata. La mitraglia delle segnalazioni d’allarme di
Mister Bobby tacque all’istante ed i sintetici si guardarono l’un l’altro smarriti.
“Ha…ha ammazzato Mister Bobby” sussurrò Janice. “Per le anime di
Asimov e Clarke, ha fatto fuori Mister Bobby!”.
“Già, e tra poco ne arriveranno tanti altri per vendicarlo”. Clyde si guardò
attorno con apprensione, commutando rapidamente dal termico al notturno,
mentre altri sintetici che come loro avevano assistito da lontano al
combattimento si facevano avanti confusi ed incuriositi.
“Io dico che dobbiamo toglierci dai piedi, muy pronto”.
“Aspetta…”.
Phil avanzò sorpassando i sintetici da affezione Bob - 612.378 ed Emma
- 943.267.
“Dove vai monellaccio? Torna qui!”.
Janice titubò alle spalle dell’amico mentre questi avanzava
tranquillamente verso il cerchio di luce del lampione, coi palmi rivolti verso
l’alto nel saluto della sua chiesa.
“Si farà ammazzare” osservò Bob; Conrad - 886.775 annuì
vigorosamente con un ronzio sommesso di servomeccanismi.
“Positivo”.
49 “Io vado con lui, io…non posso stare qui…”. Janice guizzò in avanti
scivolando sul ghiaccio appresso a Phil; e dopo un’ultima indecisione anche
Clyde, Bob, Emma, Conrad e chi stava giungendo solo in quel momento si
fecero avanti a loro volta.
6
Phil vide che l’umano si era chinato sul robot sorvegliante come se
volesse esaminarlo; abbassò le braccia lungo i fianchi, in attesa, e dopo un
attimo vide sbucare alla spicciolata tutti gli altri. Nessuno parlava, tutti
stavano osservando nel tentativo di capire.
L’umano sfiorò Mister Bobby e si ritrasse subito: sembrava sconvolto come
se non avesse mai ucciso qualcuno prima di allora e Phil percepì,
amplificato, il senso di pena ed angoscia che emanava. Fece un passo in
avanti con l’intenzione di parlare e la neve scricchiolò sotto la suola della
scarpa sfondata; cogliendo il rumore l’umano si girò di scatto e tutti
notarono, ben stretta nelle sue mani, un’arma che prima di allora avevano
visto solamente sulle pagine dei libri di storia.
Phil deglutì, in un gesto di disagio simulato discretamente dalle routines
di personalità, e tese la mano in modo che le sue intenzioni non dessero
adito a dubbi; un attimo dopo vide il volto dell’umano contrarsi in una smorfia
di terrore, la sua arma cadergli di mano, i suoi bagagli scivolare a terra. Lo
vide girarsi e correre via come se fosse inseguito da cento diavoli e la
routine comportamentale gli suggerì di sentirsi contrito e dispiaciuto.
“Ma…” balbettò.
“L’hai fatto scappare” considerò Clyde.
Emma trotterellò verso i bagagli abbandonati a terra, sollevò la sacca da
sella e quando la fibbia si slacciò ed il contenuto piovve fuori alla rinfusa lo
ammirò con occhi trasognati.
“Portate tutto alla stazione Farragut”. Phil eseguì una diagnostica rapida
degli attuatori di movimento inferiori, e la risposta che ricevette fu almeno in
parte confortante: erano ancora abbastanza in buono stato da permettergli
di correre.
“E tu?”. L’accento del Mississippi suonò comico a sproposito mentre
Clyde osservava il compagno con una certa, vaga apprensione. Phil non
rispose nemmeno: un attimo dopo il religioso scattò e la neve si richiuse
rapidamente alle sue spalle.
Clyde e Janice si guardarono interdetti.
50 “Che facciamo?” indagò Emma; poi qualcun altro, forse Bob, forse
Conrad, iniziò a radunare i bagagli e le provviste sparse a terra. Fu come un
segnale convenuto: in breve tutti avevano preso qualcosa, e la comitiva di
sintetici si eclissò rapidamente tornando a rintanarsi sottoterra prima che
altri robot vigilanti arrivassero richiamati dalle segnalazioni.
51 7
Louis corse via tra la neve giallastra, fuori dal cerchio di luce dei lampioni
come un animale impazzito; il fucile gli sbatacchiò intorno alle spalle mentre
saltava oltre una fila di antiche automobili scivolando malamente sul suolo
gelato. Si rialzò e nel sentire che qualcosa lo stava ancora inseguendo la
sensazione dolorosa passò immediatamente in secondo piano.
Non considerò neppure di fermarsi e sparare, o di nascondersi, il pensiero
non gli passò neppure per la testa. Voleva solo fuggire ed i rumori
dell’inseguitore che teneva dietro lo incitarono ad accelerare ancora, a
darsela a gambe a perdifiato e senza una meta.
Mezzo miglio più avanti il grande viale si restrinse, strozzato dalle
macerie di una grande torre di vetro che era franata di traverso ostruendolo;
Louis si bloccò guardandosi intorno con angoscia, poi inquadrò una rampa
di scale che scendeva nel sottosuolo, sormontata da un arco di ferro con
una grande lettera “M” bianca sullo sfondo rosso sbiadito di un’insegna; non
sapeva cosa significasse ma la sua mente sconvolta gli suggerì che, forse,
sottoterra sarebbe stato più al sicuro.
Phil arrivò nel piazzale della stazione Bethany quando Louis era appena
scomparso oltre la discesa del tunnel della metropolitana; il sintetico si
morse il labbro nel vedere che le tracce nella neve portavano proprio in
quella direzione.
“Porco cazzo” sbottò, poi la routine di comportamento gli suggerì che
quello non era proprio il linguaggio adatto ad un religioso, pure se di basso
rango come lui.
“Chiedo scusa, Altissimo” mormorò segnandosi rapidamente, poi con passo
più calmo si avviò a sua volta cercando di elaborare delle strategie di
comportamento; quando tuttavia, ormai alla cima delle scale, avvertì una
vibrazione sorda sotto i piedi si fermò una seconda volta; la linea Carrier –
Bethany – Orchard era una delle poche ancora in attività, ed a quanto aveva
appena sentito sembrava che gli orari di passaggio dei treni fossero stati
modificati.
Phil si collegò alla frequenza dei controllori automatici del traffico e realizzò
immediatamente: la routine di comportamento gli suggerì subito che avrebbe
dovuto sentirsi frustrato per non esserci arrivato da solo.
52 “Che si fottano anche i musei aperti di notte!” cogitò, e questa volta non
perse tempo nel segnarsi chiedendo perdono prima di correre giù per le
scale ed infilarsi tra le porte della stazione.
Louis si guardò intorno in quel nuovo posto, scuro ed umido, illuminato
da lampade appese a pareti e soffitti neri di muffa; dopo il primo attimo di
smarrimento riprese a correre superando resti di scheletri, mucchi di
calcinacci, cartacce e murales pubblicitari che dicevano cose che non
riusciva a capire, poi sentì il terreno mancargli sotto i piedi quando il
corridoio si interruppe in una seconda rampa di scale. Gridò e scivolò
dolorosamente sui primi gradini, poi riuscì a fermarsi di traverso sulla scala
puntando i piedi.
Rimase fermo immobile nella semioscurità, prossimo a svenire di
tensione e stanchezza, e per qualche momento non riuscì a sentire altro che
il battito del cuore nel petto ed in gola. Poi il pavimento tremò leggermente
ed un attimo dopo vide riflessi di luci in movimento oltre una seconda svolta
del corridoio, poco più in basso dove la scala finiva.
Spianò il fucile in avanti respirando con la bocca aria gelata e stantia; attese
che succedesse qualcos’altro, ma nessun’altro flash di luce fantasma si
sovrappose più alla luminosità fioca delle lampade a muro.
Il soldato si rialzò lentamente riuscendo in qualche modo a mantenere la
calma; diede un’occhiata rapida oltre il ciglio del corridoio e gli sembrò di
vedere un’ombra umanoide scendere le scale da cui era arrivato pochi
secondi prima. Nella mente l’immagine di quell’allucinante uomo di ferro
scese la scala più velocemente che poteva tenendo una mano contro il
muro, per sostenersi e guidarsi, ed oltre la svolta si trovò davanti una
galleria ampia e deserta quasi completamente buia.
Louis armò il cane del fucile, poi credette di sentire un rumore alle sue
spalle e si girò senza vedere nulla; tenendo la canna puntata verso gli ultimi
gradini della rampa di scale arretrò fino a quando non si accorse che il
pavimento si interrompeva bruscamente lasciando il posto a quello che gli
sembrò essere una specie di canale; guardò giù e vide soltanto buio, poi
alzò lo sguardo e vide una specie di rotaia di metallo lucido appesa al soffitto
di cemento.
In quello stesso istante qualcosa si mosse lungo le scale; senza potersi
controllare Louis gridò e sparò alla cieca, poi saltò giù atterrando malamente
contro qualcosa che sporgeva dal suolo e si mise di nuovo a correre incitato
dai rumori che ora sentiva ben distinti dietro di lui.
53 In lontananza, ancora distanti oltre una svolta del tunnel, apparvero due
punti di luce.
8
Phil riconobbe la necessità di darsi una calmata e la sua unità centrale
smorzò di un buon 30% le subroutines emozionali: quell’umano era armato e
terrorizzato e probabilmente, come gli suggerirono i calcoli euristici
immediatamente successivi, credeva che ad inseguirlo fosse un altro Mister
Bobby; dunque le probabilità di essere attaccato per sbaglio erano di molto
superiori alla soglia del rischio accettabile. Il droide si fermò ai piedi delle
scale e passò nuovamente dal termico al notturno per scrutare nella
semioscurità del passaggio; un attimo dopo i sensori captarono un grido
soffocato circa ottanta piedi più avanti, dove se non ricordava male una
seconda rampa dava accesso alla banchina dei treni. Una funzione
collaterale informò il droide che di lì a nove minuti, secondo più secondo
meno, sarebbe passato il convoglio successivo per il capolinea Orchard.
Colse appena un movimento oltre la curva in fondo al corridoio e mentre
riprendeva a muoversi avvertì con chiarezza i rumori dell’umano che
scappava; valutò se inviare una segnalazione verbale con finalità
esplicativo/rassicuranti, poi considerò che in quel modo avrebbe fatto di sé
stesso un buon bersaglio per quello che era un tiratore fin troppo abile e
scartò l’idea.
Quando arrivò in cima alle scale effettuò una scansione termica rapida e le
impronte del fuggitivo gli apparvero come piccole ombre bluastre sul
pavimento nero; nuovamente messa da parte la prudenza (la routine lo
avvisò che mancavano solo più tre minuti al passaggio del treno, e qualcosa
gli diceva che sarebbe stato un bene fermarlo prima che ciò avvenisse)
scese i gradini a tre a tre ma quando arrivò sulla banchina l’umano gli sparò
addosso, fortunatamente senza colpirlo. Un secondo più tardi lo vide saltare
dentro il canale della monorotaia ad appena due minuti dal passaggio del
treno.
“Oh, porca merda!”.
Il droide inviò un sentito anatema ai suoi pattern comportamentali (ed un
pensiero di scusa all’Unico) mentre veniva costretto dai medesimi a saltare
giù ed a rimettersi a correre spremendo tutto ciò che le gambe potevano
ancora dargli.
54 La banchina della stazione si interruppe bruscamente dietro una ringhiera
ed il canale si allargò a destra ed a sinistra, poi Louis notò due luci in
lontananza e rallentò appena l’andatura quando vide che si stavano
ingrandendo; secondi dopo il suolo iniziò di nuovo a tremare ed un vento
caldo che sapeva di ruggine e olio lubrificante gli soffiò addosso dal tunnel
mozzandogli il respiro.
L’uomo si fermò senza sapere che fare mentre i punti luminosi crescevano
divenendo due piccole lune in rapido avvicinamento ed il tremore cresceva
mescolandosi ad uno sferragliare stridente che, lo realizzò con immenso
orrore un attimo dopo, non poteva essere altro se non il rumore di un treno
in corsa: oh si, c’era un treno (che per qualche strano motivo correva
sottoterra), lui ci era finito davanti e di lì a pochi secondi sarebbe morto.
Le lune divennero pianeti, poi crebbero ancora ed il soldato non provò
nemmeno più a scappare: chiuse semplicemente gli occhi ed iniziò a
recitare il Padre Nostro mentre il fischio sferragliante cresceva sempre di più
e da dietro le palpebre chiuse la luminosità aumentava. Poi
improvvisamente si sentì spingere di lato e schiacciare a terra, il respiro
soffocato da una folata di polvere e le orecchie assordate dal rumore del
treno che sfilava a nemmeno un metro di distanza. Quando li riaprì sopra di
lui c’era il volto, rugoso e per metà in ombra, di un vecchio con un crocefisso
che ciondolava dal collo; l’uomo sorrideva e quando parlò la sua voce era
mite e tranquillizzante.
“Ci sei andato vicino a prendere quel treno; ora però diamoci un taglio
con la corsa, sei d’accordo?”.
Lo sconosciuto lo aiutò a rialzarsi, poi si guardò intorno ed i suoi occhi
divennero improvvisamente rossi e luccicanti come quelli dell’uomo di ferro;
Louis spianò il fucile puntandoglielo contro e quello, quando se ne accorse,
alzò di scatto le mani.
“In nome di Dio, fratello, abbassa quell’affare…io non sono tuo nemico!”.
“Gli occhi…”.
Il vecchio inclinò il capo di lato, poi capì.
“Oh…positivo, è solo la termica, la tolgo subito”. Un attimo dopo gli occhi
dello sconosciuto si spensero tornando alla normalità. Incredulo Louis
abbassò di un pelo il fucile e l’altro fece lo stesso con le mani.
“Che cosa sei…”. Lo sconosciuto si strinse nelle spalle.
“Io sono Phil. Phil-972.566” puntualizzò, “Ma non è questo il posto più
adatto per tenere una conversazione. Vorresti seguirmi?”.
55 Louis non rispose, squadrandolo con sospetto di cui l’altro si accorse
immediatamente.
“Posso capire la tua diffidenza, ma ti assicuro che da me non dovrai
temere nessun male”. Il vecchio allargò il suo sorriso ed accennò col capo,
poi iniziò ad avviarsi lentamente attraversando il grande slargo degli scambi
della metropolitana con lentezza studiata appositamente. Solo quando sentì
che l’umano si era finalmente deciso a seguirlo accelerò leggermente il
passo, orizzontandosi a colpo sicuro tra i cunicoli che il folken nascosto
aveva eletto a propria casa.
9
Mano a mano che camminava l’agitazione e la paura andavano
scemando di pari passo con il crescere della curiosità; pur non osando
ancora interrogare la sua strana guida – i cui occhi, aveva notato, si erano
spesso riaccesi mente lo guidava attraverso il labirinto di cunicoli e gallerie –
si era rimesso il fucile a tracolla ed aveva preso a camminare poco indietro a
lui; quello lo aveva notato e per tutta risposta aveva sorriso senza dire nulla.
Il tragitto non durò molto, anche se era difficile tenere traccia del tempo in
quella semioscurità, e dopo un po’ Louis si rese conto che stavano tornando
verso il fiume ripercorrendo a ritroso la direzione che aveva seguito da
quando l’inondazione lo aveva separato
(separato, soltanto separato! Perché mon frère et sa fille non possono
essere morti!)
da Jonas e Cindy; presto l’aria iniziò a farsi più umida ed i soffitti iniziarono a
gocciolare, e ad un certo punto il soldato sentì che gli stivali erano finiti a
mollo.
“Non c’è più nessuno che cura la manutenzione e così il fiume ha trovato
la sua strada” aveva osservato il vecchio di nome Phil; lui non aveva
risposto, così erano andati avanti in silenzio nelle gallerie semiallagate fino a
quando il terreno non aveva iniziato a salire.
Ad un certo punto, dopo aver attraversato un altro slargo dove molte rotaie
si incrociavano sia sul soffitto che sul pavimento, scantonarono in una
galleria laterale e Louis lesse, scritte su un cartello sbiadito appeso al muro,
le parole “FARRAGUT WEST: MAINTENANCE”; andarono avanti ancora un
centinaio di passi prima che il vecchio si fermasse davanti ad una porta di
ferro segnata da graffi ed annerimenti per poi bussare con tre colpi
distanziati.
56 Da dentro una voce metallica sillabò “PAROLA-D’-ORDINE” e lui rispose
senza esitazione: “Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino.
È un proverbio” spiegò subito dopo, Louis annuì perché anche lui lo
conosceva.
“Li cambiamo tutti i giorni e sono il primo a riconoscere che avere una
parola d’ordine è una cosa stupida; ma secondo l’anziano 300 questa
consuetudine consolida il nostro senso di appartenenza al gruppo”.
Louis non disse più nulla; dall’altra parte della porta sentì un rumore di
chiavistelli tirati e serrature aperte, poi il battente si aprì e ne spuntò un volto
con occhi rossi ed accesi e una griglia di ferro al posto della bocca; fece per
spianare il fucile ma il vecchio lo fermò appoggiandogli una mano sulla
spalla ed abbassando la canna con l’altra.
“Lui è IBM e fa la guardia: si, ha la faccia come quello che hai ucciso,
però lui è buono e non vuole farti del male, d’accordo?”.
Louis squadrò il robot guardiano (Ébiêm?) mentre Phil lo trascinava
avanti, e lui lo osservò di rimando seguendolo con le telecamere oculari
accese di una vaga luce arancione; prima di sparire oltre l’ultima svolta del
corridoio lo vide armeggiare con la porta sprangando nuovamente i
chiavistelli e le serrature, mettendosi subito dopo dritto sull’attenti come un
vero e proprio guardiano.
La sala era grande, alta ed imponente come una cattedrale, sicuramente
una stazione di treni (per quanto fosse strana l’idea di treni che correvano
sottoterra): c’erano pilastri, banchine e dentro resti di binari arrugginiti
interrotti bruscamente dalla parete di una galleria crollata poco oltre il piccolo
passaggio, e strane scale che seguì con lo sguardo fino ad una specie di
piano rialzato una dozzina di piedi più in su.
Delle baracche si accorse con qualche secondo di ritardo perché nay,
non era proprio quello il luogo dove avrebbe dovuto esserci un villaggio;
ammassate e compresse tra le mura della stazione, appoggiate contro i
pilastri, impilate le une sulle altre in costruzioni pericolanti di scale, tende e
puntelli invadevano ogni centimetro libero compresi i canali dei binari, con
pareti e tetti di lamiera addossati gli uni agli altri intorno a passaggi stretti
illuminati da torce e fuochi accesi dentro bidoni di ferro.
Phil si fermò un attimo come a volersi orizzontare e Louis sentì odore
d’acqua stagnante ed urina; ebbe appena il tempo di chiedersi chi potesse
vivere in un posto come quello poi il vecchio lo prese sottobraccio e si infilò
57 col passo più tranquillo del mondo in un vicoletto buio che si apriva tra le
catapecchie.
Un attimo dopo sentì un rumore di passi affrettati dietro le spalle e colse il
movimento, nell’istante in cui vi passavano davanti, di un volto dietro una
finestra dai vetri rotti: strattonò all’indietro e l’altro per tutta risposta serrò la
mano sul suo avambraccio tirandolo avanti con una stretta dalla forza
notevole, che tuttavia durò solo qualche attimo; quando si girò, senza
fermarsi, vide che sorrideva e sentì le sue dita diminuire la pressione.
“Vuoi fuggire? Perché mai dovresti, per finire sotto un altro treno?”.
Phil ridacchiò e proseguì tirandoselo dietro fino all’imboccatura di una
seconda galleria ostruita dal vagone di un treno rovesciato di lato, con
alcune torce piantate per terra a formare un rozzo cerchio illuminato; in molti
li avevano seguiti e lo spazio si riempì rapidamente di uomini e donne
dall’aspetto lacero e gli occhi luccicanti, che li stavano guardando con la
curiosità che si riserverebbe ad una coppia di bestie rare in uno zoo.
“Questo è un uomo come non ne avevo mai visti” disse un tizio, un
individuo alto con una camicia a quadretti logora e sfilacciata.
“Perché l’hai portato qui?” chiese un altro, e cogliendo un vago senso di
minaccia in quelle parole Louis spianò il fucile; immediatamente la folla si
fece indietro ed il vecchio allargò nuovamente gli occhi.
“Madre santa, uomo, non puoi mettere giù quell’affare almeno per un
secondo? Per la puttana!”.
“Cos’è qui?” chiese, Phil si fece avanti di qualche passo frapponendosi
tra la canna e la gente; poi la abbassò con delicatezza per la seconda volta.
“Questa è la stazione Farragut e non ci sono nemici; è inutile minacciare
perché, te lo ripeto, noi non vogliamo farti del male”.
“Positivo” disse qualcuno.
“Uomini, tutti uguali!” considerò qualcun altro, una voce femminile questa
volta. Il vecchio spinse la canna del fucile fino a quando essa non puntò
verso terra; Louis lo guardò confuso.
“Ma voi…nom de dieu, voi che cosa siete?”.
“Noi siamo uomini e donne, e non potremmo essere altro”.
Louis si girò sentendo la nuova voce e vide una figura vestita di un lungo
saio marrone, con un cappuccio che gli copriva quasi interamente la testa,
farsi lentamente largo tra la folla: dal modo in cui tutti si facevano da parte
giudicò che doveva essere qualcuno che godeva di grande prestigio tra di
loro.
58 Quando gli arrivò davanti e si scoprì il capo vide con orrore che metà della
sua faccia mancava, sostituita da una maschera di ferro come quella
dell’uomo che aveva ucciso vicino al fiume, che sembrava infilarsi sotto la
carne in corrispondenza di slabbrature rossastre e profonde; era come se
qualcuno gli avesse portato via metà faccia e fatto colare del ferro sulle
ossa; l’occhio dalla parte normale era di un grigio freddo, quello scarnificato
luccicava di un rosso acceso e minaccioso. Un attimo dopo due grossi cani
uscirono trotterellando dietro di lui e si accucciarono vicino ai suoi piedi;
anche i loro occhi luccicavano della stessa luce scarlatta e lo guardavano
con un’intensità innaturale.
L’essere gli sorrise mostrando denti aguzzi e triangolari come punte di
una sega; Louis scattò all’indietro sbattendo contro la parete di ferro del
vagone rovesciato, l’essere gli rise in faccia con un rumore di catena
trascinata e l’occhio rosso mandò un lampo.
“Paura eh? Vuoi scappare? O magari vuoi spararmi?”.
“Io…non…” balbettò ed il sorriso da incubo si allargò ancora di più.
“Magari questo ti darà una scossa, si? Portate ciò che gli appartiene!”
comandò; attimi dopo un uomo uscì dal crocchio di folla e gli posò davanti ai
piedi la sacca da sella che aveva lasciato cadere quando era scappato.
Louis la guardò, incredulo, e quando rialzò gli occhi vide che nelle mani
dell’anziano col saio era comparsa la sua colt, che ora gli veniva offerta dalla
parte del calcio.
“Io…”.
“Controlla se vuoi, non dovrebbe mancare nulla. E la pistola è carica!”. Il
vecchio lo squadrò in attesa, e Louis non ebbe il coraggio di abbassare lo
sguardo verso la sacca; solo dopo qualche secondo capì cosa stesse
aspettando.
“Grazie, sai”. L’espressione del vecchio si distese come per incanto,
l’occhio rosso facendosi di un più tranquillizzante colorito giallino. Come se
avesse saputo che finalmente poteva farlo Louis prese la pistola e la rimise
nella fondina, poi soppesò la sacca e infilò la mano dentro rovistando nel
contenuto; quando le dita incontrarono l’inconfondibile forma delle armi del
suo frère e quella, più strana, di quelle della sua compagna si sentì
avvampare realizzando pienamente e finalmente ciò che era stato vicino a
commettere.
No, non era così che si sarebbe comportato Jonas.
59 “Guarda che bello, è diventato rosso!”. Dal capannello sbucò fuori una
bimba dal viso sporco, che si aggrappò alla tonaca del vecchio e sfoderò un
ampio sorriso di denti perfetti.
“Posso affezionarmi a lui?”.
Il vecchio le arruffò i capelli.
“Se lui vorrà non vedo perché tu non possa, Emma. Ma non dobbiamo
correre, quelli come lui sono strani ed hanno bisogno di tempo per adattarsi
alle situazioni”.
300 lo guardò con un mezzo sogghigno e di nuovo Louis si sentì a disagio;
poi si girò e scomparve tra la piccola folla lasciandolo semplicemente lì, con
la sua sacca, le sue armi ed i suoi bagagli appena recuperati, alla mercé di
tante paia d’occhi che lo guardavano con curiosità che non accennava a
diminuire.
Subito Phil si fece nuovamente avanti, sempre sorridente, sempre
tranquillizzante ed affabile, il volto di un anziano amico che al soldato
sembrò tuttavia spaventosamente alieno.
“Che cos’era lui?”. Come se non si aspettasse altra domanda Phil allargò
leggermente le braccia in un gesto da oratore, come a chiamare idealmente
a sé tutta la folla radunata lì intorno.
“Noi lo chiamiamo 300. È il più anziano di tutti noi e ci guida come il
padre che nessuno, qui, ha mai avuto; ed è un uomo esattamente come me
e te” aggiunse.
Louis non riuscì a capire: fece per replicare che quello tutto poteva essere
fuorché un uomo, poi sentì qualcosa di piccolo e freddo insinuarsi nella
mano libera e strattonò il braccio con un gridolino. Emma ridacchiò.
“Hai visto? Mi ha preso per mano!”.
“Emma, non si fa: l’hai spaventato, non è così che si comporta una brava
bambina”. La piccola innocente e furbetta, e quando l’Umano cercò
inutilmente di allontanarsi gli passò a sua volta un braccio intorno alle spalle.
“So cosa stai pensando, lui non è un uomo come te perché sotto la sua
carne c’è il ferro; ma un filosofo si chiederebbe: può questo renderlo meno
umano di te?”.
Louis fece per mettere mano alla pistola ma il vecchio lo prevenne
bloccandogli la mano.
“No, uomo, non ce n’è bisogno, credimi; noi non vogliamo fare del male a
nessuno: noi guardiamo e impariamo, non facciamo guerre, non è questo il
nostro ruolo”.
60 Phil staccò la mano di Louis dalla fondina e ricambiò il suo sguardo
frastornato con l’espressione più tranquillizzante che i suoi malandati
servomotori facciali gli permettevano di assumere.
“Io posso spiegarti ogni cosa” aggiunse, ed Emma annuì vigorosamente.
Dalla folla alcune voci mormorarono un ‘positivo’ mentre i più vicini si
allontanavano facendo spazio.
“Posso chiederti di seguirmi, si?”.
Louis spostò gli occhi su quei volti che lo fissavano come se non
avessero mai visto un uomo, su quel capannello di figure dai vestiti laceri e
le facce sporche che malgrado la loro apparente normalità avevano
qualcosa di tragicamente sbagliato…e che tuttavia non sembravano avere
cattive intenzioni.
“Non volete farmi del male?” osò dopo un attimo. La bimba scosse
vigorosamente il capo ed a Louis sembrò di sentire un ronzio sommesso
accompagnare il movimento.
“Negativo, no! Perché mai dovremmo?”.
“E mi direte chi era quell’uomo di ferro?”.
“Mister Bobby, e tu l’hai sistemato!”. Un altro ragazzino, dell’età di nove o
dieci anni, spuntò a fianco della bimba e le passò un braccio intorno alla vita.
“Io sono Bob, so il francese e ti auguro tante cose belle; se fosse Natale ti
direi joyeux Noël, se fosse Pasqua bonne Pâque; ma non è nessuno dei
due, che peccato, io adoro le feste: e tu?”.
Phil sorrise, e giudicando fosse proprio ora di andare spinse dolcemente
l’uomo verso i vicoli del villaggio.
“Seguimi ed abbi fiducia, ti spiegherò ogni cosa”.
10
C’erano altre baracche sulla piattaforma, in cima a quelle scale che non
erano fatte né di legno né di pietra ed avevano ringhiere lisce e fredde; più
indietro un tunnel dai muri coperti di manifesti stracciati, del tutto simile (e il
pensiero lo fece vergognare all’istante) a quello che aveva percorso
fuggendo nell’altra stazione: chiuso ad una estremità da una barricata di
rottami, lamiere ed assi proseguiva nell’altra direzione perdendosi tra luci
basse e nuvolette di vapore che uscivano dai tubi attaccati al soffitto.
Si lasciò condurre; poco più avanti il passaggio si allargava in una specie di
piazza illuminata da luci elettriche ed insegne al neon su cui si affacciavano
varie stanze, occupate da esseri laceri che alzarono appena la testa
61 vedendoli passare. Molti erano mutilati e quasi tutti scarnificati: in alcuni casi
Louis non vide più traccia di carne su quelle che avrebbero dovuto essere
braccia o gambe, ma soltanto il luccicare opaco del metallo.
Vedendo la sua repulsione Phil accelerò lievemente il passo.
“Qui dentro c’erano dei negozi, una volta” osservò quando la subroutine
comportamentale gli suggerì di riempire il silenzio con qualche parola. “La
gente veniva per comprare mentre aspettava il treno: ora ci abitano i nostri
vecchi, quelli che sono vicini ad esaurirsi. A morire, direbbe uno come te”.
“C’era un mercato? Qui sotto?”. Emma annuì e lo guardò stupita per
un’osservazione del genere.
Un attimo dopo sfilarono di fronte ad un uomo seduto su una sedia rotelle,
sotto un’insegna lampeggiante che lo inondava di luce alternativamente
azzurra e violacea, a cui mancavano entrambe le gambe e le braccia e dai
cui moncherini uscivano piccoli tubi e cavi sottili; l’uomo gli rivolse un sorriso
mentre passavano, mostrando denti bianchissimi e regolari, e Louis distolse
rapidamente lo sguardo. Phil ed Emma lo spinsero avanti.
“Nom de Dieu, cosa è successo a queste… “.
“A queste cose, chiedi?”. Phil lo completò con un sospiro.
“Molti hanno fatto dei brutti incontri: predatori, robot…uomini…e molti altri,
me compreso, si stanno semplicemente esaurendo; la durata delle celle a
combustibile di prima generazione è di qualche migliaio di anni, ed il tempo
passa sempre così in fretta…”.
“Io sono un’EACD, sai?”. Louis sussultò sentendo la voce improvvisa e
squillante della bimba; la guardò senza capire mentre il corridoio svoltava
restringendosi e terminando, dopo una rampa di scale verso il basso ed una
porta a maniglione scardinata, in un’altra piccola camera che aveva un
aspetto familiare: le panche, i bracieri, i candelieri ed il piccolo podio (con
accanto un cero) su quella pedana rialzata dipingevano il posto a tutti gli
effetti come una specie di chiesa.
“Positivo, tu non avrai mai di questi problemi piccola mia”. Phil le arruffò i
capelli ed a Louis sembrò nuovamente di sentire un ronzio sommesso
accompagnare il movimento.
“Questo è il mio tempio” continuò, mettendo in stand-by la routine che gli
suggeriva di enumerare al suo ospite gli orari delle funzioni e domandargli
se avesse bisogno assistenza spirituale.
“Cosa è un…écedé?”.
62 “Sicuro, anche questo possiamo spiegartelo. Ma prima non vorresti entrare?
Qui si sta più al caldo, sai, c’è ancora calore che viene su da…oh, lascia
perdere, come se tu sapessi cos’è una centrale atomica!”.
“Posso portare qualcosa da mangiare?”. Emma gli tirò la manica della
giubba e quasi a volerle rispondere lo stomaco di Louis mandò un borbottio
considerevole. La bimba ridacchiò.
“Sarebbe gradito, Emma, piccola mia; vorresti?”. Un attimo dopo la
vedeva scomparire dietro la svolta del corridoio, il suo scalpiccio che si
allontanava rapidamente.
Quando tornò con lo sguardo sul vecchio vide che a sua volta lo stava
guardando, in attesa.
“Devo…posso entrare?”. Phil annuì, ma quando lo vide appoggiare la
mano sul calcio della pistola non poté fare a meno di far partire un
rimprovero.
“Non puoi proprio allontanare la mano dalle tue armi, nemmeno dentro la
casa dell’Unico?”.
Louis non rispose e nemmeno lui disse altro; si sedettero l’uno vicino
all’altro ad una estremità della panca di prima fila e Phil si accontentò di
studiarlo mentre si guardava attorno: lo vide prendere in mano un libriccino
di cantici, sfogliarlo e richiuderlo quasi subito rimettendolo dove l’aveva
trovato con un’espressione confusa (probabilmente non aveva mai letto il
Nuovo Padre Nostro – versione per droidi ovviamente – e quella è una
preghiera che può disorientare senza un ministro che te la spieghi, sicuro!);
poi si alzò ed andò fino alla Parete dei Voti ad esaminare i per gratia
ricevuta appesi sulla bacheca di sughero che qualche migliaio d’anni prima
era stata nell’ufficio di un concessionario della Takuro Spirit, spostandosi
quasi subito verso il bancale dove bruciavano i lumi di grasso ricavati dentro
lattine, bottiglie e caschi da motociclista. Da lì alzò gli occhi sul dipinto
dell’Uomo-Gesù annerito di fumo per abbassarli e chiuderli subito dopo.
Quando si accorse che le sue labbra si stavano muovendo Phil fu tentato
di attivare i microfoni direzionali per sentire cosa dicesse, ma l’IA madre
scartò l’istruzione un picosecondo più tardi.
Cos’altro avrebbe potuto fare, in una chiesa, se non pregare?
Il vecchio aspettò pazientemente; poco dopo sentì lo scalpiccio dei
piedini di Emma e si girò verso di lei col dito sulle labbra: la piccola capì al
volo ed annuì stringendosi al petto il piccolo involto che aveva portato. Lo
attesero entrambi ancora per un po’, poi Louis si staccò dal dipinto e tornò
alla panca con un’espressione lievemente più distesa sul volto.
63 “Très bien” sospirò; la panca si lamentò con uno scricchiolio contrariato
quando vi si lasciò cadere sopra. “Che cos’è questo posto, père?”.
“Questo è il capolinea Farragut della metropolitana di Sunnyvale;
Sunnyvale è un comune della cintura periferica di Zaia, che forse conosci
come ‘Città del Pesce’”. Phil fece una pausa e chiamò Emma con un cenno:
la bimba si avvicinò quasi senza rumore e gli allungò il pacchetto, da cui
avvertì immediatamente il profumo di qualcosa che non era certo quella
della semplice carne secca.
“Cosa ci hai portato, piccola?”.
“Stavo andando a cercare qualcosa, poi ho trovato papà 300 che mi ha
detto che aveva detto a Bates-895776 di preparare qualcosa per lo
straniero, così sono andata da lui e….”. Phil annuì interrompendola con un
cenno.
“Gran fortuna avere un cuoco tra noi, penso, anche se non ha molte
occasioni per dar prova del suo estro”. I recettori olfattivi decifrarono con
qualche attimo di ritardo l’odore delle scaloppine al limone e gli presentarono
una lista di ingredienti in sovraimpressione sul campo visivo: la chiuse
immediatamente (dove in nome del Cielo aveva trovato del limone?) poi
prese l’involto e lo spacchettò appoggiando la gavetta e le posate d’alluminio
sulla panca di fianco a Louis.
“Puoi mangiare se vuoi” lo esortò ed il soldato mosse leggermente la
testa su e giù; Phil vide che il suo sguardo si era incrociato con quello della
Donna-di-Gan, nel poster sporco e mezzo strappato che aveva appeso sulla
parete di fondo della chiesa.
“Oh, si, la Vecchia Madre; Lei ci guarda…ci guarda tutti, su questa Terra,
e ci protegge…”.
“Marie” disse, il vecchio annuì sorpreso nel sentire che La chiamava con
un nome che nessuno usava più dai tempi dello scisma di New Rome. Louis
prese la gavetta, la scoperchiò e fiutò il contenuto mentre lo stomaco
gorgogliava ancora.
“È carne…cotta in una salsa al limone” puntualizzò. “Non sei vegetariano
vero? Forse avrei dovuto chiedere, prima, se…”.
L’uomo inforcò un pezzo, annusò un’ultima volta e poi se lo ficcò in bocca.
“Oh, immagino che questo risponda alla mia domanda. Positivo”. Emma
ridacchiò.
64 “Non è di ratto, non li mangiamo più” puntualizzò, e Louis sorrise mentre
masticava; due o tre bocconi più tardi era tutto finito e la bimba si riprese la
gavetta avvolgendola di nuovo, diligente, nella carta con cui l’aveva portata.
“Posso rispondere ad altre domande per te?”. Louis annuì e l’analisi
timbrica confermò al droide, un secondo dopo, le tappe di ragionamento che
aveva iniziato ad intuire nell’uomo: incredulità, rifiuto ed infine accettazione
nel cammino tipico degli esseri umani che si trovano di fronte a novità troppo
disorientanti. La mente non può che accettare, o impazzire, gli suggerì una
routine di psicologia spicciola che si affrettò a mettere in stand-by.
“Che cosa siete tutti voi?”.
La domanda era terribilmente prevedibile; Phil ed Emma si scambiarono
un’occhiata.
“Non siete uomini, voi non potete esserlo…che cosa cazzo siete?”.
“Macchine”. La bimba annuì e Louis tornò ad incrociare gli occhi con la
Madonna al muro.
“Per qualcuno che viene da un contesto a bassa tecnologia è difficile da
accettare, ma è così, anche se noi preferiamo chiamarci ‘Persone Artificiali’:
è meno degradante, ecco…”. Phil sembrò quasi imbarazzato, ma Louis
annuì semplicemente.
“Diable…macchine, macchine fatte come uomini, è per questo che avete
il ferro sotto la…”.
“Non è proprio carne” lo prevenne. “È derma polimerico, una specie di
plastica. Sai cos’è la plastica?”. Louis scosse il capo.
“Sei buffo, come fai a non sapere cos’è la plastica?”. Emma rise e lui le
carezzò il viso sentendo sotto le dita proprio ciò che ci si aspetterebbe di
sentire: il calore e la consistenza, morbida e cedevole, della guancia di una
bambina. Scosse il capo mentre lei chiudeva gli occhi e si strofinava contro
la sua mano.
“Vi hanno costruiti…chi?”.
“Zaia era una città di quattrocento milioni di persone, riesci ad immaginre
un numero così grande?”.
Fece una pausa e Louis indubbiamente ci provò, ma non ci riuscì: non
era quasi capace di pensare una grandezza tale, tantomeno associarla a
delle persone che vivevano tutte insieme nello stesso posto. La sua
espressione dovette essere abbastanza esplicativa perché Phil gli offrì un
sorriso di conforto prima di proseguire.
“Almeno un quarto erano droidi; ci compravano e ci vendevano,
ci…usavano per ciò che ci avevano costruito: io sono un sacerdote, la mia
65 amica Janice è un’insegnante, quanto ad Emma…beh, è difficile da
spiegare; c’erano persone che desideravano avere qualcuno che tenesse
loro compagnia, qualcuno a cui dare affetto: come un figlio ma più
controllabile”. Phil si interruppe vedendo lo sguardo di Louis guizzare alle
sue spalle; quando si girò vide 300 appoggiato di traverso allo stipite della
porta. Non l’aveva sentito arrivare.
“Sintetici da affezione, si chiamano” dichiarò. “Hai fatto ambientare il
nostro ospite? Mi sembra più tranquillo ora”. Louis annuì.
“Chi crede in Dio non può essere cattivo”. 300 sogghignò.
“Ti stupirebbe sapere che i criminali ed i dittatori del passato avevano
una credenza quasi fanatica in Dio; in ogni caso noi non abbiamo niente
contro gli uomini, anche se molti ci hanno dato la caccia”.
“È perché siete fatti di ferro?”. Il monaco annuì.
“Mettiamola così. Ho sentito che avevi un’altra domanda; posso sentirla
anch’io?”.
Louis lo guardò, incapace di decidere se quell’individuo gli piacesse o meno,
l’altro ricambiò lo sguardo con un accenno di sorriso metallico. Si decise a
parlare con qualche secondo di ritardo.
“Avevo due compagni con me, stavamo passando un ponte ieri
pomeriggio; è venuta una piena e l’onda li ha portati via”. 300 annuì
tornando serio.
“Il Thola è un fiume infido: spero per loro che non siano finiti dentro un
cancello di teletrasporto, ciò che ne esce non è più descrivibile”. Louis non
capì cosa volesse dire.
“Non li avete trovati?”. Il droide scosse il capo.
“I miei figli non mi hanno portato altre notizie di viaggiatori Umani in
questa parte della città”.
“Potrebbero aver preso terra nella Seconda Cintura” azzardò Phil. “Là c’è
un rifugio di Uomini, potrebbero averli trovati loro e…”.
“E sarebbe stato meglio il contrario! Quegli Uomini sono ancora peggio
dei robot: selvaggi, sanguinari e pazzi” elencò “E se i tuoi compagni li hanno
incrociati a quest’ora sono già morti”.
“Il mio fratello è un combattente forte!” Louis scattò in piedi e Phil si
ritrasse spaventato; 300 non si scompose mentre sul suo viso di ferro
tornava il sorrisetto di poco prima.
“Magari è uno di quelli che chiamano pistoleri, si?”.
“Non è solo un pistolero, lui è meglio di qualsiasi pistolero di Gilède! Lui è
un grande uomo e non può essere morto…”.
66 “Un grande uomo, addirittura!” sbottò; Phil lo guardò disorientato ma il
monaco si accontentò di scuotere lentamente la testa.
“300, di che cosa sta parlando?”.
“Nulla di troppo importante: nuovi governi di uomini, nuove divisioni
sociali, nuove convenzioni…come se fossero meglio delle precedenti! La
contaminazione da itterio non scemerà che tra diecimila anni e gli uomini
hanno ancora il desiderio di organizzarsi in governi, classificarsi in caste e
muoversi guerra!”.
“Negativo, io non capisco”.
“Né è necessario. Se vorrà, te ne parlerà lui stesso”.
“Non potete…” azzardò, 300 lo interruppe muovendo di nuovo,
lentamente, la testa.
“Aiutarti a cercarli? Ammesso e non concesso che i tuoi compagni siano
ancora vivi, e personalmente penso che non lo siano, sarebbe troppo
pericoloso per la mia comunità prendere le tue parti. Negativo” aggiunse
alzando le spalle con noncuranza.
Louis guardò Phil in cerca di aiuto ma il vecchio abbassò lo sguardo non
appena incontrò il suo.
“Anche lui sa che questa è la scelta più logica; dico bene, 972 e rotti?”.
L’occhio rosso lampeggiò e Louis risolse l’interrogativo di poco prima: Faccia
di Ferro non gli piaceva affatto. Phil accennò appena senza dire nulla, la
testa bassa come un animale spaventato.
“D’ora in poi sarai responsabile del comportamento di questo Umano fino
a quando rimarrà con noi” dichiarò. Bada che non faccia niente di stupido o
ne risponderai davanti alla comunità”.
Di nuovo Phil annuì in silenzio; 300 si accontentò di scoccare ad
entrambi un’ultima occhiata rosso fuoco per poi sparire nel corridoio con uno
svolazzo di tonaca silenzioso come era arrivato. Solo allora Phil si sentì
libero di rialzare la testa.
67 11
Dopo che 300 se ne fu andato, Phil lasciò a sua volta l’umano da solo,
ma soltanto per il tempo che gli occorse per il suo giro quotidiano fra i
sopravvissuti di Farragut: l’assistenza alle anime, anche se artificiali, non
poteva essere messa in secondo piano; confessò i peccati di due membri
della comunità che per difendersi avevano dovuto uccidere un predatore,
diede il sacramento estremo ad un moribondo, camminò e parlò, e quando
fece ritorno lo ritrovò addormentato sulla stessa panca dove l’aveva lasciato:
capendo che non doveva disturbare chiuse le porte della sua chiesa e poi si
sedette dietro al podio come faceva sempre.
Non aveva necessità di dormire, lui era un prima-generazione e solo gli
EACD potevano dormire in senso stretto come parte del loro array di
comportamenti pseudo-umani; ma dopo aver passato più di mille anni in loro
compagnia qualcosa aveva imparato...e quella era una notte in cui gli occhi
desiderava proprio chiuderli.
Recitò mentalmente la preghiera all’Unico, poi tolse potenza all’unità
centrale mettendola in stand-by programmato di quattro ore e sentì, come
un diffuso e piacevole torpore, che i servomeccanismi diminuivano i giri ed i
naniti rallentavano il loro flusso frenetico nel sangue artificiale ancorandosi
alle pareti dei tubuli.
Probabilmente era questo che gli umani provavano quando si distendevano
la sera per dormire. Già, gli umani, quella piccola razza di animali irrazionali:
non ne aveva più visti da secoli, loro evitavano quella zona della città, ma
ora gliene era arrivato uno dritto dritto tra i piedi.
Ne era responsabile, aveva comandato 300, dunque che cosa ne
avrebbe fatto? Mentre la memoria del cervello positronico si deframmentava
silenziosamente decise di non interrogarsi più, di non porsi più problemi in
quel senso perché non avrebbe comunque saputo come risolverli
razionalmente.
C’era un detto Umano che diceva: “acqua sarà se Dio lo vorrà”; e per quanto
fosse blasfemo decise che si adattava precisamente al suo frangente.
Avrebbe lasciato fare all’Unico, e le cose si sarebbero sistemate in un modo
o nell’altro.
Gli sembrò che fossero passati solo pochi minuti quando l’unità centrare
diede nuovamente potenza ai sistemi e la sensazione di abbandono passò
lasciandosi dietro solamente un lieve capogiro.
68 La prima cosa che vide, con un certo allarme, fu che la panca era vuota e la
porta della chiesa aperta; saltò in piedi e si precipitò fuori.
Lo ritrovò al piano di sotto, al villaggio, mentre passeggiava tra le
baracche seguito a distanza da un gruppetto di curiosi che andava
ingrossandosi ad ogni attimo che passava. Lui dal canto suo non sembrava
lo stesso uomo terrorizzato della sera precedente; quando passò davanti
alla stamberga di Emma e Bob i due affezionanti uscirono e si
impossessarono ciascuno di una delle mani dell’uomo, per nulla intimoriti dal
fucile e dalla pistola che portava allacciata alla vita.
Phil si sorprese a sorridere mentre si avvicinava, e quando l’uomo si accorse
di lui ricambiò accennando col capo.
“Dormivi quando sono uscito” disse, Phil colse un accenno di
giustificazione nella voce e scosse la testa.
“Non è proprio dormire, è uno spegnimento controllato” puntualizzò. “Loro
non ti hanno dato fastidio, vero?”.
Louis si strinse nelle spalle.
“Credo abbiano paura di me”.
“Ma noi no!” saltò su Bob, ed Emma rinforzò con un sorriso raggiante ed
artificiale.
“Noi ti vogliamo bene, sei il nostro fratellone. Vuoi essere il nostro
fratellone?”.
Prima che Louis potesse dire qualcosa, Phil poggiò la mano sulla testa di
Emma come faceva sempre quando voleva attirare la sua attenzione:
sospettava fosse un comando built-in, e gli era stato utile molte volte quando
la bambina aveva iniziato a diventare fastidiosa.
“Piccola, ora devi andare a scuola però; c’è Janice che aspetta, che cosa
vi insegnerà oggi?”.
I gemelli scandirono in perfetto coretto: “Gli algoritmi inferenziali e
l’apprendimento programmato”.
“Dunque non sarebbe ora di andare da lei? Scommetto che sta
aspettando solo voi”.
Emma esitò, era la prima volta che la vedeva resistere ad uno dei suoi
inviti; spostò gli occhioni su Louis, poi si staccò con riluttanza dalla sua
mano per prendere quella del fratello. Un attimo dopo Louis li vedeva sparire
correndo tra le baracche.
“Ho pensato ne avessi abbastanza di loro” dichiarò il pastore quando se
ne furono andati; il piccolo capannello che si era formato qualche metro più
69 indietro, vedendo che era arrivato e stava prendendo in consegna l’umano,
si sciolse lentamente.
Louis scosse il capo.
“Non mi davano fastidio père; io ho dei fratelli, credo…”. Phil fu stupito di
sentirsi apostrofare in quel modo, ‘padre’.
“Come ti senti?”.
Il soldato non rispose subito; si rimise invece a camminare coi pollici
incrociati nel cinturone della pistola, e lui lo seguì tenendosi rispettosamente
qualche passo più indietro.
“Non capisco niente di tutto questo, e ho paura” dichiarò alla fine. “Ma il
mio compagno non lo vorrebbe, quindi cerco di non mettere il mio cuore
vicino alla mia mano”.
Phil ascoltò con curiosità quella scelta di termini. “Questo è…un detto?”.
“Oui, significa che non devi avere paura”.
Rimasero in silenzio per un po’; le baracche si diradarono ed arrivarono
alla piazza delle assemblee coi suoi bracieri ed il vagone rovesciato dove
saliva chi aveva qualcosa di particolarmente importante da dire alla
comunità; dopo, oltre un’ultima cerchia di capanne, il soffitto della stazione
Farragut si abbassava ed i muri si restringevano incanalandosi nel
proseguimento delle gallerie di manutenzione. Si fermarono poco prima
dell’imbocco.
“Dove si va di qui?”. Phil esitò.
“Verso altre gallerie, fuori dalla stazione, ma è pericoloso…”.
“Tu hai la chiave?”.
A quella domanda il prete non rispose; IBM teneva le chiavi delle porte e
durante il giorno faceva la guardia ai due ingressi, anche se quella era poco
più di una formalità: con i suoi proiettori stordenti pressoché scarichi non
sarebbe riuscito a fermare nulla di più pericoloso di un cervo mutante.
E di certo non avrebbe fermato un uomo con la pistola ed il fucile, rotolò il
pensiero successivo.
“Tu vuoi andartene”. Louis annuì.
“Io devo trovare il mio frère, lui…”.
“Lui potrebbe essere morto”. Phil cercò di mettere nella voce tutta la
ragionevolezza di cui era capace, ma l’altro si accontentò di scuotere
lentamente la testa.
“Lui non è morto, davanti a Dio, non lo è ”.
70 Rilevando nel timbro qualcosa di molto simile al fanatismo una routine
consigliò al pastore di mostrarsi accondiscendente, ma lui la tacitò: era
curioso per quanto una macchina può esserlo.
Attese dunque che fosse lui a parlare; poco più avanti sfilarono davanti al
tugurio di Mamie Joana – 178.976, l’unica sintetica di colore che ricordava di
aver mai visto (anche se la tinta cioccolato del suo sintoderma si stava
lentamente trasformando in una livida tonalità color prugna): come tutte le
mattine se ne stava seduta sotto la veranda della sua stamberga, dietro ad
un banchetto di cianfrusaglie che altri droidi avrebbero comprato, barattando
con lei altre cianfrusaglie forse acquistate solo il giorno prima.
Cos’era stata Mamie, prima? Non se lo ricordava; forse una tata, una
babysitter, il suo corpo grassoccio sembrava fatto apposta per suscitare la
tenerezza dei bambini ed in effetti anche Bob ed Emma passavano molto
tempo con lei…
“Noi abbiamo un dovere”. Phil sussultò.
“Un dovere?”. Di nuovo quella vena, così strana nella voce. L’umano
annuì mentre si rituffavano tra le baracche ed il banchetto di Mamie
scompariva dietro le sagome dei tetti bassi e delle pareti di lamiera.
“Quale dovere?”.
“Una ricerca, e lui non è morto perché non può morire prima di aver fatto
il suo dovere”.
“Da dove venite?”.
“Da lontano, abbiamo...seguito le nuvole”. L’uomo sorrise di nuovo, ma
non era un sorriso disteso. Phil ci mise qualche attimo a capire.
“Il Vettore” concesse poi quasi in un sospiro.
“Così lo chiama il mio frère; tu sai dove passa?”.
“C’è una linea dei treni che lo segue, attraversa tutta la città e va verso il
mare. Ma è un cammino pericoloso”. Phil si sentiva confuso.
“Perché segui il Vettore? 300 dice che è soltanto la traccia magnetica di
un antico canale di trasmissione, non porta da nessuna parte…”.
Louis scosse lentamente il capo.
“Non capisco quello che dici, io…noi…dobbiamo seguirlo e basta”.
Mentre salivano le scale mobili la routine tornò ad affacciarsi e Phil
questa volta pensò bene di darle ascolto.
“E se lo desideri lo seguirai” accomodò. “Posso chiederti di aspettarmi in
cappella per un po’, ora? Devo visitare il mio gregge” aggiunse, mettendoci
in mezzo un sorriso di circostanza. Il servomotore sotto lo zigomo destro
saltellò con un piccolo tremito, come gli succedeva sempre quando il suo
71 software era consapevole di stare mentendo e lo avvisava che era un
comportamento socialmente esecrabile; Louis lo guardò in modo strano, lui
dal canto suo gli girò le spalle di scatto e si allontanò con un passo forse un
po’ troppo rigido e frettoloso, per andare a fare tutt’altro rispetto a ciò che
aveva appena detto.
12
“Dice che sta seguendo il Vettore, io…io penso che dovremmo lasciarlo
andare…”.
300 emise un respiro sibilante e l’occhio scarnificato lampeggiò di rosso;
di fianco al camino i suoi due cani, due demoni che per fortuna non uscivano
quasi mai nel villaggio, alzarono la testa in perfetto sincronismo e li
degnarono di una breve occhiata prima di tornare accucciati in vigile attesa.
Phil si era affrettato ad andargli a parlare dopo la chiacchierata che
aveva avuto con l’umano, ma nel tempo che aveva impiegato ad arrivare
alla sua casa le subroutines comportamentali avevano già iniziato a
tormentarlo: forse lui non avrebbe voluto che 300 sapesse ciò che voleva
fare, forse avrebbe semplicemente desiderato essere indirizzato e lasciato
libero di seguire la sua strada. E se invece 300 avesse deciso che, no, non
poteva proprio andarsene?
E dal canto suo 300 sapeva fin troppo bene cosa c’era dall’altra parte di
quel Vettore: un drago dormiente che non sarebbe stato saggio, per nulla
saggio andare a stuzzicare.
“Vuole seguire il Vettore e non ti ha detto il perché, giusto?”. Phil negò
scuotendo una volta il capo, badando bene di tenerlo rispettosamente chino.
“Hai equivocato, pastore di anime: tu sei venuto da me a chiedermi di
lasciarlo andare perché pensi che io voglia tenerlo qui, ma io non ho mai
detto né pensato una cosa del genere”. 300 fece guizzare la lingua tra le
labbra, divertito. “Assumendo che la sua libertà sia in discussione, dimmi:
secondo te cosa dovremmo fare?”.
Phil fu stupito da una domanda che non si sarebbe mai aspettato di
sentirsi rivolgere; alzò perfino, timidamente e pronto a riabbassarli, gli occhi.
“Io penso…”. Deglutì sentendo la lingua appiccicarsi al palato:
improvvisamente l’aria nella casupola, quello che una volta era stato l’ufficio
di sicurezza della stazione Farragut, si fece difficile da respirare.
“È un uomo in difficoltà, e l’Unico dice che ogni uomo in difficoltà va aiutato,
dunque…”.
72 “Stronzate dell’Unico a parte, allora è questo il punto? Vuoi che lo aiuti?
Ma io ho già detto che non desidero prendere le sue parti; l’ho detto, si?”.
Phil non rispose, azzittendo immediatamente il rimprovero verso quella
bestemmia (oh no, non sarebbe stato davvero il caso riprendere 300!); l’altro
sembrò prendere quel silenzio come un assenso.
“Non pensi che se lo aiutiamo a sopravvivere, se gli diamo una mano ad
andarsene da qui, potrebbe tornare? Magari con altri della sua razza ed
intenzioni meno amichevoli?”.
Di nuovo Phil non disse nulla.
“Io ho visto cosa c’è fuori di qui” incalzò. “Villaggi e comunità di uomini
bruti e ignoranti che non capirebbero mai cosa siamo, e con cui non
potremmo mai convivere. Per loro sai cosa saremmo? Demoni” esalò, “Da
distruggere e bruciare sui roghi dell’ignoranza”.
“300, io penso che sia un uomo buono, che desidera solo seguire la sua
strada, e…”.
“…e noi non siamo carcerieri, in ogni caso: sai perché non gli ho tolto le
armi? Perché non ho paura di lui”. 300 sorrise crudele.
“E perché non gli servono, il tuo Umano è già un prigioniero anche se lui non
lo sa ancora. Che faccia ciò che vuole!” concluse.
“Non potrebbe importarmene di meno. Che vada se vuole andare, che
resti se vuole restare, ma se va via da noi non avrà nessun aiuto, e lui da
solo non riuscirà mai a ritrovare la sua strada. Diglielo se ti capita, si?”.
Il droide mosse la mano con uno svolazzo di tonaca; Phil seppe di essere
stato congedato e rivolse al capo della comunità un’occhiata piena di
amarezza: non era forse così che si era comportato uno dei persecutori
dell’Uomo-Gesù?
“300, che cos’è il Vettore?”.
La domanda salì così rapida da non poter essere intercettata, lasciandogli
solo il tempo di pentirsene: pur essendo un buon capo 300 non era paziente
e tutti nella comunità conoscevano i suoi scatti d’ira; era sufficiente non
attraversargli la strada e non metterlo in discussione, e allora era davvero il
leader migliore del mondo…ma bastava davvero poco a risvegliare il suo
antico spirito di droide da combattimento.
E chiedere spiegazioni su qualcosa di cui non parlava volentieri era un
ottimo modo per infastidirlo.
“Non ve l’ho forse già detto, a voi tutti, a voi, ingrati figli miei, che cos’è il
Vettore?”. La voce si alzò di volume tremando come un cavo d’acciaio al
limite della tensione, e Phil si fece piccolo piccolo; gli occhi puntati verso il
73 basso distinse l’ombra di 300 avvicinarsi a lui nera come una nube di
temporale e si sentì avvolgere dall’odore caratteristico del droide,
improvvisamente amplificato, di metallo ed olio lubrificante.
“Ma forse tu mi questioni, pastore di anime, forse tu non credi che il
Vettore sia solamente un pozzo elettromagnetico; forse pensi che ci sia
sotto qualcosa che io non ho detto, è così?”.
Phil tentò di rispondere ma le parole non uscirono; chiuse gli occhi e si
aspettò da un attimo all’altro di sentire artigli di titanio che gli entravano nel
torace, ma non fu così. Quando li riaprì l’ombra si era allontanata e gli dava
le spalle, dietro la scrivania dei monitor di videosorveglianza.
“Credo di averti congedato o sbaglio?”.
La paralisi che lo aveva bloccato si dissolse come in risposta ad un
comando preciso; Phil si precipitò verso l’uscio ed uscì di corsa
sbattendoselo alle spalle, e 300 sentì i suoi passi che si allontanavano.
In altre circostanze sarebbe stato felice e compiaciuto con sé stesso per
quello sfoggio di autorità, ma non si poteva essere né felici né compiaciuti se
gli uomini avevano ripreso ad interessarsi alle Curve dell’Iride.
13
Phil aveva ancora le gambe che tremavano quando arrivò al tempio.
C’era altra gente radunata nel corridoio oltre le sale dei malati,
nell’anticamera della chiesa, affacciati e curiosi, ed era sicuro di sapere
quale fosse il catalizzatore del loro interesse; quando però riconobbe le voci
di Janice, Bob ed Emma fare da portante in quella che sembrava una
tranquilla discussione col suo prezioso Umano ne fu sinceramente sorpreso.
Si fece largo tra la gente e li trovò seduti in cerchio al centro della sala, lui,
lei e buona parte dei suoi allievi, grandi e piccoli, con tutti gli altri che
sbirciavano affacciati all’uscio in una calca silenziosa; al centro
dell’attenzione di tutti Louis stava raccontando del mondo di fuori, e nel
vedere quanto l’uditorio pendesse dalle sue labbra la sorpresa del pastore si
trasformò rapidamente in paura. Oh no, quello non avrebbe davvero fatto
piacere a 300.
“Quindi ci sono città piene di uomini? E ci sono dei capi?”. Janice era
semplicemente raggiante, Phil non ricordava di averla mai vista così da
quando la conosceva. Louis annuì, disteso, rilassato ed a quanto sembrava
persino inorgoglito dalla situazione.
74 “Ogni città ne ha uno, alcuni lo chiamano borgomastro, altri sindaco, in
certi posti è il podestà; io vengo da un posto che si chiama Gilead, sai? Ma
gli uomini lì sono cattivi”.
“Perché?”. Emma e Bob lo chiesero all’unisono prima che Janice potesse
parlare.
“Hanno cacciato via me e il mio frère: noi volevamo essere dei soldati,
ma non ci siamo riusciti, per questo ci hanno mandati ad Ovest. Lo fanno
sempre con chi fallisce”.
“Mandati ad Ovest…”. Emma spalancò appena la boccuccia.
“È con quello che hai ucciso Mister Bobby?”. Bob indicò il fucile a tracolla
dell’uomo, lui accennò piano.
“Mi sono difeso, lui…mi ha attaccato per primo, l’ho ucciso per questo”.
“Ci fai vedere come si spara?”. Questa volta fu Phil a spalancare gli occhi
sconcertato: passi da un bambino, ma proprio da una donna come Janice,
tranquilla ed assennata, doveva venire una domanda come quella?
“Non credo proprio che sia possibile!” scandì, ed ebbe la soddisfazione di
vederla trasalire; anche Louis si girò di scatto e non gli sfuggì che la canna
si era spostata insieme a lui. Esitò un attimo all’improvviso spostamento del
centro d’attenzione, poi una routine associativa gli diede nuovo coraggio
facendogli presente che una volta anche l’Uomo-Gesù si era trovato in una
situazione del genere, a dover redarguire chi aveva usato la sua casa senza
permesso.
Phil si staccò dal crocchio sperimentando un’emozione di cui non ricordava
l’ultima esperienza, e che non era certamente da lui. Ma se 300 si era
incazzato, perché non poteva fare lo stesso?
“Voi non dovreste essere qui, nella mia chiesa, a parlare di queste cose”
incalzò. “Non si parla di quello che c’è fuori, 300 non lo vorrebbe perché
fuori non è il nostro mondo e questo lo sappiamo tutti”. Janice lo guardò
come cristallizzata, con una sorridente espressione da oca giuliva che gli
risultò subito insopportabile.
“Emma e Bob hanno avuto l’idea” titubò. “Volevano parlare con…io ho
pensato…”.
“Porca puttana! Non si parla di queste cose!” sbraitò e lo specchio
sorridente si infranse; Emma e Bob si rifugiarono prontamente dietro le
spalle di Louis che gli scoccò a sua volta un’occhiata confusa.
“Forse dovreste andarvene tutti quanti” dichiarò mentre gli inibitori
comportamentali cercavano di isolare e mitigare quell’emozione per cui il
suo software non era stato progettato.
75 Janice arretrò rapidamente e sparì tra la gente; i gemelli le sfilarono
dietro rapidamente e Phil si sentì un mostro. Si girò per parlare ma le
occhiate dei primi della fila gli bloccarono le parole in gola. Li aveva
spaventati, proprio come faceva 300, ma un uomo di Dio non è un droide da
combattimento.
Vide schiene girarsi e sguardi di sottecchi mentre la folla si avviava
veloce, e quando Louis gli poggiò la mano sulla spalla sussultò. Pochi
secondi dopo erano rimasti soli.
Come per tutti quelli che sbagliano essendone consapevoli il primo
impulso che provò fu di giustificarsi, ma il soldato scosse semplicemente la
testa perché non gli interessava di sentire le giustificazioni di un uomo col
ferro al posto delle ossa.
Chiese solamente il perché, e Phil esitò per attimi lunghi.
“Non bisogna parlare di certe cose” disse poi, quasi sussurrando: per
Louis fu evidente che aveva paura, e certamente non di lui.
“Faccia di Ferro non vuole?”. A quelle parole il prete sbiancò.
“Fa che non ti senta” balbettò ancora più piano. “300 è uno che non
perdona, e non vuole che si parli di quello che c’è fuori. Dice che dobbiamo
proteggerci dagli uomini perché vogliono soltanto distruggerci, e tu…”. Phil
esitò e Louis mosse in circolo la mano: aveva già visto quel gesto, proprio
nel fare di 300 quando un discorso lo annoiava e voleva che si arrivasse al
punto.
“Tu dici che ci sono città e uomini dal posto da dove arrivi, e qualcuno
potrebbe volerle andare a vedere” ammise. “300 non potrebbe permetterlo”.
Louis fece spallucce. “Vi tiene in pugno” considerò, e Phil provò un senso
di frustrazione nel constatare quanto quelle parole fossero vere.
“Devo sparargli per andarmene da qui?”. Tamburellò sul calcio del fucile
e il sacerdote vide nei suoi occhi qualcosa che aveva già visto, di nuovo,
proprio in quelli di 300: lo scintillio era lo stesso e tradiva la determinazione,
e forse anche il piacere, di uccidere; come succedeva con 300 non si sentì
più capace di guardarlo negli occhi.
“Io…” deglutì. “Io sono andato a dirgli che intendi seguire il Vettore” disse
tutto d’un fiato. “Pensavo volesse tenerti qui, ma a lui non interessa quello
che fai. Dice che puoi andartene quando vuoi, che da solo non troverai mai il
Vettore..e che…”. Phil mandò giù un altro sorso di saliva. “…morirai come
sono morti i tuoi amici”.
76 Louis gli poggiò nuovamente la mano sulla spalla; quando rialzò gli occhi
vide che sorrideva, di un sorriso pulito e tranquillo, e lo scintillio assassino
era sparito.
“Devi solo dirmi la strada, père, e poi non mi vedrete più. Nessuno di voi.
Terrò il segreto, la mia parola in pegno”. Phil ricambiò il sorriso.
“Anche questo è un detto?”.
“Delle parti da dove vengo, si”.
Il pensiero si affacciò improvviso e Phil esitò solo un momento prima di
afferrarlo per la coda.
“Puoi attendere ancora fino al tramonto, per metterti in viaggio? Ci sono
delle cose, beh…che vorrei fare per te…prima di indicarti la direzione che
chiedi, ecco…”.
“Anche se Faccia di Ferro non vuole?”. Il sorriso dell’uomo si tramutò in
quello di un monello, e il vecchio sacerdote arrossì prima di accorgersi che
stava sorridendo allo stesso modo.
“Aspettami qui, ti prego, riposati, oppure leggi: ci sono dei libri nella mia
cella, io…io tornerò presto”.
Phil sentì il cuore battere più veloce e fargli eco nelle orecchie, e lo
stomaco mandargli una curiosa sensazione che scivolò rapidamente nelle
gambe; stava per fare qualcosa che 300 non avrebbe mai voluto né
perdonato, e in passato aveva dovuto amministrare più volte gli ultimi
sacramenti a quelli che erano andati contro la sua volontà come si
apprestava a fare lui.
Oh beh, rifletté mentre usciva dalla chiesa, in fondo siamo tutti qui per
fare ciò che dobbiamo fare, giusto?
E se il ruolo di 300 era quello di guidarli ed amministrarli col pugno di ferro di
un dittatore, il suo consisteva semplicemente nel fare ciò che l’Unico si
aspettava da lui.
14
Il sole era appena sceso quando Louis lo vide tornare; non era più uscito
dalla chiesa, desiderando evitare (ed evitarsi) qualsiasi problema, e
nemmeno aveva più visto nessuno. Il sacerdote era ricomparso
improvvisamente, silenzioso come uno spettro, nel vano della porta con un
grosso zaino in spalla e un’espressione affaticata ma felice in viso.
77 “Ho preso una bussola” esordì. “E una torcia, una mappa, dei vestiti e
dello sterno gel per scaldarti. E ovviamente acqua e cibo” elencò mentre
Louis lo ascoltava con un mezzo sorriso senza dire nulla.
“Ho rubato anche delle munizioni, non sono molte ma il calibro è quello
giusto. Spero”.
Si avvicinò e gli allungò lo zaino, Louis lo prese e vide che non era fatto
di pelle conciata ma di un materiale che non aveva mai visto, liscio, leggero
e tuttavia dall’aria molto resistente; dentro c’era tutto ciò che aveva detto e
senza perdere tempo iniziò a sua volta a trasferire le armi di Jonas e le
cartucce rimaste, sistemandole in alto in modo da averle a portata di mano.
“Quanto stai rischiando?”.
“Abbastanza da avere voglia di non farlo: sto sfidando la sua autorità, e
lui non vuole che noi lo sfidiamo. Probabilmente mi ucciderà se mai venisse
a scoprirlo”.
Lo disse con la massima naturalezza, e con la stessa calma considerò
senza esternarlo che le probabilità di quell’evento erano ben superiori alla
soglia del rischio accettabile. Ma oramai aveva scelto.
Lo aiutò a pigiare il contenuto, poi Louis armeggiò con due strani lembi
attaccati al coperchio dello zaino, dove sarebbero dovuti esserci la correggia
ed i lacci per chiudere; vedendolo in difficoltà Phil prese le fibbie di plastica e
le avvicinò. “Devi farle incastrare una dentro l’altra, e premere per liberarle”.
Louis provò e vide che era semplice. “Perché non vieni con me, père?
Possiamo fare un pezzo di strada insieme”.
Phil non rispose subito.
Già, perché no? Mentre l’umano soppesava lo zaino e se lo issava in
spalla rifletté che sarebbe stata una buona idea, anzi, un’ottima idea: lui lo
avrebbe protetto, gli avrebbe fatto vedere cosa c’era fuori da Zaia, lo
avrebbe sottratto alla dittatura di 300, al pericolo dei robot e degli uomini
feroci; magari avrebbe trovato un posto dove insediarsi, magari tra quegli
stessi umani che gli erano sempre stati dipinti come mostri.
Magari come ministro dell’Unico…
Se non fosse stato per la stessa parola del Dio, che comandava: ‘abbi il
coraggio delle tue azioni’.
“Ti ringrazio per l’offerta, ma credo che ti rallenterei. Rimarrò qui”.
Phil regolò meglio le cinghie dello zaino all’altezza delle spalle in modo che
non lo impacciassero, poi fece un passo indietro.
“Si, uomo, credo proprio che ci siamo. Ora puoi partire sul serio”.
78 15
Passarono velocemente davanti alle sale dei malati, nell’ultimo tratto si
misero a correre e scesero le scale mobili due gradini alla volta; Phil non
credeva di trovare 300 in giro proprio a quell’ora, più tardi forse ma adesso
era ancora presto.
Si infilarono dentro i vicoli rallentando il passo solo quando furono al riparo
delle capanne. Phil sfilò sotto gli occhi di molte delle persone che erano alla
chiesa quel pomeriggio, in occasione della sua sfuriata e mano a mano che
procedevano tanti si mettevano a seguirli, come sempre curiosi di vedere
cosa stesse succedendo, ma lui non se ne curò; l’imperativo era di farlo
sparire, silenziosamente, senza problemi e senza violenza.
Gli sembrò fosse passata un’eternità quando arrivarono finalmente
davanti alla galleria di servizio, dietro la piazza delle riunioni; sapeva che a
quell’ora IBM presidiava da quella parte, ma si rilassò solo quando vide la
forma allungata del suo chassis fare capolino da dietro l’ultima svolta del
tunnel, nel piccolo slargo dove erano posizionate le barricate, appena prima
della porta.
Si avvicinarono e il robot chiese diligentemente la parola d’ordine, lui gliela
snocciolò senza problemi: fino alla mezzanotte sarebbe stata ‘una rondine
non fa primavera’, non che avesse qualche importanza comunque.
Quando la porta si aprì cigolando sulle gallerie scure Louis sospirò e gli
diede una piccola pacca sulla spalla. Phil sfilò la torcia dalla tasca laterale
dello zaino e gliela mise in mano accendendola, poi prese la mappa e la
dispiegò: nell’intrico delle linee colorate della metropolitana aveva marcato il
percorso dei tunnel al meglio di come se lo ricordava.
“Rimani sottoterra e non uscire in superficie o ti perderai; il Vettore segue
la linea arcobaleno: Goldfield – Leviathan – Winston Cradle, ti accorgerai di
averla raggiunta quando ti troverai davanti un tunnel molto largo, tutto dritto
senza curve, illuminato e con una traccia multicolore sulle pareti. Va avanti
ancora per sette miglia e poi si abbassa sotto il livello del Thola, che è il
fiume dove vi siete separati tu e i tuoi amici. Lì dovrai per forza salire, perché
si allaga, e cercare la tua strada meglio che puoi”.
Phil gli appoggiò entrambe le mani sulle spalle guardandolo fisso negli
occhi.
“Fai attenzione perché molte linee sono ancora attive e alcune
attraversano il tuo percorso; potresti trovare dei treni automatici come
quello…”.
79 “…da cui mi hai salvato?”. Phil annuì distendendo un poco l’espressione.
“Se ti perdessi il vettore è a Nord-Ovest da qui, e quando sarai vicino te
ne accorgerai perché la bussola inizierà a muoversi a casaccio. Allora potrai
orientarti soltanto col sole per trovare la tua strada, sai farlo?”.
“Jonas mi ha insegnato”.
“Si chiama così il tuo frère?”. Phil ricambiò la pacca di poco prima
sollevando nuvolette di polvere dal farsetto sporco del soldato.
“Sicuro che non vuoi venire?”.
“L’Unico dice che dobbiamo affrontare le conseguenze delle nostre
azioni” citò. “Io me la caverò, non preoccuparti”.
“E loro?”. Louis indicò con capo la piccola folla radunata più indietro, ad
attendere e guardare. Phil sorrise e lo spinse avanti.
“Sarà tutto a posto, ogni cosa si sistemerà; adesso vai”.
L’uomo esitò ancora per un attimo, poi prese la mappa e si ficcò in tasca
la bussola; e per finire con suo grande stupore lo abbracciò, con quel genere
di abbracci frettolosi che talvolta gli uomini si scambiano quasi
vergognandosene, e lui rimase rigido come un pezzo di legno, stupito ed
incapace di ricambiare.
“Merci père” disse soltanto. L’attimo successivo si girò ed iniziò a correre
lungo il marciapiede a lato dei binari. Lui lo guardò allontanarsi finché poté e
anche dopo rimase, per una buona manciata di minuti, a fissare il buio
invocando mentalmente l’Unico affinché vegliasse e provvedesse. Poi
all’improvviso IBM emise uno stridio terrorizzato e chiuse la porta di scatto.
16
“Credo di non essere stato abbastanza chiaro: ho detto che nessuno
doveva aiutarlo, o sbaglio?”.
Phil sussultò e si girò di scatto; dietro di lui c’era 300 e le sue mani
avevano già assunto la forma di lunghi artigli.
“Correggimi se sbaglio, figlio bastardo e contestatore, figlio ingrato e
mendace, l’ho detto o non l’ho detto?”.
Così presto, era arrivato così presto, ma in fondo l’idea di riuscire a
fargliela era stata una pia illusione fin dall’inizio.
I due grossi cani di 300 gli trotterellarono vicino senza un suono
(sicuramente li aveva istruiti con precisione su ciò che avrebbero dovuto
fare) e qualcosa gli suggerì di abbassare il capo perché era precisamente
80 quello che doveva fare: doveva sentirsi pieno di vergogna, e la punizione
che sarebbe venuta nei prossimi attimi sarebbe stata del tutto meritata.
Lui però non lo fece.
“L’hai detto ma io me ne sono fregato, psicopatico figlio di puttana. Ci ho
pisciato sopra, su quello che hai detto, tutto qua”. Qualcuno tra la folla
radunata più indietro mormorò di stupore, dal canto suo gli venne
improvvisamente voglia di ridere; il droide inclinò il cranio di lato facendo
scrocchiare il collo col rumore di un cavo d’acciaio che si sfilaccia.
Alea iacta est, non sarebbe mai riuscito a terminare la preghiera; ma
forse l’invocazione finale sarebbe bastata.
“Nella morte ed oltre siamo tuoi, tra oceani di schegge, ossa e ruggine“.
300 gli venne incontro e i suoi passi facevano tremare il passaggio, ma lui
non abbassò lo sguardo nemmeno quando il droide si mise a correre:
allargò invece le braccia mentre uno strano senso di serenità lo pervadeva,
senza chiudere gli occhi che all’ultimo momento.
“E così sia“.
81 17
Aveva sempre avuto paura del buio.
La riflessione gli arrivò come un pensiero distratto, accompagnato da un
ricordo di lui al’estremità di un corridoio foderato di legno, con una lanterna
in mano e qualcuno vicino a lui.
“Va, chouchou, n’aie pas peur…”.
La sensazione leggera di una mano sulla spalla mentre svoltava
correndo l’angolo del tunnel, il profumo di colonia alle rose; nel ricordo aveva
cinque anni e sua madre gli stava dicendo di andare a letto da solo, senza
che la tata
(aveva avuto una tata)
lo accompagnasse come faceva sempre; che in quel momento la Prima
Rossa avesse temporaneamente preso il posto di sua madre aveva davvero
pochissima importanza.
Si fermò puntando il fascio di luce davanti a sé, inquadrando una galleria
di ombre e detriti, tubi divelti ed acqua che gocciolava al posto del corridoio
di legno, e odore di marcio invece che di rosa; guardò la mappa poi sentì un
rumore di metallo trascinato, da qualche parte più indietro, e si appiattì
contro il muro con la pistola in mano prima di realizzare che era soltanto la
porta che père Phil gli aveva aperto e che ora si era richiusa.
Si, aveva sempre avuto paura del buio ma non era quello il momento più
adatto per riscoprirlo.
“Va, chouchou, n’aie pas peur…”.
Louis concordò con il ricordo, mise via la pistola e raccolse la mappa da
terra procedendo questa volta più cautamente.
Non riuscì a dire quanta strada avesse percorso, né se si fosse tenuto
sulla giusta direttiva prima che qualcosa gli dicesse di fermarsi (e non era
soltanto la stanchezza); la galleria che aveva seguito si era allargata e
ristretta più volte, ma nel punto in cui era arrivato formava uno spazio che
malgrado il buio sembrava alto ed ampio: aveva trovato un’altra stazione.
Louis uscì dallo sbocco della galleria e la torcia illuminò grandi pilastri
coperti di piastrelle arancioni che intervallavano banchine, scale e
marciapiedi, e binari su cui erano fermi vagoni rovesciati corrosi dalla
ruggine; quando la luce passò su un cartello a muro, bianco con una scritta
nera sbiadita, lesse il nome “Calypso” e si affrettò a controllare sulla mappa:
82 non era sull’itinerario, ma non si scostava nemmeno troppo dalla linea rossa
che père Phil aveva tracciato.
Si avvicinò al vagone più vicino, una specie di grosso sigaro di metallo
strappato che conservava ancora resti di pittura argentea, e la luce scivolò
su strane scritte colorate e simboli che si leggevano ancora sulle fiancate
alle quali non seppe dare significato; quando provò a sbirciare nel finestrino
più vicino disturbò un pipistrello grosso il doppio almeno di quanto doveva
essere nell’ordinario, e con due o tre occhi luccicanti in più, che si gettò fuori
mancandolo di misura, stridendo e sbattendo contro l’intelaiatura di ferro. Si
ritrovò col culo per terra e il cuore che rimbombava nelle orecchie ma
quando tornò ad affacciarsi, questa volta con la pistola spianata, la luce non
illuminò altro che due file di piccoli sedili in un lungo cubicolo vuoto che
sapeva di muffa e di guano.
Si issò fin dall’altra parte; una volta dentro strappò con il coltello l’imbottitura
da uno dei sedili, un tessuto curioso a metà tra la stoffa e l’ovatta, e ne fece
una piccola pila nell’incavo che il tetto del vagone formava con le pareti.
Phil aveva parlato di qualcosa per riscaldarlo che si chiamava ‘sterno’:
c’erano almeno quattro piccole latte con una scritta del genere, nella tasca
sul davanti dello zaino, e quando ne aprì una avvertì immediatamente
l’odore acuto e rassicurante del combustibile. Infilò dentro le dita e toccò
qualcosa che aveva la consistenza della gelatina e pensò bene di versarla
sulla piccola esca che aveva rimediato, poi si fece indietro e senza sapere
bene che cosa aspettarsi sfregò la bacchetta dell’acciarino contro la pietra
focaia; pensava ci sarebbe voluto un po’, quando invece vide il monticello di
imbottitura accendersi sfrigolando alle prime scintille lo guardò meravigliato
come un idiota.
Spense subito la torcia mentre la fiamma bluastra si alzava, gettò sopra
altra imbottitura dal sedile sventrato e soffiò alla base delle fiamme
ridacchiando di fronte a quel prodigio così strampalato ed utile. La luce
illuminò un cerchio più ampio mandando un calore gradito: versò il resto
della gelatina sul fuoco e vi buttò sopra tutto quello che giudicò potesse
ardere e che trovò nelle immediate vicinanze, compresi alcuni fogli di un
materiale strano, sottile come carta ma più lucido e resistente, che erano
appesi alle pareti del vagone e bruciarono accartocciandosi e mandando
cattivo odore.
Alla fine si coricò semplicemente, rannicchiato a terra, la testa appoggiata
sullo zaino e la pistola pronta e carica, e si accorse solo in quel momento di
essere stanco.
83 “Va, chouchou, n’aie pas peur…”.
Louis sbadigliò ed appoggiò la testa sul braccio piegato; anche
sforzandosi non riusciva a ricordare il volto di sua madre, avrebbe chiesto a
Jonas di parlargliene quando lo avrebbe trovato, ma la sensazione della sua
mano sulla spalla era tranquillizzante, familiare come se fosse successo
solo il giorno prima e non svariate decadi addietro.
Nel rilassamento che precede il sonno Louis realizzò che non sapeva
neppure quanti anni aveva; era più vecchio del suo frère, o no? Sbadigliò di
nuovo; la cosa fondamentale in quel momento era trovarlo, non c’era altro
che avesse importanza fino a quando erano divisi, meno che mai le
domande oziose, e lo avrebbe trovato seguendo quello che lui chiamava
Vettore.
Jonas non era morto, non poteva esserlo, e con l’ultimo accenno di
coscienza rifiutò anche soltanto di prendere in considerazione l’eventualità:
non avevano fatto tutta quella strada insieme soltanto per morire divisi,
certamente le presenze che li stavano guidando avevano da parte
qualcos’altro per loro oltre ad una morte solitaria.
Qualcosa mandò versi striduli da qualche parte nel buio, forse il pipistrello
mutante che aveva scacciato, lui in ogni caso non se ne accorse più;
momenti dopo la fiamma dello sterno iniziò ad affievolirsi, ma sarebbe
ancora durata quel tanto che bastava per non fargli patire troppo il freddo.
18
Lo svegliò la luce scacciando rimasugli di sogni strani che forse erano
come quelli che faceva il suo frère, forse solamente incubi. La cenere del
fuoco era fredda, non si preoccupò di nasconderla prima di tirarsi
nuovamente su dal finestrino sfondato.
Si aspettò quasi di rivedere il villaggio di baracche, magari di trovare père
Phil lì fuori ad aspettarlo, o forse quei due bimbi, Bob ed Emma, sempre per
mano e sorridenti; ma lì non c’erano baracche e tende: solamente decine di
treni e vagoni fermi nella luce polverosa e cupa che filtrava attraverso la
neve dalla volta di vetro della stazione. Treni e vagoni, alcuni rovesciati, altri
ancora in piedi, la maggior parte schiacciati dentro l’imboccatura delle
gallerie che si diramavano tutto intorno, o accartocciati di traverso, schiantati
sulle banchine e contro i pilastri che sostenevano il soffitto come dopo un
incidente di proporzioni paurose.
84 Louis scivolò giù dalla fiancata con il fucile imbracciato ed un senso di
ansia addosso; un centinaio di metri più avanti alcune motrici erano
deragliate portando con loro i vagoni che le seguivano in un muro di metallo
strappato e contorto, annerito dai segni di un incendio che aveva fatto
crollare parte del soffitto e delle colonne che lo reggevano.
Si avvicinò.
Il vagone più vicino era parzialmente sepolto sotto gli altri, sembrava
esploso dall’interno e dagli squarci sulla fiancata rovesciata uscivano sedili e
bagagli misti ai detriti: quando fece per aprire uno zaino che sporgeva dal
cumulo vide che era pieno di vestiti ammuffiti e scatole di latta. Provò a
smuoverlo ma avvertì una resistenza e vide qualcosa che somigliava un po’
troppo ad una spalla ancora allacciato alla cinghia: lo lasciò andare di scatto
e il mucchio franò liberando un torso umano scarnificato dal fuoco, la carne
del volto rossa e tesa e le labbra consumate sopra due file di denti
giallognoli.
Louis gridò spianando il fucile mentre lo stomaco dava un sussulto; un
attimo dopo ne inquadrò un altro, più in là oltre un pilastro spezzato, steso di
traverso ad un finestrino rotto e quasi del tutto carbonizzato: trapassato da
parte a parte dalle schegge di vetro, la schiena era di metallo lucido che
scompariva a tratti sotto le chiazze di carne bruciata, e dalle ferite uscivano
cavi sottili e piccoli tubicini aggrovigliati in una matassa vischiosa di icore
giallastro e rappreso. Qualcosa gli suggerì di allontanarsi, lui non gli diede
ascolto e si avvicinò per guardare: ce n’erano altri, parecchi altri, stesi sui
sedili bruciati o sul pavimento della carrozza, molti completamente scorticati,
tanti riversi vicino ai finestrini da dove forse avevano cercato di scappare.
“ATTENZIONE
CITTADINI,
QUESTO
È
UN
MESSAGGIO
AUTOMATICO. IL COPRIFUOCO È IN VIGORE, TUTTI I TRENI SONO
SOSPESI. CI SCUSIAMO PER IL DISAGIO”.
Louis urlò e sparò colto totalmente di sorpresa da quella voce di donna,
fredda ed irreale, che aveva parlato nel silenzio immobile della stazione.
Arretrò e si scontrò contro la fiancata di un altro treno contorto, che (poteva
scommetterci) dentro era pieno di cose morte proprio come quello. Niente
uomini, considerò distrattamente, loro erano andati da chissà quanto tempo;
era rimasto solo il ferro.
Fece scattare la leva dell’Henry e il bossolo saltò fuori con uno spiffero di
fumo. Il suo frère non avrebbe gradito quello spreco, e neppure un tale
sconvolgimento davanti alla vista di un semplice mucchio di morti.
Tuttavia…
85 Louis chiuse gli occhi e inghiottì abbassando il fucile mentre la voce di
donna ripeteva il suo inutile annuncio dagli altoparlanti della stazione
Calypso.
Come nel Tennessee considerò con un brivido, dove c’erano state frecce,
spari e dolore. Dove il suo frère l’aveva salvato: ma come poteva il suo frère
essere lì?
La sensazione di freddo umido glieli fece riaprire di scatto: si ritrovò
accovacciato contro il vagone, le ginocchia dentro una pozza di fango,
acqua che gocciolava dall’alto sulla testa, il cuore che batteva nelle orecchie
ed in gola. Da quella prospettiva poteva incrociare perfettamente lo sguardo
dell’uomo del finestrino ed era una vista che non gli piaceva affatto.
Inghiottì un’altra volta, si puntellò al fucile per tirarsi su e costeggiò
rapidamente il muro di lamiere costringendosi a tenere basso lo sguardo fino
a quando non lo ebbe superato del tutto.
86 La strada nel cielo
87 88 1
Jonas sentì una mano piccola e fredda stringere la sua e spalancò di
scatto gli occhi, il coltello nell’altra, ma non c’era nessuno a minacciarli.
Lo stomaco diede uno strappo e gli mandò gusto di acido in bocca
mentre si puntellava sul gomito guardandosi intorno: dalla piccola rampa di
scale all’altra estremità della camera sotterranea entrava una luce pallida
che forse era quella dell’alba, o forse solo di qualche altra diavoleria. Dopo
qualche secondo si ricordò di essere nudo e vide che la valvola aveva finito
di sfiatare; si chinò verso Cindy, vide che stava sonnecchiando e le diede un
bacio sul seno nudo; sentendo il contatto lei aprì gli occhi e gli sorrise.
“Ho fatto un sogno proprio strano, sai? Stavamo per affogare, era così
vero”. Jonas sorrise a sua volta.
“Deve proprio essere stato un sogno” la assecondò. “Perché io morto non
mi sento, sicuro!”. Lei ridacchiò.
“Come ti senti?”.
“Ho fame…non è stato un sogno, vero?”.
Jonas scosse il capo mentre la realtà tornava gradualmente a
ripresentarsi in un modo di cui avrebbe fatto volentieri a meno.
“Ho perso l’arco…”.
“Ne faremo uno nuovo, l’importante è che siamo vivi”.
Cindy lo abbracciò e lui non riuscì a fare altro che accarezzarla piano
passandole una mano tra i capelli sporchi.
Fuori aveva smesso di nevicare ed era sbucato il sole, un disco lontano e
cereo oltre nuvole grigie che avrebbero presto buttato altra acqua, non
importa in quale forma. Il tremito sordo che aveva sentito nel fiume c’era
ancora ed ebbe l’effetto di fargli abbassare le orecchie come ad un gatto
spaventato; un arcobaleno pallido e vacuo si alzava oltre l’argine franato
testimoniando inequivocabilmente la presenza di una cascata. Lo osservò
trasognato prima che una folata di vento lo facesse rabbrividire e riscuotere
insieme.
Scartò immediatamente l’idea di accendere un fuoco: gli bastò guardarsi
intorno in quello strano spiazzo di cemento e neve in poltiglia, interrotto su
un lato dall’argine del fiume e sull’altro dalle fronde gocciolanti dei boschi,
per capire che lì non avrebbe trovato nulla da bruciare nemmeno se avesse
avuto con se l’acciarino e la pietra focaia.
89 Oh si, quelli se li era tenuti Louis, insieme con le loro armi e tutti i bagagli;
l’unica speranza che avevano era di raggiungerlo da qualche parte a monte
del fiume, dove certamente si era già messo a cercarli (e lui li avrebbe
cercati fino a quando non li avesse trovati, tentò di rassicurarsi, perché loro
erano ka-tet e non c’era altro che importasse). Sarebbe bastato seguire il
Vettore e tutto si sarebbe risolto.
Jonas guardò in alto con un sorriso di speranza che gli morì
immediatamente sul volto: le nuvole erano isole di grigio e nero su uno
sfondo che lasciava intravvedere a tratti il suo azzurro, ma nessuna di esse
si muoveva o si sfilacciava per altro che non fosse il vento.
Mentre considerava che nay, non sarebbe stato così semplice sentì la
grassa risata di Fardo fare capolino da dietro l’angolo della mente, proprio
come succedeva quando lo puniva davanti a tutti per le sue negligenze; il
proposito di un attimo prima si disfece e lui si lasciò cadere seduto su uno di
quegli strani rottami sentendosi in colpa per tutto: per averli rapiti, per aver
fatto rischiare loro la vita così tante volte, per averli portati in quella terra che
nessuno di loro tre conosceva (e come avrebbero potuto?) dove l’acqua
luccicava e l’aria sapeva di piombo senza nemmeno più il Vettore ad
indicare loro la via.
Che diritto ne aveva?
Un secondo dopo avvertì contro la testa la ruvidezza bagnata del cuoio del
farsetto e del denim, e più sotto la curva dolce dell’anca di lei; cercò il
contatto passandole un braccio intorno alle gambe.
“L’abbiamo perso” mormorò. “In alto non c’è più…”.
Lasciò cadere il braccio, lei si scostò ed un secondo dopo vide il suo viso
davanti al suo, le labbra blu di freddo e le guance pallide, gli occhi arrossati
e stanchi; lo guardava con una serietà inadatta ad una ragazza così giovane
e lui, sentendosi a disagio, distolse gli occhi dai suoi.
“Joy, io prego…non fare così. Tutto andrà bene”. Un attimo dopo gli
sorrise tornando ad essere la bambina di sempre.
“Il sentiero è là fuori, dobbiamo solo cercarlo”.
“Non abbiamo più…niente da mangiare, niente armi…”. Jonas abbassò
lo sguardo ma Cindy gli posò una mano sulla spalla, leggera ed allo stesso
tempo ferma, e con l’altra gli rialzò il viso; quando incontrò il suo sguardo
capì che le sue lezioni non erano rimaste inascoltate.
“Indietro non si torna, Joy, possiamo solo andare avanti; qualcosa
troveremo, lo cercherò io se vuoi, mi hai insegnato tu ed è per questo che
me la sento”.
90 Jonas sorrise lasciandosi tirare in piedi.
2
Gli abiti asciugarono rapidamente grazie al vapore della valvola di sfiato,
e il sole non era poi così alto quando si incamminarono lungo l’argine verso
l’arcobaleno evanescente, cercando un modo per passare dall’altra parte e
risalire il fiume dall’altro lato.
La cascata era più prossima di quanto avesse pensato: oltre la frana il
letto andò allargandosi fino a divenire un bacino ampio e tumultuoso
punteggiato di gorghi, che gli ricordò con un brivido il mare prigioniero delle
aramostre. Anche qui la sensazione potente era che in tutto quello ci fosse
qualcosa di vivo, che il fiume stesso lo fosse: una entità vivente e maligna,
ed anche senza chiederlo seppe che Cindy aveva pressappoco al stessa
sensazione dal modo in cui lo stringeva.
Il suolo si interrompeva all’improvviso oltre un’ultima frangia di alberi
cresciuti tra le spaccature dell’asfalto e le rovine di torri spezzate come
moncherini; il ponte, una passerella in origine schermata e coperta, era un
filo di bava oscillante sospeso su una campata larga quasi duecento iarde e
proprio sotto il fiume precipitava trasformandosi in una cascata che era
quanto di più immane entrambi avessero mai visto. Il tremito vago e tuttavia
già forte che avevano iniziato ad avvertire venendo si era trasformato nel
fragore di un tuono continuo ed entrambi non poterono fare altro che
stringersi nell’avvicinarsi al ciglio del precipizio mentre gli spruzzi li
investivano con la violenza di una mareggiata.
Poi Jonas guardò giù, in un impulso di curiosità che era lo stesso che lo
aveva spinto a sporgersi sul mare prigioniero delle aramostre, e quando urlò
il nome antico dell’Uomo-Gesù lui stesso non riuscì ad udire la sua voce;
sotto, e potevano essere centinaia di metri più in basso, a malapena visibile
tra la spuma e la colonna d’acqua c’era un anello, fissato da montanti
enormi alle sponde dell’argine verticale: spesso come una strada, largo
quanto era largo il baratro luccicava di uno strano bagliore azzurrastro che
poteva essere soltanto di magia e il fiume si riversava al suo interno come in
un catino senza riemergere. Cindy lo strinse e boccheggiò in cerca di aria da
respirare, cercò di tirarlo indietro ma lui resistette per guardare ancora: ed
aguzzando la vista gli sembrò di distinguere un lucore argenteo dentro
l’anello, uno scintillio di sottilità, e più sotto la parete verticale continuava,
scavata in quelle che avevano tutta l’aria di case e giardini sospesi.
91 Fu in occasione del secondo strattone che distolse lo sguardo, perché
quello non poteva essere qualcosa di vero anche se ce l’aveva davanti agli
occhi; si accorse in quel momento delle unghie che gli erano penetrate nelle
braccia, e quando la abbracciò la vide tremante ed atterrita, gli occhi stravolti
in un viso madido che gli chiedeva soltanto di andare via.
Lo fece, e lo fece rapidamente, perché nessuno dei due avrebbe mai
attraversato quel calderone di spuma, né lui avrebbe guardato in basso
un’altra volta.
Non ci furono più visioni terribili come quella, nella direzione opposta che
presero, e presto il rumore della cascata si attenuò fino a sparire del tutto;
dopo le prime biforcazioni, tuttavia, fu subito chiaro ad entrambi che tentare
di ripercorrere all’indietro la strada senza punti di riferimento era un’impresa
persa in partenza.
Per alcune ore il fiume andò allargandosi e restringendosi in un labirinto
di canali, ponti in rovina e strade ostruite da detriti e strani veicoli
tondeggianti che nelle forme gli ricordarono le bolle di sapone (e che fossero
cose destinate a muoversi lo seppe non appena vide le prime, ma non riuscì
a spiegarsi il perché): erano sparse dappertutto, spesso accartocciate come
se si fossero scontrate ed in più di una occasione Jonas riconobbe, sotto la
neve che ricopriva i rottami, i segni del fuoco. Tra tutte le vie una valeva
l’altra, loro decisero di scegliere quella che teneva a sinistra l’alba nella
speranza di ritrovare, prima o poi, il Vettore.
Dopo qualche ora di marcia la strada si alzò sul crinale di una piccola
altura e prese a fiancheggiare un vasto lago artificiale dall’acqua verdastra
ed immobile, allargandosi in ampie terrazze adorne di statue enormi in cui
riconobbe, malgrado fossero molto rovinate, le sembianze di alcuni
Guardiani: c’erano l’Orso, la Lepre, l’Uccello, il Ratto ed altri, raccolti come in
tributo intorno all’effige del Pesce, più grande e con le chele rivolte al cielo in
una posa che sembrava a sua volta quella dell’adorazione…o dell’attacco.
Oltre le terrazze la strada piegava ed iniziava a scendere, accostandosi
alla parete, verticale e perfettamente liscia, di una collina che sembrava
essere stata tagliata a metà, e che faceva da sponda al lago come se si
fosse trattato di una scodella; quando Jonas alzò lo sguardo per cercare la
traccia del Vettore vide che ad intervalli regolari sulla parete si aprivano
larghe finestre di vetro che catturavano la luce del sole restituendola in
bagliori sporchi.
“Loro vivevano lì dentro?”.
92 Cindy gli passò il braccio intorno alla vita e Jonas annuì, sapendo per
istinto che non poteva essere altrimenti; vivevano lì dentro, lì ed in quelle
grandi case di vetro, cemento e ferro che avevano visto e fiancheggiato,
crollate sulle strade e dentro ai canali come castelli di sabbia. Numerosi ed
ammassati come conigli.
“Gli Antichi” mormorò facendo un segno di scongiuro. “Erano la gente del
mondo, poi il mondo è andato avanti, ci hanno insegnato; avevo
un’istitutrice, lei parlava molto della storia e forse avrei dovuto ascoltare di
più”.
“Cosa significa che il mondo è andato avanti?”.
“Che gli Antichi sono andati troppo oltre, io penso; e le loro cose, le loro
macchine forse li hanno traditi”.
Cindy non disse nulla, ma lui sentì il suo abbraccio farsi più forte.
“Cerchiamo una sorgente” riprese, “Possiamo stare senza mangiare per
un po’ ma l‘acqua ci serve”.
Lei annuì semplicemente.
Sul crinale digradante la collina scendeva in una serie di larghe terrazze
sostenute da muri imponenti, molti dei quali col tempo avevano ceduto
lasciando la terra libera di franare sulla strada che si snodava come un
grosso serpente grigio; gli ricordarono immensi giardini, o forse erano orti,
campi coltivati, frutteti come quelli che a Gilead punteggiavano le sponde del
Saroni: non riuscì a capirlo tanto era fitto l’intrico della vegetazione cresciuta
senza controllo.
Un’ora dopo, durante una sosta, trovarono un piccolo pozzo ancora attivo
nel cortile di una casa diroccata che forse era stata una cascina; l’acqua era
buona, non era putrida e non sapeva di piombo, così non ritennero un
pericolo riempirsi le borracce.
Poi mentre Cindy si riposava un poco Jonas esplorò il posto, e fu con
grande sollievo che trovò, poco distante nella boscaglia, una piccola crescita
di muffine: affioravano dal suolo muschioso di una piccola radura come tante
palle bitorzolute color verde acceso e lui si affrettò a raccoglierne quante più
poteva sfilandosi il farsetto e riempiendolo come una borsa.
“Sono un incrocio tra i funghi e le bacche” spiegò a Cindy una volta
tornato al campo. “Si possono mangiare crude oppure cotte, e sono buone
quasi quanto la carne”.
La ragazza annuì con un sorriso.
93 “Le conosco, a volte i mercanti arrivavano ad Am’lis e le vendevano; ma
costavano troppo per noi, così se le comperava tutte Papà Dwayne del
saloon”.
Jonas le sorrise mentre iniziava a pulirle dai piccoli corni che spuntavano
dalla superficie e lei si affrettò a ricambiare e ad imitarlo.
“Le mangerai ora, dico io, e buone saranno per noi!”.
Divorarono le muffine con la voracità che si riserverebbe ad un piatto
prelibato, e quelle poche che avanzarono le conservarono con cura non
sapendo quando avrebbero trovato nuovamente del cibo. Prima di ripartire
Jonas tagliò due bastoni e li appuntì in rudimentali lance che sperò in cuor
suo di non dover mai mettere alla prova; poi ripresero a scendere e la strada
li condusse fino a valle della collina prima di essere nuovamente inghiottita
da un altro bosco colorato e trasformarsi in sentiero a malapena visibile.
Andarono avanti finché la luce lo permise, e si fermarono per la notte in
un’altra fattoria diroccata. Si rimisero in viaggio quando il sole si er